Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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LA TOSCANA

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

FIRENZE E LA TOSCANA

TUTTO SU FIRENZE E LA TOSCANA

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

I FIORENTINI ED I TOSCANI SONO DIVERSI DGLI ALTRI?

 

Quello che i Fiorentini ed i Toscani non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che i Fiorentini ed i Toscani non avrebbero mai voluto leggere.

(*Su Siena c'è un libro dedicato)

di Antonio Giangrande

 

 

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

PARLIAMO DELLA TOSCANA.

TOGHE RENZIANE: UNA TOGA PER AMICO.

MARCO TRAVAGLIO VS I RENZI.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

RENZI: INADEMPIENZE DA PADRE IN FIGLIO.

DICI FIRENZE, PENSI A VITTORIO CECCHI GORI.

PER ESEMPIO. PARLIAMO DE "IL FORTETO".

MALEDETTI TOSCANI.

IL GRANDUCATO RENZIANO.

TOSCANA SEPARATISTA.

TOSCANA CAMPANILISTICA. 

DELITTI DI STATO ED OMERTA' MEDIATICA.

RICCARDO MAGHERINI, DOV’E’ LA VERITA’. NUOVA VITTIMA DI MALAPOLIZIA?

MASSIMO MALLEGNI E MARCO TRAVAGLIO: UN ARRESTO E’ PER SEMPRE, ANCHE SE INGIUSTO.

MANZIONE. UN PREMIER PER AMICO.

FIRENZE ED I BILANCI TRUCCATI.

CENSURA A FIRENZE.

INSABBIAMENTI E MASSONERIA. I DELITTI DEL MOSTRO DI FIRENZE.

LEONARDO DOMINICI. GOGNA E MALAGIUSTIZIA.

PIOVONO SCANDALI.

ONESTA’ FISCALE.

MAFIOPOLI.

FIRENZE MASSONE. LA FIRENZE CHE NON TI ASPETTI.

COSE DA PAZZI. IN CHE MANI SIAMO MESSI. MALAMMINISTRAZIONE.

MALAGIUSTIZIA.

PARLIAMO DI AREZZO

BANCOPOLI.

AREZZO E LA MASSONERIA.

LA MAFIA AD AREZZO.

PARLIAMO DI GROSSETO

GROSSETO ED IL CAPORALATO.

GROSSETO E LA MASSONERIA.

LA MAFIA A GROSSETO.

PARLIAMO DI LIVORNO

LIVORNO ALLA FAME.

LIVORNO LA ROSSA? SI', MA DI RABBIA E DI VERGOGNA. ECCO I VOLTAGABBANA.

ANCHE LE ISTITUZIONI SONO MARCE? BUFERA GIUDIZIARIA SULLA GUARDIA DI FINANZA.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

LIVORNO. CITTA’ DI MASSONI AMATA DA GARIBALDI.

LIVORNO E LA MAFIA.

MALAMMINISTRAZIONE

MALAGIUSTIZIA: ELBOPOLI.

PARLIAMO DI LUCCA

LUCCA E LA MASSONERIA.

LA MAFIA A LUCCA.

SCANDALI AL POTERE.

VIAREGGIO: UNA STRAGE ANNUNCIATA.

PARLIAMO DI MASSA CARRARA

MASSA CARRARA E LA MAFIA.

PARLIAMO DI MAFIA E MASSONERIA A MASSA CARRARA.

PARLIAMO DI PISA

PISA VISTA DA LONTANO.

PISA E LA MASSONERIA.

PARLIAMO DI PISTOIA

PISTOIA E LA MASSONERIA.

PISTOIA E LA MAFIA.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

ABUSI SUI BAMBINI. BAMBINI SEVIZIATI ALL'ASILO NIDO, CHI SONO GLI ORCHI?

PARLIAMO DI PRATO

STRAGE DI STATO.

PRATO E LA MASSONERIA.

PRATO MAFIOSA.

I MISTERI DELLA MORTE DI LIBERO CORSO BOVIO.

MANIFESTO CONTRO LA MALAGIUSTIZIA.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

PARLIAMO DELLA TOSCANA.

DI AREZZO…Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria, scrivono Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi per il Sole 24 Ore il 3 luglio 2017. La leggenda aretina narra che nelle fortune del distretto dell'oro ci sia lo zampino di Licio Gelli, passato alla storia come il Venerabile della Loggia P2. La città racconta ancora che nella scomparsa di decine di tonnellate d'oro che facevano parte di un carico di 60 tonnellate che l'allora re diciottenne della Jugoslavia Pietro II Karadordevic fece partire con un treno speciale il 17 marzo 1941, Gelli avesse avuto una parte rilevante. L'intera riserva di un Paese sotto l'attacco di Adolf Hitler, stipata in 57 vagoni e oltre 1.300 bauli, non riuscì però a lasciare la Jugoslavia per raggiungere l'Egitto e venne nascosta nelle grotte del Montenegro, presto occupato dai fascisti. Nel 1943, non si sa come, il regime rintracciò l'oro e Benito Mussolini affidò al giovane fascista Gelli il compito di portare il carico a Trieste, evitando la frontiera hitleriana e facendolo viaggiare su un treno speciale e blindato, con a bordo 73 malati di vaiolo. Da quel punto la leggenda narra che Gelli affidò 8 tonnellate alla Banca d'Italia e ne sottrasse 52, una parte delle quali giunse a destinazione nei pressi della stazione ferroviaria di Arezzo per la felicità di una collettività che mise a frutto quel dono insperato. Per dare un'idea dell'immenso valore di quel carico, attualizzando alle cifre correnti il valore, il tesoro varrebbe tra 1,8 e 2 miliardi, una cifra pari all'ultimo dato censito sull'export del distretto aretino. La leggenda è più intricata e fascinosa di quanto si possa pensare perché il prosieguo narra di 25 tonnellate rimaste nella disponibilità del futuro piduista e 27 tonnellate cedute all'allora Pci. Come spiegò nel 1984 l'allora parlamentare radicale Massimo Teodori, da pagina 37 della Relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, «fra le tante supposizioni ed ipotesi interpretative, una cosa soltanto non è controversa: che cioè nel 1944-1945 Gelli collaborò con il Pci, attraverso la componente del Cln, e che dal partito gli vennero aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista, cosa che gli permise di superare indenne quei giorni, forse anche salvando la vita». Vero? Falso? Verosimile? Fascinazione? Gelli ha sempre negato ma resta il fatto che il 14 settembre 1998, abilmente nascosti perfino nelle fioriere della lussuosa Villa Wanda a Castiglion Fibocchi (Arezzo), dove ha vissuto fino alla morte, sopraggiunta il 15 dicembre 2015, gli investigatori sequestrarono 164 chili d'oro distribuiti in centinaia di piccoli lingotti. La maggior parte dell'oro recava punzonature e timbri di Paesi dell'Est (ex Unione sovietica in primis), altri erano stati sdoganati in Svizzera, altri ancora non si sapeva da dove provenissero. Oro in “nero”. Sedici anni prima, correva il 1983, dieci lingotti riconducibili a Gelli spuntarono in una banca argentina di Buenos Aires mentre nel 1986 la magistratura elvetica scoprì, in una cassetta di sicurezza dell'Ubs di Lugano, 250 chili d'oro in lingotti, verosimilmente frutto della spoliazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Gelli o non Gelli, il distretto orafo si sviluppa nell'area aretina (Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino, Subbiano) e nella Val di Chiana aretina (Castiglion Fiorentino, Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Marciano della Chiana), alla quale si aggiungono i comuni di Laterina e Pergine Valdarno. La gamma della produzione è omnicomprensiva ma i marchi di fabbrica locali sono l'oreficeria e l'argenteria a maglia catena e stampata. La lavorazione dei metalli preziosi si è sviluppata soprattutto negli anni Settanta ed Ottanta, grazie al ruolo svolto per molti anni dall'impresa leader (Uno A Erre) nell'attivare processi di gemmazione imprenditoriale e trasferimento di innovazioni. Il distretto orafo della provincia di Arezzo, riconosciuto con delibera del Consiglio regionale della Toscana n. 69 del 21 febbraio 2000, conta 1.592 imprese, di cui 1.216 con meno di 50 addetti, 7.669 persone occupate e un export di quasi 4 miliardi (fonte: Osservatorio nazionale dei distretti italiani, dati 2013/2014).  Le statistiche del Club degli orafi italiani, che le aggiorna periodicamente con Banca Intesa, indicano il distretto di Arezzo in testa alle esportazioni con oltre 1,8 miliardi (-1,1% sul 2015) e un import di 86,3 milioni nel 2015 (-24.4% sul 2014). Anche se questo polo non è più ricco come una volta, le grandi aziende orafe e i banchi metalli - come Uno a Erre e Chimet - continuano ad alimentare l'economia del luogo e la loro visibilità è perenne. Sui taxi, ad esempio, il loro logo è una costante, così come le continue sponsorizzazioni a manifestazioni, eventi e iniziative. La crisi ha aggravato la posizione soprattutto delle realtà più piccole e molte, tra quelle rimaste, per sopravvivere praticano il “nero”.  l fatturato italiano calcolato dal Club degli orafi per il 2016 è stato di oltre 7,7 miliardi (+9,3% sul 2015), esportazioni per 6,2 miliardi (di cui 5,4 miliardi solo gioielli in preziosi, vale a dire in oro, argento o altri metalli preziosi anche rivestiti o placcati) con un calo complessivo del 4,6% sull'anno precedente. I dati Istat relativi alla produzione (-1,9%) e alle esportazioni, sia in valore (-4,6%) che in quantità (-1,8% per i soli gioielli in metalli preziosi) confermano le difficoltà del settore orafo nel 2016, in corrispondenza con un calo importante della domanda mondiale di gioielli in oro, in particolare da parte dei due grandi acquirenti (Cina e India). Nel 2016 le esportazioni italiane di gioielleria e bigiotteria hanno perso circa 300 milioni rispetto al 2015, con cali diffusi a quasi tutti i mercati di sbocco e con una nuova contrazione importante verso gli Emirati Arabi Uniti (-15%, pari a 160 milioni in meno), Paese di “entrata” per il resto del Medio oriente e l'India. Negative anche le esportazioni verso Svizzera e Francia (-6,7% e -10,6%), Paesi dove sono spesso spediti i gioielli made in Italy commissionati dalle grandi maison di moda (successivamente destinate ad altri mercati di sbocco finali) e verso Hong Kong (-9,1%). Secondo le statistiche sul fatturato (indagine Istat campionaria rivolta alle imprese con più di 20 addetti) il settore gioielleria e bigiotteria avrebbe, invece, chiuso il 2016 in crescita del 9,3%, grazie a risultati brillanti sia sul mercato interno (+6,7%) che su quelli esteri (+10,7%), dato in contraddizione con le informazioni sui flussi di export, che sottolinea le difficoltà di monitorare un settore altamente frammentato come quello orafo. Nessuna tra le fonti intervistate dal Sole-24 Ore ha voluto metterci la faccia o la voce ma tutti concordano nel dire che, ormai, (almeno) un'operazione su due non è tracciabile e sfugge ai radar del Fisco. Accade ad Arezzo ma accade anche negli altri distretti dell'oro (Valenza Po, Marcianise e Vicenza) tra loro legati più di quanto possa apparire e non solo per i legami commerciali ma anche sul fronte delle indagini giudiziarie. In vero il “nero” compare in tutte le operazioni commerciali, qualunque settore si prenda in considerazione ed è logico che il settore orafo non faccia eccezione. Le più recenti indagini delle Fiamme Gialle, su delega della Procura di Arezzo, lo provano, anche se tutti i processi, spesso suddivisi in più filoni giudiziari, devono ancora essere definitivamente chiusi.  Tra l'11 e il 14 febbraio 2015 il Nucleo di Polizia tributaria della Gdf ha messo a segno un'indagine – denominata Argento vivo – sul conto di alcune azienda del distretto orafo aretino. Ancora una volta una frode fiscale in atto nel settore del commercio di metalli preziosi (principalmente argento, ma anche platino e palladio), perpetrata attraverso modalità e tecniche analoghe a quelle delle cosiddette “frodi carosello” all'Iva. Uno dei quattro soggetti colpiti dal provvedimento di fermo ha chiesto di essere interrogato subito da Marco Dioni, il pubblico ministero titolare delle indagini, al quale ha reso dichiarazioni di grande valore probatorio, confermando la bontà dell'impianto accusatorio. Per la collaborazione ha ottenuto gli arresti domiciliari. Il 14 febbraio 2015, il Gip del Tribunale di Arezzo Annamaria Loprete ha ritenuto confermati i gravi ed eclatanti indizi di colpevolezza, fortificati dalle dichiarazioni confessorie rese nel corso degli interrogatori per la convalida della misura precautelare, resi il giorno prima dai quattro indagati, emettendo nei loro confronti un'ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni e con divieto di comunicazione, poiché ha ritenuto sussistere il pericolo di reiterazione di reati analoghi, nonché di inquinamento probatorio. La Procura della Repubblica di Arezzo ha ordinato il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca delle disponibilità finanziarie detenute dagli indagati e dalle società a questi riferibili, da bloccare presso gli Istituti di credito, fino a concorrenza della somma di 3.270.203,06 euro, corrispondente ad un valore equivalente al profitto del reato finora determinato. In poco meno di tre mesi (da ottobre a dicembre 2014), seguendo le tracce delle utenze mobili in uso agli indagati per le comunicazioni “one to one” e attraverso osservazioni, pedinamenti e riscontri, è stata fatta luce sull'esistenza di due presunte e distinte organizzazioni criminali, originariamente operative in modo unitario, capeggiate da due aretini che pur non avendo alcun ruolo formale nelle società coinvolte negli illeciti fiscali, erano in grado di controllarne l'operatività, dirigendo i sistemi fraudolenti.

Il principale sistema di frode, comune ai due sodalizi, prevedeva l'acquisto di metalli preziosi sfruttando meccanismi di applicazione dell'Iva che prevede un sistema di inversione contabile per il quale l'acquirente diventa debitore d'imposta: per l'argento rivolgendosi a banchi metalli ed applicando il “reverse charge”; per il platino ed il palladio acquistandolo da operatori intracomunitari. I metalli venivano poi commercializzati interponendo una o più imprese costituite ad hoc ed intestate a prestanome che, oltre a non dichiarare al Fisco le imposte dirette, omettevano il versamento dell'Iva, corrisposta dal cliente finale, rappresentato da una azienda aretina operante nel settore della commercializzazione di metalli preziosi, la Oro Italia trading spa (società partecipata al 100% da Banca Etruria) che secondo l'accusa trasferiva però mensilmente il credito Iva derivante dalle predette operazioni alla controllante, che lo utilizzava in compensazione dell'Iva a debito di Gruppo. In estrema sintesi, i sistemi fraudolenti consentivano ai membri delle associazioni criminali di intascare l'Iva generata dalle operazioni commerciali strumentalmente realizzate e al cliente finale di acquistare i metalli preziosi a un prezzo sensibilmente inferiore a quello che avrebbe potuto spuntare se si fosse rivolto direttamente alle aziende che fornivano i beni alle società coinvolte nei sistemi fraudolenti e che davano inizio al circuito economico che le indagini hanno dimostrato essere artificioso e messo in piedi al solo scopo di poter frodare l'Erario. Teniamo bene a mente il nome di uno tra gli indagati principali di questa operazione: Plinio Pastorelli, che all'epoca era consigliere delegato di Oro Italia trading, dove era entrato come amministratore il 9 luglio 2007 ed è uscito quattro giorni dopo il disvelamento dell'indagine, il 18 febbraio 2015. Pastorelli, indagato per associazione a delinquere e truffa, anticipando le mosse sulla scacchiera del licenziamento, si è dimesso e per il momento si gode la pensione.

Pastorelli entra dunque nell'indagine con l'accusa di acquistare l'oro sotto il prezzo del fixing per il metallo e pagando l'Iva al 20% ai venditori, per poi compensare il credito d'imposta all'interno delle società del Gruppo Banca Etruria. A quanto trapela da fonti che al momento preferiscono restare coperte, Pastorelli non avrebbe fatto in tempo a effettuare la compensazione ma questo ai fini delle accuse in sede penale non rileva. Semmai, interessa il rapporto con l'Agenzia delle Entrate. Nel complesso l’indagine ha consentito di accertare che il meccanismo fraudolento delle società cartiere ha consentito di evadere 15,45 milioni di euro nel periodo compreso tra il 2012 e il 2015 in operazioni che riguardano tanto l’oro quanto l’argento e il platino. La domanda logica da porsi è se Oro Italia trading si fosse accorta di questo sistema fraudolento della quale lei per prima ne sarebbe uscita danneggiata e che, per quattro indagati, ha già portato a con condanne nel giudizio di primo grado mentre Pastorelli è indagato a piede libero in attesa di giudizio. Il Sole-24 Ore si è rivolto in due occasioni a Nuova Banca Etruria (del Gruppo Ubi Banca), chiedendo di avere risposte a questo e ad altri quesiti, oltre ad avere indicazioni, nel corso degli anni, sulle policy di trasparenza negli acquisti e nelle rendicontazioni contabili. Per ben due volte e nonostante una successiva sollecitazione, i vertici Ubi, che controlla Nuova Banca Etruria, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni limitandosi a rimandare alla breve comunicazione telefonica con la quale a metà maggio l'ufficio stampa di Nuova Banca Etruria aveva messo le mani avanti dicendo che «Pastorelli non è più da noi». Eppure se è lecito chiedere lumi, cortese dovrebbe essere rispondere soprattutto alla luce del fatto che il nome di Oro Italia trading – ormai senza Pastorelli da tempo – rispunta nell'indagine Melchiorre della Guardia di finanza di Torino del 14 febbraio 2017, anche se ancora una volta senza alcun coinvolgimento societario. Francesco Angioli è l'uomo considerato dalla Procura di Torino l'intermediario tra i clienti e i principali indagati accusati di comprare l'oro rubato e ripulirlo, per poi rimetterlo formalmente in commercio attraverso una società di diritto ungherese. Questo soggetto indagato, è un procacciatore d'affari che, scrive testualmente il Gip Elena Rocci a pagina 106 dell'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016, nel periodo d'imposta 2014 risulta aver percepito redditi, tra gli altri, dalla Oro Italia trading spa «con la quale, evidentemente, collabora». Nulla di più naturale, dunque, se il procacciatore d'affari, si legge a pagina 109 del provvedimento, «dimostra di avere ottime entrature con Oro Italia trading, in particolare per lo stretto rapporto che dimostra di avere con Bernardini Francesco». Francesco Bernardini – che non è indagato – è il responsabile del comparto oro di Oro Italia trading ed è l'uomo che il 23 luglio 2013 lanciò sulla stampa specializzata il “conto oro”. Il 2 marzo 2016, alle 11.48 la sala intercettazioni della procura capta, tra le tante che coinvolgono le utenze telefoniche della società totalmente controllata da Nuova Banca Etruria, una conversazione che il Gip sintetizza così a pagina 71: «Mentre si trova all'interno della Gianluca Ciancio Srl (la società che secondo l'accusa si fa carico di acquistare e fondere l'oro), Angioli Francesco contatta la Oro Italia trading spa, al fine di parlare con Bernardini Francesco, responsabile del comparto oro di Banca Etruria». Deve convincere Ora Italia Trading che le spedizioni delle verghe aurifere partono da Torino e non dall'Ungheria, perché a Torino, alla Ciancio srl, il materiale viene testato. L'oro, però, non si sarebbe mai mosso da Torino e la triangolazione è apparente. «Dalle conversazioni — continua il gip — la prima delle quali avviene con Frati Paolo (non indagato, ndr), dipendente di Oro Italia Trading spa, si desume l'ulteriore modalità operativa adottanda, che vede nuovamente, quale destinatario finale del metallo aurifero raccolto, la Oro Italia Trading, nonché il procedimento per il ritiro e il trasporto dell'oro».

Oro Italia trading è iscritta dal 30 novembre 2000 al registro delle imprese di Arezzo come società di commercio all'ingrosso di metalli preziosi. Costituita con un capitale sociale di 500mila euro conta appena due dipendenti (la cui retribuzione complessiva è di 59.058 euro) sulle cui spalle grava un fatturato che nel 2016 ha registrato 314 milioni e perdite per 1,4 milioni. In termini quantitativi negoziati, Nuova Banca Etruria è passata da 4,52 tonnellate del 2015 a 8,06 del 2016 (+78% nell'intermediazione dell'oro) e da 42,2 tonnellate del 2015 a 45,7 del 2016 (+8% nell'intermediazione dell'argento). Una società cosi “snella” – nel numero di dipendenti ma che contempla in vero ben sei sindaci e tre amministratori – in realtà gestisce partite miliardarie, essendosi conquistata negli anni una leadership nazionale. Dopo la Banca d'Italia sarebbe l'istituto con in pancia il maggior quantitativo di riserve aurifere. La data di avvio della società non è casuale. Pochi mesi prima, il 17 gennaio 2000, il Parlamento ha infatti approvato la legge n 7, che ha rotto il monopolio delle banche sui metalli preziosi stabilendo che sul mercato possano operare anche altri intermediari autorizzati dalla Banca d'Italia. In questo caso la veste è cambiata ma è pur sempre una banca – attraverso il controllo totalitario – a operare nel settore. L'oro, per Nuova Banca Etruria, costituisce un asset fondamentale, al punto da avere conti correnti in valuta, la cui unità di misura è espressa in once di oro finanziario. Con questi appositi conti correnti è possibile effettuare bonifici in oro finanziario, regolare il pagamento delle rate del mutuo e, se supportato da una linea di fido, beneficiare di uno scoperto di conto. Nel 2016 è cresciuto lo stock di oro custodito nei caveau della banca e – come si legge a pagina 41 della relazione di bilancio – ciò ha contribuito a rafforzare ulteriormente la leadership dell'Istituto di credito nell'ambito dell'oro da investimento. Anche sul fronte dei lingotti di piccolo taglio (2, 5, 10, 20, 50 e 100 grammi), il 2016 si è rilevato un anno decisamente positivo per Nuova Banca Etruria. Sono state infatti circa 1.500 le pezzature vendute, per un totale di oltre 44 kg.  Sul lato degli impieghi in oro, il dato mostra un totale di circa 104 milioni, di cui oltre 8 milioni rappresentati dai mutui in oro. Il dato, che risulta sostanzialmente invariato rispetto al 2015, è la sommatoria di due variabili che si sono mosse in direzioni opposte. Nel 2016 si è infatti assistito ad un incremento degli affidamenti in oro ad altre banche, che al 31 dicembre 2016 rappresentavano circa 20 milioni e al contempo ad una riduzione degli affidamenti al tessuto orafo produttivo. La più recente, del 1° aprile 2017, è stata condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Gdf agli ordini del colonnello Peppino Abbruzzese. L'hanno battezzata “Groupage” e vedremo il perché di questo nome. Sotto la lente è finita una presunta organizzazione criminale, costituita da italiani e algerini, che comprava ingenti quantitativi di oreficeria “in nero” prodotta da aziende aretine e la vendeva – dietro pagamento in contanti – per l'esportazione nei Paesi del Nord Africa. Lo schema era semplice: un intermediario giungeva in volo in Italia dall'Algeria e soggiornava ad Arezzo per definire gli accordi contrattuali per l'acquisto di materiali preziosi. Trovato l'accordo commerciale, l'intermediario provvedeva a fare l'ordine della merce (appunto il cosiddetto “groupage”) per conto dei propri clienti (residenti in Paesi del Nord Africa) con le aziende orafe di Arezzo, veicolando l'ordinativo tramite alcuni operatori orafi aretini di provata fiducia, che provvedevano a ripartire l'ordinativo alle varie aziende compiacenti. Quando l'ordinativo era pronto, arrivavano ad Arezzo in auto uno o più corrieri algerini, che portavano il denaro contante necessario per l'acquisto dell'oreficeria ordinata e ritiravano la merce. Nella rete sono caduti, tra gli altri, due soggetti già noti agli investigatori. Uno è già finito nella “mamma” di tutte le inchieste aretine, Fort Knox. L'altro, nel 2012, risultò avere rapporti commerciali poco trasparenti con soggetti nord africani.

Nell'ambito di un'operazione condotta dalla Polizia di Melilla (Spagna) nel maggio del 2012, vennero arrestati due marocchini trovati in possesso di 140,232 chili di oreficeria, che venne sequestrata. I due soggetti, in sede di interrogatorio, dichiaravano di averla acquistata legalmente il 20 maggio dalla srl unipersonale di cui il soggetto entrato nuovamente nel radar della Giustizia è rappresentante legale. Il 20 dicembre 2016, il Nucleo Pt della Gdf di Arezzo ha invece portato alla luce, con l'operazione Iberia, un'altra presunta organizzazione criminale, stabilita in Spagna e con ramificazioni in Portogallo, Slovenia ed Italia. Tra gli indagati, a testimonianza che certi meccanismi sono rodati e possono far conto su un nocciolo duro di professionisti, una vecchia conoscenza già incrociata dalla Gdf nelle operazioni Argento vivo e Fort Knox. L'organizzazione, ricorrendo al sistema noto come “frode carosello”, secondo l'accusa avrebbe creato una fitta rete di aziende in quattro Paesi (Spagna, Portogallo, Italia e Slovenia) ed operanti nei settori degli idrocarburi e dei metalli preziosi che hanno permesso a una società iberica riconducibile ad un italiano e beneficiaria finale dell'illecito, di non versare l'Iva (circa 20 milioni) dovuta sui proventi del commercio di idrocarburi, in quanto compensata, indebitamente, con l'Iva detratta sugli acquisti documentati da fatture false prodotte dalle altre società del gruppo, operanti nel settore dei metalli preziosi che, ricoprono i ruoli di “cartiere” e/o “aziende filtro”. La Gdf, proseguendo le indagini, ha svelato il coinvolgimento nel sistema di frode anche di un'azienda aretina che, attraverso la vendita di oro puro, si prestava consapevolmente al riciclaggio di una parte dei proventi della frode perpetrata in territorio spagnolo nel biennio 2015/2016, nei confronti delle aziende spagnole e portoghesi riconducibili all'organizzazione. L'organizzazione, al fine di riciclare i cospicui proventi illeciti delle frode, oltre ad essere entrata nel circuito delle gare motociclistiche mondiali, attraverso la sponsorizzazione di due team spagnoli della Moto Gp Uno, stava tentando un'analoga infiltrazione in Italia attraverso la sponsorizzazione di un team automobilistico, che gareggia nel campionato mondiale Fia Wtcc (World touring car championship, meglio noto come campionato del mondo turismo). L'indagine condotta in collaborazione con il Gruppo di criminalità economica dell'Unità operativa centrale della Guardia Civil della Spagna, coordinata anche da Europol ed Eurojust, ha consentito di pervenire complessivamente in Italia alla denuncia a piede libero di quattro persone per i reati di associazione per delinquere, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, oltre al sequestro di 26,4 chili di oro puro per un controvalore di 924mila euro. In Spagna e Portogallo sono state arrestate 20 persone, oltre al sequestro di 50 chili di oro per un controvalore complessivo di oltre 1,7 milioni.

DI…FIRENZE. Firenze, pm vuole far arrestare il marito dell’amante: il ministero della Giustizia avvia verifiche. Dopo aver iniziato una relazione con la moglie del medico il giudice ne avrebbe chiesto i domiciliari. Aperto un fascicolo dalla procura di Genova a carico del pubblico ministero, scrive il 19 gennaio 2017 "Il Corriere della Sera". Il ministero della Giustizia vuole approfondire la vicenda emersa a Firenze, dove un pm, dopo aver avviato una relazione con la moglie di un medico, avrebbe chiesto gli arresti domiciliari nei confronti del dottore. A quanto si apprende, infatti, via Arenula ha avviato, attraverso l’ispettorato, gli accertamenti preliminari per condurre verifiche sul caso. Intanto sulla vicenda, in seguito all’esposto presentato dal medico, la procura di Genova ha già aperto un fascicolo. Tutto ha origine dal percorso di separazione tra il dottore e la moglie, anche lei dottoressa. Secondo la ricostruzione, nel luglio 2015 la donna, madre di due minori, ha sporto denuncia ai carabinieri dopo una violenta discussione con il marito affermando che l’avrebbe minacciata anche di morte. Il magistrato, ora sotto accusa, a cui all’epoca venne assegnato il fascicolo ha ritenuto che non vi fossero elementi per sostenere l’accusa. Nel frattempo, anche il marito ha risposto alle accuse della moglie con una propria querela. A giudizio del pm, in quel momento, stava accadendo quello che purtroppo accade tra molte coppie che si stanno separando. Il pm ha quindi chiesto l’archiviazione una prima volta e anche una seconda volta. Ma il giudice per le indagini preliminari aveva imposto ulteriori accertamenti. A quel punto, il pm aveva deciso di sentire i protagonisti e aveva conosciuto la dottoressa con cui, secondo l’esposto, avrebbe instaurato una relazione. Poco dopo, il magistrato avrebbe chiesto per il marito accusato di maltrattamenti gli arresti domiciliari. Nell’esposto contro il magistrato fiorentino, fascicolo trasferito per competenza alla procura di Genova e in cui si ipotizza il reato di corruzione, il medico ha allegato le foto scattate da un investigatore privato in cui sarebbe ritratta la moglie - persona offesa del reato di maltrattamenti - che entrava in più occasioni, anche di notte nella casa del giudice e che vi si tratteneva per ore. Nel frattempo, il procedimento relativo all’accusa di maltrattamenti nei confronti della moglie è andato avanti e, all’udienza preliminare, il gip, su richiesta di un altro pm, ha disposto il rinvio a giudizio del medico. Già nel settembre scorso la procura di Firenze, ricevute informazioni sulla relazione tra il magistrato e la dottoressa parte offesa nel procedimento contro il marito medico, ha trasmesso il fascicolo sull’intera vicenda alla procura di Genova. Atto dovuto messo in pratica subito dopo la presentazione dell’esposto da parte del medico, difeso dall’avvocato Massimiliano Manzo di Firenze. Alla denuncia furono allegati le fotografie e i filmati realizzati nei pedinamenti della donna da parte dell’investigatore privato. Sempre nel settembre 2016, dopo la presentazione dell’esposto, in procura fu stabilito di passare l’inchiesta per maltrattamenti a un altro pm. Invece, la competenza per un’eventuale azione disciplinare da aprire nei confronti del magistrato spetta sia al ministro della Giustizia, sia al procuratore generale presso la corte di cassazione, che in queste circostanze agiscono in modo autonomo, con iniziative che rimangono sia distinte tra loro sia indipendenti dal procedimento penale di cui è diventata competente la procura di Genova.

Firenze, pm vuol far arrestare il marito dell'amante: il Ministero della Giustizia avvia verifiche. Il pubblico ministero dopo aver avviato una relazione con la moglie del medico ne avrebbe chiesto i domiciliari, scrive il 19 gennaio 2017 "La Repubblica". Il ministero della Giustizia vuole approfondire la vicenda emersa a Firenze, dove un pm, dopo aver avviato una relazione con la moglie di un medico, avrebbe chiesto gli arresti domiciliari nei confronti del dottore. A quanto si apprende, infatti, via Arenula ha avviato, attraverso l'ispettorato, gli accertamenti preliminari per condurre delle verifiche sul caso. Tutta la storia, riferita oggi anche da La Repubblica, ha origine dal percorso di separazione tra il dottore e la moglie, anche lei dottoressa con la procura di Genova che ha già aperto un fascicolo sul magistrato Vincenzo Ferrigno. Secondo la ricostruzione, nel luglio 2015 la donna, madre di due minori, ha sporto denuncia ai carabinieri dopo una violenta discussione con il marito affermando che l'avrebbe minacciata anche di morte. Il magistrato, ora sotto accusa, a cui viene all'epoca assegnato il fascicolo ha ritenuto che non vi fossero elementi per sostenere l'accusa. Nel frattempo, anche il marito ha risposto alle accuse della moglie con una propria querela. A giudizio del pm, in quel momento, stava accadendo quello che purtroppo accade tra molte coppie che si stanno separando. Il pm ha quindi chiesto l'archiviazione una prima volta e anche una seconda volta. Ma il giudice per le indagini preliminari aveva imposto ulteriori accertamenti. A quel punto, il pm aveva deciso di sentire i protagonisti e aveva conosciuto la dottoressa con cui, secondo l'esposto, avrebbe instaurato una relazione. Poco dopo, il magistrato avrebbe chiesto per il marito accusato di maltrattamenti gli arresti domiciliari. Nell'esposto contro il magistrato fiorentino, fascicolo trasferito per competenza alla procura di Genova e in cui si ipotizza il reato di corruzione, il medico ha allegato le foto scattate da un investigatore privato in cui sarebbe ritratta la moglie - persona offesa del reato di maltrattamenti - che entrava in più occasioni, anche di notte nella casa del giudice e che vi si tratteneva per ore. Nel frattempo, il procedimento relativo all'accusa di maltrattamenti nei confronti della moglie è andato avanti e ieri, all'udienza preliminare, il gip, su richiesta di un altro pm, ha disposto il rinvio a giudizio del medico.

Non solo in Puglia, ma anche a Firenze qualche magistrato usa la toga per le proprie avventure sensuali, scrive “Il Corriere del Giorno” il 19 gennaio 2017. Un pm toscano, Vincenzo Ferrigno, chiede gli arresti domiciliari per un uomo accusandolo di maltrattamenti familiari. Ma l’indagato presenta un esposto: “Il magistrato è l’amante di mia moglie. Per due volte aveva chiesto l’archiviazione, poi i due si sono conosciuti…”. Una vicenda giudiziaria per maltrattamenti in famiglia rischia di costare molto cara a un magistrato della procura di Firenze, Vincenzo Ferrigno. L’indagato, un medico fiorentino, ha infatti presentato un esposto contro di lui, allegando le foto scattate da un investigatore privato. “Il magistrato è l’amante di mia moglie. Per due volte aveva chiesto l’archiviazione, poi i due si sono conosciuti…” Le foto depositate dal medico mostrano sua moglie — cioè la persona offesa del reato di maltrattamenti — che entrava in più occasioni, anche di notte, nella casa del magistrato ove si fermava per ore. Nell’esposto, trasmesso alla Procura di Genova, il medico ha fatto presente che per ben due volte il pm aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto su di lui sulla base delle accuse della moglie. Solo dopo averla conosciuta evidentemente a fondo, aveva cambiato opinione fino al punto da chiedere gli arresti domiciliari per il marito. La Procura di Genova ha aperto un fascicolo. L’ipotesi di accusa è corruzione per l’esercizio delle funzioni. Nell’esposto del medico si fa presente che gli atti del magistrato sembrano contrari ai doveri di imparzialità e che anche il piacere sessuale può costituire una “utilità” indebitamente percepita. Il pm aveva tutto il diritto di diventare amico o anche amante della signora, a patto di lasciare l’indagine. Ma così non è accaduto. Ieri il medico è stato rinviato a giudizio per maltrattamenti ma l’inchiesta a suo carico è inevitabilmente intrecciata con la vicenda del rapporto fra sua moglie e il sostituto procuratore Ferrigno. Il procedimento per maltrattamenti nasce nel 2015 nell’ambito di una separazione molto conflittuale. Ambedue medici titolari di due studi professionali in cui per anni hanno esercitato insieme, sono sposati da quasi 20 anni e hanno due figli. Un matrimonio felice finché la donna ha scoperto che il marito la tradiva e che addirittura (sebbene lo abbia a lungo negato) ha avuto un figlio dalla assistente. Nonostante ciò — secondo le accuse — l’uomo si è rifiutato a lungo di accettare la separazione, e nel corso di furiosi litigi è arrivato a minacciare di morte la moglie e in qualche caso a colpirla con spinte, pugni, calci e schiaffi. Dopo la prima denuncia presentata nel luglio 2015, la polizia giudiziaria aveva segnalato una situazione pericolosa e carica di odio. Tuttavia nel settembre 2015 il magistrato chiese l’archiviazione. Il gip sollecitò altre indagini, alla fine delle quali il 2 gennaio 2016 il pm Ferrigno confermò il suo giudizio. La signora continuava però a denunciare una situazione di pericolo. Il 15 marzo 2016 fu convocata in procura e in quell’occasione il pm la conobbe. Pochi giorni più tardi revocò la richiesta di archiviazione. Informato di un tentativo dell’indagato di convincere la baby-sitter, che aveva raccontato di aver assistito a violenti litigi, a modificare le sue dichiarazioni, il 27 giugno 2016 chiese per l’uomo gli arresti domiciliari. Il 25 luglio il gip optò per la misura dell’allontanamento, revocandola pochi giorni più tardi. Nel frattempo il medico aveva incaricato un investigatore privato di seguire la moglie. E proprio in quel mese di luglio l’investigatore ha scoperto che la signora si spostava in maniera circospetta, a volte di giorno e a volte di notte. Parcheggiava l’auto, percorreva lunghi tratti a piedi, entrava in un edificio e si tratteneva per ore. Entrate e uscite sono state filmate. Sul campanello c’era il nome del pm. Anche in Puglia è successo qualcosa di simile. In un capoluogo pugliese, un magistrato molto amico di una coppia di avvocati al punto tale di fare da padrino al battesimo di un figlio della coppia, dopo che i due si sono separati, è diventato l’amante dell’avvocatessa con cui convive dopo aver lasciato sua moglie. Al marito dell’avvocatessa, che si era a sua volta consolato con una nuova compagna, non è rimasto altro che abbandonare la difesa del magistrato-(ex) amico che assisteva in una delicata vicenda giudiziaria che mette a serio rischio la carriera del magistrato.

DI…MASSA CARRARA. Pestaggi in caserma: 4 carabinieri arrestati. Pm: abusi «gravi e diffusi». Le accuse: falso e lesioni. Un militare in carcere, tre ai domiciliari, per altri 4 divieto di dimora. L’inchiesta della procura di Massa Carrara, le irregolarità avvenute in Lunigiana, scrive il 14 giugno 2017 Marco Gasperetti su "Il Corriere della Sera." Li hanno arrestati i loro colleghi mostrando orgogliosi la divisa e guardando negli occhi quei carabinieri che, almeno secondo l’accusa, quella divisa hanno disonorato. Quattro militari dell’Arma sono stati raggiunti da un provvedimento di custodia cautelare, (uno di loro è finito in carcere, gli altri quattro agli arresti domiciliari), mentre per altri quattro è scattato il divieto di dimora e per il quinta la sospensione del servizio. Pesantissime le accuse: lesioni, falso, sequestro persona, minacce, arresto arbitrario. Sei militari lavoravano alla stazione di Aulla due ad Albiano Magra. Siamo in Lunigiana, provincia di Massa Carrara, un luogo bellissimo ai confini tra Toscana, Liguria ed Emilia Romagna, dove il presidio dei carabinieri è indispensabile a amatissimo dalla popolazione. Ma, almeno secondo i riscontri delle indagini coordinate con grande professionalità dal procuratore di Massa Carrara, Aldo Giubilare, i nove accusati avrebbero disonorato la divisa trasformandosi in persecutori di persone che avevano infilato in una sorta di lista di proscrizioni. Decine e decine le azioni illegali. La maggioranza delle loro vittime era extracomunitari che, minacciata di essere espulsa, sopportava tutte le angherie possibili e immaginabili. Poi toccava agli italiani, soprattutto tossicodipendenti e categorie deboli. Tutti venivano sistematicamente picchiati selvaggiamente, senza una ragione, e le spedizioni punitive proseguivano ininterrottamente e senza motivo utilizzando anche manganelli di acciaio. «L’adozione delle misure, ancorché dolorosa sul piano umano, deve rendere edotti dell’assurdità da parte di chiunque, militari dell’Arma dei carabinieri compresi, di considerarsi al di fuori e al di sopra delle leggi dello Stato – ha scritto in una nota il procuratore Aldo Giubilaro - e anzi offre garanzia, enucleati gli autori di condotte improprie, della sicura correttezza e del sicuro senso delle regole di quanti altri fanno parte dell’Arma». Il giudice delle indagini preliminari non solo ha accettato tutte le richieste della procura ma le ha giudicate le richieste minime possibili. Alle indagini hanno partecipato in prima persona i colleghi degli arrestati e dei denunciati.

Pestaggi in caserma, 4 carabinieri arrestati per lesioni e falso in Lunigiana. Uno in carcere, gli altri ai domiciliari. Misure cautelari per altri 4. Il pm: "Violenze sistematiche e metodiche", scrive Massimo Mugnaini il 14 giugno 2017 su "La Repubblica". Otto carabinieri sono stati raggiunti da misure cautelari in un'indagine su abusi e violenze in caserme della Lunigiana, in provincia di Massa Carrara. Quattro i militari arrestati: uno in carcere e gli altri ai domiciliari. Decine gli episodi di violenza contestati, in particolare pestaggi.  "Violenze - ha detto il procuratore capo Aldo Giubilaro - sistematiche e metodiche".

Per altri 4 invece scattato il divieto di dimora e per un altro la sospensione dal servizio. Stanno lavorando a scartamento ridotto, praticamente decimate, le stazioni dei carabinieri della stazione di Aulla, che ha tutto il personale indagato, una ventina di carabinieri. Il maresciallo comandante di stazione è stato sospeso dal servizio e da stasera a mezzanotte deve allontanarsi dalla provincia. Inoltre, un brigadiere di Aulla è stato arrestato in carcere e altri cinque militari della stessa stazione, con vari gradi, sono stati colpiti o dagli arresti domiciliari (sono tre) o, come il loro comandante, dal divieto di dimora (altri due). L'ottava misura cautelare, un altro divieto di dimora nella provincia apuana, è scattata per un militare della stazione di Albiano Magra. Una svolta importante dunque nell’inchiesta della procura di Massa Carrara che ormai da mesi, sulla base della denuncia di un italiano risalente all'estate 2016, indaga su una serie di presunti abusi e illegalità, commesse da appartenenti all’Arma in servizio presso le caserme della bassa Lunigiana. Le accuse nei confronti degli arrestati sono quelle di falso e lesioni. Le misure cautelari disposte dal gip nei loro confronti sono state richieste dal procuratore capo Aldo Giubilaro e dal sostituto procuratore Alessia Iacopini, che coordinano le indagini condotte da altri carabinieri e dalla forestale. A marzo, durante l’indagine, vennero perquisite le caserme di Aulla e Pontremoli. "Sembrerebbe trattarsi, purtroppo, di una condotta diffusa, sia in caserma che fuori" spiega il procuratore Giubilaro. Secondo quanto ricostruito, le accuse di lesioni e falso nei confronti dei carabinieri farebbero riferimento in particolare a dei pestaggi, tra cui uno ai danni di un cittadino extracomunitario, presunto spacciatore. L’uomo, cittadino marocchino, venne portato in caserma in Lunigiana nel corso di un'attività di controllo antidroga. Secondo l’ipotesi accusatoria, in quell’occasione alcuni militari – quattro, disse il fermato - lo avrebbero colpito ripetutamente, facendolo finire in ospedale. Quindi i militari avrebbero falsificato i verbali relativi a quell’episodio. Sempre secondo l’accusa, non si sarebbe trattato di un episodio isolato: il gruppetto di carabinieri si sarebbe accanito su più persone, sia italiane che extracomunitarie. "Erano metodici, sistematici" sottolinea ancora Giubilaro. Al vaglio degli inquirenti vi sono infatti altri episodi poco chiari - quasi un centinaio - i cui relativi verbali stilati dai carabinieri sono già stati sequestrati nei mesi scorsi. Uno riguarderebbe una prostituta che, portata in caserma, avrebbe subìto abusi sessuali. Sotto la lente della procura anche alcune presunte sparizioni di droga sequestrata.  Tra gli indagati ci sono un maresciallo, un brigadiere, alcuni appuntati e militari semplici.

Inchiesta shock, quattro carabinieri arrestati e guai per altri quattro. Tre ai domiciliari, uno in carcere, per altri tre divieto di dimora nella provincia e uno anche sospeso dal servizio. Sono accusati di abusi e violenze in caserma. L'inchiesta partì nel febbraio 2017, scrive "La Nazione" il 14 giugno 2017. Quattro carabinieri sono stati arrestati nell'ambito di un'inchiesta della procura di Massa Carrara su presunte irregolarità nell'operato di alcuni militari dell'Arma in Lunigiana. Da quanto appreso tre carabinieri sono stati posti agli arresti domiciliari, uno in carcere, altri tre hanno divieto di dimora nella provincia e uno è stato anche sospeso dal servizio. L'arresto in carcere riguarda un brigadiere in servizio ad Aulla, mentre il maresciallo comandante di stazione di Aulla è stato colpito da doppio provvedimento: divieto di dimora nella provincia e sospensione dai pubblici uffici. Gli altri sei militari sono un altro brigadiere e graduati (appuntati): tre ai domiciliari, tre (più il maresciallo) con divieto di dimora. L'inchiesta era emersa tra febbraio e marzo quando si parlò una ventina di indagati e scattarono perquisizioni nelle caserme dell'Arma di Pontremoli e Aulla. Falso e lesioni i reati per cui procede la procura. Ai carabinieri sarebbero (il condizionale è d’obbligo) stati contestati singoli episodi come alcuni atti di violenza fisica ai danni di un marocchino con precedenti di spaccio. O come la violenza subita da una prostituta prelevata dalla strada sulla quale esercitava la professione più antica del mondo e trasportata in caserma. E si ipotizza anche la falsificazioni di verbali. Inutile chiedere commenti all’Arma. Gli ufficiali incaricati di mantenere i rapporti con la stampa hanno rinviato alla Procura e si sono chiusi in un rigoroso silenzio. Il procuratore capo Aldo Giubilaro, nei giorni successivi allo scandalo, aveva confermato "piena fiducia nell’Arma", specificando che l’indagine era su "pochissime unità, anche se riguardano fatti di una certa gravità" ed erano "pochi i fatti da accertare". In realtà verte su 104 capi d'imputazione l'ordinanza (di oltre 200 pagine) emessa dal gip e sono alcune decine i fatti trattati dall'inchiesta. Secondo quanto appreso sono contestati, a vario titolo, i reati di lesioni (alcuni episodi), falso in atti, abuso d'ufficio, rifiuto di denuncia, sequestro di persona, violenza sessuale, possesso di armi (sarebbero i coltelli trovati in casa agli indagati). Il gip ravvisa i pericoli di reiterazione e di inquinamento delle prove tra i motivi di esigenza cautelare. I falsi riguarderebbero anche i verbali su attività e interventi dell'Arma nel territorio. Inoltre, secondo quanto appreso, sarebbe contestato un solo episodio di violenza sessuale a una prostituta e uno solo di sequestro di persona (una persona marocchina trattenuta in camera di sicurezza).

Aulla, violenze in caserma: arrestati quattro carabinieri, scrive Tiziano Ivani su "Il Secolo XIX" il 14 giugno 2017. C’è un episodio, in particolare, che desta sgomento tra il centinaio di casi citati nell’inchiesta su presunti abusi sessuali e pestaggi che ieri ha portato all’arresto di quattro carabinieri che prestavano servizio in alcune caserme della Lunigiana. E sarebbe avvenuto, secondo la Procura di Massa, in una piccola stazione di provincia, ad Aulla, dove, qualche mese fa, il brigadiere Alessandro Fiorentino, l’unico tra gli indagati a essere finito in carcere, avrebbe costretto un uomo di origini marocchine a spogliarsi e «a subire atti sessuali» nel contesto di una perquisizione antidroga. I magistrati hanno inquadrato in questo reato il fatto che però, per come viene descritto, appare molto più simile a una vera e propria tortura. Il giudice per le indagini preliminari ha poi disposto i domiciliari per tre carabinieri, Gianluca Varone, Luca Granata e Ian Nobile, ma ci sono altri quattro militari, indagati a piede libero, ai quali è stato notificato un provvedimento che vieta loro di mettere piede nella provincia di Massa-Carrara. I reati contestati, a vario titolo, sono falso, lesioni, calunnia, violenza privata e sessuale. «Illegalità e abusi erano quasi una normalità, le condotte irregolari erano rivolte sia a persone italiane che straniere. In alcuni casi, si tratta di strumentalizzazioni a fini privati», spiega il procuratore capo Aldo Giubilaro che da mesi, assieme al sostituto Alessia Iacopini, sta portando avanti un’indagine che ha provocato un vero e proprio terremoto in Lunigiana. Alcuni particolari della vicenda erano già emersi nel marzo scorso quando la Procura aveva eseguito perquisizioni e sequestri nelle caserme. Gli investigatori avevano acquisito fascicoli riguardanti numerosi interventi. Tra questi anche un caso di violenza sessuale, una donna che avrebbe subìto abusi da chi avrebbe dovuto tutelare lei e la legge. Si tratterebbe di una squillo fermata per strada e portata in caserma.

L'inchiesta sui carabinieri, scattano gli arresti, "Cosa penserà ora di noi la gente?". Caserme decimate dopo l'operazione che ha portato alcuni militari dell'Arma in carcere, scrive il 15 giugno 2017 "La Nazione".  Succede nella vita del cronista di raccogliere le parole di sfogo di chi si trova al centro di un’indagine, come i carabinieri raggiunti dai provvedimenti della magistratura ieri mattina. Nelle parole dei tutori dell’ordine traspare amarezza e sconcerto. La difficile situazione in cui sono venuti a trovarsi, da dover spiegare a mogli e figli ed anziani genitori, increduli di fronte a quanto successo ieri mattina nel giro di poche ore. «Un’esperienza tristissima da non augurare mai a nessuno – si sfogano alcuni dei carabinieri coinvolti, senza mai entrare nel merito dell’indagine nè lanciare accuse – i tuoi famigliari con grande difficoltà riescono ad immedesimarsi in questo ribaltamento di ruoli, che vede la tua persona trasformarsi da stimato agente dell’ordine ad inquisito per gravi reati e sottoposto a misure restrittive». Quello che più colpisce è il timore di nuocere in qualche modo negativamente all’immagine del corpo d’appartenenza. «Cosa penserà la gente di noi, dei colleghi? Con che spirito potremmo continuare poi il nostro lavoro? – queste le frasi più ricorrenti – Sarebbe importante però l’opinione pubblica fosse adeguatamente informata sulle quotidiane difficoltà e pericoli che costantemente incontriamo nella nostra rischiosa professione di controllo e contenimento della criminalità con cui notte e giorno siamo in guerra continua: ladri, truffatori, spacciatori di droga che con grande sforzi e rischi arresti e magari dopo poco li vedi tornare in libertà». Nello sfogo di queste persone, provate e consce della situazione che stanno vivendo non c’è traccia alcuna di risentimento nei confronti di chi ha preso provvedimenti nei loro confronti». Sconcerto e incredulità in Lunigiana che già si era mossa nei mesi scorsi con una manifestazione di solidarietà per i carabinieri indagati: ieri si è subito sparsa la voce di una nuova iniziativa simile nei prossimi giorni. Intanto le conseguenze dei provvedimenti scattati ieri mattina si sono fatte subito sentire: stanno lavorando «a scartamento ridotto», praticamente decimate, le stazioni dei carabinieri della Lunigiana colpite dall’inchiesta della procura. In particolare si è ridotta di molto l’attività della stazione di Aulla (una delle più importanti della Lunigiana), che ha ventina di carabinieri indagati. Un maresciallo è stato sospeso dal servizio e da ieri sera si è dovuto allontanare dalla provincia. Inoltre, un brigadiere di Aulla è stato arrestato (e portato in un carcere militare) mentre altri cinque militari della stessa stazione, con vari gradi, sono stati colpiti o dagli arresti domiciliari (sono tre) o dal divieto di dimora. L’ottava misura cautelare, un altro divieto di dimora nella provincia apuana, è scattata per un militare della stazione di Albiano Magra.

Gli audio dei carabinieri giustizieri: "I profughi? Sono solo scimmie". Le intercettazioni choc dalla caserma dei carabinieri di Aulla: "Ai marocchini darei una fraccata di legnate. Importare migranti abbassa il livello culturale dell'Europa", scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 16/06/2017, su "Il Giornale". Le microspie avrebbero registrato tutto: le conversazioni, quel patto "come la mafia", la confessione dei soprusi. Sono otto le misure cautelari emesse ieri dopo la richiesta del Pm di Aulla, Alessia Iacopini. Arresti che hanno dimezzato la caserma dei carabinieri della cittadina in procincia di Massa Carrara. Gli indagati sono 22, tra cui il maresciallo della stazione della Lunigiana (sospeso dal servizio), il brigadiere Alessandro Fiorentino (arrestato) e i carabinieri Ian Nobile, Gianluca Granata e Luca Varone (ai domiciliari). Altri militari hanno dovuto cambiare città a seguito del divieto di permanenza nella zona. Dalle carte dell'inchiesta, pubblicate da Repubblica, emerge uno spaccato inquietante della caserma. Tutto nasce dalla denuncia di un avvocato che qualche tempo fa stava assistendo un marocchino che aveva denunciato uno dei carabinieri per un presunto pestaggio subito a seguito di un fermo. Il militare avrebbe chiesto al legale di ritirare la denuncia, altrimenti avrebbe potuto toglierle la patente "e mandarla a casa a piedi". "Non è possibile che un marocchno denuncia un carabiniere", avrebbero ragionato tra loro i carabinieri. A guidare questa sorta di "squadra" speciale sarebbe stato il maresciallo Alessandro Fiorentino, che un collega descrive come "uno dei più cattivi del mondo": Una volta c’avevano il terrore… arrivava Fiorentino". Ma non è tutto. Perché le microspie piazzate dagli investigatori, supportati dal comando provinciale e regionale dell'Arma, avrebbero registrato delle conversazioni choc all'interno delle auto di servizio. "I negri sono degli idioti, sono delle scimmie", si legge - dice Repubblica - nei verbali di chiusura indagine. "Profugo? Io ti do una randellata nel muso se non stai zitto". E ancora: "Se vieni fuori ti stacco la testa, quando vuoi e dove vuoi". "Io non lo so se riuscirei ad ammazzare una persona, anche se è un marocchino, eh! Però una fraccata di legnate gliele darei! Ma una fraccata, eh. Anche del tipo lasciarlo permanentemente zoppo". Uno dei carabinieri sosteneva invece che "importare tutti questi negri abbassa il livello culturale dell’Europa", mentre un altro collega "plaudiva a Mussolini che 'tutte saponette ha fatto'". L'unico degli avvocati della difesa che sta difendendo i militari ha detto che "il mio assistito respinge tutte le accuse". Secondo il pm infatti i militari, oltre alle armi di servizio, sarebbero stati soliti utilizzare taser, coltelli e un'ascia tenuta nell'auto di servizio. "Vediamo i due negri che scappano - si leggerebbe in una intercettazione - Pino esce di qua e gli corre dietro a uno, io esco di là e corro dietro a un altro nel bosco… Minchia le botte che hanno preso quei due negri, penso che se lo ricorderanno finché campano… lo saccagnavamo di botte perché non voleva entrare in macchina… quante gliene abbiamo date! Ahaaha! Entra dentro la macchina, negro di m...". Oppure contro un clochard polacco: "Ehi mister, metti qua la mano… Cosa stai facendo? Te la spezzo?". Poi, secondo Repubblica, "lo costringono a mettere le mani sull’auto e le percuotono con il manganello". Punizioni corporali che sarebbero state inflitte anche a un cittadino nordafricano: lo avrebbero sbattuto in terra per poi "schiacciargli la faccia sull’asfalto con una scarpa, infilargli la canna della pistola in bocca". A stupire gli investigatori, però, è stato soprattutto quella sorta di patto di sangue stipulato tra i carabinieri che si sarebbero macchiati dei reati loro attribuiti. A un nuovo arrivato, uno degli anziani avrebbe infatti detto: "«La regola madre per fare il carabiniere, la regola più importante che, ahimè, purtroppo alcuni colleghi non rispettano è: quando se esce insieme, quelle sei ore, quello che succede all’interno della macchina non deve scoprirlo nessuno.... Niente! È cosa nostra. Proprio come la mafia! Quello che succede qua non se deve venì a scoprì..."

Aulla, le intercettazioni telefoniche che inchiodano i militari: «Un negro è scappato: l’ho preso e massacrato», scrive Tiziano Ivani su "Il Secolo XIX" l'16 giugno 2017. «Guarda che bel taglio che c’ho fatto, tac da sopra eh». Alessandro Fiorentino è divertito mentre mostra al collega di pattuglia, Gianluca Varone, il modo in cui aveva appena squarciato le gomme di una Alfa 146 posteggiata alle porte dell’abitato di Aulla. Dalla carte dell’inchiesta, che ha travolto i comandi delle stazioni carabinieri della Lunigiana, spuntano particolari che tratteggiano i profili di persone dedite al malaffare, persone che nascondendosi dietro una divisa facevano il bello e cattivo tempo da quelle parti. Il 12 febbraio scorso una cimice nascosta nell’auto di servizio registra la conversazione tra i due carabinieri e il cittadino inglese proprietario della vettura a cui avevano appena bucato le gomme: Varone e Fiorentino fingono di non sapere chi avesse commesso il reato, poi quando la vittima si allontana commentano il fatto. Varone: «Anche te no, a un bravo cristo hai bucato le gomme». Fiorentino: «Ma che cazzo ne sapevo io che ere quello lì». Varone: «Ride». Fiorentino: «Io quando ho fatto, io ero convinto fosse, fosse l’albanese, era quell’altra macchina». Il 9 dicembre 2015 l’accoppiata Fiorentino e Varone si sarebbe resa responsabile del reato di peculato per essersi appropriata di alcuni «cd-dvd dal contenuto musicale e pornografico» sequestrati a un ambulante marocchino per la violazione dei diritti d’autore. Nella stessa occasione i carabinieri avrebbero preso, senza averne alcun diritto, «un giocattolo erotico (un fallo di gomma, ndr)». «A un certo punto, mentre stavano sequestrando tutto, esce Gianluca e mi fa, guarda che cosa ho trovato? Un cazzo di gomma così». Nell’ordinanza il gip parla anche «odio razziale» e lo fa dopo riportando alcune intercettazioni inquietanti. Il 17 febbraio scorso alle tre del mattino, Luca Granata, oggi agli arresti domiciliari, parla con un collega, Francesco Rosignoli, e gli racconta di come ha picchiato «un negro». Granata: «C’è un negro che mi voleva de, un negro che è scappato, gli sono andato dietro ed è picchiato con il muro, è cascato l’ho tirato su e ho detto mettiti là…l’ho smostrato…poi gli ho messo la pistola in bocca, ho detto se devo andare in galera ci vado per qualcosa». Tra le conversazioni più rilevanti, annotate dagli investigatori, ce n’è una del 13 novembre 2016 quando Ian Nobile, oggi ai domiciliari, confessa a Fiorentino di avere un taser (storditore elettronico). Nobile: «L’altro giorno mi sono incazzato con Gianluca, sai che c’ho il taser, no?». Fiorentino: «Ah sì me l’avevi detto». Nobile: «Ma tu sai che è una cosa che non dovrei tenere. E inizia a fare la spada con il laser, ma dico non toccare una roba che non è tua soprattutto in presenza di un superiore (che in quel momento si trovava in caserma, ndr)». Indagando a lungo sui carabinieri della Lunigiana, i pm Aldo Giubilaro e Alessia Iacopini hanno fatto venire a galla altre questioni spinose. Uno dei marescialli, il cui non è finito sul registro degli indagati, è accusato anche di maltrattamenti in famiglia nei confronti della moglie. Sono state ricostruiti episodi di percosse, il militare sarebbe solito offendere la donna chiamandola: «Malata, rincoglionita e matta».

DI PISA…«Concorso su misura? Questi erano gli accordi». Prof (registrato) nei guai. Il caso all’Ateneo di Pisa, la denuncia di una ricercatrice, scrive Marco Gasperetti il 26 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Nei corridoi dell’università di Pisa da qualche giorno non si parla d’altro. E qualche «maligno» l’ha già ribattezzato il «bando fotografia», che in gergo significa un concorso, irregolare, realizzato ad hoc su una persona: il vincitore designato. Adesso però le cose si sono complicate e le ironie rischiano di trasformarsi in sospetti e tremori. Su quel concorso, per un posto di professore ordinario al dipartimento di Economia e management, è stata aperta un’inchiesta della procura di Pisa. Il sospetto è che la commissione d’esame avesse già deciso a priori chi far vincere e i magistrati vogliono capire se esiste un sistema di potere baronale che influisce sui concorsi pubblici. Sospetti generati da una registrazione clamorosa nella quale il presidente di una delle commissioni esaminatrici, uno stimatissimo professore universitario, sembra ammettere le presunte irregolarità. A registrarle il marito dell’esclusa, anche lui docente universitario, ma a Verona. La moglie ha poi presentato una denuncia alla procura allegando oltre alla registrazione altri documenti. Sul caso c’è anche un ricorso al Tar e l’avvio di indagini della commissione etica dell’ateneo pisano, considerato tra i più validi d’Europa, dove studiano oltre 50 mila studenti. Protagonista e presunta vittima della vicenda è Giulia Romano, tra le migliori ricercatrici del dipartimento di Economia e management. È stata lei a firmare la denuncia contro Luciano Marchi, presidente della commissione d’esame, Silvio Bianchi Martini, membro della commissione e direttore del dipartimento di Economia e management, e contro l’ex rettore Massimo Augello. Insieme ai documenti, Giulia Romano e il suo avvocato, Francesco Agostinelli del foro di Livorno, hanno prodotto le registrazioni avvenute tra il professor Marchi, presidente della commissione, e Andrea Guerrini, marito della ricercatrice. Registrazioni nelle quali, almeno apparentemente, Marchi ammetterebbe che il profilo del concorso era stato studiato per il vincitore precedentemente designato «perché rientrava negli accordi». Nella registrazione Marchi poi spiega che basta un semplice «litigio» con «chi conta» per essere tagliato fuori. E in tal caso, per continuare a sperare di far carriera all’interno dell’università, «è importante recuperare il rapporto». E chi osa opporsi e fare ricorso corre il rischio di rimanere ricercatrice a vita perché nessuno mai più l’avrebbe appoggiata, in quanto sarebbe come «dare un premio a chi ha remato contro». Perché «il rischio è quello dell’isolamento... in queste vicende una ha ragione, però appare come quella che rompe i c... e in questo caso tutto l’ateneo è coalizzato perché tu vai a rompere una logica». Già, la logica. Un sistema? È proprio quello che stanno accertando i magistrati. «Abbiamo sottoposto al vaglio della procura la registrazione — dice l’avvocato Agostinelli — che è una valida prova documentale, affinché verifichi la violazione delle norme che regolano il reclutamento del personale accademico. Nella denuncia si chiede inoltre che si verifichi l’esistenza o meno di sistematiche condotte discriminatorie per l’accesso alle cattedre. Ci auguriamo che venga fatta luce nel più breve tempo possibile. Non solo nell’interesse della mia assistita, ma per tutelare tutti quei candidati meritevoli che aspirano all’importante ruolo di professore nel prestigioso ateneo pisano». Il rettore dell’università, Paolo Mancarella, non ha voluto rilasciare dichiarazioni.

La ricercatrice di Pisa che ha denunciato presunte irregolarità: «Voglio dare l’esempio ai miei figli». Tre docenti dell’Università di Pisa sono indagati per presunte irregolarità in un concorso per un posto da ordinario nel dipartimento di Economia e management, scrive Marco Gasperetti il 26 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Una denuncia in Procura contro tre chiarissimi professori e voilà, Giulia Romano, 39 anni, due figli, un marito anch’esso accademico, diventa la ricercatrice più chiacchierata d’Italia. Perché il suo atto di ribellione contro quello che lei ritiene un concorso taroccato e quella registrazione (fatta dal marito) nel quale il presidente della commissione sembra fare ammissioni sul «bando su misura» per un predestinato rischiano di smascherare (sempre che esista) un sistema opaco. La Procura di Pisa ha aperto un’inchiesta e ieri si è avuta la conferma di tre docenti universitari indagati. Lei, Giulia, adesso combatte con chi «la guarda come una marziana» e le ha tolto il saluto. Ripresenterebbe quella denuncia? «Sì, e lo sa chi mi ha dato la forza? I miei figli — risponde —. A loro voglio raccontare storie di dignità professionale, di lavoro, di studio. Non vicende di raccomandazioni, conoscenze, spintarelle, aiuti più o meno leciti, furberie». Giulia Romano, livornese, è una prima della classe per genetica. La più brava alle elementari, alle medie, alle superiore; strepitosa all’università e al dottorato di ricerca. Ma di gavetta ne ha fatta tanta. «Mi sono laureata con lode in economia lavorando come ragioniera in banca dove avevo vinto un concorso assolutamente regolare — racconta —. Poi, dopo la laurea, ho vinto un altro concorso alla Consob. Posto di lavoro prestigioso, stipendio da favola (tre volte quello di ricercatrice) ma ero innamorata della scuola». Così arriva il dottorato di ricerca e poi un posto come ricercatrice al dipartimento di Economia e management all’università di Pisa. «Quando ho ascoltato la registrazione del presidente della commissione che spiegava a mio marito perché, nonostante me lo meritassi, non avevo vinto il concorso per professore ordinario, ho avuto un sussulto — racconta —. Non volevo crederci. Mi sono messa a piangere. Ma lo sconforto è durato poco. Sono una combattente. Ho fatto denuncia e ho raccontato tutto anche al lavoro». E che cosa è successo all’università? «In tanti mi hanno guardata come una marziana — risponde la ricercatrice —, caduta dal cielo. Tutti sapevano eppure alcuni hanno fatto finto di scandalizzarsi». E dai vertici dell’ateneo? «Neppure una parola. Silenzio. A me sarebbe bastato un “faremo chiarezza”, “stai tranquilla che fugheremo ogni dubbio” e invece nulla. È stata aperta un’indagine della commissione etica ma è stata bloccata e la commissione disciplinare non è stata interessata al caso». Giulia Romano dice di sentirsi isolata. «Ma non mi importa molto — continua — perché nella vita ci sono cose che bisogna affrontare a viso aperto. Ho letto commenti sui social allucinanti. Del tipo “ma che denuncia quella, lo sanno tutti che i concorsi sono fatti a misura per il vincitore”. Ma come, c’è un’inchiesta nella quale si ipotizzano gravi irregolarità in un concorso e c’è chi dice che è la normalità? Rabbrividisco». Qualche raggio di luce? «Certo, ce ne sono stati. Come il messaggio di un collega che non conosco che mi ha scritto di tenere duro, di continuare, di interrompere un sistema opaco che pare avvolgere i concorsi pubblici. Lo ringrazio, tutti noi dobbiamo fare qualcosa».

DI SIENA…La ribellione del cavallo che non ha corso il Palio. Tornasol non ha voluto saperne di entrare nei canapi. Sotto stress, si è impuntato. E ha vinto lui, scrive Oscar Grazioli, Martedì 4/07/2017, su "Il Giornale". Ha vinto Scompiglio, ma il vero scompiglio l'ha creato Tornasol, baio della Tartuca che, quasi rivendicando una sorta di autonomia equina nei confronti delle decisioni umane, ha tenuto in scacco la carriera per un'ora e mezza, fino a quando è stato intelligentemente messo a riposo perché troppo stressato e potenzialmente foriero di drammi più gravi rispetto alla dèfaillance di una contrada. Da tantissimi anni seguo il Palio, per dovere non certo per piacere, ma giuro che questa volta mi sono divertito. L'unico rammarico è che, avendo invitato alcuni amici a cena, si sono scofanati tutti i gamberoni in salsa rosa, senza alcuna pietà. Credevo fossero amici e invece non hanno avuto il riguardo che ha avuto la direttrice del TG2, Ida Colucci, invocata in modo quasi drammatico dai due commentatori. «E adesso che succederà? E se Tornasol continua nella sua ribellione come andrà a finire? Ormai nelle case si accendono le luci. Ci toglieranno la linea?». No, tranquilli, arriva ratta come un fulmine, la decisione di concedere al Palio tutto il tempo che occorre. Si sposterà il TG2 di quanto necessita. Ovvìa, per il Palio, codesto ed altro! Poi, però nessuno mi critichi se scrivo che il Palio è un enorme business, fatto di scommesse, posti al proscenio pagati in lingotti d'oro, soldi a palate concessi ai fantini per corrompersi l'un l'altro e naturalmente diritti televisivi la cui potenza è tale da spostare quello che, di solito è inamovibile se non per notizie che lo rendono «straordinario»: il Telegiornale. Però, mi sono divertito in questo Palio, dedicato alla Madonna di Provenzano probabilmente distratta, visto che già la vigilia sono cominciati i problemi con il maltempo che ha reso il tufo sulla piazza umido e ha fatto saltare metà delle prove. E poi, quel cavallo ribelle, quell'esordiente che scuoteva la testa, tentava di rampare, non rispondeva a niente e nessuno, quasi avesse uno strano presentimento. E sì che al suo comando non aveva un pisquano di fantino, ma tanto di Trecciolino, al secolo Luigi Bruschelli, senese di nascita e vincitore di ben tredici edizioni, secondo solo, per fama, al mitico Aceto. Ma Tornasol se ne frega di avere uno dei più blasonati (e criticati) fantini della storia del Palio. Per 90 minuti tiene in scacco il barbaresco (o barberesco come vorrebbero i puristi), ovvero l'addetto al benessere del cavallo contradaiolo a 360 gradi. La sua maschera è una fantasia di costernazione, rabbia e disperazione nel non riuscire a portare il suo «protetto» dentro ai canapi. Anche Trecciolino sembra sconcertato per un avvenimento che gli capita forse per la prima volta. Palii duri, dove le urla si confondono con le bestemmie (povera Madonna di Provenzano), sgarbi, pugni, calci, amicizie e rivalità che cambiano in due minuti a seconda dei soldi che passano di mano, il fantino senese ne ha viste di tutti i colori, ma che quel baio se ne frega del barbaresco e del fantino e allora ci prova il veterinario che, attaccato al cellulare, dialoga con il capitano della contrada cercando una via d'uscita, mentre il sole tramonta e la minaccia di spostare di un giorno la carriera si fa sempre più probabile. «Potrebbe anche provare a nerbare il cavallo», si lascia sfuggire la commentatrice che poi si riprende «ma forse è meglio di no». E Trecciolino saggiamente, invece di nerbare un cavallo già pesantemente stressato prova a scendere per vedere se si calma. Nulla da fare. Tornasol si erge come una forza superiore a barbareschi, capitani, veterinari e fantini. Fra quei canapi non ci entra per nessuna ragione al mondo e viene ritirato, vincendo moralmente il Palio, tra i moccoli dei suoi contradaioli, la benedizione della Madonna e gli applausi di chi sta dalla parte della ragione e non della forza.

…DI FIRENZE. Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Il Forteto non esiste: gli orrori di un storia che nessuno racconta. Inchiesta sul Forteto: ecco tutti gli orrori e gli errori di un storia di cui nessuno parla, scrive Simone Cosimelli il 10 giugno 2016 su “Affari Italiani”. Un paio di mesi fa una giornalista russa, intervistando il presidente dell’associazione Vittime del Forteto, Sergio Pietracito, si fermò, visibilmente scossa, per fare una domanda di buon senso: chiese come mai una storia del genere non fosse conosciuta nel suo Paese. La risposta fu indicativa: «Nemmeno fuori Firenze se ne sa nulla, per questo ci battiamo». In un Paese normale, 30 anni di stupri e abusi su minorenni, perpetrati all’ombra del muro di connivenze della Toscana «rossa», non passerebbero inosservati. Ma nessuno avrà il coraggio di dire che l’Italia lo sia. E infatti è accaduto di tutto: oltre l’inimmaginabile, oltre la giustizia. E’ una vicenda orrenda quella del Forteto, e oggi, mentre si celebra il secondo grado di un processo tanto atteso, non se ne intravede la fine. Sono stati presi i mostri, ma non chi i mostri li ha prima osannati e poi protetti. Tutto inizia nel 1977. Nel comune di Barberino nasce la comunità Il Forteto assieme all’azienda agricola, destinata a radicarsi nel territorio come baluardo del made in Tuscany alimentare. L’iniziativa è di due uomini che si avvalgono di falsi titoli di studio in psicologia: Rodolfo Fiesoli, detto il Profeta e capo indiscusso della struttura, e Luigi Goffredi, l’ideologo. Tutto ruota attorno alla teoria, ancora in fase sperimentale, della “famiglia funzionale”. Cioè all’educazione alternativa dei minori tramite gli affidi a due soggetti, uomo-donna, il cui accostamento avviene a tavolino. La conoscenza reciproca è superficiale e svincolata dalla sfera dell’affettività, ritenuta nociva. Si cresceranno ragazzi disagiati senza il «fardello della materialità sessuale». Fiesoli e Goffredi si presentano come pionieri. L’ammirazione è incondizionata. Il Tribunale dei minori comincerà presto ad affidare bambini provenienti da situazioni difficili (genitori tossicodipendenti o assenti). E nel tempo intellettuali e psichiatri loderanno quel miscuglio di Freud e Don Milani. Eppure, fin da subito, cosa fosse realmente il Forteto avrebbe dovuto essere chiaro. Nel settembre 1978 il magistrato Carlo Casini fa arrestare i due per abusi sessuali. E’ la prima avvisaglia degli scempi commessi, ma vengono scarcerati alcuni mesi dopo. La scesa in campo di Caselli in politica, nella file della Dc, scatena infatti il magistrato Gian Paolo Meucci (di tutt’altre vedute), padre del diritto minorile italiano e intransigente difensore del Profeta. Non basta allora il discorso di Rinaldo Innaco (DC), tenuto nell’ottobre 1980 in Consiglio regionale, dove si parla di costrizione e «regime di vita imposto e caratterizzato (…) dalla pratica dell’omosessualità». Non basta la condanna in primo grado del 1981, confermata in Cassazione nell’84, per «atti di libidine violenti e maltrattamenti e lesioni». Non basta quella del gennaio 1985, pur passata in giudicato, della Corte D’Appello di Firenze per «atti di libidine e corruzione di minori». La posizione di Meucci, che all’autorevolezza personale unisce l’assoluta deferenza dei colleghi, fa dimenticare il verdetto, con nessun effetto pratico. Un caso senza precedenti nella giustizia nazionale. Poi, contro ogni valutazione plausibile, si affidano subito altri bambini. Dopo l’85, inizia il dominio incontrastato del Forteto. A far “merenda”, trasferita la sede nel paesino di Vicchio, passano in tanti: politici, giudici del Tribunale dei minori, sindacalisti, dirigenti dei servizi sociali. Di fatto, tutta la Sinistra toscana (PCI, PSI, PdUP, Sinistra Indipendente) favorisce la nuova realtà. Il Forteto diventa una passerella obbligata. Fiesoli è paragonato a Don Milani. Stupisce, commuove, incanta. Scrive libri. I ragazzi intanto, all’oscuro delle condanne, e allontanati dai genitori naturali, vengono traviati mentalmente: molti diranno di aver considerato normale il fatto di essere abusati sessualmente. E fino al 2009 la comunità ne riceve circa 60. La mattina a spalare la calce e lavorare i campi, la sera in balia dei genitori. Nel frattempo, la Cooperativa, l’altra faccia del Forteto, acquista prestigio: 130 dipendenti “esterni”, un fatturato di quasi 20 milioni, eccellenze alimentari esportate dall’America all’Australia. Un vanto per tutta la Regione. Il 13 luglio del 2000, però, tornano i guai. La Corte europea dei diritti dell’uomo, in seguito alla denuncia di due madri a cui veniva impedito di vedere i figli, condanna l’Italia con una multa di 200 milioni di lire per danni morali. La sentenza di Strasburgo pesa eccome, ma si alzano le barricate: e non cambia nulla. Anzi, solo dal ’97 al 2010, il Forteto ottiene contributi dalla Regione per 1 milione e 254 mila euro. Si arriva poi al novembre 2011. Al TEDxFirenze (manifestazione socio-culturale), Fiesoli interviene a Palazzo Vecchio sull’educazione minorile in qualità di esperto: presenziava, e fu ringraziato, l’allora sindaco Matteo Renzi. Proprio il mese successivo, però, viene arrestato per atti di pedofilia. L’accusa è schiacciante. Nasce una commissione d’inchiesta regionale per indagare sul sistema di potere appena scoperchiato e nel gennaio 2013 viene stilata una relazione dove si elencano i soggetti che hanno frequentato la comunità. Tra i tanti noti (109): Livia Turco, Piero Fassino, Vittoria Franco, Susanna Camusso, i giornalisti Betty Barsantini e Sandro Vannucci. Dopo il tentativo dell’avvocato del Profeta di far ricusare il presidente del collegio giudicante, Marco Bouchard (unico caso nella storia della Repubblica), così da rallentare il dibattimento in odor di prescrizione, il 17 giugno 2015 la sentenza in primo grado condanna 16 dei 23 imputati. 17 anni e mezzo per Fiesoli, 8 per Goffredi, e via via a scendere per gli altri componenti di quella che ormai è considerata una setta. Le testimonianze delle vittime, scappate dal Forteto, sono determinanti. Nelle motivazioni della Corte si legge: «Il Forteto è stata un’esperienza drammatica, per molti aspetti criminale, retta da persone non equilibrate (…) Le perversioni del Fiesoli e compagni sono state di volta in volta avallate, tollerate. Chi ha reagito, chi ha protestato, chi ha contestato è stato emarginato, isolato, escluso, denigrato e, finalmente, allontanato». Nell’estate 2015, il caso arriva a Roma. Una mozione a firma di Deborah Bergamini (FI) chiede una un’inchiesta parlamentare e il commissariamento dell’azienda per il presunto intreccio con la comunità. Il PD interviene: e affossa la mozione. Si parla di responsabilità individuali e non collettive: smentendo i fatti, le vittime e la sentenza. Le opposizioni ringhiano («La decisione del Governo è sconcertante: non ha alcuna logica, alcuna sensibilità, alcun senso politico»). Invano. A livello locale, invece, le polemiche non si sono mai spente. Un libro, Setta di Stato, scritto dai giornalisti Tronci e Pini, ha fatto rumore. Si è istituita una commissione regionale Bis per indagare sulle responsabilità politiche, che del Forteto sono state la stampella e lo scudo. Ma non avendo i poteri di un’autorità giudiziaria, finora ha avuto le mani legate di fronte alle reticenze di chi è stato interpellato alle audizioni, o peggio ha scelto di tacere. Nessuno infatti ricorda, nessuno c’era o sapeva. Non ricorda, per esempio, Giuliano Pisapia (sindaco uscente di Milano), membro del collegio che patrocinò il Profeta in Cassazione nell’85. Non ricorda Rosy Bindi, più volte accostata al Forteto. Ha pensato di non poter aiutare, dopo aver promesso il contrario, Bruno Vespa: che anni addietro ricevette pressioni per non mandare in onda una puntata di Porta a Porta sull’argomento. Convocato, non si è presentato. Secondo la sentenza, negli anni, centinaia di persone sarebbero state segnate. Con intere famiglie rovinate. Otto ragazzi, una volta usciti, non ce l’hanno fatta: stroncati dalla tossicodipendenza, dall’indigenza e dai traumi passati. Spesso, ci si chiede come sia possibile che fatti di entità molto minore siano squadernati sulle pagine dei giornali e dibattuti nel Talk show, quando invece del Forteto, in tutta Italia, non se ne sa niente. Malgrado un processo in corso (con sentenza il 27 giugno), un’indagine da concludere e ancora tanto da scavare, e capire. Si dà una spiegazione, l’unica sensata: il Forteto fa paura.

Il caso Cioni svela un cortocircuito tra pm e politica nella prima éra renziana. L'ex assessore di Firenze è stato accusato di corruzione per aver ricevuto soldi da uno sponsor per pagare una campagna per la sicurezza stradale e i condizionatori per un centro anziani. E' l'inchiesta giudiziaria che ha inciso sull'ascesa del premier, scrive Claudio Bozza il 10 Maggio 2016 su “Il Foglio”. Firenze. Talvolta la storia di un paese passa dalle piccole cose. Questa, però, da un’inchiesta giudiziaria di Firenze, che ha aiutato a spazzare via l’intera classe politica della filiera corta Pci-Pds-Ds, che aveva governato per 30 anni e che, al netto di ricostruzioni complottiste, ha nei fatti inciso sulla politica nazionale e sull’ascesa di Matteo Renzi. Ma iniziamo dalla fine. “Mi hanno accusato di corruzione per aver ricevuto soldi da uno sponsor come Fondiaria per pagare una campagna per la sicurezza stradale e i condizionatori per un centro anziani. Credevo di meritarmi un premio e invece mi è arrivato sul groppone un processo, accusandomi di aver favorito gli interessi urbanistici del gruppo Ligresti. Se qualcuno dovrebbe risarcirmi? Non c’è prezzo. Come fanno a ripagarmi di quello che ho perso in otto anni? Avevo fatto della politica la mia ragione di vita e quest’inchiesta mi ha levato tutto. Ma la prossima volta i magistrati ci pensino due volte prima di ammazzare un uomo. Anche tre volte”. Graziano Cioni, 70 anni, già senatore fiorentino ultradalemiano, per una vita assessore-sceriffo di Palazzo Vecchio, ma soprattutto l’unico in grado di contrastare la corazzata nuovista dell’ex Margherita Renzi alle primarie a sindaco di Firenze del 2009 (momento chiave per la sua scalata verso Palazzo Chigi e di questo racconto). I’ Cioni, come lo chiamano tutti a Firenze, ha passato gli ultimi anni della sua vita a difendersi dalla più infamante delle accuse e a combattere quello che lui chiama sarcasticamente “l’inquilino inglese”: il Parkinson. Una premessa: nessuna santificazione di un personaggio controverso, tanto amato quanto odiato, ma la sua storia va raccontata nel dettaglio, perché emblematica del cortocircuito di politica-informazione-giustizia e di certe toghe, che troppo spesso pensano di potersi sostituire alla politica. Cioni viene da Pontorme, minuscola frazione a due passi da Empoli. Cresce in una famiglia di “cenciai”, quelli che rivendono stracci: “Conosco bene cosa significa il detto: è come mangiare e stare a guardare. Da bambino ero talmente povero che il sabato mia sorella mi portava davanti al bar Italia di Empoli: mi mettevo alla vetrina, così almeno vedevo la gente mangiare il gelato, perché noi non avevamo i soldi per comprarlo”. E’ il seme che inciderà sul modo di fare politica del futuro sceriffo. Che fonda tutto il suo consenso sul contatto con il popolo: armeggia di continuo, fa favori, ne riceve altrettanti. Sa tutto di tutti e anche per questo tiene in pugno chi tenta di andargli contro. I suoi detrattori lo accusano di far politica in modo clientelare, borderline, e molte delle accuse che la procura gli rivolge sono dovute a questo. Ma la Cassazione, dopo 8 anni, le ha liquidate perché “il fatto non sussiste”. E lui: “Ho fatto politica a volte in modo discutibile? E’ vero – ha spiegato al Corriere Fiorentino – ma questo, in una democrazia, lo giudicano gli elettori, mica i magistrati. Io mi sono sempre candidato e ho sempre preso più voti di tutti”. Riavvolgiamo il nastro. Firenze è urbanisticamente satura. L’unica area per costruire è a nord-ovest della città, a Castello, in un mega terreno a ridosso dell’aeroporto. La proprietà è della Fondiaria-Sai di Ligresti (oggi Unipol). E’ qui che alla fine degli anni 80 la giunta Pci prepara una mega variante per edificare 4 milioni di metri cubi. Non siamo ai tempi di Renzi: nel partito c’è dibattito e si rischia una spaccatura, inaccettabile per il Pci. Tutto sembra andare pro mattone, fino a quando l’allora segretario cittadino comunista riceve una telefonata da Achille Occhetto, che in piena notte blocca tutto il piano speculativo. Lo sviluppo dell’area resta bloccato per quasi 20 anni. Fino a quando, il sindaco è Leonardo Domenici, Della Valle compra a gratis la Fiorentina fallita dell’èra Cecchi Gori. In tre anni la squadra risale in serie A. Un’occasione ghiotta per dare un futuro a quei 160 ettari, costruendoci un nuovo stadio, con cittadella commerciale e parco divertimenti, ma soprattutto con un mix di immobili pubblici e privati, tra cui la nuova sede della Provincia, guidata allora da Renzi. In quel periodo la procura di Firenze, guidata da Ubaldo Nannucci (ala sinistra di Magistratura Democratica), inciampa per caso in alcune intercettazioni, che secondo l’inchiesta fanno emergere il presunto malaffare e la presunta corruzione della giunta Domenici sullo sviluppo di Castello. Vengono travolti gli assessori Gianni Biagi (Urbanistica) e, appunto, Graziano Cioni, molto legato a Fausto Rapisarda, braccio destro del proprietario dei terreni Ligresti. Lo sceriffo viene accusato di corruzione, perché le intercettazioni sembrano dimostrare che Cioni favorisca politicamente gli interessi di Ligresti (pur non partecipando al voto sulle delibere), ricevendo in cambio un aiuto sulla carriera di uno dei suoi figli (che lavora in Fondiaria), una casa ad affitto scontato per un’amica, ma soprattutto alcune migliaia di euro come sponsorizzazione per pagare una campagna sulla sicurezza stradale e acquistare alcuni climatizzatori per un centro anziani. Apriti cielo. Cioni, siamo nel 2008, è all’apice della sua popolarità nonostante i 35 anni di carriera, anche a livello nazionale per le sue battaglie pro sicurezza in città, ed è in corsa per sfidare alle primarie l’allora semisconosciuto Renzi e l’erede designato post Domenici, Lapo Pistelli. Quell’inchiesta, con sondaggi assai favorevoli, costringe lo “sceriffo” a ritirarsi. Va registrato che, nelle intercettazioni, Cioni dice: “Se vinco io Renzi fa il vicesindaco e viceversa se vince lui…”. Quel profluvio di intercettazioni dà il colpo di grazia alla vecchia classe politica rossa, già da tempo non più in sintonia (per usare un eufemismo) con la città. Ma soprattutto toglie di mezzo il principale avversario di Renzi, che dall’inchiesta viene lambito, rischiando di essere indagato per un reato minore, inciampo che comunque gli sarebbe costato la candidatura, visto il vento giustizialista nel Pd impegnato nella guerra (via toghe) contro Berlusconi. In quelle settimane decisive di interrogatori e giornalate, a guidare la procura di Firenze arriva Giuseppe Quattrocchi, che a Lucca aveva tra i suoi pm più fidati Domenico Manzione, oggi sottosegretario del governo Renzi e fratello di Antonella, prima comandante dei vigili con Renzi sindaco e oggi capo della macchina legislativa di Palazzo Chigi. Quattrocchi, oggi in pensione e consulente per la sicurezza del sindaco Dario Nardella, è un esponente di Unicost, componente centrista e moderata, una svolta storica. Come una ventata di aria nuova viene percepita dai fiorentini la candidatura del giovanissimo Renzi alle primarie. La storia non si fa certo con i se e con i ma. La domanda, però, sorge spontanea: ma se non ci fosse stata quest’inchiesta, Renzi sarebbe diventato sindaco, trampolino per la rottamazione e la scalata verso Palazzo Chigi? Sabato mattina Renzi, nel pieno del braccio di ferro tra governo, Pd e magistratura, ha chiamato Cioni: “Graziano, sono felice sia finita”. Dopo le accuse infamanti, sciolte come neve al sole, ma 8 anni dopo.

Il giustizialista pentito. “Per me la legalità era un vessillo. Dopo 8 anni di processo ingiusto e un’assoluzione dico: che puttanata”. Cioni, ex assessore a Firenze, si confessa con il Foglio. “Non solo i magistrati: è un sistema che va cambiato”, scrive Annalisa Chirico il 13 Maggio 2016 su "Il Foglio". Graziano Cioni mi accoglie in un noto bar in piazza della Signoria. “Esiste forse un ufficio più bello?”, lo sceriffo di Firenze non ha perso l’ironia. Si accomoda sulla sedia, intrattiene i camerieri, poi alza lo sguardo e fissa la Torre di Arnolfo, in cima a Palazzo Vecchio, antica sede dei Priori delle Arti e culla del potere comunale. I’ Cioni, come lo chiamano qui, osserva i passanti, lancia un’occhiata su ambo i lati della piazza, poi punta il dito verso una stradina laterale: “In quel punto, di tanto in tanto, si piazzano gli ambulanti. Oggi non ci sono, meglio così”. L’aspetto baldanzoso di un tempo è solo un ricordo, i’ Cioni è un uomo ritratto nel corpo e nello spirito. “Viviamo un’autentica barbarie. Io ero un giustizialista convinto, che puttanata il giustizialismo. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie, la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione. La sinistra ha difeso i magistrati a prescindere dalla ragione e dal torto. Li abbiamo resi intoccabili”. Cambia todo en este mundo, cantava Mercedes Sosa. “Cambia tutto, è vero. Io sono cambiato, non so più chi sono. Quando ti capita una storia come la mia, che ti toglie il sonno e la salute, ti rendi conto che non si può ammazzare un innocente”. Cioni è stato deputato e senatore per tre legislature, nel solco del Pci-Pds-Ds, quando il Partito pretendeva la ‘p’ maiuscola. “Sarà stata pure ideologia, non lo nego, ma all’epoca il Partito era una famiglia, ti faceva commettere alcuni errori ma ti riempiva l’esistenza. C’era la passione per un’idea, l’ardore di chi voleva rivoluzionare il mondo, Ho-chi-min-min-min, Che-Guevara-che-che-che”. Cioni, torniamo all’oggi: dopo un’assoluzione in primo grado e una condanna in appello, la Cassazione ha messo la parola fine perché il fatto non sussiste. “Eppure per qualcuno resto un condannato. L’altra sera su La7 quel Di Battista, come si chiama, quello dei 5 stelle, mostra una piovra tentacolare che si estende sull’Italia intera. In corrispondenza della Toscana compare un nome, il mio, e accanto si legge condannato. Mi prende un colpo. Il conduttore non lo corregge. Li ho querelati. Non ci sto più a prendere schiaffi”. Graziano Cioni nasce, settant’anni or sono, a Pontorme, frazioncina dell’empolese, da mamma Cesarina e papà Bruno, confezionista lei e cenciaio lui. “A scuola usavo i libri fotocopiati. Quando si consumavano i gomiti dell’unica giacca che possedevo, la mamma la rattoppava, non potevamo comprarne un’altra. Lei confezionava impermeabili a domicilio, il che voleva dire che se la fabbrica chiudeva la prima a essere licenziata era lei. Il sabato mia sorella mi portava davanti al bar Italia di Empoli: mi appostavo davanti alla vetrina e osservavo la gente che mangiava il gelato, non avevamo i soldi per comprarlo. Anni dopo, quando il Partito mi mandò per la prima volta in Unione sovietica, dissi a un compagno: posso fermarmi dal gelataio? Lui rispose: il gelataio è lo stato”. Il piccolo Cioni non arriva alla licenza media. “A casa non c’erano soldi, non me ne importava una sega di studiare. Cominciai come commesso in una cartolibreria nel centro di Empoli. Un giorno il figlio del proprietario mi strappò la ramazza dalle mani per mostrarmi come dovevo spazzare. Te tu sai come si spazza? Gli dissi io. E allora fallo tu. Li mandai al diavolo”. Un caratteraccio proverbiale, quello del Cioni. “E meno male, sennò sarei già morto”. Cessata prematuramente l’esperienza da commesso, i’ Cioni s’improvvisa cenciaio insieme al babbo. “Un lavoraccio, si stava seduti per terra a sfilare le stoffe per poi rivenderle e farci pochi quattrini. D’inverno si soffriva un freddo pungente, la mamma mi aveva cucito un paio di guanti senza dita e un copricapo che lasciava scoperti naso e occhi. I geloni ti divoravano. A diciassette anni avevo un’unica certezza: quella vita non era la mia”. A Pontorme il ragazzo designato per l’incarico di segretario dei giovani comunisti è gay: quando i maggiorenti scoprono la “devianza” sessuale, cercano una soluzione alternativa, e la trovano nel Cioni notoriamente etero. “Il giorno prima mi chiamarono e mi dissero: domani tu sarai eletto. Fui sostanzialmente un ripiego per scongiurare l’insostenibile vergogna di un omosessuale”. Nel pieno del ’68 Cioni diventa funzionario di partito. “La mia prima moglie non mi vedeva mai. Ero sempre in giro, all’epoca non c’erano i cellulari e sparivo per giorni. Bisognava andare ovunque, essere ovunque. Il Partito pagava poco, perciò la domenica portavo la famiglia a pranzo da mia madre. Mangiavamo pollo e burischio, e facevamo il pieno di vettovaglie per il resto della settimana. L’acqua corrente non c’era, la trasportavamo nelle brocche. Per vedere qualche minuto di televisione in bianco e nero pagavamo cento lire alla Casa del popolo. La domenica, dopo pranzo, papà accendeva la radio e ci faceva ascoltare i’ Grillo canterino prodotto dalla sede Rai di Firenze. Era un programma irriverente con le storie di sora Alvara e del Gano di san Frediano”. Gano chi? “E’ il latrinlover fiorentino, lo sciupafemmine del romanzo ‘Le ragazze di san Frediano’ di Pratolini. Il Gano è quello sempre pronto alla conquista colla sigaretta ’n bocca e con quell’aria di nonscialanse che l’ha fatto conoscere dappertutto”. I’ Cioni è un tripudio di amarcord e consonanti aspirate, un instancabile raccontastorie; la coppia seduta al tavolo accanto lo riconosce e sorride. Nella seconda metà degli anni Settanta il leader della Federazione giovanile comunista si chiama Massimo D’Alema. “Il più intelligente di tutti. A parte lui, il resto della nostra classe dirigente peccava di autoreferenzialità. Veltroni? Uno che s’intende di cinema e di Africa, disse una volta Cossiga”. Nel 1976, all’indomani del terremoto in Friuli, Michele Ventura, segretario di Federazione del Pci fiorentino, invita Cioni al ristorante Il Cavallino in piazza della Signoria: “La direzione nazionale chiede che uno di noi vada nelle zone terremotate per rivitalizzare il Partito, ho pensato a te”. “Da buon militante io risposi: quando parto? A Gemona trascorsi un anno e mezzo tra i superstiti. All’inizio nessuno mi rivolgeva la parola, dopo tre mesi tutti mi adoravano. Mi sistemai in una roulotte, una Laika 6000, parcheggiata sotto l’unico muro rimasto in piedi. Un ex frate salesiano domandò: chi è l’idiota che ha piazzato qui la roulotte? La sposto subito, risposi io. Tre giorni dopo una scossa di assestamento fece crollare il muro”. I terremoti nella vita sono più d’uno. “E pure quando passano – prosegue Cioni – e le scosse telluriche paiono cessate, le macerie restano sul campo”. Anni Duemila, Cioni è assessore alla Sicurezza nella giunta guidata da Leonardo Domenici, gode di un’enorme popolarità e scalda i motori per la corsa a sindaco. “Un giorno entrai nella stanza di Domenici, stava facendo un solitario al computer, come al solito. Gli dissi: Leonardo, mi voglio candidare alle primarie per sindaco. Ti faranno a pezzi, tu fai paura, mi rispose lui senza alzare lo sguardo”. 18 novembre 2008, un avviso di garanzia gli viene recapitato nell’ambito dell’inchiesta sulla urbanizzazione della piana di Castello. “Il giorno prima avevo festeggiato il mio compleanno. Il giorno dopo fu l’inizio della fine”. Al centro dell’inchiesta c’è il progetto ‘Sviluppo a nord-ovest’ nell’area a ridosso dell’aeroporto. Alla fine degli anni Ottanta il Pci prepara una mega variante per edificare 4 milioni di metri cubi ma il progetto viene bloccato all’ultimo da Achille Occhetto. Vent’anni dopo la giunta Domenici ci riprova: il piano prevede uno stadio, un parco divertimenti, un mix di immobili pubblici e privati, inclusa la nuova sede della Provincia guidata da un giovane Matteo Renzi. La proprietà fa capo alla Fondiaria di Salvatore Ligresti. Secondo la procura di Firenze, Cioni avrebbe favorito gli interessi di Ligresti ricevendo in cambio un aiuto sulla carriera di uno dei suoi figli (dipendente di Fondiaria), una casa ad affitto scontato per un’amica e alcune migliaia di euro come sponsorizzazione. Otto anni di processo e un’assoluzione definitiva che non restituisce la vita strappata. “Accusato di un reato infamante come la corruzione, non potevo che dimettermi. Non credo nei complotti ma sono incuriosito dalle circostanze”. Le prove mancano, i finanziamenti provenienti da Fondiaria sono stati impiegati per una campagna sulla sicurezza stradale e per acquistare i climatizzatori destinati a un centro anziani. “Bilancio e urbanistica erano le sole materie di cui non mi ero mai occupato da assessore. Ho partecipato a una sfilza di udienze in tribunale, mi sembrava di vivere una vita non mia: com’è possibile che io mi trovi qui? Proprio io che in passato avevo denunciato due soggetti che avevano tentato di corrompermi. In tribunale ho visto sfilare decine di persone, convocate in qualità di testimoni, che non avevo mai incontrato prima”. A Cioni gli inquirenti contestano il rapporto privilegiato con Fausto Rapisarda, braccio destro di Ligresti scomparso due anni fa. “Io chiedevo soldi a tut-ti-a-tut-ti. Era il mio compito: portavo avanti decine di iniziative sociali in favore di anziani, barboni, disabili. Qualcuno mi chiamava i’ Padre Pio. Raccoglievo contributi finalizzati a migliorare la vita delle persone normali. Che cosa deve fare un politico se non questo?”. Con ogni probabilità oggi finirebbe indagato per traffico di influenze. “Pura follia. Se hanno armi spuntate, è difficile che i politici possano servire gli altri oltre che se stessi. Io le scale della Federazione le ho sempre salite poco. Io stavo tra la gente, per questo ero amato e odiato. Al momento delle elezioni ero sempre il più votato”. Le iniziative contro lavavetri e mendicanti: lei ha sdoganato il tema della sicurezza a sinistra. “La sicurezza non appartiene a questo o a quel partito, la sicurezza è buon senso. I lavavetri aggredivano le donne che portavano i bambini a scuola. I mendicanti alimentavano un racket: ogni mattina un furgoncino li scaricava e poi passava a ritirarli la sera, come fossero un pacco. L’Arci e la sinistra ortodossa mi fecero la guerra, la gente ancora oggi mi ringrazia”. A ogni tornata elettorale lei faceva il pieno di preferenze. “Mi adoperavo per tutti. Sa quante volte ho trovato un lavoretto a un disoccupato? La porta del mio ufficio era sempre aperta, fuori c’era la fila. Non me ne vergogno. Se uno ti chiede qualcosa che puoi fare, perché negarla? A me non riesce dir di no”. Gli ultimi otto anni sono scanditi dai processi, dal secondo matrimonio naufragato, dal “paziente inglese”, il morbo di Parkinson, che in certe giornate storte non gli consente di uscire di casa. I cinque figli, anzi quattro, gli stanno vicino. “Nel 1996 Valentina è rimasta uccisa in un incidente stradale. Aveva 26 anni. Tutti mi rompono i coglioni con la storia che sono dalemiano. Sapete chi fu il primo che bussò alla porta di casa mia? Il signor D’Alema. Si era fatto la strada da Roma fino alla campagna di Empoli per abbracciarmi”. Cioni fa una pausa, abbassa lo sguardo e prende fiato. “Io resto ateo e comunista. Ma dopo la morte di mia figlia ho cominciato a pormi il problema dell’aldilà. Non sa che cosa darei per poterla reincontrare un giorno”. Non c’è spazio per le parole, silenzio. “Se non fosse stato per i miei figli che in questi anni mi hanno detto: papà, devi reagire, non devi mollare, io mi sarei chiuso in casa e mi sarei lasciato morire di vergogna. A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione?”. Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono. Luglio 1992, Camera dei deputati, in occasione del voto di fiducia al governo Amato il leader socialista Bettino Craxi chiama in correità tutto il Parlamento per l’inchiesta Tangentopoli dichiarando “spergiuro” chi avesse negato di aver fatto ricorso al finanziamento illecito dei partiti. Cioni assiste silente a pochi metri da quello scranno. “Ricordo ogni istante di quel discorso. Craxi è uno dei pochi statisti che l’Italia abbia avuto. Averlo lasciato morire da reietto a Hammamet è una vergogna che ci portiamo sulla coscienza”. 1992, lei da che parte stava? “Io ero un anti craxiano di ferro. Votai per l’autorizzazione a procedere, oggi non lo rifarei. Pensavo che lui avesse torto. A distanza di diversi anni, ho capito che avevamo torto noi, lui aveva ragione”. All’epoca lei ignorava i canali di finanziamento del Pci attraverso “l’oro di Mosca”? “A Firenze il Partito si reggeva sul tesseramento e sulle feste dell’Unità. Che a livello nazionale arrivassero soldi dall’Urss, era qualcosa che s’immaginava. Oggi è una verità storica”. Lei ha militato tra gli antiberlusconiani duri e puri. “Per certi versi lo sono ancora, le leggi ad personam le ha fatte e io l’ho contrastato. Penso però che il processo Ruby sia la prova di un accanimento sfacciato nei suoi confronti: chi se ne frega di chi si scopa, peraltro se le pagava lui. Sapessero quello che facevo io a Firenze” (ride). Cioni è tra i fondatori dell’Italia dei valori. “Fui incaricato dal Partito di seguire l’iniziativa di Antonio Di Pietro, lo ricordo come un uomo autoritario. Che vuole che le dica, ero un giustizialista, che puttanata il giustizialismo”. Qual è il pensiero di un neofita del garantismo? “Le carriere di pm e giudici vanno separate. L’assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado ma il pm è ricorso in appello. Così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera. Perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare? E poi c’è l’equilibrio dei poteri. Io non ne faccio una questione di singoli magistrati: è il sistema che va riformato. Nel corso di un’udienza in tribunale ho sentito dire da un magistrato: grazie a noi si è evitata l’ennesima cattedrale nel deserto. Queste considerazioni si addicono forse a una toga?”. All’indomani dell’assoluzione definitiva D’Alema le ha inviato un sms? “No, non l’ho sentito. Mi ha telefonato il premier e l’ho ringraziato. Ho capito sin dall’inizio che era la scarpa giusta per Firenze. Dopo di me, s’intende. Quando Renzi contesta il Primo maggio o l’articolo 18, io non lo seguo, al referendum costituzionale voterò contro. Tuttavia gli riconosco le qualità del politico di razza”. I fiorentini al potere lei li ha conosciuti giovanissimi. “La Boschi l’ho incontrata quando animava il comitato elettorale di Ventura, avversario di Renzi. Al governo, dopo un’iniziale diffidenza, è riuscita a piacermi, lo scivolone su CasaPound poteva evitarlo. Luca Lotti me lo ricordo bene: è uno dei pochi cavalli pregiati di questo governo. Di lui Renzi può fidarsi. Bonifazi, il tesoriere, è uomo di retrovia, fa un lavoro necessario lontano dai riflettori. Conosco suo padre, Pci come me, da quando era segretario amministrativo dell’azienda di gas e acqua a Empoli. Ogni tanto glielo dico a Francesco: dovresti dormire di più…”. S’intuisce che l’ex apparatcik dalemiano è incuriosito dal nuovo corso renziano. “La giustizia va riformata, è un’urgenza e mi auguro che il governo agisca”. I’ Cioni compulsa lo smartphone, con l’indice fa scorrere i messaggi: “In questi anni vissuti da imputato e pensionato forzoso Facebook mi ha tenuto compagnia. Ho oltre 5 mila amici e ogni giorno scrivo un’opinione”. Tra le foto con Kofi Annan e Maria Grazia Cucinotta, sul social network i’ Cioni si descrive così: “Uno che, nonostante tutto, crede che la vita, unica e irripetibile, sia una cosa meravigliosa”.

…DI LIVORNO. Morti in corsia, scarcerata l’infermiera di Piombino: «La giustizia prima o poi arriva». Le prime reazioni di Fausta Bonino, 56enne in carcere 21 giorni con l’accusa di avere assassinato 13 pazienti con iniezioni di eparina: «È stato un incubo infinito», scrive Marco Gasperetti il 20 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". «E’ stato un incubo infinito, ventun giorni che non passavano mai. Però la speranza c’era. E adesso finalmente vedo che la giustizia sta facendo il suo corso. La giustizia c’è e prima o poi arriva». Fausta Bonino è ancora frastornata quando sale sulla Panda blu del figlio Andrea, medico, specializzando in anestesia, appena arrivato davanti al carcere Don Bosco di Pisa. «Mamma mi ha avvertito babbo, io ero in clinica e ho chiesto subito un permesso. Torniamo a casa», ha detto abbracciando la madre. Il marito lo ha chiamato Fausta dal carcere: «Renato, è arrivata la decisione del Tribunale del riesame di Firenze, l’ordinanza di custodia cautelare è stata annullata. Mi scarcerano, torno a casa. Venitemi a prendermi». Durante il viaggio da Pisa a Piombino, un centinaio di chilometri, l’infermiera ha voluto telefonare al suo avvocato Cesarina Barghini. «Grazie, ti devo la vita, sei stata magnifica, mi hai tirato fuori di lì. Ti sarò riconoscente per sempre», ha detto al suo legale commossa. E lei: «Abbiamo scritto il primo capitolo Fausta, quello più importante, ma adesso continuiamo a combattere». Il legale dell’infermiera premette che ancora deve leggere con attenzione il dispositivo ma spiega che il giudice del riesame ha annullato completamente l’ordinanza di custodia cautelare. «E’ evidente che, come avevamo dimostrato, non c’erano prove e gli indizi della procura di Livorno erano debolissimi. Addirittura c’erano stati errori nelle intercettazioni e le accuse ruotavano tutte sulla presenza della mia assistita a tutte le tredici morti, ma questa non è affatto una prova, semmai una coincidenza temporale». La procura di Livorno non ha voluto commentare. «Parleremo domani quando valuteremo le decisioni del riesame», ha detto il procuratore Ettore Squillace Greco. Durante i 21 giorni di detenzione, Fausta Bonino ha sempre professato la sua innocenza e durante l’interrogatorio di garanzia ai magistrati ha giurato sui figli che lei in quelle morti lei non c’entrava niente e che era tutto un grande e terribile equivoco. E ha anche annunciato una querela contro chi ha raccontato di averla vista fare un’iniezione a un congiunto prima della morte. «Non è vero, lo smentiscono anche i colleghi che erano presenti, quando sarà finito tutti lo denuncerò», ha spiegato. Chiusa in una cella insieme a un’altra detenuta, ogni giorno e ogni notte la Bonino ha cercato di ricordare che cosa fosse accaduto in quel reparto. Era stata lei tra le prime a parlare di morti anomale e insieme ad altre colleghe ne aveva parlato con i alcuni dirigenti dell’ospedale di Piombino, ma l’emergenza non era scattata e proprio in questi giorni anche un’indagine della Regione ha riconosciuto che al nosocomio piombinese ci sono state criticità che non hanno consentito di accorgersi di ciò che stava accadendo. Anche sull’accusa d’essere sempre presente in reparto nei tredici casi di morte sospette, l’infermiera ha dato una sua versione: «Ero l’unica in quel reparto a non fare turni di notte e dunque avevo diverse presenze dagli altri colleghi. Ma non sono stata sempre presente. In alcuni casi ero a riposo». Durante un interrogatorio aveva guardato i magistrati negli occhi con orgoglio. «Ho scelto di fare l’infermiera non per uccidere la gente ma per salvarla».

Sbattono il mostro in prima pagina, poi s’indignano e l’assolvono. Emblematico il confronto tra quanto scriveva «Repubblica» l’1 aprile e le conclusioni successive all’annullamento dell’arresto. Paradossale il monito finale: «Una brutta pagina della giustizia italiana», scrive Francesco Straface il 25 maggio 2016 su “Il Dubbio”. Da mostro a capro espiatorio. Da «infermiera serial killer» all’annullamento dell’arresto. Dalle “bombe” di eparina, iniezioni letali, alla descrizione di «indagini frettolose». La vicenda di Piombino, legata alla 55enne Fausta Bonino, arrestata lo scorso 31 marzo e scarcerata il 23 maggio dai giudici del Riesame, fotografa quanto sia rischioso esporsi in modo categorico anche su crimini inspiegabili, apparentemente senza un movente, che quindi alimentano ancora più rabbia. La Repubblica dell’1 aprile titolava, e non è uno scherzo a dispetto della data, «Fausta, l’infermiera del veleno. Ha ucciso tredici pazienti». Il 24 maggio lo stesso quotidiano sentenzia: «La giustizia impari da questi errori». 53 giorni prima pochi giri di parole anche nel testo dell’articolo. «Pazienti morti anche se potevano tutti guarire. Li hanno uccisi emorragie interne causate da un farmaco anticoagulante». Teatro dei delitti il reparto di Rianimazione dell’ospedale “Villamarina”. «È lì che dal 19 gennaio 2014 al 29 settembre 2015 sono decedute 13 persone, non malati terminali, ma pazienti fra i 61 e gli 88 anni, ricoverati per un femore rotto, una tracheotomia, una polmonite. Dodici per una emorragia non collegata alle patologie di cui soffrivano». Fausta è stata accusata di «omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà e della premeditazione, abuso di potere e violazione dei doveri inerenti a un servizio pubblico». Si puntò il dito su «una forma di depressione», peraltro smentita dall’avvocato della donna. Differenti le conclusioni alle quali sempre “Repubblica” arriva due mesi dopo, citando un adagio caro ai vecchi investigatori: «Prima di arrestare le persone, bisogna arrestare le prove» e «sottoporre ogni elemento al contradditorio tra accusa e difesa. Invece nel caso di Piombino tutto sembra essere stato disatteso». «C’è una sola certezza: almeno quattro pazienti sono stati uccisi», ovvero nove in meno rispetto al conteggio originario. I tre magistrati del Riesame – scrive il quotidiano romano – vantano una tradizione di rigore garantista, tanto che viene citato un precedente, con il no al carcere per capitan Schettino. «Non sono state piazzate telecamere nel reparto dei delitti, non c’è stato il tempo per realizzare perizie sulle cause delle morti e solo ieri la Procura ha chiesto l’esame incrociato delle telefonate». Perentoria la ramanzina conclusiva: «La cattura dell’infermiera è stata trasformata nell’operazione “killer in corsia”, uno show televisivo con tanto di inutile perquisizione negli armadietti dei farmaci a uso delle trasmissioni di cronaca nera che vanno in onda a ogni ora. Una brutta pagina della giustizia italiana, che deve servire da lezione». Anche ai giornalisti.

«Mi hanno messo le manette e rinchiusa in una cella...» «Ho subito interrogatori durante i quali cercavano di farmi dire ciò che non era vero: un colonnello del Nas mi disse: “se parla possiamo aiutarla”», scrive Simona Musco il 25 maggio 2016 su “Il Dubbio”. Il marchio era già stato apposto: Fausta Bonino, per l’intero Paese, è “l’infermiera killer”. Ma dopo 21 giorni di carcere la donna accusata di avere ucciso 14 persone iniettando dosi letali di eparina a pazienti ricoverati a Villamarina ha rivisto la luce. Scarcerata perché quell’indagine che l’aveva già sacrificata prima ancora di una condanna era lacunosa. Così, almeno, sentenzia il tribunale del Riesame, che ha smontato l’impianto accusatorio, evidenziando che l’inchiesta si fonda su indizi né gravi né precisi né concordanti. Fausta Bonino, ora, ha deciso di parlare, usando parole pesantissime: «Sono vittima di un complotto. La caposala (Virna Agostini, ndr) e la direzione sanitaria mi hanno costruito le prove addosso e hanno dato l’imbeccata ai Nas». E l’azienda sanitaria Toscana nord è già passata al contrattacco: dopo aver confermato la sospensione della donna, che voleva tornare in corsia, ha annunciato di riservarsi di intraprendere azioni legali nei confronti della donna respingendo «in toto le ricostruzioni dell’indagata». La Bonino, difesa dall’avvocato Cesarina Barghini, arrestata il 30 marzo, è stata scarcerata lo scorso 20 aprile. «Dopo 36 anni di lavoro onoratissimo sono entrata in un incubo. Mi hanno messo le manette, rinchiusa in una cella, sbattuta in prima pagina come se fossi un mostro - ha raccontato -. E soprattutto ho subito interrogatori durante i quali si è tentato di farmi dire ciò che non era vero e non pensavo affatto». E di farla coincidere col profilo del serial killer. È la stessa infermiera a mettere in dubbio la bontà della indagini. Di lei si è detto di tutto, perfino che andasse ubriaca a lavoro. Ma è una «calunnia», che tutto l’ospedale può smentire, spiega. E dice anche di voler incontrare i parenti delle vittime, «per spiegare loro che io non c’entro. E che forse neppure c’è un killer in corsia». Concetto del quale è convinta anche l’avvocato Barghini, secondo cui l’errore «è stato quello di trattare in maniera ascientifica un argomento che doveva partire, invece, proprio da basi scientifiche». Di certo, sostiene, c’è solo «un uso improprio di anticoagulanti». La Bonino, intanto, ci va giù pesante. «Forse per caposala e direzione sanitaria è stato più facile costruire le accuse su un serial killer che spiegare perché, di fronte ai casi anomali, non sono stati fatti i necessari audit clinici», ovvero quel processo che, partendo da un problema, ne analizza le cause, definisce l’obiettivo di miglioramento e gli interventi correttivi. Quando le indagini erano ormai nel vivo, nel corso di un interrogatorio, un colonnello del Nas la invitò a confessare. «Se confessa possiamo aiutarla», riferisce di essersi sentita dire. «Io sono stata accusata dalla struttura sanitaria – ha raccontato a La Nazione -. Loro hanno chiamato i Nas quando non hanno più potuto coprire delle cose che non funzionavano nell’ospedale. Questa è la nostra spiegazione. Sta di fatto che chi avrebbe trovato la famosa fialetta nel cestino dei rifiuti, con data di apertura di un mese avanti, nella stanza del paziente Carletti è l’unica persona dell’ospedale che mi accusa da subito e che ha fornito l’orario dei turni per stabilire quando eventualmente sarebbe stata somministrata l’eparina». Ma per il Riesame, in almeno otto casi non è nemmeno possibile dimostrare la somministrazione di eparina. Una cosa per lei è certa: in ospedale non era tutto rosa e fiori. «I pazienti – sostiene - arrivavano dalle sale operatorie in ipotermia perché erano sprovvisti dei lettini riscaldati». E lo shock termico, afferma il perito ematologo nominato dalla difesa, Andrea Artoni, «può provocare scoagulamento».

…DI SIENA. L’orologio, il video, le ferite. Perizie e misteri del caso Rossi. L’uomo delle comunicazioni del Monte dei Paschi di Siena morto tre anni fa. Per ricordarlo domenica 6 marzo c’è un corteo a Siena, scrive Sergio Rizzo il 5 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «A tre anni dalla morte alzate la testa, rompete il silenzio». È scritto su un manifesto che chiama a raccolta per un corteo silenzioso domenica pomeriggio a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi, chi ha a cuore la verità sulla fine di David Rossi. La moglie e la figlia del dirigente della banca senese che fu trovato morto sotto la sua finestra non si sono rassegnate. E il caso, archiviato come suicidio, tre mesi fa è stato riaperto dalla procura di Siena. Che ora ha il compito di diradare le nebbie che avvolgono l’episodio più inquietante di una storia capace di spingere il Monte sull’orlo del baratro. È mercoledì sera. A quell’ora, nelle giornate di inizio marzo, rinfresca un po’. Il torrente umano che scorre senza sosta lungo via Banchi di Sopra sfilando davanti a piazza Salimbeni si interrompe di tanto in tanto. Le stradine lì intorno sono deserte. Vicolo di Monte Pio, alle spalle del Monte dei Paschi di Siena, poi, è un budello chiuso dove non si vede mai nessuno. Ma non quel mercoledì sera di tre anni fa, il 6 marzo 2013. Ci sono delle persone, e c’è anche una macchina che sbarra l’ingresso del vicolo. Ai loro piedi, disteso per terra, un uomo sta agonizzando. È caduto da una finestra: si è buttato da solo o qualcuno l’ha aiutato? Si chiama David Rossi, ha cinquant’anni ed è un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena, che sta attraversando il momento più difficile dei suoi cinque secoli e passa di vita. Una tempesta giudiziaria la sta scuotendo dalle fondamenta. Sulla costosissima acquisizione dell’Antonveneta si allungano ombre pesanti: i magistrati sospettano reati gravissimi, dall’insider trading alla truffa. Rossi è il responsabile della comunicazione della banca, uno degli uomini che sono stati più vicini all’ex presidente Giuseppe Mussari, l’epicentro della bufera. E adesso è lì, a terra, con quegli uomini intorno. Quando arriva la polizia, però, non c’è nessuno. L’inchiesta è rapidissima e il caso viene subito archiviato: suicidio. Tutti gli indizi, secondo i magistrati, depongono in questa direzione. Rossi è stressato, il 19 febbraio hanno perquisito casa sua. Due giorni prima, ha scritto in una mail all’amministratore delegato Fabrizio Viola «stasera mi suicido sul serio aiutatemi». E poi non c’è forse quel biglietto lasciato alla moglie («Toni, ho fatto una cavolata troppo grossa...»)? Già, quel biglietto... Antonella Tognazzi riconosce la scrittura del marito. Ma c’è qualcosa che non convince. Come se quel messaggio non fosse stato scritto in piena libertà. David stava passando un brutto momento, d’accordo, ma non c’erano state avvisaglie di un gesto simile. E poi non la chiamava mai «Toni». Anche le perizie hanno lasciato molti dubbi, però sono state liquidate frettolosamente. Decisamente troppo. I familiari vogliono vederci chiaro e insieme all’avvocato Luca Goracci rimettono pazientemente in fila tutti i fatti. Il 16 novembre 2014 Antonella Tognazzi dice a Report di non credere al suicidio. E la trasmissione di Milena Gabanelli mostra un frammento del filmato ripreso dalle telecamere di sorveglianza dove si vede un oggetto, forse un orologio, che cade dall’alto sul selciato dove da qualche minuto è riverso Rossi. Un dettaglio sconcertante, e non isolato. Le perizie di parte ne sono piene. L’ora registrata nel video non corrisponde a quella effettiva: è avanti di 16 minuti. Il perito sostiene che potrebbe essere anche stato manomesso. Anche se il presunto autore non è riuscito a occultare la presenza di persone vicino al corpo di Rossi. Secondo il perito compaiono poco dopo la caduta di David e restano lì fino alla sua morte avvenuta 22 minuti dopo l’impatto. «Tali figure umane — sottolinea la relazione — non sono mai state oggetto di approfondimento, secondo quanto in atti». Così la stessa dinamica della caduta, che le perizie di parte giudicano incompatibile con l’ipotesi del suicidio. Sul cadavere vengono poi riscontrate ecchimosi e ferite tipiche di una colluttazione. Quindi c’è l’oggetto che cade, dopo diversi minuti, e nello stesso momento in cui qualcuno, sul telefonino di Rossi rimasto nel suo ufficio mentre lui è a terra esanime, digita un numero: 4099009. E che cosa cercava chi è entrato quella sera nel computer di David, usando le sue credenziali? Nell’istanza di riapertura del caso c’è la ricostruzione minuziosa dello scambio di mail avvenuto due giorni prima della sua morte fra Rossi e Viola. David gli dice che vuole parlare con i magistrati. E prima possibile. «Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani. Mi puoi aiutare?». Ma perché David ha bisogno di parlare con i pubblici ministeri? «Vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici e i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini, Mussari, Comune, fondazione, banca. Magari — scrive ancora — gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve». Passa qualche minuto, però, e cambia idea: «Ho deciso che meglio di no. Non avendo niente da temere posso tranquillamente aspettare che mi chiamino. Si può fare con calma». Calma che Rossi purtroppo non avrà.

TOGHE RENZIANE: UNA TOGA PER AMICO.

Se non puoi batterli, fatteli consulenti….

Il procuratore capo di Arezzo mentre indaga su Etruria dà pareri giuridici a Palazzo Chigi (indagherà il Csm), il pm di Siena è stato archiviato subito anche se spiegava agli avvocati la strategia processuale per proteggere il Pd nel caso Mps. Giuseppe Fanfani, avvocato di Etruria, sindaco di Arezzo e nipote di Amintore, ora al Csm..., scrive Anna Maria Greco per “il Giornale” de 18 dicembre 2015. È un magistrato l'uomo che salverà il governo dalle ire dei clienti truffati dalle quattro banche fallite. È il magistrato anticorruzione per eccellenza, Raffaele Cantone. Il campione per la trasparenza e la legalità di Matteo Renzi sarà il «supervisore» sugli arbitrati con i risparmiatori colpiti dagli effetti del decreto salva banche, cioè gli obbligazionisti secondari che sono stati equiparati agli azionisti, con gli stessi danni. «Vorrei che l'arbitrato - dice il premier - fosse gestito non dalla Consob, non da Bankitalia, ma dall' Autorità nazionale anticorruzione di Cantone, un soggetto terzo, autorevole». Nel mirino delle opposizioni, che l'accusano di conflitto d' interessi come il ministro Maria Elena Boschi e si preparano a votare mozioni di sfiducia, Renzi punta ancora una volta su una toga per restaurare la sua immagine strapazzata dalle polemiche. E assicura: «Nelle prossime ore faremo il possibile perché chi è stato truffato, ma chi è stato truffato davvero, possa riavere i soldi E faremo degli arbitrati. Da parte mia c' è l'intenzione di fare la massima trasparenza e chiarezza, il massimo rigore». Cantone risponde immediatamente all' appello, accogliendo «con piacere» la proposta. «A occuparsene - spiega - potrebbe essere la Camera arbitrale, un organismo interno all' Autorità, ma autonomo e indipendente, formato da giuristi ed esperti di altissima professionalità, a cominciare da chi lo presiede, il professor Ferruccio Auletta». La scelta del magistrato Cantone, insomma, serve a Renzi per dare «un segnale chiaro» e allontanare i sospetti di trame familiari e politiche, mentre i risparmiatori piangono sul loro gruzzolo sparito. D'altronde, non si è mai visto un premier tanto capace di avere con le toghe un rapporto intenso di «bastone e carota», di cui è grande mediatore il vicepresidente del Csm, l'avvocato Giovanni Legnini. Matteo ha imposto taglio delle ferie, abbassamento dell'età pensionabile, nuova responsabilità civile, ma non sono successi scioperi e cataclismi come all' epoca del governo Berlusconi, il dialogo è rimasto aperto. Tanto che la corrente più moderata, Magistratura indipendente, accusa la maggioritaria Unicost di essere la più renziana e di aver fatto blocco con la sinistra di Area per un patto di non belligeranza con il governo. Oltre a quelli con la categoria ci sono i rapporti diretti con i singoli magistrati. Quelli chiave spesso finiscono tra i consulenti dell'esecutivo. Si è visto con il procuratore capo di Arezzo Roberto Rossi, che mentre indaga su Banca Etruria dà pareri giuridici a Palazzo Chigi. Se ne occuperà il Csm, che proprio ieri ha accolto la richiesta del laico Pierantonio Zanettin. Per restare nel campo delle banche in crisi, anche uno dei pm titolari delle indagini su Monte dei Paschi di Siena, Aldo Natalini, è entrato nella Commissione per la riforma dei reati agroalimentari, istituita dal Guardasigilli Andrea Orlando e guidata dall' ex procuratore di Torino Gian Carlo Caselli. Il magistrato finì indagato a Viterbo per violazione del segreto istruttorio, quando fu intercettato mentre spiegava le strategie legali e i punti deboli della delicata inchiesta sulla «Banca rossa» all' amico avvocato Samuele De Santis, già finito ai domiciliari per estorsione. Gli indicava eventuali eccezioni cui fare ricorso se fossero stati coinvolti i vertici del Pd, ma in un paio di mesi fu tutto archiviato come «chiacchiere tra amici». Ora Natalini è consulente del Guardasigilli (sembra a titolo gratuito) e anche del ministero delle Politiche Agricole. C' è poi Giuseppe Fanfani, eletto laico del Csm su indicazione di Renzi e della Boschi, già sindaco di Arezzo e legale di Banca Etruria, il cui studio ora passato al figlio difende uno dei dirigenti sotto inchiesta insieme al padre del ministro per le Riforme. Inevitabile il sospetto che le conoscenze siano mirate, i rapporti utili, le promozioni manovrate per tessere una grande tela a protezione del sistema renziano di potere.

Esiste o non esiste un caso Rossi? A brutto muso glielo chiederanno lunedì: lei doveva lasciare la consulenza quando ha cominciato a indagare su Banca Etruria? Gli amici del procuratore già rispondono: «Ma di che parliamo? L’indagine era sulla banca, non certo su palazzo Chigi»…, scrive Liana Milella per “la Repubblica” del 23 dicembre 2015. Ma esiste davvero un caso Rossi? Al Csm se lo stanno chiedendo in molti. Perché i pareri forniti a palazzo Chigi dal procuratore di Arezzo che indaga su Banca Etruria erano sul ddl che riscrive il processo penale. Non sulle banche quindi. E i compensi che avrebbe percepito? Nessuno, perché il governo aveva stanziato con un decreto fotocopia per Rossi, come per altri due consulenti, 7.500 euro, «previa presentazione di relazione finale». Ma Rossi non ha mai presentato questa relazione, e quindi non ha incassato una lira. È politica o tecnica la sua nomina come consulente? È tecnica, perché durante il governo Letta, era luglio del 2013, fu l’allora capo dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi Carlo Deodato, a proporgli la consulenza. Per invogliarlo gli disse: «Tieni conto che puoi metterlo anche nel tuo curriculum e sarà un punto in più tra i tuoi titoli». In quei giorni, 5-6 luglio, dall’ufficio legislativo partì una prima richiesta sbagliata, proposero per Rossi un incarico extra giudiziario, ma furono costretti a una precipitosa marcia indietro rettificando che volevano il pm solo come consulente. Rossi avanzò la richiesta? Certo che lo fece, una prima e unica volta, precisando il 29 luglio che ipotizzava di dover andare a Roma tre volte al mese e garantendo che «non ci sono procedimenti penali in corso» tali da poter ingenerare un conflitto. Non lo ha più scritto perché non ha inviato altre missive. A Roma Rossi c’è venuto una mezza dozzina di volte. Nel frattempo, «cosa mai accaduta ad Arezzo» come ha confessato ad alcuni amici che siedono al Csm, la Banca Etruria e il suo vertice sono finiti sotto inchiesta, gli uffici perquisiti. «Quell’indagine l’ho costruita io, porta il mio nome, nessuno deve sporcare né me, né lei» avrebbe detto sempre Rossi ai suoi amici. Ma Rossi finisce “imputato” e “processato”. Lunedì 28, alle 12, il suo “interrogatorio”, alias la sua audizione, relatore un magistrato puntiglioso come Piergiorgio Morosini, ex segretario di Md ed ex gip del processo trattativa Stato-mafia. Che già affilando le domande. Sulla scrivania cresce il dossier Rossi, alimentato dall’archivio del Csm. Tutto il carteggio con palazzo Chigi, dal quale risulta evidente che la procedura seguita per Rossi non è “ad personam”, ma è quella standard. Un incarico, due proroghe, l’ultima fino al 31 dicembre firmata dalla segretaria generale Paola Piraccini il 14 maggio. Bisogna partire da qui, dal 31 dicembre, per mettere in fila i pareri discordi che sfilano al Csm. Dove c’è un’altra anima in pena, il laico del Pd Giuseppe Fanfani, ex sindaco di Arezzo per 9 anni, per giunta renziano: «Per ora posso solo dire che sono stato avvocato penalista per 42 anni. E quindi certo che conosco bene Rossi. Ma dov’è il problema?». Già, tutti si fanno questa domanda. Esiste o non esiste un caso Rossi? A brutto muso glielo chiederanno lunedì: lei doveva lasciare la consulenza quando ha cominciato a indagare su Banca Etruria? Gli amici del procuratore già rispondono: «Ma di che parliamo? L’indagine era sulla banca, non certo su palazzo Chigi». In commissione c’è gente affilata. Il presidente Renato Balduzzi, l’ex pm anticamorra Antonello Ardituro, l’avvocato forzista Pierantonio Zanettin, che ha chiesto l’apertura della pratica, Maria Rosaria San Giorgio, di Unicost come Rossi, il ferriano Lorenzo Pontecorvo. Il costituzionalista ed ex ministro Balduzzi è già netto: «Lo scriva pure, dopo questo caso deve valere la regola che i pm non devono più avere consulenze con palazzo Chigi e i ministeri. Il nostro compito è complesso, dovremo verificare e incrociare le date delle consulenze, l’oggetto delle stesse, i viaggi a Roma, i tempi». Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini sta ai fatti. Ribadisce quello che ha anticipato a Repubblica: «L’incarico era legittimo, solo di recente Rossi poteva porsi il problema della compatibilità». L’affido scade il 31. C’è già chi ipotizza che scada anche l’ipotetico trasferimento d’ufficio per lasciare il posto a un’eventuale azione disciplinare. Ma chi parla chiaro replica così: «Il Csm deve decidere subito su Rossi. Altrimenti ci accuseranno di non voler andare fino in fondo. La verità è che Rossi ci ha messo in un bel guaio». 

Il procuratore Rossi stamani al Csm «Tecnico, non consulente di Renzi», scrive Salvatore Mannino su "La Nazione" del 28 dicembre 2105. Chi lo conosce sa che lui tutto ama meno del del clamore di un mezzogiorno di fuoco. E tuttavia, stavolta neppure Roberto Rossi, procuratore capo della repubblica, può sottrarsi al clamore dell’appuntamento che stamani (ore 12 appunto) lo vedrà protagonista dinanzi alla prima commissione del Csm. Sotto i riflettori l’incarico che Rossi ricopre al dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del consiglio, quello che per chi è abituato a tagliare le cose con l’accetta lo ha scomodamente trasformato nel «consulente di Renzi». Da cui il teorema: può un consigliere del premier avere l’indipendenza per indagare sulla banca (l’Etruria ovviamente) di cui era amministratore Pierluigi Boschi, padre del ministro che di Renzi appartiene alla cerchia più stretta? Inutilmente il procuratore capo si è sgolato a precisare che il suo è un incarico puramente tecnico (dare pareri giuridici su testi di legge riguardanti il diritto e la procedura penale) e che oltretutto è stato chiamato a ricoprirlo in epoca non sospetta, cioè quando capo del governo era ancora Enrico Letta. Tutto vano, la polemica politica e di stampa è stata ripresa da un consigliere laico del Csm, il vicentino Pierantonio Zanettin, e il tutto è finito sotto la lente della prima commissione che ha aperto un’indagine conoscitiva. L’audizione del protagonista è il primo atto di una procedura che, ove Rossi non avesse rispettato in tutto e per tutto i criteri di compatibilità ambientale potrebbe portare fino al suo trasferimento d’ufficio, ipotesi alla quale finora non credono neppure le fonti informali dello stesso Csm. Fatto sta che il fascicolo c’è lo stesso e che ne è relatore Piergiorgio Morosini, togato di Area, una delle correnti di sinistra della magistratura. Fin troppo facile immaginare quel che il procuratore dirà stamani dinanzi alla prima commissione riunita in via straordinaria nel periodo di festa, tanto per chiarire qual è il clima sul caso di Banca Etruria, che da un mese ormai domina le prime pagine dei giornali. Ripeterà che non ha mai conosciuto nè Letta nè tantomeno Renzi, che era già premier quando la consulenza è stata rinnovata, che tutto è sempre avvenuto con la preventiva autorizzazione dello stesso Csm e del consiglio giudiziario della Toscana e che lui non ha mai percepito un centesimo dei 5 mila euro lordi di teorico rimborso spese perchè di spese non ne ha mai avute, visto che lavorava per email dal computer di casa: lì gli arrivavano i testi normativi su cui esprimersi e da lì dava il suo parere, senza neppure andare a Palazzo Chigi. Spiegherà anche, se glielo chiederanno, che ha ovviamente conosciuto, sia pure solo in circostanze da cerimoniale, Antonella Manzione, attuale capo del dipartimento e renziana di stretta osservanza, ma che a quel posto è stato chiamato da Carlo Deodato, il numero uno precedente, consigliere di stato di tutt’altra tendenza. Possibiel che entri anche nelle date dell’incarico, dell’inchiesta per ostacolo alla vigilanza e del modo in cui si è incrociata con un potenziale conflitto di interessi. Ebbene, Rossi chiede la prima autorizzazione al Csm nel luglio 2013 e la ottiene ad ottobre. Il fascicolo sull’ostacolo alla vigilanza, che origina dalla relazione del capo ispettore di Bankitalia Emanuele Gatti, viene iscritto nel dicembre di quell’anno, quando premier è ancora Letta, Renzi fa il sindaco di Firenze e Maria Elena Boschi è un semplice deputato. Il 21 marzo il decreto di perquisizione della sede Bpel che vale come avviso di garanzia per il presidente Giuseppe Fornasari, il direttore generale Luca Bronchi e il direttore centrale David Canestri. Renzi è in carica da un mese con la Boschi ministro ma papà Pierluigi non è ancora vicepresidente di Bpel, lo diventerà a maggio, nè tantomeno è indagato (per quanto risulta non lo è neppure adesso). Basterà a chiudere il caso Rossi? L’ultima parola tocca al Csm.

Il Csm: “Non esiste un caso Rossi”, scrive Claudia Fusani il 29 dicembre 2015 su “L’Unità”. Il procuratore di Arezzo davanti alla II Commissione: “Nessuna interferenza”. Il caso Rossi non esiste. «Allo stato degli atti», almeno. Perché «il procuratore d’Arezzo sta portando avanti l’inchiesta su banca Etruria con serenità, il necessario tempismo e l’opportuna determinazione». Perchè, per dirla con le parole di Renato Balduzzi, presidente laico della II Commissione del Csm, «il procuratore Rossi ha mostrato ampia e totale serenità nella conduzioni delle indagini che sono in corso». E, anzi, attendono ad horas la relazione del liquidatore della Banca Etruria, la fotografia ragionata dei movimenti e delle azioni che hanno portato al fallimento nel febbraio 2015, per avere il quadro completo di eventuali e nuovi profili penali. Dura oltre due ore il «processo» al procuratore di Arezzo Roberto Rossi convocato a palazzo dei Marescialli davanti alla II Commissione che deve valutare se aprire una pratica per incompatibilità ambientale del magistrato che si è trovato nella spiacevole situazione di avere un incarico da parte del governo – una consulenza per il Dipartimento affari giuridici (Dag) – a partire da luglio 2013 ed essere anche titolare dell’azione penale nei confronti dei membri del cda di Banca Etruria di cui ha fatto parte, dal 2011 a febbraio 2015, anche Pier Luigi Boschi, padre della ministra delle Riforme. Era stato il laico Zanettin (Fi) a chiedere alla Commissione di aprire la pratica. Il via libera è stato unanime e il presidente Balduzzi ha promesso di fare presto. Non si era mai visto, infatti, palazzo dei Marescialli lavorare sotto le feste. Ieri mattina era presente in sede anche il vicepresidente Giovanni Legnini. Il caso potrebbe essere di per sè semplice. Ma è complicato dalla condizione di migliaia di risparmiatori disperati perchè hanno perso il loro risparmi e dalla speculazione politica che ne è derivata per via della presenza della famiglia Boschi all’interno della storica e potente banca aretina. Il processo è iniziato a mezzogiorno. Ed è andato avanti fino ale 14 e 20. Relatori lo stesso Balduzzi, laico, ex deputato di Scelta civica, e Piergiorgio Morosini, membro togato di centrosinistra. Balduzzi racconta di aver conosciuto un procuratore «lineare, convincente, collaborativo» con la Commissione e «indipendente e imparziale in un ambito giudiziario comunque relativo a una città di provincia». Per questo «l’orientamento della commissione è quello di non aprire una pratica per incompatibilità ambientale e funzionale». La decisione finale sarà presa l’11 gennaio quando la Commissione tornerà a riunirsi dopo aver analizzato le tre relazioni della Banca d’Italia (2012, marzo-settembre 2013, novembre-febbraio 2015). «Di certo – chiosa Morosini – influisce molto nella nostra decisione il fatto che l’incarico presso palazzo Chigi scade il 31 dicembre e non risulta la richiesta di rinnovarlo». Una decisione quindi non ancora ufficiale ma più che ufficiosa. Nata da due ore di domande e risposte che sembrano aver fugato dubbi anche ai più resistenti. Prima di tutto sono state sbrogliate le date. Da cui risulta che i primi due filoni di inchiesta (ostacolo alla vigilanza e false fatturazioni) sono stati aperti «nel primo semestre 2013» quando al governo c’era Letta e la seconda relazione della Banca d’Italia, che per prima denuncia la sconsiderata gestione dell’istituto da parte dei vertici, non era stata ancora depositata. Segno che Rossi, all’epoca sostituto, si muove in autonomia e a 360 gradi senza alcun condizionamento per il fatto che a luglio 2013 viene contattato da palazzo Chigi per una consulenza al Dag. «Non abbiamo mai ravvisato profili di interferenza con uno o l’altro ministro del governo» ha precisato Balduzzi. Nelle due ore il procuratore Rossi è stato molto attento a non svelare eventuali prossime mosse. Ma ha fatto capire che «è decisiva la relazione tecnica del liquidatore per andare avanti nelle indagini». Resta il neo di non aver avuto la sensibilità politica di chiamarsi fuori dall’incarico con il governo anche se «non ha mai incassato un euro». Ma è quasi certo che Rossi resterà titolare delle inchieste sulla Banca Etruria. I primi due filoni (ostacolo alla vigilanza e false fatturazioni) sono chiusi. Restano aperti quelli per conflitto di interessi e truffa. La relazione del liquidatore potrebbe evidenziare il falso in bilancio.

Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: "Il pm che indaga su Banca Etruria era autorizzato a lavorare per il governo e il conflitto di interessi è da verificare", scrive Liana Milella il 20 dicembre 2015 su “la Repubblica”.

Pesante questa chiusura d'anno eh Legnini?

"Sì... laboriosa...".

Ammetterà che il caso Rossi dà una brutta immagine della magistratura che inciucia con la politica...

"L'incarico conferito al procuratore Rossi dal governo Letta e confermato da Renzi è pienamente legittimo ed è stato regolarmente autorizzato dal Csm. Ha ragione Rossi su questo punto. Non c'erano né impedimenti, né controindicazioni".

Ma perché un procuratore, con tante indagini da seguire, va a fare il consulente giuridico di palazzo Chigi che ha già un ufficio ben nutrito, per giunta di toghe fuori ruolo?

"L'apporto dei magistrati all'attività legislativa è sempre stato ritenuto importante e ogni governo se n'è avvalso. Il Consiglio comunque ha appena emanato norme più restrittive per autorizzare gli incarichi fuori ruolo ed extragiudiziari. Vogliamo stringere le maglie, senza rinunciare alle indispensabili professionalità dei magistrati".

Rossi autorizzato sotto Letta, prosegue con Renzi pure quando arrivano Boschi e Manzione, tutti toscani, a palazzo Chigi. Prosegue pure quando comincia l'indagine sull'Etruria. Non le pare troppo?

"Premetto che l'apertura di una pratica da parte del Csm era un preciso obbligo, tanto più dopo la richiesta formale di un consigliere. In questa vicenda il Csm deve fare una sola verifica, e cioè valutare se Rossi avesse o meno l'obbligo di astenersi dall'inchiesta o di risolvere il rapporto, peraltro tecnico e gratuito con palazzo Chigi, allorquando sono state avviate indagini su Etruria e il governo è intervenuto con il noto decreto. Prima di allora alcuna incompatibilità era ipotizzabile".

Chi avrebbe dovuto avvertire il conflitto d'interessi e fare il passo indietro, solo lui o il Csm? Tra i vostri componenti c'è l'aretino Fanfani che si fa fotografare in un convegno con Boschi e Rossi...

"Il consigliere Fanfani è un gran signore ed è una persona perbene. Non ha mai speso parole sulla decisione, peraltro vincolata, del Comitato di presidenza. Dopo di che, che ci sia o meno un conflitto d'interessi, è tutto da verificare. Lo farà la commissione presieduta da Renato Balduzzi, considerando che l'incarico di Rossi scade il 31 dicembre".

Esiste un ufficio al Csm che vigila su cosa fanno i magistrati? E perché siete di manica così larga con gli incarichi esterni?

"Sulla manica larga ho risposto. L'abbiamo già ristretta. Così come posso dirle che l'aria è cambiata sulla capacità di intervento del Consiglio in presenza su opacità o condotte che violino i doveri propri del magistrato. I diversi casi gravi recenti ne costituiscono una chiara dimostrazione".

Scusi Legnini, ma sappiamo tutti che la giustizia è lenta. Non solo colpa dei magistrati. Ma non è meglio che una toga faccia solo il suo lavoro e basta?

"La risposta spetta in gran parte al legislatore che potrebbe ulteriormente limitare con legge gli incarichi fuori ruolo ed extragiudiziari. Comunque, ripeto che il Csm ha stretto le maglie. Stiamo procedendo con l'autoriforma su questo e altri temi, benché a lei e ad altri suoi colleghi non interessi molto".

Sarà pure, l'argomento è un po' noioso. Ma perché al governo ci sono sottosegretari magistrati come Ferri e Manzione, e i ministeri sono pieni di toghe?

"Guardi, la materia sarà pure noiosa ma sta di fatto che da molti anni s'invocavano cambiamenti delle regole di funzionamento del Csm e noi ci stiamo provando fino in fondo. Proprio sui magistrati in politica, abbiamo approvato una precisa proposta rivolta al legislatore che anche in questo caso stringe le maglie".

Se fosse stato ancora in Parlamento come avrebbe votato sulla mozione di sfiducia a Boschi?

"E perché mi fa una domanda la cui risposta è scontata? Certamente avrei votato contro la mozione di sfiducia".

Lei è un esperto di economia ed è anche di sinistra. C'era bisogno di affidare gli arbitrati a Cantone per rendere giustizia ai risparmiatori truffati?

"Si tratta di un'opzione normativa che spetta al legislatore. Se ci dovessero chiedere un parere ci esprimeremo".

Torniamo ai "suoi" magistrati, il 2015 vede la procura di Milano ancora scoperta, un conflitto durissimo sui vertici della Cassazione, centinaia di nomine da fare, gli scandali Saguto e Scognamiglio. Che Natale passerà Legnini?

"Un Natale con la coscienza di aver fatto tutto quello che era possibile fare. Vuole un po' di dati? Sul primo presidente della Cassazione e sul suo aggiunto decideremo martedì, spero all'unanimità, in un plenum presieduto da Mattarella, e ciò prima della scadenza degli attuali capi. In poco più di un anno abbiamo fatto 230 nomine e non siamo in ritardo su nessuna di esse, nemmeno su Milano perché prima di poter deliberare dobbiamo aspettare i pareri dei consigli giudiziari che non sono ancora arrivati. Quanto ai casi Saguto e Scognamiglio il Csm è stato tempestivo e rigoroso".

Boschi: si riapre l'istruttoria sul pm Roberto Rossi, dopo l'inchiesta di Panorama. Il Csm vuole chiarire la posizione del magistrato che, come riportato dal nostro giornale, archiviò le accuse nei confronti del padre del ministro, scrive il 21 gennaio 2016 "Panorama". Giornata nera per il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare delle inchieste su Banca Etruria. Il comportamento del pm è finito al vaglio del Procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. E la Prima Commissione del Csm ha riaperto l'istruttoria sul suo conto. A mettere nei guai il procuratore, le indagini svolte negli anni passati su Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria. Procedimenti conclusi con due richieste di archiviazione ma di cui il pm non aveva fatto cenno nelle sue audizioni davanti ai consiglieri del Csm, ai quali aveva invece assicurato di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi". Poi è arrivato il servizio di copertina del nostro giornale, in edicola da oggi, in cui si racconta delle indagini di Rossi su Pierluigi Boschi per turbativa d'asta e estorsione, andate avanti dal 2007 sino al 2014 e che sarebbero state legate alla compravendita di una grande tenuta agricola dell'Università di Firenze. Venuto a conoscenza del nostro servizio, Rossi ha pensato di giocare d'anticipo inviando una lettera al Csm in cui ha scritto di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria, ma ha confermato di non aver mai avuto occasione di incontrarlo. Nella sua lettera Rossi parlerebbe di più procedimenti, sui quali ora la Commissione (che solo due giorni fa aveva deciso di archiviare il fascicolo che lo riguarda) intende fare approfondimenti, accogliendo all'unanimità la richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin: verificare quali vicende hanno riguardato e che esito hanno avuto. Il primo passo sarà a richiesta di informazioni e della documentazione relativa al Procuratore generale di Firenze, l'organo di vertice del distretto. "Ascoltare di nuovo il procuratore Rossi? Per ora no: lo abbiamo sentito due volte e abbiamo ricevuto da lui tre comunicazioni scritte". Lo dice il presidente della Prima Commissione del Csm Renato Balduzzi, che spiega come la lettera fatta recapitare a Palazzo dei Marescialli, in cui Rossi parla di precedenti procedimenti penali riguardanti Pierluigi Boschi dei quali aveva avuto occasione di occuparsi sia il "fatto nuovo", che ha spinto oggi la Commissione a "sospendere la delibera di archiviazione e a procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori". "Dobbiamo conoscere quali sono queste vicende e quale esito hanno avuto" dice Balduzzi, precisando che nella lettera il procuratore fornisce anche chiarimenti sul "disallineamento" tra quanto sta emergendo e le sue dichiarazioni nell'audizione di dicembre davanti al Csm. L'ottica dell'intervento della Commissione non cambia: "garantire la massima serenità alla procura di Arezzo". "Non solo Banca Etruria e massoneria deviata. Ora su papà Boschi arrivano anche le ombre, carte della DDA alla mano di aver fatto affari con uomini legati alla 'ndrangheta. A questo punto il ministro Maria Elena Boschi deve rassegnare le dimissioni, perché una pesantissima e insopportabile ombra politica aleggia sulla sua famiglia ed anche su tutte le false riforme che hanno distrutto la Costituzione repubblicana. Del resto la deforma Boschi non sarebbe mai passate senza gli accordi ed i voti del plurinquisito Denis Verdini". Lo scrive in una nota il capogruppo M5S Senato Mario Giarrusso, "dopo la pubblicazione delle notizie che nel 2007 Pierluigi Boschi portò a termine un grosso affare immobiliare insieme a un socio calabrese, Francesco Saporito, che secondo la DDA di Firenze era legato alla 'ndrangheta crotonese". Il senatore pentastellato fa riferimento ad un'inchiesta pubblicata dal settimanale Panorama. "Di questo argomento se ne dovrà far carico anche la Commissione d'inchiesta parlamentare antimafia", conclude il capogruppo M5S. (ANSA)

"Non conosco papà Boschi". Ora le bugie inguaiano il procuratore di Etruria. Spunta una lettera in cui il procuratore Rossi ammette di aver indagato sul padre della Boschi. Il Csm riapre l'istruttoria. Nelle sue audizioni il pm aveva detto di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi", scrive Sergio Rame, Giovedì 21/01/2016, su "Il Giornale". Adesso il procuratore di Arezzo Roberto Rossi è davvero nei guai. La Prima Commissione del Csm ha, infatti, riaperto l'istruttoria a suo carico. La decisione è stata presa dopo aver letto il contenuto di una lettera scritta dallo stesso pm che ammette di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Pierluigi Boschi. Pur confermando di non aver mai avuto l'occasione di incontrare di persona il padre del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi, nelle audizioni al Csm Rossi non aveva parlato di queste inchieste e si era limitato a dire di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi". Nell'audizione del 28 dicembre 2015, Rossi spiegò di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi, il signor Boschi, i fratelli, i figli; non sapevo neanche come fosse formata. Ho conosciuto l'attuale ministro Boschi in un'occasione pubblica, istituzionale quando era parlamentare, come ho conosciuto tutti i parlamentari, ma non frequento nessun politico, non ho con loro nessun tipo di frequentazione". Davanti al Csm il procuratore disse di non conoscere "neppure la composizione del nucleo familiare: ho appreso dai giornali che aveva un fratello e una cognata che lavoravano in banca ma non ne ero a conoscenza. Perché altrimenti sembra che io indago tutti tranne il padre del ministro: è il contrario, io non indago nessuno tranne i vertici decisionali della Banca dell'Etruria". Una bugia che gli si ritorce contro come un boomerang. Rossi entrò in contatto con papà Boschi in occasione di una vicenda giudiziaria del 2010, quando l'ex presidente di Banca Etruria fu indagato ad Arezzo per reati di turbativa d'asta ed estorsione. A proscioglierlo, per ben due volte, ci pensò Rossi, al tempo semplice pubblico ministero. Diventato procuratore capo ad Arezzo, si è poi messo a indagare sul dissesto di Banca Etruria e, quindi, sul vice presidente Boschi. La vicenda, che fino al 2014 ha coinvolto Boschi senior e altri otto indagati, riguardava la compravendita, nel 2007, di una grande tenuta agricola posseduta dall'Università di Firenze. "Malgrado il proscioglimento - scrive Panorama - restano senza risposta due domande, relative ai 250mila euro in contanti che un successivo acquirente di parte della tenuta affermò di aver personalmente consegnato a Boschi". Una certezza, però, l'abbiamo: Rossi ha mentito quando ha detto al Csm di non aver mai conosciuto il padre della Boschi. Una bugia che ora fa tornare sui propri passi la Prima Commissione del Csm che, appena due giorni fa, aveva deliberato una proposta di archiviazione. Le voci su una possibile riapertura del fascicolo che lo riguarda hanno spinto Rossi a scrivere a Palazzo dei Marescialli. Nella sua lettera Rossi parlerebbe di più procedimenti, sui quali ora la Commissione intende fare approfondimenti: verificare quali vicende hanno riguardato e che esito hanno avuto. Il primo passo sarà la richiesta di informazioni e della documentazione relativa al procuratore generale di Firenze, l'organo di vertice del distretto.

Tra i guai del pm di Arezzo spunta pure una garçonnière. Rossi usava un appartamento finito in un'inchiesta. I vicini: "Quell'andirivieni di ragazze era fastidioso", scrive Stefano Zurlo, Martedì 22/11/2016, su "Il Giornale". Un appartamento con vista sulle colline della Val di Chiana. Roberto Rossi, il procuratore dell'inchiesta sul crac di Banca Etruria, s'intratteneva in quei locali, rifiniti con una certa eleganza, in compagnia delle sue amiche. Una storia andata avanti a lungo, un anno e mezzo circa fra il 2010 e il 2011, tanto che alcuni condomini si erano lamentati con gli amministratori della società proprietaria della casa. «Quell'andirivieni di ragazze non ci andava a genio», racconta al Giornale Emiliano, uno dei sedici abitanti del complesso residenziale di Poggio Fabbrelli, alle porte di Arezzo. «Noi volevamo tranquillità e invece Rossi arrivava per primo, poi le sue amiche, una in particolare a bordo di una Mercedes». Elisabetta, che abita al piano terra, elabora immagini più defilate: «Ho capito che era il procuratore di Arezzo perché avevo visto le sue foto sui giornali. Ma ho in mente solo incontri fugaci sul camminamento di cotto affacciato sulla valle: Buongiorno e buonasera, nient'altro». Anzi, discrezione e silenzio. La garçonièrre del magistrato era un argomento di dominio pubblico o quasi. E a suo tempo è finita dentro un fascicolo molto più corposo che da Arezzo è partito per Genova, competente ad indagare sui reati commessi o subiti dalle toghe toscane. L'interminabile, lunghissima inchiesta del pm genovese Francesco Pinto, una delle colonne portanti di Magistratura democratica in Liguria, viaggia verso l'archiviazione per Rossi il cui nome sarebbe stato speso a sua insaputa da un poliziotto infedele, Antonio Incitti, all'epoca braccio destro del procuratore, per spremere 50mila euro a un imprenditore. Ma la vicenda di Poggio Fabbrelli resta un episodio sconcertante, da valutare attentamente sul piano disciplinare anche perché nel periodo in questione Rossi, che aveva le chiavi di quell'abitazione, non avrebbe mai pagato le spese condominiali, il canone d'affitto e neppure le bollette delle utenze. Un conto di alcune migliaia di euro. Una cifra saldata dagli amministratori della Italcasa Costruzioni srl, Paolo Casalini e Marta Massai, in quei mesi casualmente fidanzata di Antonio Incitti. Prima, naturalmente, di rompere fragorosamente quell'unione e di correre a denunciare quel torbido groviglio di rapporti, favori, scelte orientate, scoperti dal Giornale. Rossi nei mesi scorsi è stato al centro di una lunga querelle davanti al Csm perché non avrebbe segnalato il potenziale conflitto di interessi fra la sua consulenza ai Governi Letta e Renzi e l'indagine su Etruria, ai cui vertici c'era il padre del ministro Maria Elena Boschi. Non si sa invece se il Csm abbia mai affrontato quest'altro capitolo assai più imbarazzante: un magistrato deve maneggiare con estrema cautela tutti i rapporti e deve tutelare in ogni modo la propria onorabilità, evitando anche solo l'ombra di possibili ricatti e voci velenose. Quel che accadeva invece alle porte di Arezzo era noto a un grappolo di persone e nella primavera del 2012, quando la coppia Incitti-Massai andò in pezzi, entrò nei verbali raccolti dagli agenti della polizia aretina. Non è chiaro se la procura generale di Firenze abbia esercitato l'azione disciplinare, peraltro facoltativa e non obbligatoria, e se la relativa pratica sia mai giunta a Roma, a Palazzo dei Marescialli, e sia stata messa in stand by o archiviata. Certo nel 2012 Casalini e Massai raccontano che Incitti ha chiesto loro un appartamento per il «capo» e aggiungono di essere stati loro a pagare tutto quello che c'era da pagare. Finché i mugugni di qualche condomino e l'opportunità di affittare finalmente quei novanta metri quadri non li hanno convinti, alla fine del 2011, a chiudere il rapporto con quel personaggio ingombrante. Che intanto ha fatto carriera, nel 2014 è diventato formalmente il procuratore della Repubblica, ha condotto la delicatissima indagine sul disastro della banca che ha portato via i risparmi di migliaia di italiani.

Pronta la smentita nell'ambiente giornalistico fiorentino. La presunta garconniere del procuratore era in realtà in uso a un'amica della costruttrice. I verbali dell'inchiesta Incitti smentiscono le rivelazioni. Parla l'agente immobiliare cui era stato affidato l'appartamento: Rossi non c'entra, scrive Salvatore Mannino il 23 novembre 2016 su “La Nazione”. Sarà stata anche la garconniere del procuratore Roberto Rossi, come sparava ieri in prima pagina il Giornale, ma l’agente immobiliare che ne aveva la disponibilità dice in un verbale d’interrogatorio che era in realtà in uso ad un’amica della titolare di Italcasa che l’aveva costruita. Il caso scoppia di buon mattino quando arrivano in edicola i quotidiani. Quello diretto da Alessandro Sallusti ha un pezzo in cui si scrive a chiare note e con grandi evidenza che c’era un appartamento del complesso di Poggio Fabrelli, nel comune di Monte San Savino, di cui aveva le chiavi proprio il procuratore, che ne avrebbe usufruito per i suoi incontri personali. Il Giornale precisa che il tutto origina dall’inchiesta avviata a suo tempo su Antonio Incitti, poliziotto all’epoca in servizio presso la procura e che fu poi accusato di concussione dall’allora procuratore capo Carlo Maria Scipio: aveva avvicinato un imprenditore chiedendogli un prestito di 50 mila euro e millantando l’amicizia con Scipio e Rossi. Se mai le dovesse capitare di avere guai giudiziari, aveva fatto intendere, loro saranno comprensivi. TANTO comprensivi che Scipio indagò subito Incitti e mandò le carte alla procura di Genova competente anche per i reati in cui sono parte lesa i magistrati del distretto toscano. Bene, La Nazione è in grado di svelare adesso quanto dichiarò a suo tempo l’agente immobiliare che Italcasa di Marta Massai (la moglie di Incitti) aveva incaricato di trattare gli appartamenti. In attesa di venderli, spiega nelle sommarie informazioni testimonali rese davanti alla polizia giudiziaria, uno degli alloggi fu temporaneamente dato in prestito a un’amica di Marta Massai di cui non ho mai saputo chi fosse. Deve essere proprio quello di cui parla il Giornale perchè le lamentele dei vicini per il viavai molesto sono esattamente le stesse. Come l’onere di cui si dovette caricare l’agente per pagare le spese delle utenze domestiche. Credo, dice lui a verbale, che la Massai avesse ceduto l’uso dell’appartamento all’amica a titolo gratuito perchè riscaldamento e luci le pagai io, anzi l’agenzia. Di più, l’intera storia ripresa ora dal Giornale era già stata esaminata dal Csm quando Rossi fu nominato procuratore e il consiglio l’aveva giudicata inattendibile, tanto da procedere all’affidamento dell’incarico e perdipiù ad Arezzo, cioè nella città del presunto scandalo. Il capo dei Pm di palazzo di giustizia spiega in un comunicato che le notizie pubblicate sono «destituite di ogni fondamento» e annuncia querela per diffamazione nei confronti del quotidiano. «Non posso fare a meno di rilevare per la sua gravità l’accostamento fra me e un agente di polizia (Incitti Ndr) nei confronti del quale l’ufficio oggi da me diretto aveva svolto indagini che ne avevano comportato l’allontanamento». Appare evidente, insiste il procuratore, la pretestuosità della notizia, «che non trova spiegazione se non nel tentativo di delegittimare e screditare le indagini». Quelle su Banca Etruria, ovviamente, di cui nei giorni scorsi era stata annunciata «l’imminente conclusione». Salvatore Mannino

Toghe renziane. Un’indagine. Da Firenze al governo. Chi sono i pm con cui il premier se la intende, scrive Leopoldo Mattei il 27 Marzo 2015 su “Il Foglio”. A Matteo Renzi le toghe non sono mai piaciute: quelle dei baroni universitari le ha colpite a raffica nella battaglia per il merito, mentre quelle delle procure continua a bersagliarle un giorno sì e l’altro anche (vedi sforbiciate alle ferie e responsabilità civile dei magistrati, approvata dopo trent’anni). Nel secondo caso, però bisogna fare un distinguo: le toghe rosse, quelle di Magistratura democratica nel cui mirino è finito a più riprese Silvio Berlusconi, piacciono ancora meno al premier. Il motivo? “Berlusconi va sconfitto politicamente, è assurdo aspettare di vincere confidando nelle procure”. Meglio dialogare, dietro le quinte a cena o tramite fidati mediatori, con i pm di Magistratura Indipendente (area centrodestra) o, ancora meglio, con quelli di Unicost, moderati e centristi, partendo da quelli fiorentini e toscani. Un po’ di nomi? Il magistrato forzista Cosimo Maria Ferri, già leader di M.I e in ottimi rapporti con Renzi, è rimasto saldamente sulla poltrona di sottosegretario alla giustizia, dove sedeva già ai tempi di #Enricostaisereno. Ferri fece infuriare Renzi una sola volta, quando venne pescato a mandare sms con i nomi da votare per il Csm: traballò, ma alla fine rimase seduto. Di Unicost è anche il sottosegretario all’interno Domenico Manzione, che in un’intervista a Report confessò candidamente di essere stato nominato nel governo Letta “su indicazione di Renzi, a cui sono legato da rapporti di amicizia e di stima”. Manzione (Domenico) e la sorella Antonella, già comandante dei vigili a Palazzo Vecchio e oggi a capo dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi, sono due personaggi importanti per leggere la ripida ascesa dell’ex sindaco. Entrambi sono infatti da sempre in ottimi rapporti con Giuseppe Quattrocchi, anch’esso esponente di spicco di Unicost. Facciamo però un salto indietro. A metà 2008, dopo la lunga gestione di Ubaldo Nannucci (corrente sinistrorsa), a dirigere la procura fiorentina arriva, da Lucca, il dottor Quattrocchi. Cinque mesi dopo scoppia il terremoto giudiziario sulla maxi operazione immobiliare di Castello: Renzi è ancora presidente della provincia, ma già candidato alle primarie a sindaco del Pd. Una missione impossibile per il futuro rottamatore. Il suo principale avversario, lo sceriffo Graziano Cioni, viene travolto dallo scandalo con l’accusa di corruzione. Renzi finisce nelle intercettazioni e viene a lungo interrogato da Quattrocchi, al quale riesce evidentemente a chiarire tutto, mentre indagini e intercettazioni fanno piazza pulita della vecchia classe politica diessina. E poco importa se, cinque anni dopo, Cioni verrà assolto dalla pesantissima accusa. Nei mesi scorsi, in pensione dopo 45 anni di onorata carriera, Quattrocchi è stato nominato consigliere per la sicurezza e anti degrado dal sindaco Dario Nardella, successore di Renzi, che a suo tempo aveva nominato Pier Luigi Vigna, prima che se ne andasse sbattendo la porta: “Matteo usi la poltrona di sindaco come trampolino di lancio”. Quella di Quattrocchi, archiviata l’era Renzi, non era una nomina scontata. Eppure è arrivata, e più d’uno a Firenze ha storto il naso bollandola come “inopportuna”. Nel frattempo, al Palagiustizia di Novoli, è arrivato da Palmi un altro procuratore capo: Giuseppe Creazzo, anche lui esponente di rilievo di Unicost. Due pm che un anno fa avevano aperto un fascicolo senza ipotesi di reato sulla casa del centro di Firenze dove Renzi aveva trasferito la residenza (l’affitto lo aveva pagato per mesi il miglior amico del premier, Marco Carrai). Era il 20 marzo 2014. Di quel fascicolo, un anno dopo, non si sa molto.

Denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo Martedì, 05/01/2016, su “Il Giornale”. Una denuncia scritta contro due pm e il gip che hanno archiviato il "caso" delle spese pazze di Matteo Renzi quando era presidente della Provincia di Firenze. A presentare l'esposto alla procura della Repubblica di Genova contro il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, il sostituto Luca Turco e il Gip Alessandro Monetti, è Alessandro Maiorano, dipendente della provincia fiorentina diventato il "grande accusatore" del premier. Maiorano scrive nella denuncia che "sussistono tutti gli estremi affinché l'Autorità adita proceda ai dovuti approfondimenti per comprendere se i magistrati indicati in epigafe abbiano omesso atti d'ufficio o abusato di atti d'ufficio in danno dello scrivente e comunque a vantaggio del Renzi Matteo". In poche parole, le colpe dei magistrati sarebbero quelle di aver chiuso più di due occhi sulle accuse, presentate dallo stesso Maiorano a più riprese e sostenute da alcuni documenti, contro il segretario del Pd. Il quale sarebbe colpevole di aver utilizzato in maniera illecita i fondi della Provincia a sua disposizione. Il primo agosto del 2014, l'ex dipendente della Provincia presentava alla procura di Firenze una denuncia contro il Presidente del Consiglio per i reati di "associazione a delinquere, corruzione e ricettazione nonché per consequenziali fattispecie di falso in atto pubblico". Per sostenere le accuse, al fascicolo erano state allegati i documenti relativi alle spese sostenute da Renzi in quegli anni alla guida dell'ente provinciale, "dall'abbonamento Sky - si legge nella denuncia - alle somme incredibili in pranzi, cene, colazioni e cappuccini". Inoltre, ci sono anche i "9 milioni di euro succhiati da Florence Multimedia": "Mai nessuno - si legge nell'esposto - a cominciare dalla Procura di Firenze, si è mai interessato di approfondire onde accertare se l'operazione nascondesse o meno una colossale ipotesi di sperpero di denaro pubblico". Quello di cui sarebbero colpevoli i pm e il gip di Firenze, è quello di non aver voluto aprire una indagine per stabilire "se le somme regolarmente sborsare con riferimento a spese realmente sostenute, fossero suscettibili di rientrare in quelle occorrenti per il perseguimento di finalità istituzionali". Non finisce qui. Perché Maiorano fa notare che le sue denunce furono presentate quando "il Comandante Interregionale della Guardia di Finanza, cui sempre venivano affidate le indagini, era il Generale di Corpo d'Armata, Michele Adinolfi", con il quale Renzi aveva "dimistichezza". Dimistichezza "dimostrata" dalle telefonate del Generale Adinolfi, intercettate, finite sui giornali e che ne hanno determinato le dimissioni anticipate. Anche in questo caso, Maiorano aveva chiesto alla procura di indagare per capire se questa "dimistichezza avesse potuto incidere sull'inerzia della Procura della Repubblica" in merito alle denuncie da lui presentate contro Renzi. Tra le carte presentate da Maiorano contro il segretario Pd, anche un richiamo alla figura di Marco Carrai, amico di Renzi, affittuario nell'appartamento un cui viveva anche il premier, e presidente dell'Aeroporto di Firenze e amministratore della "Firenze Parcheggi" (a partecipazione comunale). Situazione che - secondo Maiorano - permetterebbe di parlare di conflitto di interessi. Sulle spese di Matteo Renzi alla Provincia di Firenze ha indagato anche la Corte dei Conti. Che ha scritto nero su bianco come alcune spese di ristorazione (10.190 euro) tra il 2007 e il 2009 fossero "giustificate con motivazioni del tutto generiche". Senza contare quell'abbonamento Sky (1.614 euro) "ad uso esclusivo del suo presidente Renzi, ritenuto non inerente all'attività istituzionale dell'ente". Nonostante ciò, scrive Maiorano nella denuncia depositata questa mattina, la procura "a distanza di un anno, senza aver fatto nulla, senza aver compiuto un atto di indagine ed anzi facendo qualcosa di molto più grave, chiedeva l'archiviazione" del caso. Senza mettere bastoni tra le ruote al Rottamatore. E per questo, oggi, è scattata la denuncia. Per accertare se i pm e il gip abbiano avuto, o meno, un occhio di riguardo nei confronti dell'attuale premier.

Inchiesta a Firenze, i pm toscani aprono la caccia al premier Matteo Renzi, scrive Giacomo Amadori il 29 agosto 2015 su “Libero Quotidiano”. Negli uffici della procura di Firenze iniziano a essere un po' troppi i fascicoli aperti su questioni legate più o meno direttamente al premier Matteo Renzi. Una specie di lento accerchiamento che certo non lascerà sereno il presidente del Consiglio.  A luglio è stato iscritto un fascicolo nel registro delle notizie di reato, in questo caso rifiuto e omissione di atti d' ufficio, a carico di ignoti, il cosiddetto modello 44. Il pm fiorentino Rodrigo Merlo ha il compito di verificare se le indagini su Renzi siano state ostacolate o rallentate dai vertici della Guardia di finanza. Infatti in alcune intercettazioni ordinate dalla procura di Napoli e pubblicate dal Fatto Quotidiano, il generale Michele Adinolfi, dal settembre 2011 al marzo 2015 al vertice del comando interregionale delle Fiamme gialle di Emilia Romagna e Toscana, è risultato in grande confidenza sia con Renzi che con altri personaggi della sua cerchia più ristretta. Adinolfi, a quanto risulta a Libero, non teme verifiche sul proprio operato e ai suoi più stretti collaboratori ha ricordato come il comandante interregionale non abbia poteri di polizia giudiziaria e quindi non potesse interferire sulle indagini. Il fascicolo ha preso avvio da un esposto di Alessandro Maiorano, dipendente comunale fiorentino che l'ha giurata all' ex sindaco Renzi per un presunto caso di mobbing. Maiorano dopo aver letto il Fatto, assistito dall' avvocato Carlo Taormina, ha presentato l'esposto contro Renzi, Adinolfi e l'ex procuratore di Firenze Giuseppe Quattrocchi e, ottenuta l'apertura del procedimento, ha passato la notizia al quotidiano di Marco Travaglio che l'ha rilanciata con entusiasmo. Adinolfi, da parte sua, ha dato mandato all'avvocato Enzo Musco di querelare Maiorano. Sino ad oggi le altre denunce del dipendente comunale, attualmente imputato per diffamazione ai danni del premier, erano finite nel calderone dei fascicoli modello 45, cioè quelli senza indagati né ipotesi di reato. Un escamotage che, come vedremo, non significa però che le indagini non vengano effettuate. Al contrario, almeno inizialmente, queste iscrizioni permettono di procedere a fari spenti, senza rischi di fughe di notizie e con la possibilità di archiviare il fascicolo (nel cestino della carta straccia) senza bisogno dell'autorizzazione di un giudice. Lo stesso che a Genova, per esempio, non ha ancora accolto la richiesta di archiviazione presentata a marzo dai pm per Tiziano Renzi, il babbo del premier indagato per bancarotta fraudolenta. Taormina, però, non canta vittoria: «L' iscrizione a modello 44 è l'ennesima stranezza, infatti io nel mio esposto ho indicato nomi e cognomi precisi dei presunti responsabili. Certo le altre volte era andata anche peggio». Per esempio non erano state accolte le ipotesi di associazione per delinquere, peculato, corruzione e ricettazione prospettate da Taormina per le presunte spese pazze di Renzi ai tempi in cui era il presidente della Provincia. Per questo l' avvocato la scorsa primavera ha scritto al Consiglio superiore della magistratura, alla Procura generale della Corte d'appello di Firenze per chiedere l' avocazione e l' esame degli atti, alla Procura generale della Cassazione titolare dei provvedimenti disciplinari contro i magistrati e alla procura di Genova per chiedere di verificare eventuali abusi d' ufficio da parte delle toghe fiorentine, legati alla mancata applicazione delle norme relative alle iscrizioni nei registri della procura. Viste queste iniziative, forse non è un caso che la denuncia di Maiorano, dopo essere passata da Genova (competente per l'ex procuratore Quattrocchi, oggi consulente di Palazzo Vecchio) ed essere ritornata in Toscana per la parte riguardante i finanzieri, sia stata iscritta questa volta a modello 44. In realtà gli approfondimenti della procura di Firenze condotta da Giuseppe Creazzo procedono, seppur lontani dai riflettori: «Non parlo delle indagini in corso» è il mantra del magistrato. Neanche di quella scaturita da un'inchiesta di Libero sull' appartamento di via degli Alfani 8 preso in affitto da Marco Carrai, amico del premier e fundraiser degli esordi, di cui il premier a settembre è stato testimone di nozze. In quel piccolo attico Renzi ha mantenuto la residenza dal 14 marzo 2011 al 22 gennaio 2014 quando era il sindaco di Firenze. Il premier prima aveva trasferito i suoi bagagli in una mansarda a 400 metri dal nuovo ufficio, ma la pigione di circa mille euro al mese era troppo onerosa per le sue tasche, già appesantite da due mutui. E così nel marzo 2011 Carrai, più benestante dell'amico, mise a disposizione di Renzi l'appartamento di via degli Alfani, facendogli risparmiare circa 34 mila euro. Nel marzo del 2014 Libero informò i suoi lettori di questa vicenda e pubblicò anche il contratto di locazione. In quegli articoli elencammo pure tutti gli incarichi che Carrai aveva ricoperto al fianco dell'amico Matteo e, in particolare, approfondimmo le procedure dell'appalto per le audio-video guide di Palazzo Vecchio, affidate alla Crossmedia, una società riconducibile a Carrai. Immediatamente Maiorano, che aveva già sollevato dubbi sui cambi di residenza dell'allora sindaco, con Libero sottobraccio si recò in procura dove presentò un esposto con allegati due articoli del nostro giornale. L'allora procuratore facente funzioni, Giuliano Gianbartolomei, fece iscrivere la notizia a modello 45. Ad aprile si insediò Creazzo e subito dovette fare i conti con il delicato incartamento. Qualcosa si è mosso dieci mesi dopo, nell' inverno scorso, quando alle 16 circa del 9 febbraio 2015 tre finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Firenze si sono presentati in Comune con un mandato dei pm fiorentini Luca Turco e Giuseppina Mione «per dare esecuzione agli accertamenti istruttori» come si legge nel «verbale delle operazioni compiute» nell'ambito del procedimento penale numero 984/14. A guidare la missione, il comandante del gruppo della Guardia di Finanza di Firenze, il tenente colonnello Pasquale Sisto. Il motivo della visita? «L' acquisizione di specifiche informazioni concernenti le eventuali nomine e incarichi di diretta investitura politica da parte del Comune di Firenze che abbiano riguardato dal 2010 a oggi la persona di Carrai Marco». Dietro alla locuzione «di diretta investitura politica» si nasconde il nome di Renzi. Stupisce che i finanzieri si siano presentati in Comune con un atto così mirato, mentre il fascicolo continua a essere senza ipotesi di reato né indagati. Le motivazioni? Forse evitare fughe di notizie, probabili con il cambio di registro. Oppure i magistrati, pur svolgendo le doverose verifiche, all' epoca non avevano ancora deciso che tipo di reato si potesse ipotizzare nel caso dell'affitto pagato da Carrai al premier. Qualunque sia la ragione, negli ultimi mesi la procura ha inviato i suoi emissari a Palazzo Vecchio per almeno altre due vicende giudiziarie relative alla gestione dell'allora sindaco Renzi: presso la direzione mobilità e infrastrutture sono stati acquisiti gli atti riguardanti la pedonalizzazione di piazza del Duomo a Firenze, mentre nel luglio scorso è stato sequestrato il computer di Elena Toppino, dirigente comunale del servizio sport. Quest' ultima indagine riguarda la gara del 2010 con cui venne affidata una piscina comunale (presidente della commissione giudicatrice era Toppino) a un'associazione di imprese a cui partecipava Franco Bonciani, vecchia conoscenza di casa Renzi: è stato segretario del Pd di Rignano sull' Arno, dopo esser stato il vice di babbo Tiziano nella locale sezione del partito. Si è autosospeso il 1° agosto, dopo che la Nazione e Libero hanno svelato i particolari del suo coinvolgimento nell' inchiesta. Lui e gli altri indagati sono accusati di turbativa d' asta. Il fascicolo su piazza Duomo, invece, ipotizza l'abuso d' ufficio per le pratiche che i dirigenti firmarono dopo che l'ex Rottamatore annunciò il 21 settembre 2009 la pedonalizzazione di una delle piazze più belle del mondo per il successivo 25 ottobre. Per i tempi ristretti, il Comune varò un'ordinanza di somma urgenza per aggirare le procedure e permettere il completamento dell'opera nei tempi annunciati, esternalizzando lavori e servizi. Per nessuna di queste vicende Renzi risulta essere iscritto sul registro degli indagati.

Non indagano su Matteo Denunciati i pm di Firenze. Maiorano è il grande accusatore del segretario Pd La Procura ha ignorato le sue dettagliate denunce, scrive Luca Rocca il 30 aprile 2015 su "Il Tempo". Alessandro Maiorano, il «grande accusatore» di Matteo Renzi, riparte all’attacco. E di fronte a una presunta inerzia della procura di Firenze sulle sue denunce contro il premier, si rivolge alla procura generale preso la Corte d’appello della stessa città, alla procura generale presso la Corte di Cassazione e al Csm, affinché valutino la possibilità di avocare le indagini e avviare «eventuali azioni disciplinari o penali». I fatti. Nei mesi scorsi Maiorano ha presentato due esposti alla magistratura. Il primo sull’affitto della casa di Renzi in via degli Alfani, pagato, per tre anni, da Marco Carrai, manager comunale e amico dell’allora sindaco di Firenze; il secondo relativo alle presunte «spese pazze», 30 milioni di euro, che Renzi avrebbe fatto da presidente della Provincia. Sui due casi la magistratura ha aperto altrettanti fascicoli «modello 45», quello su notizie non rivestenti natura di reato. Rivolgendosi ai tre organi della magistratura, Maiorano, assistito dall’avvocato Carlo Taormina, premette che, avendo agito in qualità di semplice cittadino e non avendo, dunque, diritto di essere formalmente informato del prosieguo delle indagini, potrebbe essere all’oscuro su eventuali sviluppi investigati. Detto ciò, l’accusatore del premier ricorda che, quanto al primo esposto sull’affitto pagato da Carrai e presentato il 13 marzo 2014, vengono rivelati i «vantaggi economici» di Carrai «che potevano far ipotizzare un rapporto corruttivo». Il riferimento è soprattutto «alla sua presidenza della Società Aeroporto di Firenze, a partecipazione comunale» nel momento in cui Renzi era sindaco; all’assegnazione, senza bando di gara, della «fornitura di audio guide nei musei fiorentini a favore della C&T dello stesso Carrai»; e alla «ristrutturazione di Eataly Firenze» di Oscar Farinetti, definito «sostanziale alter ego di Renzi». Per Maiorano si tratta di un «circuito rispetto al quale l’esigenza di stabilire se il tutto sottendesse ad una manovra corruttiva ad ampio raggio, era ed è pressante». Sta di fatto che, secondo il dipendente comunale, ci si trova di fronte a «fatti nei quali la logica corruttiva (…) risultava e risulta davvero indiscutibile» e «l’iscrizione a modello 45 avrebbe costituito lo strumento per non iscrivere il Renzi e i suoi eventuali correi nel registro delle persone sottoposte a indagini». Venendo alla denuncia sulle presunte «spese pazze», presentata l’1 agosto 2014, Maiorano sottolinea che nell’esposto si parla di «associazione per delinquere finalizzata alla consumazione di un numero indeterminato di delitti contro la pubblica amministrazione ed in particolare di peculato, allorché il Renzi era presidente della provincia di Firenze»; di «molteplici delitti di peculato (…) riguardo a spese non attinenti a finalità istituzionali, allo sfruttamento della Florence Multimedia, alla strumentalizzazione della iniziativa denominata Genio Fiorentino, alla ricettazione di somme di denaro percepite dal Renzi dal noto Luigi Lusi», ex tesoriere della Margherita condannato per appropriazione indebita. Una denuncia, insomma, definita dallo stesso Maiorano «assolutamente e indiscutibilmente particolareggiata», corredata da «completa documentazione» sulle spese incriminate e la «dimostrazione delle modalità con le quali le somme a vario titolo erogate dalla provincia al suo presidente, venivano spese». Per Maiorano, se anche in questo caso è stato aperto un fascicolo «modello 45», siamo di fronte a un’«operazione grottesca». Ma c’è un terzo esposto depositato in procura da Maiorano il 3 febbraio 2014 «allegando documento giornalistico riguardante alcune fondazioni facenti capo al Renzi» con «soggetti coinvolti come lo stesso Carrai, Maria Elena Boschi (fedelissimo ministro di Renzi, ndr) e Luca Lotti (sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ndr)». In questo caso il denunciante rammenta che talune di queste fondazioni «recentissimamente» sono state «chiamate in causa nell’ambito dell’inchiesta sulla Cooperativa Concordia per connessioni con il clan dei Casalesi». Di questa terza denuncia, conclude Maiorano, «non se n’è saputo assolutamente più nulla». Da qui la richiesta di avocazione di tutti gli atti.

MARCO TRAVAGLIO VS I RENZI.

 «Tiziano Renzi non c’entra». Dai pm di Consip una verità che arriva troppo tardi. Chiesta l’archiviazione per il padre dell’ex premier, ma Renzi jr ha già pagato, scrive Errico Novi il 30 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Esempio micidiale di danni da processo mediatico. Macchina terribile che ha prodotto conseguenze personali per Tiziano Renzi, personali e politiche per suo figlio Matteo, politiche tout court per un ex partito di maggioranza, il Pd. L’inchiesta Consip arriva al punto di caduta più significativo visto finora: e si tratta di un nulla di fatto proprio per il papà dell’ex presidente del Consiglio. La Procura di Roma chiede per lui l’archiviazione. Restano invece impigliati nelle ipotesi di reato a loro contestate 7 persone, ai quali l’ufficio diretto da Giuseppe Pignatone invia la comunicazione di chiusa indagine, che di solito precede la richiesta di rinvio a giudizio. Rischiano dunque il processo, per il reato di favoreggiamento: l’ex ministro dello Sport Luca Lotti, figura assai vicina a Matteo Renzi; il generale dell’Arma in Toscana Emanuele Saltalamacchia; l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette, che nella storia dell’Arma sarebbe il primo comandante generale a essere rinviato a giudizio (è accusato anche di rivelazione del segreto d’ufficio); il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua Filippo Vannoni. Resta invece sotto inchiesta per rivelazione del segreto e falso l’ex maggiore del Noe Gian Paolo Scafarto, che insieme con il suo ex capo, il colonnello Alessandro Sessa, è indagato anche per depistaggio. L’imprenditore Carlo Russo è invece accusato di millantato credito, reato dal quale sono scagionati oltre a Renzi senior (la cui ricostruzione dei fatti è stata ritenuta dai pm «non credibile») anche l’imprenditore Alfredo Romeo e il suo consigliere Italo Bocchino. Riportata in modo asciutto, la geografia dell’inchiesta sembrerebbe cambiata di poco. Ma non è così. La probabile fuoriuscita di Tiziano (dovrà decidere il giudice) riduce la sequenza dei presunti reati a un attivismo di Russo che avrebbe utilizzato il nome di Tiziano Renzi per millantare, presso Alfredo Romeo, straordinarie capacità di condizionare l’ad di Consip Luigi Marroni e fargli così ottenere «l’appalto più grande d’Europa», così definito nella vulgata mediatica in questi due anni. Dopo sarebbero venuti gli alert inoltrati allo stesso Marroni da parte di Lotti e Saltalamacchia, e quello di Del Sette nei confronti del presidente di Consip Luigi Ferrara, sull’esistenza di un’inchiesta con corredo di microspie e telefoni sotto controllo. Il resto, lo sfondo, il presunto intreccio corruttivo che avrebbe legato Romeo ai Renzi per mezzo di Russo, la conseguente rincorsa a tamponare l’inchiesta attribuita all’ex premier, semplicemente non esistono. La posizione di Tiziano è inconsistente, sul piano penale. Secondo la ricostruzione dei pm Ielo e Palazzi sarebbe stato Russo, solo lui, ad aver millantato con Romeo la stessa capacità di condizionamento del papà dell’ex premier, in modo da intascare una tangente da 100mila euro. Poi certo, ci sarebbero gli avvisi sul rischio di essere intercettati, i falsi e le rivelazioni del segreto attribuiti a Scafarto, i suoi presunti depistaggi in complicità con Sessa. Ma è materiale che non c’entra nulla con la politica, con il Pd, con il governo di allora, con il suo vertice. La Procura di Roma su questo, evidentemente, non ha dubbi. Ma un’intera classe dirigente, per quasi due anni, ha ballato alla grande. Benché ritenuto non credibile in alcune circostanze, papà Renzi, di cui sarebbe stato ricostruito un incontro (sempre negato) con Alfredo Romeo nell’estate del 2015, esce dall’inchiesta «perché non vi sono elementi per sostenere un suo contributo eziologico nel reato di millantato credito (rispetto all’iniziale ipotesi di traffico di influenze illecite, ndr) commesso da Russo». La conclusione della Procura è questa. E colpisce il tono del consueto tweet di Matteo: sommesso, più che rabbioso e soddisfatto: «Sono mesi che ripeto ‘ il tempo è galantuomo’. Sui finti scandali, sulle vere diffamazioni, sui numeri dell’economia. Oggi lo ribadisco con ancora più forza: nessun risarcimento potrà compensare quanto persone innocenti hanno dovuto subire. Ma il tempo è galantuomo, oggi più che mai». Assomiglia molto al tono di Federico Bagattini, difensore di Tiziano Renzi: «Questi ultimi giorni hanno dimostrato che il tempo è galantuomo: prima il riconoscimento del risarcimento del danno a titolo di diffamazione, ora la richiesta di archiviazione del procedimento cosiddetto “Consip”. Alla soddisfazione professionale per l’esito, del resto ancora da confermare trattandosi solo di richiesta di archiviazione, si unisce quella personale da parte del dottor Tiziano Renzi, che risulta, tuttavia, menomata dalla considerazione che la campagna subita negli ultimi due anni abbia prodotto gravi e irreversibili danni sul piano personale, familiare ed economico». Come dire: ci si è scrollati di dosso il fango, ma il danno resta. Personale per Tiziano, politico per suo figlio. Chi pagherà per questo? Nessuno. Sono gli inconvenienti della giustizia mediatica. Una leadership è stata intaccata anche dal clamore dell’indagine, ma oggi il quadro politico è talmente cambiato che sarebbe inutile ostinarsi a rivendicarlo. Matteo lo ha capito. Ha capito che è troppo tardi.

Tre domande (forse) inutili. Editoriale del direttore Piero Sansonetti il 30 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Nel dicembre del 2016 Matteo Renzi era in difficoltà. Aveva perduto il referendum per la riforma costituzionale e aveva lasciato la presidenza del Consiglio. Restava però il capo del suo partito, e quindi del centrosinistra, e i sondaggi davano il Pd tra il 28 e il 35 per cento, stabilmente primo partito con un discreto vantaggio sui 5 Stelle. A fine dicembre esplose il caso Consip. A febbraio nel caso Consip fu coinvolto il padre di Renzi: Tiziano. Il caso Consip partiva dalla Procura di Napoli e finché non arrivò a Roma fu montato attraverso i giornali, ai quali venivano forniti tutti i documenti riservati e le ipotesi di indagine. Iniziò il Fatto Quotidiano, con un buon numero di scoop.

Politica, stampa, giustizia: tre domande (forse) inutili. Diede anche notizia di alcune informative preparate dal capitano dei carabinieri Scafarto, che poi risultarono false e che lasciavano capire che Renzi, da Presidente del Consiglio, si era interessato degli affari di Consip, o direttamente o attraverso suo padre, per favorire l’imprenditore napoletano Romeo. Il Fatto fu seguito a ruota da molti altri giornali. Quelli che in genere sprezzantemente – Il Fatto chiama “Giornaloni”. Vennero pubblicate intercettazioni vietatissime. Quelle dei colloqui tra Matteo Renzi e suo padre, e soprattutto quelle tra il padre di Renzi e il suo avvocato (questa circostanza ha pochissimi precedenti nei paesi democratici). Ieri si è saputo che la Procura ha chiesto l’archiviazione per il padre di Renzi. Non c’entra niente. Nessun reato. Oggi, però, Renzi non è più capo del Pd, è stato travolto. E’ stato travolto, in gran parte, proprio per via dello scandalo Consip. Cioè: per la campagna di stampa. Il Pd ha anche perso molti voti. In poco più di un anno quasi la metà del suo elettorato. La caduta del Pd in gran parte è stata causata dalla perdita di credibilità di Renzi. Il caso Consip ha fatto la parte del leone in questa vicenda.

E’ la lotta politica, bellezza, direbbe Humphrey Bogart. Tanto di cappello al Fatto Quotidiano che è riuscito, sul niente – grazie anche all’aiuto di qualche infiltrato nella Procura di Napoli che gli ha fornito le notizie, quelle vere e quelle false – a costruire una campagna di stampa gigantesca, la miglior campagna di stampa – se giudicata sulla base dei risultati – dagli anni cinquanta. Per trovare un precedente forse bisogna tornare al famoso affare Montesi, che appunto è del 1953- 54, quando uno scandalo – che riguardava la morte di una ragazza: Wilma Montesi – travolse il successore di De Gasperi, Attilio Piccioni. Quella volta lo schema familiare era invertito: il padre fu colpito attraverso il figlio, Piero, musicista di prestigio, che fu accusato di aver partecipato a un festino a Torvaianica nel corso del quale sarebbe morta la giovane Montesi. Tutto falso, nel senso che Piero Piccioni non era a nessun festino e che non c’entrava assolutamente niente con la morte di Wilma. Ma ci volle qualche anno per stabilirlo, e intanto Piero si era fatto un po’ di prigione e Attilio era scomparso dalla vita politica. Per sempre.

Ripartiamo da qui. Per porci solo tre domande.

Prima domanda: nella lotta politica quel che conta è il risultato, e i mezzi non sono censurabili mai, anche quando i mezzi sono la menzogna e l’uso illegale delle fonti?

Seconda domanda: il giornalismo migliore è quello che mette al primo posto il risultato politico e al risultato politico subordina l’informazione e la verità?

Terza domanda: la macchina della giustizia funziona meglio se rinuncia alla riservatezza e usa la fuga delle notizie per avere i giornali amici e dunque più possibilità di riuscire?

Ho posto queste domande in modo fazioso, me ne rendo conto, sollecitando le risposte che vorrei. Si fa sempre così. Però provate a prendere sul serio le domande, perché può anche darsi che in molti, forse la maggioranza, vogliano dare a queste domande una risposta realistica, cioè tre sì: sì, la lotta politica non guarda ai mezzi; sì, il giornalismo vero è solo quello vincente; sì, la magistratura deve saper usare la stampa. Io resto aggrappato alla speranza che non sia per tutti così. Una speranza sottile sottile.

Tiziano Renzi verso l’archiviazione. Lui si sfoga: "Deluso, lascio tutto". Nei guai il faccendiere Carlo Russo. Per lui c’è il millantato credito, scrive Stefano Brogioni il 30 ottobre 2018 su La Nazione. Il caso Consip, per Tiziano Renzi, potrebbe svanire in una bolla di sapone. Manca il marchio del gip, ma per la procura di Roma il padre dell’ex premier Matteo non ha “trafficato” con le influenze come inizialmente ipotizzato nei giorni caldi di un’indagine raccontata quasi in diretta sui media per la pesantezza dei nomi in ballo. Ma anziché gioire per aver vinto un’altra battaglia, Renzi senior da Rignano sull’Arno si sfoga con un violento j’accuse. «Vado in pensione, lascio ogni incarico, metto in vendita la mia società. Mi arrendo», dice, laconico. I processi per lui non sono finiti (a Firenze è stato rinviato a giudizio per le false fatture), e allora, annuncia ancora, «tra un’udienza e l’altra farò il nonno». Recentemente, Tiziano aveva avuto ragione contro Marco Travaglio: per gli editoriali al vetriolo del direttore del Fatto Quotidiano riceverà un risarcimento. L’indagine romana sulla Consip, dove comunque sono quasi imputati i renzianissimi Luca Lotti e Filippo Vannoni per presunte spiate sull’indagine che riguardava il colosso degli appalti pubblici guidato dall’ex assessore regionale Luigi Marroni, era stata un’altra bella fonte di grattacapi, per nonno Renzi. La richiesta di archiviazione dei pm romani tratteggia un Renzi che ha fornito ai magistrati una «inverosimile ricostruzione dei fatti e della natura dei rapporti», ma, scrivono i pm Pignatone, Ielo e Palazzi, «non vi sono elementi per sostenere un suo contributo eziologico nel reato commesso da Carlo Russo». Il famoso incontro con l’imprenditore Romeo, ad esempio, ci sarebbe stato. Ma non a Roma e nemmeno a Napoli, bensì a Firenze, nel luglio del 2015, quando però l’inchiesta Consip non era neppure in embrione. Gli inquirenti lo ricavano da un’intercettazione in cui Romeo parla – in termini neanche troppo lusinghieri – di un individuo in sandali e bermuda. La (richiesta di) archiviazione per Tiziano si annoda con la nuova definizione delle accuse per il faccendiere Carlo Russo. Lo scandiccese dovrà rispondere adesso di millantato credito. In pratica, la nuova accusa è che egli abbia speso la conoscenza con Renzi per aprirsi porte che altrimenti avrebbe trovato chiuse. «Siamo davanti a un abuso di cognome», commenta il legale di Tiziano, Bagattini. «Nessuna dichiarazione fino a che non leggeremo le carte», dice invece il difensore di Russo, Gabriele Zanobini.

L’accusa.

Renzi: "Prima condanna a Travaglio per aver diffamato mio padre". L'annuncio del senatore pd su Facebook: "Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia". Il processo per 6 articoli, tre ritenuti diffamatori dal Tribunale di Firenze, scrive il 22 ottobre 2018 "La Repubblica". "Una notizia personale. Oggi è arrivata la prima decisione su una (lunga) serie di azioni civili intentate da mio padre, Tiziano Renzi, nei confronti di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano". Lo scrive, su Facebook, il senatore del Pd Matteo Renzi. "La prima di oggi - prosegue - vede la condanna del direttore Travaglio, di una sua giornalista e della società editoriale per una cifra di 95.000 euro (novantacinquemila). Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni. Volevo condividerlo con voi. Buona giornata, amici". Il processo civile che ha visto contrapporsi Tiziano Renzi e Il Fatto Quotidiano era incentrato su 6 articoli. Il Tribunale di Firenze ha stabilito che per tre articoli non sussiste diffamazione, e quindi ha assolto il quotidiano. Mentre lo ha condannato per altri tre articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016.  Due editoriali e il titolo di un terzo articolo. Nel primo, intitolato "I Babboccioni", parlando dell'indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine "fa bancarotta"; nel secondo articolo, dal titolo "Hasta la lista" Tiziano Renzi era stato accostato per "affarucci" a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio invece il titolo di un articolo apparso on line inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato dalla giornalista Gaia Scacciavillani. Tiziano Renzi aveva chiesto danni per 300 mila euro. 

La difesa.

Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell'ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli - firmati con Gaia Scacciavillani - sono stati ritenuti perfettamente veri, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 22 ottobre 2018. Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri. “In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta. Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi”. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democratico quali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzo sulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”. Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.

Cambiamo Mestiere, scrive Marco Travaglio il 23 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Quando un Tribunale ti dà torto e sai di avere ragione, impugni la sentenza e speri che i giudici d'appello te la riconoscano. Così ci siamo sempre comportati, senza fare tante storie. Ora però la sentenza del Tribunale civile di Firenze che dà torto al Fatto (cioè al sottoscritto e a una brava collega), imponendoci di versare lo spropositato risarcimento di 95 mila euro a Tiziano Renzi e creando un precedente che mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale, ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori. Perchè abbiamo bisogno di voi. Fermo restando che, se l'esecutività del verdetto non sarà sospeso, pagheremo il dovuto e ci appelleremo per farci restituire i soldi fino all' ultimo centesimo e la nostra onorabilità. Che comunque non può essere messa alla berlina da manigoldi che si fanno scudo dell'impunità parlamentare e che, se le bugie fossero reato, sarebbero all'ergastolo. Cari lettori, sapete bene di essere l'unica nostra fonte di sostentamento e il nostro unico scudo contro le aggressioni dei potenti: non incassiamo soldi dallo Stato, abbiamo pochissima pubblicità, non siamo sponsorizzati da società o concessionarie pubbliche né da aziende private. Viviamo delle copie vendute in edicola e degli abbonamenti, due voci che sono addirittura aumentate negli ultimi mesi, in controtendenza con il mercato sempre più in crisi della carta stampata. E finora questo bastava e avanzava a garantirci di lavorare sereni, forti del vostro sostegno e dei nostri bilanci attivi. Ma purtroppo, in Italia, fare un buon giornale, libero e indipendente, che incontri il favore dei lettori, non basta più. Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali "a strascico" sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze. Anche perché oggi - come dice Davigo - buona parte della magistratura è stata "genuflessa" dal potere politico come nei suoi anni più bui, dai 50 agli 80, fino a Tangentopoli e a Mafiopoli. Non siamo qui a gridare al complotto né a piagnucolare per la persecuzione giudiziaria. Anzi, se avessimo scritto qualcosa di falso e/o diffamatorio, come può sempre capitare in un quotidiano, avremmo già rettificato da un pezzo, senz' attendere che Renzi sr ci facesse causa. Ma non è questo il caso. Il signore in questione ci aveva intentato una causa da 300mila euro per sei articoli usciti fra il 2015 e il 2016: il giudice gli ha dato torto per quattro articoli e ragione per un titolo (a un articolo ritenuto corretto) e due parole contenute in due miei commenti (per il resto ritenuti corretti). E ha stabilito che il titolo e le mie due parole valgono 30 mila euro ciascuno, più 5 mila di riparazione pecuniaria. Il titolo da 30 mila euro è "Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm". Riguarda le indagini (vere) sulla coop Castelnuovese, che ovviamente faceva affari, era stata appena perquisita e faceva capo all' ex presidente di Etruria Lorenzo Rosi, in affari con Luigi Dagostino, a sua volta in affari con papà Renzi (che non era indagato, e infatti il titolo si guardava bene dall' affermarlo). Tutto vero, eppure ci tocca pagare 30 mila euro. Le mie due paroline da 30 mila euro ciascuna sono "bancarotta" e "affarucci". In quel momento Tiziano Renzi era indagato a Genova per la bancarotta di una sua società poi fallita, la Chil Post. Che la società fosse fallita non era in discussione (il crac è del 2013), mentre si trattava di stabilire se Renzi padre avesse commesso il reato di bancarotta (in seguito avrebbe ottenuto l'archiviazione, che naturalmente non riportò in vita la società fallita, anche perché altri coimputati sono a processo per quella bancarotta). Il crac c'era, la condanna di Renzi sr per bancarotta no: e infatti non ho mai scritto che avesse commesso quel reato, ma semplicemente che era coinvolto nella bancarotta di una società di cui era stato proprietario (e dove aveva assunto Matteo). Si potrà dire che il termine era "atecnico", come si conviene a un articolo di pura satira (il titolo era "I babboccioni", per dire il tono), non a una sentenza o a una cronaca giudiziaria. Invece il giudice ci vede una diffamazione da 30 mila euro. L'altra costosissima parola proibita è "affarucci". Anche qui tutto vero, e pure preciso: come avevamo scritto spesso nelle pagine di cronaca, insieme a gran parte della stampa italiana, il massone Valeriano Mureddu e babbo Tiziano sono vicini di casa a Rignano sull' Arno e il primo acquistò un terreno dal secondo. Un affaruccio, appunto. Che c' è di diffamatorio? Che - scrive la giudice - "in nessuna parte dell'articolo sia spiegato quali sarebbero tali 'affarucci'". Cioè: i due hanno concluso un affaruccio, raccontato più volte sul Fatto e dimostrato per tabulas alla giudice. Ma è diffamazione lo stesso, perché lei avrebbe scritto l'articolo diversamente da come l'ho scritto io: altri 30 mila euro. Totale: 90+5 e un bacio sopra. Per un titolo e due articoli che non contengono fatti falsi e che riscriverei uguali altre cento volte. E sapete il perché di quella cifra spropositata? Per "la posizione sociale del soggetto diffamato (padre del Presidente del Consiglio, politico e imprenditore)". Perbacco. Così la regola aurea che vuole i potenti più esposti alle critiche viene ribaltata: più conti e meno puoi essere criticato. Una specie di immunità contagiosa per via parentale. E ci è andata pure bene. La giudice spiega di averci fatto lo sconto perché siamo il Fatto, e non il Corriere della Sera che vende il sestuplo di noi: sennò ci avrebbe appioppato 600 mila euro, lira più lira meno (con tanti auguri ai colleghi di via Solferino). La sentenza fa il paio con quella del Tribunale penale di Roma che ci ha condannati a pagare la cifra astronomica di 150 mila euro (per fortuna non ancora esecutiva) ai giudici di Palermo che avevano assolto Mori per la mancata cattura di Provenzano. Avevo osato scrivere che erano andati fuori tema, invadendo il campo dei processi Trattativa e Borsellino-ter e negando il patto Stato-mafia e l'accelerazione della strage di via D' Amelio. Condannato. Poi le sentenze dei due processi han demolito quella su Mori, giungendo alle stesse mie conclusioni di 3 anni prima. Ora, a botte di sentenze come queste, un piccolo giornale libero come il Fatto non può reggere: ancora un paio di mazzate come queste e si chiude. Perché non c' è alcun' arma di difesa. Possiamo prestare tutte le attenzioni del mondo a non scrivere cose false o inesatte. Ma se poi veniamo condannati per aver scritto cose vere o per aver esercitato il nostro sacrosanto diritto di critica, allora dovremmo preoccuparci anche di non disturbare certi manovratori, specie se hanno appena agguantato la vicepresidenza del Csm e fanno il bello e il cattivo tempo nella città del tribunale che ci giudica. E allora delle due l'una. O la classe politica mette finalmente mano a una seria riforma della diffamazione a mezzo stampa, dando valore alle rettifiche e alle smentite, imponendo cauzioni contro le liti temerarie, levando la competenza ai tribunali dove risiedono i denuncianti e soprattutto distinguendo i fatti falsi e gli insulti (che, senza rettifiche e scuse date con evidenza, vanno sanzionati) dalle opinioni critiche e dalle battute satiriche (che devono essere sempre legittime). Oppure noi smettiamo di scrivere cose vere e di criticare chi lo merita. Ma in questo caso verrebbe meno la ragione stessa del nostro mestiere, almeno per come lo intendiamo noi: quella che nove anni fa ci ha spinti a rischiare i nostri soldi e carriere per fondare un giornale libero, critico e veritiero. Di certo, visto che i soldi non ce li regala nessuno né li troviamo sotto le mattonelle, non possiamo scrivere ogni giorno con la spada di Damocle di risarcimenti pesantissimi sul capo, l'ufficiale giudiziario dietro la porta, la quotidiana busta verde nella buca delle lettere e l'avvocato tascabile che ci controlla le virgole. Certo, potremmo evitare tutto questo facendo come tanti altri: usando la lingua al posto della tastiera. O facendoci scrivere gli articoli da qualche giudice, per dire che chi fa fallire le sue società è un grande imprenditore un po' sfortunato e chi compra terreni con un socio lo fa a sua insaputa. Ma non ne siamo proprio capaci. Piuttosto, preferiamo cambiare mestiere.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 23 ottobre 2018. Renzi è bello carico (Trentino a parte). La Leopolda gli ha ridato vigore e invece di fare il senatore semplice e mettersi da parte come aveva promesso, è tornato alla riscossa. Ieri i giudici gli hanno anche fatto un regalino. «Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95mila euro: è solo l'inizio. Il tempo è galantuomo», scrive sulla sua e-news settimanale. E ancora: «Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni». Il giudice del tribunale civile di Firenze che ha emesso la sentenza è Lucia Schiaretti. Tiziano Renzi aveva chiesto 300mila euro di risarcimento, per tre articoli sulla vicenda Chil Post e Mail Service Srl. La condanna di Travaglio riguarda due editoriali del 24 dicembre 2015 e del 16 gennaio 2016. Nel primo, «I Babboccioni», parlando dell'indagine sulla Chil Post, Travaglio aveva scritto «fa bancarotta»; nel secondo, «Hasta la lista», aveva accostato per «affarucci» Tiziano Renzi a Valentino Mureddu, iscritto alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio anche il contenuto di un articolo on line su Banca Etruria e Renzi senior, della giornalista Gaia Scacciavillani. Il padre dell'ex premier è uscito invece sconfitto nella causa contro Peter Gomez e il giornalista Giordano Cardone per articoli sull' edizione on line. Le cose per babbo Renzi non si mettono bene nemmeno per altri «affarucci», come li definirebbe Travaglio. Ieri, in relazione a un'inchiesta del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, ci sarebbe stata, da parte della Guardia di Finanza, una ulteriore acquisizione di materiale a casa di Silvia Gabrielleschi, dipendente della Marmodiv, altra coop legata ai business dei Renzi e dichiarata fallita dieci giorni fa. L' attività è collegata alle indagini sul fallimento della Delivery service, cooperativa nata nel 2009 con sede presso Confcooperative (le coop bianche) in piazza San Lorenzo a Firenze. Gli investigatori cercano collegamenti tra questa coop, la Eventi 6 dei Renzi e la Marmodiv, appunto. Gli inquirenti ritengono che tra queste società ci sia stato un insolito scambio di fatture. Inoltre ci sarebbe una pista relativa a una presunta truffa legata alla distruzione (a pagamento) dei depliant non consegnati: il macero, la torta su cui tutti puntano, quella che aggiusta i conti. Proprio a Rignano ci sarebbe un magazzino adibito a discarica per le rimanenze, mentre una delle cartiere per il macero si troverebbe a Campi Bisenzio. La Marmodiv è un'azienda fondata nel 2013 da persone legate a papà Renzi, e in questi anni ha visto crescere il fatturato fino a quasi 3,4 milioni di euro. È stato il loro braccio operativo e riceveva gran parte delle commesse della Eventi 6 (che ha come presidente la mamma di Renzi, Laura Bovoli, e socie le sorelle di Matteo, Benedetta e Matilde), la ditta di Rignano sull' Arno specializzata in distribuzione di pubblicità: il compito della Marmodiv era distribuire materiale pubblicitario per Conad, Esselunga, UniCoop Firenze, che avevano firmato contratti con la Eventi 6. A ottobre 2017 la Finanza aveva perquisito i suoi uffici fiorentini acquisendo materiale e hard disk. Ieri altre acquisizioni domiciliari. Ma è sempre il solito fango...

La verità

La verità fra la famiglia Renzi ed il Fatto Quotidiano: Marco Travaglio è stato condannato, scrive il 25 ottobre 2018 Il Corriere del Giorno". ESCLUSIVA! La sentenza integrale della condanna a Marco Travaglio ed al Fatto Quotidiano per aver diffamato il padre di Matteo Renzi. Una sentenza che smentisce quanto asserito dal giornale di Travaglio all’indomani dalla sentenza! Nei giorni scorsi molti organi di informazione, fra cui il nostro giornale, hanno pubblicato la notizia relativa alla condanna in primo grado del Tribunale civile di Firenze nei confronti dell’Editoriale Il Fatto spa (editrice de il Fatto Quotidiano n.d.r.) del suo direttore responsabile Marco Travaglio, e della giornalista Gaia Paolo Scacciavillani, per aver diffamato con i loro articoli Tiziano Renzi, padre del sen. Matteo Renzi, ex premier e segretario nazionale del PD. Una sentenza di condanna che il giornale diretto da Marco Travaglio ha sintetizzato “Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti”, sostenendo che “il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio” ma in realtà tale sintesi riguardava esclusivamente quanto pubblicato online per la quale si è “salvato” dalla condanna  il collega Peter Gomez , in quanto la pubblicazione online secondo la Cassazione non è riconducibile alle norme di Legge sulla Stampa (quindi un “cavillo” giuridico, e non un’ assoluzione sul merito) come dimostra e contiene la sentenza che il CORRIERE DEL GIORNO, unico giornale in Italia, è in grado di pubblicare integralmente, come nostro stile giornalistico. Sentenza che anche Travaglio avrebbe ben potuto pubblicare sul FATTO, ma che stranamente… se è guardato bene dal farlo! Ogni giudizio etico sulla vicenda viene quindi demandato ai lettori, auspicando che abbiano conoscenze e competenze giuridiche per capire il contenuto della sentenza. Noi diamo notizie, non esprimiamo opinioni e sopratutto non ci schieriamo mai con nessuna delle parti in causa. Buona lettura.

Il precedente.

Travaglio punito dal giudice, scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.

La solidarietà corporativa.

Se si va per l’aia di una fattoria e provi a toccare un maiale o un’oca, tutti i loro simili grugniscono o starnazzano.

Lo Stato di diritto contro Travaglio, scrive il 24 ottobre 2018 Democratica. La campagna mediatica giustizialista di Marco Travaglio subisce una brusca battuta d’arresto. Il paradigma giornalistico del “diamogli addosso” di Marco Travaglio non ha passato l’esame del Tribunale di Firenze. L’esito finale della sentenza che condanna il Fatto Quotidiano a pagare 95000 euro al padre di Matteo Renzi, Tiziano, può essere considerato come l’albero sul quale si è schiantato a tutta velocità il giustizialismo usa e getta messo in campo nella campagna mediatica travagliesca contro Renzi. Sulla sentenza che condanna Travaglio e dà ragione a Tiziano Renzi c’è molto da dire. Innanzitutto bisognerebbe dire basta alle campagne di odio politico svincolato dai fatti. Chi tenta di collocare il baricentro del discorso pubblico partendo dal garantismo diviene egli stesso oggetto di attacco. Succede di frequente: si viene inseriti nella black list della Casta, si viene classificati come servi del potere, persino scribacchini mercenari. Intanto Travaglio ha preannunciato che ricorrerà in appello perché è sicuro del fatto che il suo giornale abbia scritto la verità, nonostante i giudici civili, almeno in parte, gli abbiano dato torto. Una mossa lecita se non fosse accompagna dalla reiterazione dell’attacco fine a se stesso: “Cercheremo di farci ridare i soldi. Se le balle, poi, fossero reato, Renzi sarebbe all’ergastolo, quindi starei tranquillo al posto suo. Noi le balle non le abbiamo mai raccontate”. Ora più che mai Marco Travaglio appare un apprendista stregone che oggi paradossalmente incappa in una sentenza di quella magistratura che egli ha eletto al vertice del sistema. L’utilizzo delle notizie maneggiate, quelle prese e ricostruite artificiosamente, l’uso di certe parole offensive, finanche la storpiatura dei nomi per canzonare l’avversario: il direttore del Fatto ripensi al suo modo di fare giornalismo. Ma l’informazione politica, anche quella schierata, non dovrebbe essere altro?

Travaglio unico nel fare giornalismo, scrive Giovanni Coviello fondatore VicenzaPiu.com il 10 ottobre 2018. Fare giornali non è un'impresa facile soprattutto in Italia e non di questi giorni ma da molti anni, da quando di fatto sono ben pochi gli editori indipendenti. Tanto per capirci un editore è indipendente se non ha attività imprenditoriali e/o politiche a cui il suo giornale (stampato, televisivo, online...) possa far comodo portandolo a valutare i suoi risultati non solo su base economica, spesso da anni negativa, ma per gli "aiutini" che la sua linea editoriale può dare agli altri suoi affari. È per questo che, visto che ci siamo costruiti la possibilità di essere editori di noi stessi (una "sfortuna" economicamente, una "fortuna" per i lettori ci premano anche con gli abbonamenti) ci piace seguire Il Fatto Quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio, un non simpatico ma grade professionista, non ha padroni di riferimento che non siano alcuni suoi giornalisti, qualche investitore che non ha altri business che non l'informazione e, soprattutto, i suoi lettori. Un giornale così libero (Libero come  è di Angelucci, re delle cliniche private e dei giornali... collegati cioè, oltre a Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria, di Siena, di Arezzo, di Viterbo e di Rieti) che, pur essendo più "piccolo",  per la gioia dei lettori può fregarsene della RCS (Il Corriere della Sera e Gazzetta dello sport di Urbano Cairo, finanziato, però da Intesa Sanpaolo che è anche il secondo azionista dopo Confindustria de Il Sole 24 Ore), ovviamente dei giornali (e tv) della famiglia Berlusconi e di quelli della famiglia Caltagirone (Il Gazzettino, Il Messaggero, la Gazzetta del sud...), per non parlare di quelli (La Gazzetta del Sud, Il Giornale di Sicilia...) dell'imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo alla sbarra in un processo per concorso esterno all'associazione mafiosa, ma soprattutto del gruppo Gedi dell'accoppiata De Benedetti - eredi Agnelli (Espresso più la Repubblica più La Stampa + Il Secolo XIX più la catena locale dei quotidiani Finegil tra cui Il Mattino di Padova, La Nuova di Venezia, La tribuna di Treviso...). L'elenco dei giornali "dipendenti", serviti da giornalisti "dipendenti" o precari che siano, continuerebbe a dismisura a parte il gruppo dell'editore Riffeser Monti (Il Giorno, la Nazione, Il Resto del Carlino e, cioè, i quotidiani QN) e poche altre eccezioni. I quotidiani più locali (alcuni che fanno capo a gruppi nazionali o para nazionali li abbiamo già citati) non sfuggono alla regola dell'editore impuro. È perciò che noi non ci divertiamo ma abbiamo l'obbligo di far sapere ai lettori, per tutelarne la conoscenza delle fonti a cui si rivolgono per informarsi dei fatti e farsene opinioni, a chi fanno capo i media locali. Se quelli spiccatamente locali sono solo Il Giornale di Vicenza e Tva, che appartengono a Confindustria Vicenza (il secondo direttamente, il primo tramite una società controllata anche da Confindustria Verona) la nostra attenzione, per quanto localmente "piccoli" (numericamente ma sempre meno), come "piccolo" (numericamente ma sempre meno) è Il Fatto Quotidiano rispetto ai colossi dell'editoria padronale nazionale, si concentra su di loro e sulle loro interpretazioni (libere per diritto giornalistico ma non sempre indipendenti dalla proprietà editoriale) dei fatti se non addirittura, come spesso avviene, della loro distorsione se non cancellazione. Per fare esempi non esaustivi ma chiari per le tre suddette caratteristiche citiamo:

- l'interpretazione della convenienza di opere come la Tac Tav e della Pedemontana Veneta (tra i proprietari del GdV e di Tva ci sono quelli che ne traggono e ne trarrebbero utili per loro);

- la distorsione della realtà come per gli ancora recenti e sanguinanti osanna perenni alla Banca Popolare di Vicenza, dei cui vertici facevano parte i vertici di Confindustria sponsorizzati dagli imprenditori amici, e come per gli atti delittuosi e gli immigrati, che nella realtà diminuiscono ma che ci vengono fatti percepire come fattori ogni giorno in crescita di una Vicenza terreno barbaro di lotte per bande, preferibilmente africane e mussulmane, per cui uno scippo diventa terrore di un quartiere (i proprietari del GdV e di Tva hanno come referenti molti politici che sono bravi ad agitare gli spettri della paura e dei mal di pancia, un po' meno a costruire una città meno provinciale e più moderna);

- la cancellazione di fattacci come quelli dei morti e dei feriti sul lavoro (specialmente se sono quelli di aziende come la Marlane Marzotto, i cui nomi o parti di nomi sono oggetto solo di ossequi, e allora due dita mozzate a un gambiano alla Ferretto meritano solo uno sperduto riquadrino); come le pene attuali e future degli impoveriti dal crac della BPVi osannata; come la sodomizzazione della Fondazione Roi; come le denunce intimidatorie ad alcuni, ovviamente pochi coraggiosi, giornalisti, e non parlo solo di me.

Allora ecco il perché del titolo "Travaglio unico per fare giornalismo". Sì, è un travaglio unico farlo bene in Italia e a Vicenza, ma è unico Marco Travaglio nel saperlo denunciare con nomi e cognomi e con fatti e dimenticanze ma anche nel volerlo e saperlo difendere, quello condiviso e quello combattuto, da chi, come Luigi Di Maio, vorrebbe fare a meno di tutto il giornalismo non amico o non servo. Vi proponiamo, quindi, un editoriale di Travaglio, unico anch'esso nell'elencare le opinioni smaccatamente non di parte, è lecito, ma facinorose, i favoritismi e gli oblii dei quotidiani di De Benedetti Elkann ma anche unico e coraggioso nel difendere la Repubblica, La Stampa & c. dalle minacce inaccettabili di un vice ministro come Di Maio. Come li difende è evidenziato in grassetto nell'articolo di sotto riportato, mentre noi, seppure con interno... travaglio, per sostanziare l'ammirazione nei suoi confronti (professionali e non per identità di vedute, spesso diverse), proviamo a difendere l'esistenza di GdV e Tva parafrasando la difesa di Marco Travaglio: Hanno fatto questo e altro, i giornali di Confindustria Vicenza, ma noi vogliamo che continuino a proporsi ai lettori/telespettatori per tre motivi. 1) Nessun deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, ma di sicuro può darle agli editori e ai direttori che li costringono, per loro evidente stato bisogno in assenza di alternative economiche, a servire gli interessi della proprietà e non i lettori 2) Quando VicenzaPiù subisce attacchi ben peggiori delle pagelle dal sistema locale e dai suoi killer, non ci giunge alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché tutti continuiamo ad esistere, la gente può notare la differenza.

Da un travaglio può nascere qualcosa di bello ed è per un po' di quel bello che noi accettiamo il travaglio di fare Giornalismo: è bello il post travaglio. 

La differenza di Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano.

Hanno scritto di un'intercettazione fra Rosario Crocetta che taceva divertito mentre un amico medico auspicava l'assassinio di Lucia Borsellino come quello del padre Paolo, e non era vero. Hanno scritto di troll russi dietro la campagna web contro Mattarella, e non era vero. Hanno scritto che il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, nel caso Consip, era stato "smascherato come impostore e falsario di passaggi politicamente significativi dell'inchiesta"; e aveva "consegnato a Marco Lillo la notizia del coinvolgimento di Del Sette", insomma era lui "la mano che dà da mangiare al Fatto" per "far cadere Renzi" (fra l'altro già caduto da solo), ma non era vero; e, quando la Cassazione scagionò Scafarto per i suoi "errori involontari", si scordarono di informarne i lettori. Hanno scritto che Di Maio situava Matera in Puglia anziché in Basilicata, e non era vero. Hanno scritto che l'Italia, se rinunciasse al Tav Torino-Lione, dovrebbe pagare "penali" miliardarie, e non è vero (glielo fece notare l'ex pm Livio Pepino in una lettera, ma non la pubblicarono). Hanno scritto che Marcello Foa, aspirante presidente Rai, è un fabbricante di fake news tant'è che ha scritto un libro per "spiegare come si falsifica l'informazione al servizio dei governi", ma non è vero (il suo Gli stregoni della notizia, al contrario, smonta le fake news al servizio dei governi). Hanno scritto che c'è la Russia di Putin dietro le fake news filo-M5S&Lega, e non era vero.

Hanno scritto che il premier Conte voleva trasferirsi dalla cattedra di Firenze a quella di Roma con un concorso "confezionato su misura", e non era vero (il bando era standard). Hanno taciuto sulla tesi di dottorato in larghe parti copiata dalla Madia. Hanno nascosto la bocciatura del Jobs Act di Renzi dalla Corte costituzionale ("Lavoro, su Jobs Act e Cig si ritorna al passato": nessun riferimento nella titolazione alla Consulta e all'incostituzionalità). Hanno nascosto, mentre tutti gli altri giornali ne parlavano, l'inchiesta per la soffiata di Renzi a De Benedetti sul decreto Banche popolari, usata dall'Ingegnere per guadagnare in Borsa 600 mila euro in due minuti, forse perché troppo impegnati a fare decine di titoli su "Spelacchio" (un albero di Natale). Hanno fatto il taglia e cuci dei messaggi di Di Maio alla Raggi per spacciarlo come "bugiardo" e "garante" di Raffaele Marra in Campidoglio, mentre ne sollecitava il trasferimento. Hanno taciuto per giorni il nome dei Benetton, primi azionisti della concessionaria Autostrade (sponsor de La Repubblica delle Idee), dopo il crollo del Ponte Morandi.

Hanno scritto che il ponte era crollato anche per il no del M5S alla Gronda, che però fu bloccata da chi governava città e regione (centrosinistra e centrodestra) e per giunta contemplava l'uso del viadotto Morandi. Hanno scritto di probabili legami con la Casaleggio di tal Beatrice Di Maio e delle sue fake news anti-renziane e non si sono mai scusati quando si è scoperto che era la moglie di Brunetta. Hanno accostato le leggi razziali del fascismo al decreto Sicurezza di Salvini. Hanno pubblicato una bozza apocrifa e superata del contratto di governo giallo-verde facendo credere che prevedesse l'uscita dell'Italia dall'euro e scatenando spread e mercati. Hanno nascosto il sequestro di 150 milioni e di due giornali all'amico editore-costruttore catanese Ciancio Sanfilippo. Hanno spacciato lo scandalo Parnasi come una storia di tangenti al M5S, mentre i partiti finanziati dal costruttore sono gli altri (Pd, Lega e FI). Hanno elogiato Monti quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020 e massacrato la Raggi quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Hanno scritto che le polizze intestate dal dirigente Romeo all'ignara Raggi celavano "tesoretti segreti" per "garantire un serbatoio di voti a destra", dunque era "vicina" l'"accusa di corruzione", ma non era vero. Hanno dipinto l'assessora Paola Muraro come infiltrata di Mafia Capitale e della "destraccia" nella giunta capitolina, salvo poi intervistarla dopo le dimissioni come grande esperta di rifiuti. Hanno nascosto l'attacco di Rondolino, che sull'Unità dava del "mafiosetto di quartiere" a Saviano, reo di aver criticato la Boschi, mentre il Fatto restò solo a difenderlo. Hanno minimizzato le epurazioni dalla Rai renziana di Gabanelli, Giannini e Giletti come ordinaria amministrazione.

Hanno fatto questo e altro, i giornali del gruppo Gedi (Repubblica-Espresso-Stampa), ma noi siamo solidali con loro per gli attacchi di Di Maio, per tre motivi. 1) Nessun politico deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, tantopiù se sta al vertice del governo. 2) Quando il Fatto subiva trattamenti anche peggiori da Renzi e dai suoi killer, non ci giunse alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché usciamo tutti in edicola, la gente può notare la differenza.

Ps. Per la serie "Chiamate la neuro", segnaliamo i delirii di Carlo Bonini (Repubblica) all'autorevole Radio Cusano Campus: "Il Fatto Quotidiano specifica che non prende alcun finanziamento pubblico? È una furbizia. Siccome i lettori del Fatto sono in buona parte elettori del M5S, è un modo per raffigurare ai lettori del M5S che la terra è tonda e non quadrata, dopodiché la terra è tonda". Il pover'uomo ignora che il Fatto è nato prima del M5S e la nostra scelta di non ricevere finanziamenti pubblici prescinde dalle intenzioni di voto dei nostri lettori (peraltro note solo a lui). Volendo, Bonini potrebbe raccontarci degli aiuti statali (o a spese degli altri giornalisti) ricevuti dal suo gruppo per contratti di solidarietà, prepensionamenti & affini. E regalarci una delle sue grandi inchieste sui vertici Gedi indagati per una truffa milionaria all'Inps.

Eppure…nonostante Travaglio....

Editoria: Cdr Il Fatto, informazione libera interesse Paese, solidali con Gedi, scrive Adnkronos il 7 Ottobre 2018. “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i […] Roma, 7 ott. (AdnKronos) – “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i Comitati di redazione del Fatto quotidiano e de ilfattoquotidiano.it. “Quando giornali e siti di informazione chiudono, dichiarano esuberi o sono costretti a contratti di solidarietà, a rimetterci non sono solo i giornalisti ma anche il pluralismo e quindi la democrazia”, si legge nella nota del Cdr. “Il mercato editoriale e quello pubblicitario vivono situazioni di estrema difficoltà, connesse anche alle trasformazioni tecnologiche e al peso dei colossi della rete e dei trust televisivi, che un vicepremier e ministro del Lavoro senz’altro conosce, o almeno dovrebbe conoscere, meglio di noi. E’ inaccettabile che Luigi Di Maio liquidi i problemi di un importante gruppo come Gedi che edita Repubblica, L’Espresso, La Stampa e altre testate, sostenendo che “nessuno li legge più perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”, con offensivi riferimenti a “bufale” e “fake news” e cioè a una linea editoriale che non gli piace”, si sottolinea nella nota.

Marco Travaglio sbancato in tribunale da Tiziano Renzi: 95mila euro sono troppi, da rivedere la legge, scrive Renato Farina il 24 Ottobre 2018 su "Libero Quotidiano". A Berlusconi dev’essersi sollevato il morale, nonostante i guai tirolesi, per l’umile e insieme dignitosa domanda d’ingresso di Marco Travaglio nel club del quale il Cavaliere è da circa 25 anni presidente. Il circolo si chiama “A me mi hanno rovinato i giudici”. Leggendo l’editoriale di ieri del direttore sulla prima pagina del Fatto quotidiano siamo messi davanti a due avvenimenti antipatici e ad uno stato d’animo atto a suscitare nel lettore un moto di solidarietà. Cominciamo dai fatti. È capitato che il Tribunale di Genova, in sede civile, abbia condannato per diffamazione Travaglio e una sua cronista ad un risarcimento di 95mila euro a ristoro di Tiziano Renzi, il papà di Matteo. Questa sentenza - ci racconta il salassato con una prosa meno satirica del solito - viene dopo un’altra decisione tribunalizia, ancora più pesante: da rifondere con 150mila euro sono in questo caso i giudici di Palermo maltrattati dal Fatto per aver assolto il generale Mario Mori in uno dei tanti processi cui è stato sottoposto. In entrambi i casi siamo al primo grado di giudizio, e non è stata deliberata l’esecutività dell’esborso. Non entriamo nel merito delle sentenze. Travaglio si difende con cipiglio, e le giudica sbagliate fino allo scandalo. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo una stanza dei trofei delle assurdità. Ci è capitato di essere condannati per aver scritto che un brigatista rosso aveva partecipato a tre assassinii, mentre pare fossero solo due, e gli avremmo così rovinato la reputazione. In un’altra vicenda, un imam espulso dall’Italia e restituito al Marocco in quanto teorico del terrorismo, è stato gratificato su ordine del Tribunale di 100mila euro: glieli ha dovuti fornire Libero per non averlo trattato come un noto pacifista. La speranza è che se li sia bevuti o spesi a donne, ma temiamo siano stati impiegati per far danni.

UMORE AMARO. Travaglio dice che se va avanti cosi, tra Tribunali e avvocati, il Fatto rischia di chiudere. «Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali “a strascico” sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze». Chiede soccorso ai lettori, a questo punto. Ci risparmia di associarsi alla lagna di quelli che chiedono aiuto al sindacato unico e all’Ordine dei gazzettieri, entrambi enti non solo inutili ma dannosi. E di questo Dio gliene renderà merito: guai a invocare l’aiuto di Belzebù. A nostra volta non gli faremo il torto di fingerci accorati per lui e il suo giro. Siamo stati costretti dalla nascita, 18 e rotti anni fa, a grattarci le rogne da soli, e se le sentenze dei Tribunali ci hanno spennato, a zittirci hanno provato con qualche successo i consigli disciplinari della sventurata categoria, senza trovare sostegno da chicchessia. Amen.

Dicevo dei sentimenti toccanti che traboccano dallo scritto di Travaglio e quasi annegano gli eventi. Si avverte nel giornalista torinese l’umore sconfortato e amaro del cornuto, cui tocca persino versare l’assegno alimentare alla magistratura così amata eppur fedifraga.

REATI DI OPINIONE. Nessuno può mettere in dubbio la nostra cordiale partecipazione al lutto, avendo Libero dedicato al tema di tradimenti e ripicche una fortunata serie, dove Feltri non ha lesinato spigliati consigli per tirare su il morale agli sventurati. Ma uno buono Travaglio lo dà da solo a se stesso, associandosi a una causa che vede il nostro quotidiano, e il direttore in particolare, ingaggiato dall’età di Gutenberg in una battaglia senza quartiere. Quella per dare una regolata seria alle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa. Logico che chi sbaglia deve pagare. Ogni categoria professionale, dal medico al meccanico al giornalista, è esposta alla possibilità di errori. Che debba risarcire i danneggiati è ovvio, anche se da questa ovvietà sono immuni i magistrati, nonostante un referendum che nessuno ha osato dal 1988 applicare davvero. Occorre però misura e buon senso. Nel caso delle pretese diffamazioni - oltre alla depenalizzazione - occorre predisporre un tariffario certo e non assassino della libertà di stampa nel definire l’entità del danno, oltre a prevedere forme diverse o sostitutive del ristoro in pecunia, che vadano dalla rettifica alle scuse pubbliche. Sarebbe davvero il caso che questo “governo del cambiamento” mutasse il codice sfoltendolo dai reati di opinione e vilipendio, e impedendo che si punisca una parola esagerata come un omicidio stradale. Renato Farina

Ha ragione (sic!) Travaglio, scrive Piero Sansonetti il 24 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Beh, stavolta mi tocca dar ragione a Marco Travaglio. Ieri ha scritto un articolo appassionato, sul Fatto, per difendere se stesso e il suo giornale da una sentenza di condanna inflittagli dal tribunale per via di una querela che si era beccato da Tiziano Renzi, il padre del leader del Pd. Nessuno può negare che il Fatto da qualche anno abbia scelto Matteo Renzi, i suoi genitori, Maria Elena Boschi e chiunque altro abbia frequentazioni con l’ex premier, come bersagli fissi delle sue polemiche. A volte sensate, spesso costruite su notizie (non sempre vere) fatte recapitare da alcune Procure ai suoi cronisti (penso alla campagna battente su Consip, fondata anche su alcune false informazioni e conclusasi solo quando la Procura di Roma ha bloccato i rubinetti della fuga illegale di notizie proveniente da Napoli). E nessuno può togliere al Fatto la colpa o il merito di avere in questo modo (anche con metodi giornalistici che io francamente non condivido e che considero la quintessenza del giustizialismo) contribuito largamente alla pesante sconfitta politica di Matteo Renzi, al dimezzamento elettorale del Pd, al trionfo delle forze penta- leghiste. Ma tutto questo può essere – e a mio giudizio deve essere – il terreno di una battaglia politica e di cultura. Le Procure non c’entrano niente. E’ vero che né la politica, né tantomeno il giornalismo, sono stati capaci di contrastare le campagne del Fatto, da posizioni garantiste e liberali. Anzi, spesso gli sono corsi appresso. Ma questa circostanza non è colpa del Fatto e comunque in nessun modo investe i compiti delle Procure. Sarebbe bene metterselo in testa una volta per tutte: le Procure non possono e non devono svolgere una funzione di “surroga” della politica. Se la politica è assente è assente: non può un altro potere costituzionale assumerne i compiti. Altrimenti si realizza un corto circuito e questo cortocircuito comporta un disastro, perché riduce le libertà di tutti. E innanzitutto riduce la libertà di stampa. Una cosa è una polemica, dove si può prevalere o soccombere o nessuna delle due cose. Una cosa è una sentenza che ti manda in prigione o riduce drasticamente le tue disponibilità economiche. Travaglio su questo ha del tutto ragione. E’ probabile che sul Fatto sia uscita qualche imprecisione sugli affari economici del papà di Renzi, ed è anche molto probabile che queste imprecisioni fossero funzionali a una polemica esagerata nei confronti dello stesso papà, in quanto papà, e cioè che mirassero a danneggiare il figlio. Ma se ogni imprecisione nelle polemiche, anziché combattuta con l’arma della smentita e della rivalsa polemica, finisce con una sentenza severissima del tribunale, succede esattamente quello che denuncia Travaglio: chi svolge questo mestiere, cioè il giornalista, se mai tra le sue intenzioni ci fosse quella di criticare il potere, si rassegnerà a lasciar perdere e a diventare quieto e mansueto. Il potere non perdona, sa come intimidire, e per farsi valere usa la magistratura. Talvolta, come in questo caso, sono i politici o i parenti dei politici a usare la magistratura. Talvolta – io almeno ho questa esperienza – sono direttamente i magistrati a praticare lo stesso metodo. E’ vero che i giornalisti che criticano i magistrati sono molto meno di quelli che criticano i politici, ma quei pochi sono a rischio altissimo, anche perché i politici spesso le cause le perdono, i magistrati assai raramente. Travaglio alla fine del suo articolo propone la riforma del sistema delle querele e delle cause per risarcimento. Credo che abbia ragione da vendere stavolta. Magari dovrebbe tenere conto, nei prossimi anni, del fatto che tutto questo succede anche per un eccesso di potere assunto dalla magistratura. E dovrebbe ragionare sulla possibilità che questo eccesso di potere sia nato anche in seguito al “fiancheggiamento” della stampa giustizialista. Però è probabile che questa mia speranza sia eccessiva.

Mi sono fatto un paio di domande sulla condanna di Travaglio. Nessuna soddisfazione nel ricorrere alla magistratura nei confronti di qualcuno che mi sta sullo stomaco, scrive Andrea Marcenaro il 24 Ottobre 2018 su Il Foglio. Se c’è una cosa che mi fa onore è non aver mai voluto perdere tempo a chiamare alcuno dei miei amici anziani, ma che furono feroci ai loro tempi, per organizzare l’avvelenamento, o l’omicidio semplice, o peggio ancora lo squartamento di Marco Travaglio. Mai, non mi è nemmeno mai venuto in mente. Così ieri, quando ho visto che Travaglio stesso era stato condannato da un tribunale a pagare 95 mila euri per aver sputtanato uno dei mille che ha sputtanato, posso dirvi in tutta sincerità di essermi domandato, primo, se, come persona che aborre l’intervento della magistratura come risolutrice di ogni questione, avrei fatto un’eccezione per qualcuno che mi stava sullo stomaco. Mi sono risposto che non dovevo. E che non l’avrei fatta. Secondo, se avrei provato comunque, al di là della ragione, una per quanto piccola soddisfazione nel profondo del cuore per quella condanna. No, mi sono risposto per la seconda volta, non provavo alcun compiacimento. Neppure un’ombra. E non ho nulla di cui vantarmi, intendiamoci bene, sono fatto così. Dio, però, quanto mi piace sparare cazzate come queste.

Difendo la libertà di stampa e quindi anche “Il Fatto”, scrive Piero Sansonetti il 25 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Trovo molto, molto ragionevoli le critiche di Emanuela Bellizzi e di Filippo Bassi. (Oltretutto non sono solo ragionevoli ma sono anche – rarità – civilissime). E tuttavia dissento. Provo a spiegare perché. È chiaro – e lo ho scritto anch’io molte volte – che la stampa spesso usa in modo arrogante e anche volgare il suo enorme potere. Talvolta lo fa per spavalderia, talvolta per assecondare altri poteri (essenzialmente il potere economico o quello giudiziario, più raramente il potere politico) e con le spalle protette da questi poteri. E’ evidente che questo atteggiamento, (dovuto anche – credo – alla crisi drammatica che sta vivendo, da 15 anni a questa parte, il giornalismo italiano) costituisce un problema. Poi però c’è un secondo problema, grandissimo, ed è quello della difesa della libertà di stampa. Io sono tra quelli che pensano che la stampa, e l’informazione, in Italia siano a un livello molto basso, e che abbiano un grado minimo di indipendenza. Questo però non vuol dire che allora si può rinunciare alla libertà di stampa. Al contrario, proprio per la qualità scadente della nostra informazione è necessaria assolutamente una battaglia strenua per la libertà di stampa. È chiaro che libertà di stampa non può significare né libertà di insulto né libertà di calunnia. Ma come si combattono questi vizi? Con la magistratura? Io non credo. Credo che si combattano con la battaglia politica, con l’impegno. Conosco per esperienza come funziona l’uso della giustizia da parte del potere – per limitare la libertà di informazione. Personalmente, avendo diretto alcuni giornali ( e quando dirigi un giornale rispondi di qualunque cosa sia stato scritto) ho collezionato un po’ più di centocinquanta azioni giudiziarie contro di me ( tra penale e civile). Succede anche a altri miei colleghi. Difendersi diventa quasi impossibile, perché costosissimo. Ogni azione giudiziaria che si è costretti ad affrontare comporta fatica, tensione, preoccupazione, spese alte. Volete sapere quante di queste azioni giudiziarie sono partite da inermi cittadini? Forse due o tre. Tutte le altre sono state messe in moto da persone molto potenti, in particolare da magistrati o da politici. Le più gravi e pericolose da magistrati. Voi pensate che tutto questo non diventi un fatto oggettivo di forte intimidazione? Immaginate che sia facile continuare a scrivere di quel magistrato o di quel politico che ti ha portato in tribunale, mentre procede l’iter processuale? E sapete che anche se poi si vince la causa nessuno ti rimborserà le spese né il tempo? E sapete che se poi si perde – e non sempre perché si ha torto – si viene condannati a pene detentive o a risarcimenti altissimi, pari a quanto guadagni in due o tre anni di lavoro? Dopodichè chiunque un pochino pochino mi conosce sa che le mie simpatie (professionali) per Marco Travaglio sono a zero. E che sono molto preoccupato per come Travaglio e i suoi hanno occupato quasi tutti i talk show nazionali e hanno sottomesso gran parte del nostro sistema di informazione. Ma non è una questione di simpatia, né di giudizio sulle sue qualità professionali o morali, né di difesa di una parte politica. Il problema è molto più semplice: di fatto, la legge viene usata contro la stampa, nel 99 per cento dei casi, non per difendere i cittadini deboli ma per rendere invulnerabili i poteri più forti. Non tanto la politica, e infatti è difficile sostenere che in Italia non esista la possibilità di criticare la politica. Quanto il potere economico e quello della magistratura. La critica a questi due colossi è veramente molto difficile. Per questo io non credo che la mia difesa – forse un po’ paradossale – di Travaglio sia una difesa corporativa. (Del resto ho scritto moltissimi articoli contro gli attacchi spesso pretestuosi del Fatto a Renzi, o a Boschi o ad altri dirigenti del Pd, ma non solo del Pd). Mi pare che effettivamente sia in gioco una parte del nostro potere di giornalisti (e nella sua difesa c’è sicuramente corporativismo) ma sia in gioco anche un bene più grande e generale che è la nostra libertà di giornalisti. E la nostra libertà interessa tutti. Anche se viene frequentemente usata malissimo e trasformata in libertà di starnazzare, di insultare, di spargere odio.

P. S. So di dire una cosa controcorrente. Però io penso che le sentenze si possano criticare. Non ho mai capito perché non dovrebbe essere possibile criticare una sentenza. Forse sono sacre? Vanno rispettate ed eseguite, questo è logico, anche perché non esiste nessuna possibilità di non rispettarle. Ma perché mai se penso che sia sbagliata non dovrei avere il diritto a dirlo?

Eppure lo stesso Piero Sansonetti diceva…

Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.

Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.

Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.

Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.

Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».

Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.

Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?

Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.

Il Papa: «Giornalismo coprofilo», scrive Piero Sansonetti l'8 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione e possono cadere, senza offesa, nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno». Questo attacco durissimo alla stampa e alla televisione (con evidenti riferimenti alla stampa e alla televisione italiane) non è venuto da qualcuno dei soliti “garantisti imbavagliatori”, che vengono sempre denunciati e indicati al ludibrio pubblico dai profeti dell’informazione combattente. No, questa denuncia contro i lanciatori di fango viene dal papa Francesco Bergoglio. Il Papa ha parlato dei problemi dell’informazione e del suo degrado in un’intervista rilasciata al settimanale cattolico belga «Tertio». Non ci è andato tenero, il pontefice. Magari non tutti sanno cosa vuol dire coprofilia. E’ una parola abbastanza aspra: vuol dire amore per gli escrementi. Vogliamo dirla in modo più crudo ed esatto? Amore per la merda. È considerata una tendenza sessuale estrema, rarissima e un po’ inquietante. Il papa ha scelto questa espressione (” amante della merda”) per descrivere le caratteristiche essenziali del giornalismo, con riferimento evidente a parecchi giornali del nostro paese. E’ stato molto chiaro nel suo ragionamento. Non si è riferito solo alle (peraltro non infrequenti) calunnie. Ma anche alle verità usate non per fare informazione ma al solo fine di demolire e mettere fuorigioco un avversario. «Le tentazioni da evitare – ha detto – sono le eventualità in cui le informazioni possono danneggiare qualcuno, le tentazioni che portano i media lontani dalla loro missione, che è quella di costruire opinione. La prima tentazione si verifica quando una persona magari nella sua vita, in precedenza, nella vita passata, o dieci anni fa, ha avuto un problema con la giustizia, o un problema nella sua vita familiare, ma forse ha già pagato con il carcere, con una multa o quel che sia. In questo caso portare questo alla luce oggi è grave, fa danno, si annulla una persona! L’altra deviazione è la disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione, dire solo una parte della verità e non l’altra. Questo è disinformare. Perché tu, all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio. La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità. I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione» . Non so che risalto avrà questa frustata del papa sui giornali italiani di questa mattina. Temo scarso. I giornali italiani sono fatti così: capacissimi di criticare a sangue chiunque, del tutto incapaci di mettere in discussione se stessi. E siccome il papa è il papa, magari è difficile prenderlo di petto, come si può fare con Renzi, o con Berlusconi, o con Grillo, e dirgliene quattro, ma non c’è nessuna voglia nemmeno di ascoltarlo e di aprire una discussione seria su quanto dice. Meglio sorvolare. Il papa, non c’è dubbio, ha messo il dito nella piaga. In Italia è sempre più diffuso un tipo di giornalismo che nemmeno si pone il problema di sembrare oggettivo. Ho scritto: “sembrare”, nemmeno oso usare la parola: “essere”. Un gran numero di giornali da parecchi anni ha deciso che per conquistare lettori bisogna essere faziosi, avere dei nemici ben visibili e tirare fango (il papa direbbe: “merda”) su di loro tutti i giorni. Venticinque anni fa non era così. I giornali potevano anche essere molto faziosi, poi c’erano i giornali di partito – dichiaratamente schierati con una parte politica – ma comunque compivano uno sforzo per fornire ai lettori una informazione completa. La polemica era dura, anche molto dura, ma questo non impediva la difesa, da parte degli stessi giornalisti, della propria “autonomia”. Venticinque anni fa io lavoravo in un giornale di partito, di opposizione, molto agguerrito. E mi ricordo benissimo le lotte che noi giornalisti conducemmo a difesa della nostra autonomia, anche sfidando il potere del partito- editore, perché sostenevamo che il giornalismo, comunque, deve essere giornalismo, e deve cercare, almeno, il rispetto della verità prima della difesa degli interessi della propria parte. Noi dicevamo che non esiste il giornalista militante. Il giornalista ha le sue idee, le esprime, le applica al suo modo di lavorare, ma non rinuncia mai a sottomettersi alla verità. Poi irruppero sulla scena alcuni giornali “gridatissimi”, molto lontani dall’idea del giornalismo oggettivo. Eravamo ai tempi di “tangentopoli” 19921994. La magistratura aveva iniziato la crociata e i giornalisti messo l’elmo. Alzarono i toni della polemica, ridussero la verità a una comparsa, conquistarono copie e lettori. All’inizio erano giornali di destra, poi questo tipo di giornalismo si estese a sinistra, poi dilagò. E finì per contagiare anche la stampa – come dire? – “borghese”, che si sentì costretta ad inseguire, a fare uso indiscriminato di gossip e di intercettazioni, a venerare il “Dio Sospetto”, ha esaltare il principio della presunzione di colpevolezza. Ha ragione il papa (come spesso gli accade): quella china è diventata sempre più ripida e il giornalismo italiano ci si è rotolato, ed è sceso in basso, in basso, sempre più in basso. Ora sembra che non abbia più né la capacità né la voglia di rialzarsi in piedi, rimettersi in discussione, provare a risalire. Chissà se questa micidiale denuncia del papa, e la forza quasi rozza delle sue parole, riusciranno a scuotere qualcuno. Magari lo stesso sindacato, che qualche decennio fa era in prima fila nella battaglia dei principi alti del giornalismo, ora sembra un po’ rintanato, impaurito. Forse incapace di frenare la coprofilia.

L'impunità (dei giudici) è l'origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti su Il Dubbio, il 9 luglio 2016. Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo "Il Fatto". E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la "chimica" (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due "elementi" così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell'indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il "Fatto" è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all'indipendenza che fonda quella autolimitazione dell'indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull'indipendenza dal potere la propria - volontaria - rinuncia all'autonomia, e cioè all'indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il "Fatto". E si auto-colloca in una posizione di subalternità all'ideale - quasi religioso - del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l'hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l'Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell'aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). "Il Fatto" però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l'accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c'è assoluzione. Per capirci, c'è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all'imputato di rinunciare alla prescrizione e così' si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi - ovviamente - si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c'era e dunque era doveroso svolgere l'inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa "Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi". In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell'indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell'obbligatorietà dell'azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent'anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l'unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il "Corriere della Sera" parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la "Stampa" ha calcolato in 7000 all'anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall'Anm?

Ed a proposito di manette…

Telese: Me ne sono andato dal Fatto perché non voglio morire manettaro, scrive Chiara Sirianni il 5 luglio 2012 su Tempi. «Non ce l’ho con nessuno, ma la mia linea non è quella di Travaglio. È da venti giorni che parla di Napolitano come se fosse Totò Riina. Basta, la politica non è un virus contaminante». Ecco perché Luca Telese si fa il suo Pubblico. «Ero stufo di papelli, politologia, teoremi astrusi. A volte, invece che stare sul campo a scotennare i pochi superstiti, è importante accorgersi che la guerra è finita». Luca Telese è spavaldo, ora che ha ufficialmente divorziato dal quotidiano di via Orazio per approdare in edicola, da settembre, con una testata tutta sua. Del resto anche il Fatto quotidiano, creatura di Antonio Padellaro (direttore) e Marco Travaglio (vicedirettore e uomo icona) è nato da alcuni “dissidenti” dell’Unità (Furio Colombo in primis). E la ruota, prima o poi, gira. Pubblico sarà un giornale di 20-30 pagine, formato Berliner (leggermente più grande del tabloid, utilizzato soprattutto dai quotidiani francesi), molto colorato, pieno di disegni. Il modello di business sarà lo stesso del Fatto: gruppo di soci promotori che detengono il 51 per cento del capitale, per un investimento iniziale complessivo di 650 mila euro. Distribuito su quasi tutto il territorio nazionale, con tre centri stampa in Sardegna, a Milano e a Roma. Aspettative? «Se vendiamo diecimila copie, andiamo in pareggio. Se non vendiamo, chiudiamo». Quindici i redattori, con l’obiettivo di raccontare l’Italia della crisi, «dagli imprenditori suicidi agli operai bidonati da Marchionne». Nonostante non sia un buon momento per l’editoria (Nielsen registra -241 milioni di euro di investimenti pubblicitari nel periodo gennaio-aprile 2012 rispetto all’anno precedente), il campo di gioco è piuttosto affollato. Mentre i partiti di centrosinistra si preparano a rimescolarsi in vista delle elezioni del 2013, anche un altro giornalista “compagno” è alle prese con un debutto cartaceo nel prossimo autunno: si tratta di Piero Sansonetti, già condirettore all’Unità e poi di Liberazione, che ha in cantiere un tabloid, Paese, in distribuzione con alcune testate del Sud. Poi c’è il Manifesto, “salvato” dal decreto editoria approvato dal Senato.

Telese, col Fatto quotidiano non vi siete lasciati benissimo, stando al comunicato stampa con cui le hanno sarcasticamente augurato «buona fortuna». 

«Al Fatto eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Politicamente, a un certo punto, hanno preso il potere i croati. Parlo di Marco Travaglio e del suo gruppo. Non ho insultato nessuno: ho solo precisato che c’era una differenza di linea. In generale non ci sono stati scontri, anche perché in questi tre anni sono rimasto in redazione certo più di Marco. Faremo persino una partita di calcetto, Pubblico contro i colleghi del Fatto».

Sarà una partita appassionante, visto che in una recente intervista Travaglio ha detto: «A Telese non rispondo: preferisco ricordarmelo da vivo».

«In casi come questo c’è davvero poco da aggiungere. Fa ridere? Non mi pare. È spiritoso? Nemmeno. Intende dire che è come se fossi morto? Se sì, mi preoccupo per lui. Io invece gli auguro di fare un ottimo giornale, e di parlare di mafia finché avrà fiato per farlo. Io faccio un altro mestiere».

Si riferisce alle conversazioni telefoniche, pubblicate sul Fatto, tra Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio in relazione alla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra?

«È da venti giorni che il Fatto tratta la vicenda come se Napolitano fosse Totò Riina. È “giudiziarismo” giacobino, esasperato. Conduce alla non realtà. Il problema di Travaglio è l’antiberlusconismo tardivo, a oltranza. È come se nell’America odierna ci si ponesse il problema di liberare gli atolli dagli ultimi soldati giapponesi».

Eugenio Scalfari, fondatore ed editorialista di Repubblica, l’aveva predetto con un pizzico di sadismo: ora che non c’è più Berlusconi, Marco Travaglio avrà qualche problemino. 

«È l’ideologia del nemico. Il rischio è quello di recitare la commedia anche quando il sipario è calato. Marco è molto carismatico, ma è rimasto un po’ prigioniero del suo ruolo. Che qualcuno pensi di essere portatore di una verità rivelata a me, personalmente, inquieta molto. Contemporaneamente, Beppe Grillo è sembrato una facile via d’uscita: è un partito in forte ascesa? Sì. Ha bisogno di un quotidiano di partito? Diamoglielo».

Perché no?

«Che senso ha scagliarsi per anni contro un imprenditore televisivo per poi mitizzare un comico? Serve altro per fare politica. Non basta urlare a un microfono “siete tutti morti!”. Purtroppo in tempo di crisi tornano in auge i comici e le fattucchiere. Quando invece serve fare, non distruggere».

Ando Gilardi, uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, parlando del rotocalco Lavoro (organo della Cgil) si espresse così, riferendosi al prototipo di operaio da lui fotografato: «Si alzava la mattina troppo presto (…) e dopo troppe ore ecco che usciva e raggiungeva faticosamente casa, dove stanco morto cenava. Ora secondo la stampa illustrata di sinistra quel disgraziato, prima di andare a letto, avrebbe dovuto leggere un giornale che gli parlava della sua vita? Dio remuneri con la Gazzetta rosa tutta la stampa sportiva che è la sola che ha fatto allora, e spero continui a fare, qualcosa di utile per i lavoratori». È un rischio? La gente vuole solo evadere dalla crisi o vuole essere ritratta?

«C’era un bisogno, almeno per me, di puntare il riflettore sull’Italia che soffre. Vorrei raccontare storie di coraggio, di persone che pur nella crisi reagiscono, senza stipendio, senza paracadute. Di certo sarà un giornale di sinistra. Parafrasando Hollande, il giornale del cambiamento. Perché per uscire dalla crisi occorrono soluzioni. I cosiddetti tecnici si sono rivelati dei totali incompetenti, e sento l’esigenza di difendere lo stato sociale da un assalto che si compie togliendo i diritti ai cittadini, dandoci in pasto all’antipolitica».

E qualora i vendoliani di Sel rientrassero in Parlamento, voi accettereste un finanziamento pubblico?

«Vogliamo abbonati e lettori: ci basiamo su quelli, anche perché tutti i giornali finanziati sono falliti. Bisogna aspettare due anni, è rischioso. Stiamo presentando il giornale ovunque: andiamo ai circoli Idv, passando per Fli e le feste del Pd. Su Lusi e Penati andremo giù col Napalm, perché siamo al di là del bene e del male, siamo nel campo della criminalità. Ma con grande rispetto per chi cucina i cappelletti o fa volontariato, come i militanti Pd di Bagnacavallo, con cui parlavo qualche sera fa. Una signora, ostetrica, mi ha chiesto: vorrete mica criticare Bersani? Certo che sì. Serve un Bersani meno bollito».

Per esempio un Nichi Vendola?

«Un giornale non fa politica: suggerisce alla politica un’agenda. La mia sarà una posizione molto laica, dato che non ho tentazioni. Conosco Vendola da anni, e sono libero di dire quando sbaglia e quando la fa giusta. Conosco bene Di Pietro: su personaggi come Scilipoti lo critichiamo, se propone un referendum utile, come quello coltro la riforma Fornero, lo sosteniamo. Ho conosciuto bene pregi e difetti dei politici, e non ho il complesso del vampiro. È Travaglio quello che considera la politica come una sorta di virus contaminante».

Nina Moric contro Marco Travaglio: "Prima manettaro, poi garantista e infine inquisitore", scrive il 5 Novembre 2016 Libero Quotidiano". Marco Travaglio riesce nella mirabile impresa di farsi umiliare da Nina Moric, che lo fa a fettine con una precisione che, onestamente, non era così semplice attendersi. Lo spunto arriva da "un tale Andrea Paolini", così lei scrive, che sul Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo tutto dedicato alle battute infelici della Moric. "Io rispetto il parere degli altri - scrive Nina -, ma un giornalista dovrebbe usare aggettivi soltanto quando questi siano oggettivi o altrimenti specificare che si tratta di opinioni personali di chi scrive". E così, dopo la premessa e qualche insulto gratuito, la Moric demolisce Marco Manetta, alias direttor Travaglio. Lo definisce "una persona confusa, è diventato celebre per le sue accuse a Berlusconi e il suo scarso garantismo riguardo tutti i processi di Silvio". Ma, nota la Moric, "ad un certo punto con un cambiamento di idee da far impallidire Paolo Brosio, è diventato un garantista, uno che diceva che il carcere fosse per i criminali veri". Si parla della campagna condotta anche da Travaglio per la grazie all'ex marito della Moric, Fabrizio Corona. "Lanciò una vera e propria campagna per la sua liberazione - ricorda la croata -, cosa che a me non è dispiaciuta, sia chiaro, salvo poi sul giornale da lui diretto, pubblicare delle vere e proprie inquisizioni su Fabrizio favorendone il ritorno in carcere".

Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co, scrive il 16 giugno 2018 "L'Inkiesta". Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà. Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”

Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo.

In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.

Si grida alla libertà di stampa…

La chiamano libertà di stampa ma è tifoseria organizzata. Gli attacchi quotidiani rivolti all'esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d'intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l'approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio, scrive Ernesto Ferrante il 9 ottobre 2018 su opinione-pubblica.com. Lo scontro tra alcune componenti del governo giallo-verde e i feudatari della carta stampata è giunto ad un livello particolarmente cruento. Gli attacchi quotidiani rivolti all’esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d’intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l’approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio. Conte, preso ancora una volta di mira per il curriculum, presunti conflitti d’interessi e non dimostrata illegittimità del concorso con cui è diventato professore ordinario nel 2002, ha replicato con una lettera aperta al direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Dopo aver sottolineato che “la libertà di stampa è un bene di primaria importanza sul piano assiologico, perché costituisce il fondamento di qualsivoglia sistema democratico”, il premier ha incalzato Calabresi con due sottili domande: “Si può sollecitare una discussione invitando Lei e i Suoi giornalisti a valutare se Voi stessi siate davvero consapevoli di quanto preziosa sia la libertà di espressione e di quali implicazioni l’amministrazione di questo “bene pubblico” comporti sul piano delle responsabilità ?”. E ancora: “Siamo sicuri che le difficoltà con cui attualmente si sta confrontando un po’ tutta la carta stampata siano da ricondurre ai nuovi strumenti info-telematici e non anche, quantomeno in parte, alla rinuncia a coltivare più rigorosamente il proprio mestiere, fidando nell’approfondimento critico delle notizie e nella verifica rigorosa delle fonti?”. Il professore ha rinnovato l’invito al direttore di Repubblica ad avere “un confronto sul momento attuale che sta vivendo la carta stampata, sullo stato dell’informazione e su altre rilevanti questioni per il nostro sistema democratico”, chiarendo anche l’unica condizione posta: che si possa video-registrare l’incontro “in modo che avvenga in piena trasparenza e che di esso sia reso partecipe il più ampio pubblico”. Confronto a cui, stando a quanto ha scritto il presidente del Consiglio, Calabresi si è sottratto, in questi mesi. Meno articolata ma decisamente più veemente è stata la presa di posizione di Luigi Di Maio che attraverso una diretta Facebook, si è scagliato contro i giornali che sistematicamente criticano la maggioranza, ridicolizzandone alcuni esponenti. “Per fortuna, ha detto Di Maio, ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle fake news dei giornali e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini, tanto è vero che stanno morendo parecchi giornali tra cui quelli del Gruppo L’Espresso che, mi dispiace per i lavoratori, stanno addirittura avviando dei processi di esuberi al loro interno perché nessuno li legge più, perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”. L’impulsività ha portato il ministro del Lavoro a fare un po’ di confusione, prestando il fianco alle critiche del Gruppo Gedi, il colosso nato dall’integrazione di Itedi (Italiana Editrice) e Gruppo L’Espresso che controlla la Repubblica, la Stampa, il Secolo XIX e i vari giornali locali di Finegil, come Il Tirreno, la Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara, La Provincia Pavese e la Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, La Nuova Venezia e Mestre, la Tribuna di Treviso e il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto e Il Piccolo e il trisettimanale La Sentinella del Canavese. Il leader del M5S, nello scontro con la carta stampata che fa rumore e tendenza, paga anche il conto di una scelta strategicamente sbagliata del Movimento, quella dell’abolizione indiscriminata dei contributi pubblici erogati dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio. Gli aiuti diretti, che non esistono più già da qualche anno, permettevano la sopravvivenza dei “piccoli”, ovvero i giornali “politici”, quelli delle cooperative di giornalisti e quelli delle minoranze linguistiche. L’ultimo governo Berlusconi e soprattutto gli esecutivi Monti e Letta, hanno progressivamente azzerato la contribuzione, decretando la fine di tante testate e del pluralismo vero e diffuso dell’informazione. I grandi, con editori impuri e grossi gruppi industriali alle spalle, hanno indirettamente beneficiato della campagna condotta dal Movimento Cinque Stelle e da Matteo Renzi. Dure critiche al vicepremier grillino sono state rivolte da Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana che hanno parlato di “insulti del vicepremier Luigi Di Maio ai giornalisti di Repubblica e dell’Espresso” che sarebbero “l’ennesima dimostrazione del disprezzo nutrito nei confronti dell’informazione libera e del ruolo che questa è chiamata a svolgere in ogni democrazia liberale”. “Di Maio, come del resto buona parte del governo, si legge ancora nella nota, sogna di cancellare ogni forma di pensiero critico e di dissenso e si illude di poter imporre una narrazione dell’Italia lontana dalla realtà. Auspicare la morte dei giornali non è degno di chi guida un Paese di solide tradizioni democratiche come è l’Italia, ma è tipico delle dittature. È bene che il vicepremier se ne faccia una ragione: non saranno le sue minacce e i suoi proclami a fermare i cronisti di Repubblica e dell’Espresso, ai quali va la solidarietà del sindacato dei giornalisti italiani, e a piegare il mondo dell’informazione ai suoi desiderata”. Una posizione, quella della Fnsi, che appare molto orientata politicamente contro l’attuale governo. Non ricordiamo simili toni con i governi precedenti, colpevoli di aver condannato alla disoccupazione migliaia di giornalisti, poligrafici, distributori ed edicolanti. A Di Maio ha risposto anche il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, parlando “di nuovi potenti, ovunque nel mondo” che “si sono accorti che grazie alle tecnologie possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode. Basta vendere ai cittadini l’illusione della comunicazione diretta, presentata come la più grande delle conquiste democratiche”, attacca Calabresi. “Siamo un giornale di opposizione, è vero, scrive ancora il direttore del quotidiano del colosso Gedi, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l’Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l’incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni”. Parole inequivocabili e pesanti che non ci sembrano di difesa della libertà di stampa ma di una posizione politica chiara, antitetica a quella del governo giallo-verde. Giornale di opposizione oggi ma di sostegno palese agli esecutivi guidati da Monti, Letta e Gentiloni. E morbido nelle critiche a Renzi. Cassa di risonanza di un ceto politico ed economico che non può certo definirsi popolare e di assetti di potere nazionali ed internazionali che mal digeriscono i cambiamenti di classe dirigente, legittimati a suon di voti dall’elettorato. “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non viviamo di stipendi pubblici (ci avete mai pensato che sia Di Maio sia Salvini non hanno mai avuto altra busta paga nella vita che non fosse quella fatta con i soldi delle nostre tasse?), aggiunge ancora Mario Calabresi, rincarando la dose, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano”. La chiamano libertà di stampa ma a noi sembra più che altro tifoseria organizzata. Le consorterie finanziarie vogliono indebolire il governo e costringerlo alla resa per continuare con l’austerità e i sacrifici che oltre a rallentare la crescita del Paese, hanno eroso i risparmi delle famiglie. Tanti in queste ore inneggiano alla democrazia ma la vorrebbero di fatto sospendere a colpi di spread e di fluttuazioni finanziarie eterodirette per consentire il ritorno al timone degli sconfitti il 4 marzo scorso. Vogliono la cessione totale della sovranità e il governo del cambiamento, pur con i suoi difetti, è un ostacolo in tal senso.

Giornalismo o propaganda? Scrive Valerio Cataldi, presidente Associazione Carta di Roma il 04 ottobre 2018. Ora il colera. L’ennesimo allarme sanitario infondato, impone una riflessione sulla dignità del giornalismo. È ora di scegliere da che parte stare. È necessario stabilire una volta per tutte quale è il limite oltre il tollerabile. Le norme ci sono, i codici deontologici anche, il sistema sanzionatorio è li ad aspettare di essere applicato. Cosa manca allora? Possibile davvero che un giornale si possa permettere periodicamente di lanciare allarmi sanitari, di seminare panico e di spargere menzogne senza subire conseguenze? Credo che di fronte all’ennesima prima pagina disgustosa di Libero la vera domanda sia: quale è il limite di falsità che bisogna superare in questo paese per smettere di continuare a definire giornalismo una certa stampa. È una domanda che giro ai consigli di disciplina dell’Ordine dei giornalisti che si troveranno, di nuovo, a dover esprimere un giudizio su un titolo come quello di oggi sul colera a Napoli portato dagli immigrati. Ma in realtà è una domanda che dovremmo porci tutti noi che facciamo questo mestiere. Quanto siamo disposti ancora a tollerare la violazione delle più elementari regole del mestiere prima di avere una reazione di dignità professionale? C’è un problema profondo di credibilità da recuperare, che viene affossata ogni volta che si propone una prima pagina come quella di oggi. Il tema dei migranti è quello che più di ogni altro riesce a stimolare il lavoro degli “spaventatori” di professione. Ci hanno parlato di imminenti diffusioni di epidemie di lebbra, di ebola, di tubercolosi. Da anni si ripete costante un allarme sanitario terrificante che se avesse un minimo fondamento, dovrebbe prevedere misure di profilassi severissime e riguarderebbe tutti noi. Ma chi si trova di fronte un titolo come quello sul colera come può non aver paura? Dicono che è la verità che è spaventosa, ma quali sono le prove della diffusione di queste malattie? Dove sono i riscontri agli allarmi continui che vengono diffusi attraverso questi messaggi terrorizzanti? Non basta trincerarsi dietro l’articolo 21 della costituzione. Qui non si tratta di libertà di opinione. Questa è propaganda che diffonde paura. Col giornalismo non ha nulla a che fare. Non sta a noi stabilire se viola il codice penale. Sta a noi stabilire se viola le regole fondanti del mestiere di giornalista, la ricerca della verità sostanziale dei fatti. Sta a noi decidere se questo è giornalismo o semplicemente propaganda.

M5S: "La Repubblica dell’inganno è indifendibile, questo non è giornalismo", scrive Silenzi e Falsità l'8 ottobre 2018. “Il direttore della "Repubblica dell’inganno", Mario Calabresi, stamani prova a difendere l’indifendibile con un imbarazzante editoriale pubblicato sul suo giornale”. Così il Movimento 5 Stelle in un post sul proprio blog ufficiale. “Che La Repubblica sia diventato un quotidiano di regime è sotto gli occhi di tutti, – prosegue il post – basti pensare che tra i senatori del Pd c’è Tommaso Cerno, fino allo scorso gennaio condirettore de La Repubblica. Ma il quotidiano "piddino" ha superato ogni limite ‘deontologico’: oltre ad essere fazioso, mentre un giornale dovrebbe essere sempre super partes, ha deciso di avviare una campagna denigratoria contro il MoVimento 5 Stelle. E lo fa sfornando continuamente fake news”. I 5Stelle elencano poi le “bufale e notizie infondate che minano l’informazione italiana” pubblicate dal quotidiano romano:

– La beffa fiscale: tasse più alte per 3,2 milioni di partite iva;

– Di Maio è garante di Marra la prova è nelle chat “Lui è uno dei miei, un servitore dello Stato”;

– I segnali tra grillini e Lega e l’incontro Salvini-Casaleggio contro le larghe intese;

– La Lega contro Salini dg Rai. Tg1, Di Maio vede Sangiuliano;

– Vaccini, Di Maio come Salvini: “No all’obbligo, siamo per le raccomandazioni”;

– Reddito di cittadinanza, ipotesi mini-sussidio: 300 euro al mese a 4 milioni di persone;

– Vitalizi, così è impantanata la riforma bandiera del M5S.

“Per non dimenticare – aggiungono – il video pubblicato da La Repubblica con gli applausi taroccati in occasione del funerale di Genova. Applausi destinati al Governo che La Repubblica ha montato e smontato per attribuirli invece al presidente Mattarella”. “Anche La Stampa, – proseguono i pentastellati – stesso gruppo editoriale de La Repubblica, è riuscita a dare linfa a questa meschina propaganda anti-M5S con la diffusione di una fake news sconcertante. Vi ricordate la storia di Beatrice Di Maio, che secondo la La Stampa era un account chiave della cyber propaganda del MoVimento? Dietro a quell’account, invece, c’era la moglie di Renato Brunetta”. “E questa sarebbe informazione? Con la pubblicazione di notizie false e intenzionalmente alterate viene fatto del male all’informazione e ai cittadini italiani. Con questo comportamento scorretto ed in mala fede La Repubblica danneggia gravemente l’interesse pubblico per dare linfa a interessi privati. Inoltre con la diffusione di notizie false viene destabilizzata l’informazione nel nostro Paese. Lasciatecelo dire: questo non è giornalismo, questa è solo propaganda di partito,” concludono.

Repubblica cieca, scrive il 10 ottobre 2018 Augusto Bassi su "Il giornale". «Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità». Questo il titolo del poderoso editoriale firmato Mario Calabresi. La cui parafrasi è: «Detestato Di Maio, ci stiamo cacando in braca: continueremo a taroccare la verità». La letterina di richiamo del direttore di Repubblica al leader dei 5Stelle metterebbe tenerezza, non facesse ribrezzo. Il dettato è infallibilmente pedestre, la cifra stilistica malconcia, e quanto ai contenuti vale ciò che già avevamo segnalato in passato: un genuino compendio della depravazione intellettuale e morale dei galoppini di un regime boccheggiante, chiamati con una pernacchia a fottere l’opinione pubblica e oggi furenti, frustrati all’idea di non poterla più penetrare neppure servendosi della pompetta; crucciati innanzi alla constatazione di essere diventati impotenti. La primitiva impalcatura dell’argomentare si basa su un trito trucco da cialtroni: calunniare come oscurantista chi si ribella all’oscurantismo della stampa garzona. E lo fa ancora e ancora e ancora alla stessa maniera: si maschera un interesse volgarmente opportunistico da nobile slancio democratico, rivendicando il pluralismo dell’informazione, la libertà di stampa. Ovvero si difende la libertà di usare la stampa a fini politici, contro il pluralismo. Per rendere potabile il veleno si accusa preventivamente la controparte di tutte le proprie alterazioni. Sapendo di essere agitatori di una campagna contro il governo, e contro i 5Stelle in particolare, che sta diventando ogni giorno più ossessiva e più aggressiva, si puntano le corna sulla controparte, accusandola di aggredire la stampa; sapendo di essere dispotici, si urla al fascismo; riconoscendosi avidi e meschini, si biasima la spilorceria d’animo; consci di essere scadenti, si taccia di semplificazione, di incompetenza; sapendosi falsi e conformisti, si annuncia di voler smontare falsità e luoghi comuni; sapendosi piromani della malafede che tutto prova a incenerire, si punta il dito sulle fiammate altrui. «Vogliono mandarci fuori strada, lo dicono e ripetono ogni volta che ne hanno occasione, in pubblico e in privato. Con una costanza e una rabbia che non ha precedenti»; «Siamo preoccupati per noi e per il Paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica»; «Per il potente che vuole liberarsi dalle critiche e vorrebbe solo giornali servizievoli che battono le mani sotto il balcone, quale migliore occasione che infilarsi in questo passaggio storico per aumentare le difficoltà?»; «il Movimento 5 Stelle non digerisce, non sopporta che la voce più ascoltata e diffusa della rete sia dalla prima pagina critica con loro. Siamo “pericolosi” proprio perchè Repubblica è leader in quello che considerano il loro territorio, la loro prateria»; «Chi disturba e insiste nel fare domande, nel mettere in evidenza contraddizioni, nello svelare errori e furbizie, deve essere messo fuori gioco. In fretta. Con qualunque mezzo». In queste poche righe c’è il male. Ancora. Ma non il genio diabolico di un oscuro e ragnato manipolatore, piuttosto la manifesta e dozzinale falsificazione del reale al servizio del padrone, incapace di vedere oltre le proprie corna. Il male nella sua banalità, il male cieco. Ignaro che la sua coda mefistofelicamente suina abbia bucato il camice da ministrante catto-progressista e sia visibile a chiunque butti l’occhio. O ancora il titolo che leggerete domani in edicola: «La manovra non piace a nessuno». Così è il giornalismo di Repubblica: indefinito. I rappresentati che hanno delegato ai propri rappresentanti le scelte politiche ed economiche in una democrazia rappresentativa e che stanno sopra il 60% dei consensi in tempo reale… sono nessuno. Provvidenzialmente, la doppia negazione rende giustizia: loro sono qualcuno; Repubblica è niente. Ogni frase «che continua a raccontare la verità» vergata “a occhi chiusi” da Calabresi porta l’impronta della mano, priva di pollice opponibile, che la verità ha da sempre goffamente cercato di rovesciare.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

INADEMPIENZE. RENZI: DA PADRE IN FIGLIO.

Ispezione nella banca che diede il mutuo al padre del premier. Tiziano Renzi interrogato sul crac: Matteo non c’entra, scrive Erika Dellacasa su “Il Corriere della Sera”.  Si è presentato in Procura a Genova con un cappellaccio e un giaccone quasi tre settimane fa e nessuno si è accorto che quell’uomo massiccio era il padre del presidente del Consiglio. Tiziano Renzi, 63 anni, è stato convocato dal sostituto procuratore Marco Airoldi quale principale indagato per bancarotta fraudolenta nell’indagine penale seguita al fallimento della società di famiglia, la Chill Post. Nell’interrogatorio, assistito dal suo legale, Renzi senior ha tenuto subito a chiarire una cosa: «Matteo in questa storia non c’entra nulla». Perché nulla sapeva. Punto. Per il resto l’imprenditore si è difeso dettagliatamente contestando le accuse relative a una vicenda, in realtà, dai contorni assai banali nelle pratiche di fallimento e che mette in campo cifre modeste ma il punto è quel cognome: Renzi. Tutto è partito nel 2013 con la segnalazione alla Procura del curatore fallimentare della Chill Post, società di distribuzione di giornali e marketing editoriale con sede a Genova, per la cessione «sospetta» nell’ottobre del 2010 del ramo d’azienda alla Chill Promozioni srl di cui era presidente Laura Bovoli, madre di Matteo. Una vendita fra moglie e marito per la cifra giudicata incongrua di 3.878 euro e 67 centesimi, un «regalo» per svuotare la Chill Post da ogni contenuto trasformandola in una specie di bad company destinata a fallire nel giro di non molto tempo con un buco a bilancio di oltre un milione di euro. Da qui sono partite le indagini della Procura della Repubblica di Genova che si sono in seguito concentrate su un mutuo ottenuto dalla Chill Post, pochi mesi prima della vendita sospetta, dal Credito Cooperativo di Pontassieve. La società si trovava già in cattive acque e aveva sulle spalle un’azione giudiziaria per non aver pagato l’affitto della sede (il che le è poi costato una condanna al pagamento di 11 mila euro). Il mutuo di 496.717,65 euro è stato garantito dalla FidiToscana, la società controllata al 49 per cento dalla Regione Toscana - il resto dell’azionariato è costituito da banche - con lo scopo istituzionale di sostenere lo sviluppo di piccole imprese. È stato concesso con la causale di «sostegno alle imprese femminili» perché in quel momento risultavano responsabili la madre e una sorella di Matteo Renzi (le relazioni della polizia giudiziaria tuttavia escludono responsabilità della madre del premier, il cui ruolo sarebbe stato solo funzionale alle attività del marito). La Banca di Pontassieve si è inserita nell’elenco dei creditori dopo la dichiarazione di fallimento, anzi è il maggior creditore, ma a rimetterci di più sarebbe la FidiToscana che ha garantito il prestito e che si troverebbe ora - secondo le indagini - a dover rispondere dell’ottanta per cento della cifra. Sempre che la Banca di Pontassieve eserciti il suo diritto a chiedere conto della garanzia. Da sottolineare poi che il mutuo concesso era chirografario, senza accensione di ipoteche quindi ma solo basato sulle garanzie. E proprio lo stesso giorno in cui è stato interrogato a Genova Tiziano Renzi la Guardia di Finanza ha effettuato su ordine della Procura una perquisizione nella sede della Banca di credito Cooperativo di Pontassieve per acquisire documenti relativi alla concessione del mutuo e alle garanzie fidejussorie.

CHE IMPRENDITORI, ‘STI RENZI - LA PROCURA DI GENOVA È INTERESSATA NON SOLO AL FALLIMENTO DELLA SOCIETÀ “CHIL” MA PURE A QUELLO DELLA “MAIL SERVICE SRL” NEL 2011, DI CUI TIZIANO RENZI ERA SOCIO AL 60% - E PER LA “EVENTI 6” ORA RISCHIA ANCHE LA MADRE. La Mail Service nel 2004 aveva un capitale sociale di diecimila euro e dopo tre trasferimenti e numerosi passaggi di proprietà nel 2011 è stata dichiarata fallita con un passivo da brividi: 37 milioni 493 mila 568 euro. Come la Chil Post anche la Mail Service è passata dalle mani di Renzi senior a quelle di Massone, nell’ottobre 2006…, scrive “Dagospia”.

1 - IL CASO DEL PAPÀ DI RENZI: L’AMICO SCOUT DEL FIGLIO E QUEI 500 MILA EURO di Marco Imarisio per il “Corriere della Sera”. Al termine dell’ormai consueta precisazione sulla giustizia a orologeria il procuratore Michele Di Lecce assicura che le indagini guarderanno anche a possibili «stranezze e abnormità» presenti nella lista dei creditori. Il verbo coniugato al futuro è piuttosto indicativo dello stato dell’arte. È passato quasi un anno dal deposito della relazione del perito nominato dal tribunale di Genova sul fallimento della Chill Post che ha portato all’accusa di bancarotta fraudolenta nei confronti di Tiziano Renzi, padre di figlio piuttosto celebre, ma siamo ancora agli inizi. Con questo tipo di vicende funziona così, sostengono in Procura, dove si stupiscono dello stupore. Quasi tutte le inchieste sui fallimenti necessitano di una proroga delle indagini, dovuta a ulteriori consulenze e accertamenti in arrivo. Tempi lunghi per tutti. Anche per chi porta un cognome eccellente. «Sono dettati solo da esigenze processuali», dice piccato Di Lecce «Noi non prendiamo nessuno in ostaggio». A tal proposito il procuratore fa sapere che i contributi e il trattamento di fine rapporto versati all’attuale presidente del Consiglio costituiscono «fatto lecito interno a un’azienda» e sono archiviati alla voce «affari suoi». La vendita a condizioni particolari delle quote della Chill Post non è l’unica anomalia segnalata ai magistrati liguri. Anche l’elenco delle aziende e delle persone che aspettano ancora di vedere i loro soldi sarà oggetto di controlli e verifiche, come confermato dal procuratore. A vincere per distacco sugli altri pretendenti in termini di crediti da esigere è il Credito Cooperativo di Pontassieve, piccola banca con sede nel paese dove risiede Matteo Renzi, che «intorno al 2010», come afferma un alto dirigente dell’istituto, concede un mutuo da mezzo milione di euro a una azienda che opera nel Genovese, a quell’epoca già in fase terminale, che da almeno un anno, così risulta dal prospetto dello stato passivo redatto dal tribunale, aveva già smesso di pagare affitti e fornitori. Le condizioni poste dalla banca non erano draconiane. Si tratta di un mutuo chirografario a lungo termine, che in genere viene richiesto e concesso per importi molto contenuti. Non è prevista alcuna garanzia ipotecaria, ma solo la garanzia personale del richiedente o di terzi. «Siamo molto tranquilli perché abbiamo le garanzie necessarie» riferiscono fonti interne. La tranquillità non era invece di casa alla Chill Post. Nell’ottobre di quel fatidico 2010 Tiziano Renzi cederà per la cifra in apparenza simbolica di 3.878 euro l’unico ramo d’azienda produttivo e in attività, la distribuzione dei giornali in Liguria e non solo, all’azienda di famiglia presieduta da Laura Bovoli, sua moglie. Nel 2009 e nel 2010 il fatturato della filiale genovese dell’azienda è ormai ridotto ai minimi termini. Nonostante l’entità dell’importo, il Credito Cooperativo di Pontassieve non ha chiesto il fallimento della Chill Post. A farlo sono stati i secondi e terzi in classifica, Asti Asfalti e Mirò Immobiliare, che reclamavano rispettivamente 228.648 e 178mila euro. L’istituto toscano si è limitato a domandare in seguito l’inserimento formale nell’elenco dei creditori che intendono rivalersi sui responsabili del fallimento. La banca del paese è l’unico filo di questa storia che in qualche modo può condurre all’attuale presidente del Consiglio. L’attuale presidente del Credito Cooperativo di Pontassieve, in carica dal 2010, ex consigliere di amministrazione dal 2008 al 2010, è il quarantenne Matteo Spanò, amico del presidente del Consiglio fin dalla tenera età e suo uomo di fiducia. Appena diventato sindaco, Renzi gli affidò la guida dell’associazione Muse, che gestisce gli spazi museali di Palazzo Vecchio e tutti i musei civici di Firenze, una specie di cassaforte cittadina. L’ex boy scout Spanò, ai vertici dell’Agesci, l’associazione di categoria, è stato uno degli organizzatori della Route, l’evento che nell’agosto appena trascorso ha riunito 35 mila scout nel parco di San Rossore, con la partecipazione straordinaria, durata due giorni, di Matteo Renzi. Le eventuali colpe dei padri non devono ricadere sui figli, ma anche viceversa. Le verifiche svolte finora dalla Procura e le candide dichiarazioni del diretto interessato hanno chiarito il ruolo molto marginale svolto nella vicenda da Gianfranco Massone, l’imprenditore piemontese di 75 anni che ha rilevato i resti della Chill Post mediante acquisto delle quote detenute da Tiziano Renzi. A essere indagato è invece suo figlio Mariano. Non proprio un socio ma certo una figura che ricorre spesso nei complicati affari liguri del papà del presidente del Consiglio.

2 - TIZIANO RENZI, UN FALLIMENTO TIRA L’ALTRO (DA 38 MILIONI), di Ferruccio Sansa e Davide Vecchi per il “Fatto quotidiano”. Non è soltanto per un fallimento di tre anni fa, come lamenta Tiziano Renzi. Gli accertamenti della Procura di Genova stanno ricostruendo l’intera vita imprenditoriale del padre del premier. Tutte le società nate nella casa di Rignano sull’Arno, i passaggi di proprietà, i rapporti tra i singoli soci, la rete di contatti, gli scambi commerciali. Tutto. Un lavoro che porta almeno fino al 2006. E alla Mail Service Srl, una società di cui il padre del premier era socio di maggioranza, con il 60% del capitale, e che nel 2011 è stata dichiarata fallita. Proprio come la Chil Post che, secondo l’accusa, è stata svuotata del ramo aziendale sano, e poi accompagnata al cimitero finanziario da Gian Franco Massone con debiti per 1 milione 150 mila euro. La Mail Service potrebbe rappresentare un precedente utile al fine delle indagini perché sembra attuare uno schema poi ripetuto. La Mail Service nel 2004 aveva un capitale sociale di diecimila euro e dopo tre trasferimenti e numerosi passaggi di proprietà nel 2011 è stata dichiarata fallita con un passivo da brividi: 37 milioni 493 mila 568 euro. Come la Chil Post anche la Mail Service è passata dalle mani di Renzi senior a quelle di Massone, nell’ottobre 2006. Non in quelle di Gian Franco, però, ma in quelle del figlio Mariano. Ed è quest’ultimo infatti a essere indagato per la bancarotta fraudolenta della Chil insieme a Tiziano Renzi e non il padre Gian Franco. Gian Franco fa solo da prestanome per il figlio Mariano che il 3 novembre 2010, quando il padre riceve da Tiziano Renzi la proprietà della Chil, ha già all’attivo la chiusura di tre società e cambiali in protesto per oltre 250 mila euro. Il giovane Massone, classe 1971, ha un curriculum che attira gli investigatori. Le tre società di cui negli anni diventa amministratore unico, nel giro di poco tempo dichiarano il fallimento: Directa, M&M Trasporti e One Post Adriatica. Stessa sorte tocca ad altre due aziende di cui è socio, Aesse e Mostarda. Fino ad arrivare alla Mail Service portata al fallimento nell’ottobre 2011 con un buco da 38 milioni di euro dopo essere stata ceduta da Massone ad Alberto Cappelli che, ipotizza il curatore fallimentare, figura solo come testa di legno. Così per la CHIL interviene il padre. Ma i rapporti con Tiziano Renzi li ha Mariano. La Chil Srl e la Mail Service negli anni tra il 2004 e il 2006 hanno la sede sociale nello stesso indirizzo: Via Scajola 46 a Firenze. Sono gli anni in cui Matteo Renzi figura come dirigente dell’azienda di famiglia. E lo stesso Gian Franco, interpellato da Giacomo Amadori su Libero, ha confidato: “Tiziano Renzi l’ho visto una sola volta in vita mia, quando mio figlio mi chiese di portargli il pesto al casello dell’autostrada”. Generosità ligure. Come siano nati i rapporti tra la famiglia Massone e Renzi è un altro dei punti che gli inquirenti stanno tentando di ricostruire. La conferma arriva dal procuratore capo, Michele Di Lecce, che sottolinea ogni volta che può quanto sia ancora difficile avere un quadro complessivo dell'inchiesta. “Siamo appena all’inizio”, ripete. “Infatti a Tiziano Renzi noi abbiamo solo notificato la proroga delle indagini”. E “la notizia dell’avviso di garanzia, a quanto ci è dato sapere, è trapelata da Firenze non da qui”, aggiunge Di Lecce anche per rimandare al mittente le accuse di giustizia a orologeria nei confronti del premier impegnato nella riforma. Al momento l’unico reato ipotizzato è la bancarotta fraudolenta ma l’indagine, come detto, si è estesa anche ad altre società dell’universo renziano, a cominciare dalla Eventi 6 di Laura Bovoli, madre del premier, che secondo l’accusa riceve le attività sane della Chil Post e salva il tfr di Matteo Renzi. “I capi d’accusa come il numero delle persone coinvolte potrebbero aumentare, ma le indagini sono ancora in corso e stiamo ricostruendo tutti i rapporti nel dettaglio”, aggiunge Di Lecce. Sono inoltre tuttora in corso le verifiche sui creditori della Chil indicati dal curatore fallimentare: 19 aziende che vantano oltre un milione di euro dalla società. C’è il Credito Cooperativo di Pontassieve, presieduto dal renziano Matteo Spanò, con cui l’azienda aveva un debito di 496 mila euro. Insoluto anche un prestito da 50 mila euro con la Unicredit, altri 72 mila con la Bmw, 178 mila euro con l’immobiliare e poi 15 mila d’affitto della sede, multe del Comune e persino le gomme per l’auto. Questo è quanto lasciato nella Chil da Tiziano Renzi prima di cederla a Massone. Ma solo dopo aver trasferito alla Eventi 6, società della moglie, i contratti in essere, i beni e il tfr del figlio.

E Renzi figlio ci fa pagare i debiti di Renzi padre. Le colpe dei padri non ricadano sui figli. Ma i debiti sì, scrive “Giornale.it”. E se uno dei figli è il Presidente del Consiglio ecco che qualcuno provvede a sladarli. Si torna a parlare dell’”affaire”  Chil post, la società di Tiziano Renzi, dichiarata fallita nel marzo 2013 e sulla quale la Procura di Genova ha aperto un fascicolo iscrivendo nel registro degli indagati il padre del premier con l’accusa di bancarotta fraudolenta. Secondo i magistrati liguri, Tiziano avrebbe ceduto la parte sana dell’azienda alla Eventi 6 intestata alla moglie, Laura Bovoli, società che all’epoca dei fatti aveva tra i propri soci anche Alessandro Conticini, fratello di Andrea, marito di Matilde Renzi, sorella del premier e a sua volta socia nella Eventi 6. Alla Chili Post rimangono così solo i debiti tra cui un mutuo di 496.717,65 euro stipulato nel luglio 2009 con il Credito Cooperativo di Pontassieve. Una cifra sostanziosa, concessa con un mutuo chirografario: senza accensione di ipoteche, quindi, ma solo basato sulle garanzie. La banca è guidata da Matteo Spanò, grande amico e sostenitore del premier. Nel 2005, Spanò era stato nominato direttore generale della Florence Multimedia, società della Provincia di Firenze creata dal neoeletto Renzi per la comunicazione e poi finita nel mirino della Corte dei conti che ha inizialmente ipotizzato un danno erariale di 10 milioni di euro. Non solo. Spanò era anche socio di Conticini nella Dot Media, società che ha ricevuto appalti diretti dal Comune, negli anni in cui Renzi è stato sindaco, e da altre controllate come la Firenze Parcheggi guidata dal fidatissimo Marco Carrai. Dot Media oggi cura fra l’altro la campagna elettorale dell’eurodeputata Alessandra Moretti candidata alla presidenza della Regione Veneto. Diventato presidente della banca, Spanò elargisce il prestito alla Chil post di Tiziano Renzi che per ottenerlo riceve la copertura a garanzia del fondo per le piccole e medie imprese da Fidi Toscana spa della Regione guidata da Enrico Rossi e partecipata anche da Provincia e Comune di Firenze oltre alla Cassa di Risparmio nel cui board siede Carrai. Fidi Toscana delibera la copertura dell’80% e il 13 agosto 2009 la banca versa i soldi alla Chil. I ratei vengono regolarmente pagati per due anni. Poi la società, nel frattempo svuotata della parte sana e poi ceduta ad altri titolari (ora indagati assieme a Tiziano Renzi), non rispetta più i versamenti e dichiara il fallimento. Così nell’estate 2013, la banca, ammessa al passivo dal Tribunale fallimentare di Genova, si rivolge a Fidi ottenendo il versamento di 263.114,70 euro, l’80% dell’esposizione complessiva. E la vicenda potrebbe chiudersi qui. Invece, il 18 giugno 2014, il ministero dell’Economia delibera di rifondare Fidi di 236.803,23 euro e liquida la somma il 30 ottobre successivo attraverso il Fondo centrale di garanzia. E così il debito contratto dal padre di Renzi è stato coperto dallo Stato. “La perdita sofferta sull’operazione per noi è stata di 26 mila euro”, afferma Gabriella Gori, alla guida di Fidi da appena una settimana. Si è insediata il 29 dicembre a seguito delle dimissioni di Leonardo Zamparella costretto dal Cda a lasciare l’incarico perché condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi per concorso in bancarotta come vicedirettore vicario del settore leasing e factoring di Monte dei Paschi. Il cambio al timone è stato determinante per avere accesso alle informazioni sulla Chil a seguito delle richieste formulate in merito dal consigliere regionale Giovanni Donzelli, oggi candidato presidente della Toscana per Fratelli d’Italia. Le risposte sono arrivate il 30 dicembre: Gori ha redatto un documento in cui riassume l’intera vicenda, con la specifica dei versamenti da parte del Tesoro. Per carità: tutto secondo protocollo, nulla di illecito.

Chil Post, lo Stato paga i debiti ma l’azienda di papà Renzi non aveva i requisiti. L'azienda non comunicò il trasferimento di sede a Genova per non perdere la copertura di Fidi Toscana, scrive Davide Vecchi su “Il Fatto Quotidiano”. Tiziano Renzi avrebbe dovuto comunicare il trasferimento della sede della sua azienda, la Chil Post, da Firenze a Genova alla finanziaria Fidi Toscana, come prevede lo statuto del fondo di garanzia da cui ha ricevuto i fondi per coprire parte dei debiti contratti. Il cambio di regione avrebbe ovviamente comportato la decadenza del beneficio. Per carità: si sarà sicuramente trattato di una dimenticanza. Il dato emerge dagli atti custoditi in Regione relativi all’azienda di casa Renzi, poi fallita e per cui il padre del premier è indagato per bancarotta fraudolenta dalla procura ligure. E non è l’unico elemento interessante. Ricostruendo la vicenda emerge che la Chil è una delle pochissime aziende per cui il ministero dell’Economia ha coperto il fondo di garanzia toscano. Creato nel febbraio 2009 per volere dell’allora governatore Claudio Martini e finalizzato ad aiutare le imprese regionali ad affrontare la crisi economica, il fondo “emergenza economia misura liquidità” in cinque anni ha sottoscritto garanzie per un miliardo e 126 milioni di euro a 5.687 aziende toscane. E ne ha dovuto effettivamente elargire solamente 16 milioni di euro. Nulla, rispetto alla cifra complessiva garantita. Di questi 16 milioni lo Stato, attraverso il fondo centrale di garanzia costituito presso il Mef, ha restituito a Fidi Toscana appena un milione di euro, tra cui proprio i 236.803,23 deliberati a giugno 2014. Ed è così che lo Stato guidato da Renzi ha pagato parte del debito della società di casa Renzi. A spiegare l’iter seguito dalla Chil Post è Simonetta Baldi, dirigente della Regione responsabile del settore politiche orizzontali a sostegno delle imprese, l’ufficio che gestisce il fondo di garanzia e tiene i rapporti con Fidi Toscana, la finanziaria controllata per il 49% dall’ente guidato da Enrico Rossi. Baldi non svela nulla: si limita a confermare le informazioni in nostro possesso. “Il fondo è stato creato nel febbraio 2009 e la Chil è stata tra le prime a rivolgersi a noi appena un mese dopo” ed è stata “anche tra le prime ad andare in sofferenza”, ricorda Baldi. Di “5.687 aziende che sono ricorse a noi non sappiamo quante poi sono fallite ma decisamente poche” anche perché “il fondo ha funzionato molto bene per la quasi totalità delle imprese”. Su un miliardo e 200 milioni garantiti “siamo intervenuti per appena 16 milioni, come sa”. Baldi conferma anche le cifre ricevute dal ministero dell’Economia: “Sì, poco più di un milione di euro”. E spiega che non è affatto scontato che il rimborso avvenga, “anzi”. Funziona così: “Al ministero dell’Economia c’è il fondo centrale che serve come contro-garanzia ma può essere attivato solo a determinate condizioni” e comunque viene rimborsato “con tempi piuttosto lunghi, tra il pagamento che effettuiamo noi per l’azienda e quello che riceviamo dal Mef c’è un gap di anni”. Per la Chil Post “sono arrivati in sei mesi, sì. Ma è stata una delle prime pratiche a essere aperta e ad andare in sofferenza”. Secondo il regolamento, inoltre, la Chil Post non avrebbe potuto beneficiare del fondo di garanzia perché nel frattempo ha cambiato sede e proprietà. Baldi, ancora una volta, conferma: “C’è stato un difetto di informazione, i passaggi di proprietà Fidi Toscana li ha saputi successivamente”, dopo il fallimento. Va detto che la società non ha cambiato partita Iva o forma, rimanendo una srl, ma “se ricevessi una domanda da un’impresa di Genova gli dico di no, ovviamente”, garantisce Baldi. Quando la Chil fece domanda era una società toscana, quindi al momento dell’ammissione alla garanzia l’impresa aveva tutte le caratteristiche in regola. È il 16 marzo 2009 quando Tiziano Renzi presenta richiesta e il 13 agosto 2009 l’operazione va in porto a garanzia di un mutuo con il credito cooperativo di Pontassieve da 496.717,65 euro. Dopo poco più di un anno, l’otto ottobre 2010, circa due milioni in beni e servizi – ritenuti dagli inquirenti genovesi la parte sana della Chil Post – sono ceduti alla Eventi 6 di Laura Bovoli, madre dell’ex rottamatore. Passa meno di una settimana e il 14 ottobre Tiziano Renzi trasferisce la società a Genova. Infine il 3 novembre cede l’intera proprietà della Chil Post a Gian Franco Massone, prestanome per il figlio Mariano, entrambi indagati con il padre del premier dalla procura ligure. A questo punto però l’azienda è ormai priva di beni ed è gravata da un passivo di un milione e 150 mila euro, compresi 496 mila euro di esposizione con il Credito cooperativo di Pontassieve guidato dal fidatissimo amico del premier, Matteo Spanò. I debiti non vengono ripianati e Massone dichiara il fallimento della Chil Post nel 2013. Il mutuo viene ammesso al passivo dal tribunale e così Fidi Toscana onora la sua garanzia. Poi coperta dal Tesoro.

Ma non è tutto in fatto di insolvenza.

Ecco chi è la donna che sussurrava a Renzi le frasi giuste. Nel numero di Panorama in edicola da mercoledì 14 gennaio, la storia di Andrea Marcolongo la ghost-writer di Renzi fino a qualche settimana fa, scrive “Panorama”. Matteo Renzi aveva iniziato il semestre di presidenza Ue con la citazione della generazione Telemaco; oggi ha chiuso a Strasburgo con l’Ulisse di Dante e il suo "fatti non foste a viver come bruti". Chi glielo avrà suggerito? Nel numero in edicola da mercoledì 14 gennaio, Panorama rivela che il premier fino a poco tempo fa si è servito di una ghost-writer: si chiama Andrea Marcolongo, è nata nel 1987 a Milano, e a dispetto del nome è una donna, grecista e allieva della Scuola Holden di Alessandro Baricco. Qualche settimana fa, delusa e non pagata, Marcolongo (che ha lavorato per il presidente del Consiglio dal 2013) ha però inviato una mail di congedo a Matteo. "Non sono mai stata pagata, a parte una mensilità" dice la donna a Panorama, anche se precisa che non è per i soldi che se n’è andata. "Eravamo tutti così. Viaggi a Roma e lavori mai pagati, so di persone che si sono indebitate e sono andate dallo psicologo perché distrutti dalle promesse". Nonostante tutto, però, "è stato un lavoro bellissimo, ero libera di scrivere tutto quello che volevo".

Renzi non paga neanche i fantasmi: la storia di Andrea, «ghost writer», scrive Roberto Ciccarelli su “Il Manifesto”. Jobs Act. Vivere nell'economia della promessa e del lavoro gratuito. Storia di Andrea Marcolongo, scrittrice e ghost writer, nata a Milano nel 1987, autrice del discorso sulla "generazione Telemaco". Vivere nell’economia della promessa e del lavoro gratuito. Storia di Andrea Marcolongo, laureata in greco, allieva della scuola Holden di Alessandro Baricco a Torino, blogger de «Gli stati generali», ghost wri­ter e autrice del discorso sulla «generazione Telemaco» pronunciato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi all’apertura del semestre italiano alla guida dell’Unione Europea. Sembra essere lei l’autrice delle espressioni idiosincratiche che hanno reso celebre la favella del presidente del Consiglio. Tutto via Whatsapp. «Si va a Ballarò, Hai idee?» le chiedeva Renzi. «Ad un certo punto mi sentivo come Siri dell’IPhone» ha confessato Marco­longo a Panorama. Sono essere nate così le espressioni «uccellacci del malaugurio», il derby tra la rabbia e la speranza, le citazioni di Frost e Disney. Il libro di Murakami sull’arte di correre abbandonato distrattamente sui banchi del governo alla Camera. Dopo più di un anno di lavoro, ha lasciato l’incarico: «Non sono mai stata pagata, a parte una mensilità» ha spiegato Andrea. «Eravamo tutti così — continua riferendosi ai collaboratori di Palazzo Chigi — Viaggi a Roma e lavori mai pagati, so di persone che si sono indebitate e sono andate dallo psicologo perché distrutti dalle promesse». Ad ogni richiesta di pagamento, i responsabili le avrebbero risposto come rispondono tutti quelli che hanno dei crediti con i precari o i freelance: «La prossima settimana si risolve tutto, dai che è fatta, manca solo un foglio». Nel frattempo, dallo staff del premier giungeva questa indicazione: «Se ti chiedono chi sei, tu rispondi che sei la segretaria». «Mi era impossibile continuare». La paga c’entra fino a un certo punto, visto che «non è facile per una donna, e non aggiungo altro». Milanese, dopo avere vissuto a Torino, la ventottenne ghost writer si è trasferita a Livorno, colpita dalla vittoria del Movimento 5 Stelle che esprime il sindaco della città. Oggi di Renzi non vuole parlare. In un’intervista al Tirreno dice: «Mi dispiace che sia passato il messaggio di una rottura per motivi economici» ma «è un’esperienza che rifarei». E ancora: «sì, mi era impossibile continuare…». Invisibilità perfetta. Non apparire, non essere pagata, non avere un ruolo. Su queste basi si capisce la voglia di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Ma è possibile che le motivazioni siano più profonde. C’è in primo luogo la rivendica­zione del proprio ruolo di scrittrice «fantasma». «Sono fiera di quello che ho fatto — sostiene Marcolongo — perché il ghostwriter è una figura professionale riconosciuta e molto stimata in tutto il mondo». Poi, inaggirabile, la questione del salario. C’è quello monetario, che viene derubricato dall’interessata. E c’è quello simbolico legato alla «promessa» di un incarico, ma soprattutto di un riconoscimento che non è stato concesso. Questo «ha distrutto persone indebitate». Marcolongo dice di essersi sottratta a questo meccanismo che mette al lavoro tutte le risorse di una persona, come attestano le sue sue allusioni. Una fuga che, forse, altri non sono disposti a realizzare. E così alimentano un sistema basato sulla promessa: di fare curriculum, avere «visibilità», ottenere «diritti crescenti» in base al libero investimento di tempo in attività gratuite conto terzi. È il sistema della precarietà alimentato dal Jobs Act e prima dispiegato con i volontari dell’Expo. La promessa è «il salario del lavoro gratuito». «Tra la politica e la promessa vi è un rapporto di immediata contiguità quando non di pura e semplice sovrapposizione» ha scritto Marco Bascetta sul Manifesto (22 otto­bre 2014). Nel caso di Renzi la proessa è il motore del suo consenso ottenuto con il 41% dei voti alle Europee. Il motore di queste promesse era azionato dal lavoro (quasi) gratuito di Andrea Marcolongo.

Vivere nell'economia della promessa e del lavoro gratuito continua Roberto Ciccarelli. Storia di Andrea Marcolongo, scrittrice e ghost writer, autrice del discorso sulla "generazione Telemaco" pronunciato dal presidente del Consiglio Matteo Renzi all'apertura del semestre italiano alla guida dell'Unione Europea. Dopo più di un anno di lavoro, ha lasciato l'incarico: "Non sono mai stata pagata, a parte una mensilità". Sembra che sia stata Andrea Marcolongo a scrivere il discorso che Renzi ha pronunciato all'inaugurazione del semestre italiano a guida dell'Unione Europea. E’ il discorso della generazione Telemaco. Scrittrice, laureata in greco, allieva della scuola Holden di Alessandro Baricco a Torino, ha lavorato da “ghost writer” per l’attuale presidente del Consiglio a partire dal novembre 2013, quando inaugurò l'anno accademico fiorentino. Dopo poco più di un anno, il tempo impiegato da Renzi per diventare presidente del Consiglio ai danni del suo collega di partito Enrico Letta, Andrea ha scelto di non scrivere più da “fantasma” per Matteo. Non è stata mai pagata, salvo una mensilità. E non si sa ancora se abbia mai avuto un contratto dal presidente del Consiglio, dalla sua fondazione Open o dal Pd (che Andrea dice di votare, visto che ha partecipato alla Leopolda 2013, ma non a quella del 2014). E nemmeno se questa “mensilità” sia stata pagata in nero o regolarmente. Ad ogni richiesta di Andrea, Renzi - o chi per lui - avrebbe risposto come rispondono tutti quelli che vantano dei crediti: "La prossima settimana si risolve tutto, dai che è fatta, manca solo un foglio". "È stato un lavoro bellissimo, ero libera di scrivere tutto quello che volevo", ha detto Andrea andandosene. Non è dunque per i soldi che se ne è andata, ma per qualcos’altro. Le parole sono tuttavia importanti, come anche i concetti usati. “Eravamo tutti così - dice Andrea parlando dei suoi coetanei che lavorano (lavoravano?) per il presidente del Consiglio - Viaggi a Roma e lavori mai pagati, so di persone che si sono indebitate e sono andate dallo psicologo perché distrutti dalle promesse".  Andrea ha lasciato il lavoro gratis per Matteo perché Matteo - come altri committenti, padroni, padri, personalità o datori di lavoro - non mantiene le promesse. Di pagamento per i precari/freelance.E’ il ritornello della promessa che i coetanei del presidente del Consiglio, neo-quaratenne, si sono sentiti ripetere per una generazione. Ora è lui, sono loro, a farlo con chi come Andrea è nata nel 1987, e oggi ha 27-28 anni. Un rovesciamento di ruoli, un ritratto dei rapporti di forza nella società che oggi Renzi governa. Se questa storia è vera - e sembra che lo sia - il non avere mantenuto la promessa in un rapporto molto personale, attraverso la scrittura e il pronunciamento di un discorso, diventa un caso simbolico. In questo video c’è Andrea che parla al microfono della Leopolda 2013, lo spazio di discorso politico - e di immaginario - prodotto da Renzi. Lei, milanese, che ha studiato a Torino, oggi vive a Livorno, interviene e dice: “Siamo cresciuti a pane e sciatteria, noncuranza politica e il pressappoco come unità di misura. Interventi pasticciati, con la consapevolezza che tanto sarebbe arrivato qualcuno che ci avrebbe messo una pezza sopra. Quando mi guardo intorno vedo il risultato di tutto questo e si chiama degrado”. Il gesto di lasciare Renzi solo con le sue (poche) parole è interessante. Tagliando il cordone che lo ha legato intimamente al Capo, prestandogli le sue parole, Andrea lascia Matteo nello stesso degrado che sul palco diceva di volere cancellare. Lei auspicava che la “sinistra” (probabilmente allude al Pd) perdesse la “puzza sotto il naso”, favorendo il cambiamento. Lasciandolo ha scoperto che quella "sinistra" coltiva un'idea del lavoro gratuito che lei non può accettare. Sono le parole chiave del renzismo, di cui lei ha scritto i miti fondativi. Ora cambiano di senso. La promessa non mantenuta da Renzi, quella che avrebbe spinto alcuni colleghi di Andrea ad “andare dallo psicologo”, è da interpretare politicamente: riguarda il giuramento di cambiare un paese. Da questa promessa Renzi ha guadagnato una fortuna: il 41% alle elezioni europee di maggio. Promessa di cambiare, più concretamente, il costume (o meglio, il rapporto di potere) di chi non paga il lavoro, e in particolare quello della conoscenza, creativo. Quello che mobilita l’immaginario. In generale quello che permette di sopravvivere, anche con pochi euro. Pochi, maledetti, subito. Ma con dignità. Quando il lavoro non esiste più, o meglio il suo valore. e il governo Renzi ha completato l’opera approvando il Jobs Act, allora resta il rapporto di fiducia con il committente. Il pagamento di una prestazione lavorativa dipende dalla sua volontà di mantenere la promessa. Il pagherò della cambiale. Se non la mantiene - come sembra essere il caso di Andrea - per il "datore di lavoro" non ci sono conseguenze penali. Si è rotta però la fiducia, cioè il legame personale e psicologico con il suo subordinato. “Andare dallo psicologo” è la formula usata dal subordinato per lenire gli effetti psichici provocati dalla promessa non mantenuta. Per il subordinato la promessa del Capo è il miraggio di soddisfare i suoi desideri, ambizioni. E la ricerca di incarichi o visibilità. Cosa significa lavorare gratis. "Non ti pago, ma ti offro ampia visibilità". Questa è la promessa a cui credono stagisti, laureati, lavoratori della conoscenza che lavorano gratis, o da volontari, con la speranza di far carriera e curriculum. “Tra la politica e la promessa vi è un rapporto di immediata contiguità quando non di pura e semplice sovrapposizione” ha scritto Marco Bascetta in un articolo sull’economia della promessa e il lavoro gratuito. E’ la storia di Andrea legata a Matteo. Anche per lei la promessa è il salario del lavoro gratuito. E il lavoro gratuito, o semigratuito, è oggi una forza produttiva nel processo di valorizzazione, nell’incremento dei profitti e delle rendite. Nel caso di Renzi la promessa è il motore del suo consenso politico. Un motore azionato dalle parole che Andrea ha scritto per lui. Lavorare per Matteo. Il rapporto tra i due è molto complesso. Perchè complesso è il rapporto tra chi lavora gratis e chi sfrutta questo lavoro per i suoi fini. Andrea, come molte quintarie che intrecciano la scrittura (o il giornalismo) con la politica, ha legato la sua vocazione a un desiderio di cambiamento. L’averla identificata in Renzi, fino al punto di scrivergli i discorsi, è discutibile ma attesta l’emotività - o la disperazione - mobilitate da Renzi. E’ una scelta, del resto anche questa è un’“occasione” che ha mobilitato molte persone. Alcune di loro hanno ricevuto incarichi di prestigio a Palazzo Chigi, sono diventate ministre o sottosegretari. Altre sono state inquadrate nel sistema politico del lavoro gratuito. Cronache e retroscena raccontano dello tsunami di ambizioni scatenate a Firenze e in Toscana nel giro relativamente ristretto dei contatti dell’ex sindaco. Amici, consiglieri comunali, conoscenti sono diventati ministri, capi di gabinetto, sono entrati nelle stanze del potere da perfetti sconosciuti. Renzi è diventato un polo attrattivo vincente in un paese dove non si muove niente. Per qualche mese più di qualcuno ha creduto che fosse lui la carta su cui puntare per muovere, veramente, qualcosa. Si è parlato di “giglio magico”, neologismo che richiama il “cerchio magico” che circondava il leader della Lega Bossi. Andrea ha scelto di credere in questa promessa e si è collocata nel sistema. Ma a lei non è stato pagato il salario versato agli altri. Alla faccia della meritocrazia che anche questo governo spende e spande. Allora non ha resistito alla dura corvée del lavoro gratuito, anche se di prestigio. Non ha resistito un minuto più degli altri e non ha creduto fino in fondo alla promessa. Dietro la promessa non c’è nulla. Forse i soldi, che però non contano in questa storia (lei dice). Non il gioco. Generazione Telemaco. Giovani, partite Iva, donne e uomini precari o freelance. La loro esistenza è la contraddizione di Renzi che dovrebbe  avere lasciato dietro di sé la zona grigia dove il precariato è il sinonimo di una dipendenza infantile. Nei suoi discorsi, quelli scritti da Andrea, Renzi lo dice chiaramente. Vi farò uscire dall’infanzia, dalla minorità, vi renderò orgogliosi del vostro paese. Andrea ha fatto dire a Matteo che Marta - precaria incinta di 28 anni - avrà il suo diritto alla maternità. Contro i sindacati, Andrea ha fatto dire a Matteo che penserà lui a proteggere i precari “abbandonati” da quei vecchi burocrati egoisti. All’Europa Andrea ha fatto dire a Renzi che la generazione Telemaco si riscatterà dal padre Ulisse che lo ha lasciato solo a Itaca. Questa sarebbe il mito degli italiani che si riscattano da una generazione di padri irresponsabili e costruiscono il proprio futuro. Governando Itaca-Italia. Un mito reazionario, prodotto dalla suggestione che Massimo Recalcati (lo psicoanalista autore di questo ripensamento di Telemaco) ottiene dalle pagine di Repubblica, o del Manifesto, e con il successo dei suoi libri venduti in uno scaffale dedicato alla sua opera nelle librerie Feltrinelli. Quelli che si presume frequenti Andrea quando vuole documentarsi e indagare l’immaginario del presente. Cioè l’immaginario che il potere usa per legittimare oggi la sua esistenza. Molti hanno fatto giustamente ironia su questa interpretazione rovesciata del mito di Ulisse. Da Dante fino ad Adorno e Horkheimer nella “Dialettica dell’Illuminismo” è Ulisse che insegue il suo tragico desiderio di conoscenza girando il mondo. E per questo viene condannato da Dante, mentre i due filosofi tedeschi gli addebitano addirittura la responsabilità della volontà di potenza contenuta nella tecnica e nella politica moderna. Telemaco è una figura mediocre a cui Ulisse in vecchiaia lasciò il regno di Itaca per avventurarsi in mare aperto (Inferno, canto XXVI). Identificarsi in Telemaco, non rende onore al presidente del Consiglio, né al paese che intende governare. Telemaco infatti è un adolescente alla ricerca di un padre, ha un ruolo illegittimo di compagno di sua madre, ed è difficile che diventi uomo. Al di là dell’incesto, che non sembra esattamente un rapporto da rivendicare, perlomeno dopo Freud, che cosa ha trovato Andrea, e la sua generazione, in questo mito? Telemaco sembra incarnare l’ambivalenza dei rapporti di lavoro che dovrebbero garantire l’indipendenza (dei figli dai padri) ma che si trasformano in un’esplosivo, contraddittorio, incestuoso rapporto personale (intimo) con il datore di lavoro che non mantiene la promessa. Proprio come Ulisse che lascia Itaca e finirà i suoi giorni nel pantheon “dei padri”. Lontano dal suo paese di “senza padri”. Cosa scrive Andrea. Ho trovato questa storia: “La prego, scelga me: l’implorazione di massa per 150 euro di stipendio”. Andrea cerca una colf per la nuova casa di Livorno, dopo un trasloco da una fattoria in un bosco del Chianti. Decide “di cercare qualcuno che si occupi di me e, soprattutto, del mio cane, quando non sarò a casa (praticamente, sempre)”. Pubblica un annuncio su subito.it. “L’organizzazione è tutto, appunto, non ho tempo da perdere e il nome del sito promette bene”. Dodici ore mensili, 150 euro di stipendio. Riceve in poche ore 60 candidature con la preghiera: la prego, scelga me. Il bisogno di una colf può attendere, Andrea cerca di capire cosa sta succedendo in Italia. Capisce questo: “Ai tempi dell’università, ad affacciarci sul mondo del lavoro eravamo noi ventenni, generazione mille euro. Era scontato che le fortunate generazioni che ci avevano preceduto un lavoro l’avessero, eravamo noi a rivendicare il diritto ad un impiego. Oggi si è livellata una sola, immensa generazione formata da persone di ogni età e provenienza sociale che un lavoro non l’ha. La generazione la prego, scelga me (...) una preghiera, una litania: mi dia una almeno una possibilità, almeno lei. Teresa, 27 anni, Carmela, 57, Giuseppina - ma preferisco Giusy -, 19, Lucia, 63, Ivana, 40, Sabrina, 36, Giovanna, 17, Sara, 51, Marco, 42, Dimitri, 22”. E’ l’immagine di una giovane donna professionista, che cambia appartamenti in affitto vorticosamente, la vita da freelance impegnata. Travolta dalle richieste sceglie di “capire cosa sta accadendo in Italia”. E sceglie di incontrare queste persone. “Per una giornata intera, mi sento a disagio nella mia vita. Mi vergogno terribilmente di essere nelle condizioni di offrire un lavoro a gente con l’età di mia madre, di mio padre, di mio nonno, dei miei amici, dei loro figli”. Alla fine un(a) colf viene assunta. Andrea contatta personalmente gli altri e comunica la notizia. La risposta: “Tutti, però, mi ringraziano per aver avuto il coraggio di comunicare la mia decisione a voce. Almeno lei, mi dicono, un’altra volta”. Una rappresentazione lontana, e più complessa, di quella che emersa dopo le dichiarazioni a Panorama. Andrea sembra avere lasciato il lavoro gratuito da Matteo perché non viene pagata. Ci sono altri incarichi dove è libera di mettere il suo nome e non di oscurarlo nelle parole del premier. Incarichi, si presume, pagati. Nella sua vita si pone però il problema di pagare chi offre i suoi servizi, per tenere in ordine il suo appartamento.

DICI FIRENZE, PENSI A VITTORIO CECCHI GORI.

"Cecchi Gori, Una parabola molto triste, e anche ingiusta. Credo che quando si riscriverà la storia del declino di Cecchi Gori, verranno fuori delle verità diverse. Penso che come molte persone in questo Paese che vanno dalla politica al cinema, e in questo caso anche ad un cinema imprenditoriale..C'è stato un complotto intorno." Lo dice il noto Enrico Vanzina, sceneggiatore e produttore cinematografico a Mix24 di Giovanni Minoli su Radio 24. Figlio di Steno e fratello maggiore di Carlo, Enrico da circa 25 anni è il produttore dei suoi film. “C'era gente che aveva interesse ad eliminarlo e prendere tutto quello che lui aveva". – continua a Radio 24 -  Ma chi? "Si sa".

Torna Cecchi Gori: "Dopo il golpe la vittima si prende la rivincita". L'imprenditore convoca i cronisti e annuncia: dopo aver salvato i miei cinema e dopo le sentenze a mio favore, torno a lavorare. E Vittorio parla anche di Valeria che lo ha lasciato: "Per il lavoro ho trascurato la coppia. Ma quello spot l'ho fatto solo per lei", scrive Claudia Morgoglione su “La Repubblica” del (15 ottobre 2005). I guai giudiziari, i poliziotti in casa, le tv perdute, la Fiorentina andata in pezzi. Ma anche lo spot con Valeria Marini, il progetto di un film destinato al mercato internazionale, il salvataggio delle sue preziose sale cinematografiche, l'investitura del figlio tredicenne - Mario, presente ed emozionatissimo - a erede designato della dinastia. E' un Vittorio Cecchi Gori a tutto campo, quello che oggi riceve i cronisti nella lussuosa residenza di Palazzo Borghese. "Da lunedì torno a lavorare, al timone del mio gruppo - annuncia - dopo il golpe di cui sono stato vittima, dopo lo tsunami che mi ha investito, è il momento della rivincita della vittima".

I guai giudiziari. "Ho tenuto duro, in questi ultimi quattro anni - racconta l'imprenditore - perché sono un ottimista, un fanciullone. Ma un altro al posto mio avrebbe anche potuto buttarsi dalla finestra, dopo che i poliziotti mi hanno circondato casa per consegnarmi un avviso di garanzia di riciclaggio - un'accusa poi ritirata, del tutto infondata...".

La riscossa. "In questi anni difficili - prosegue - non ho licenziato nessuno. Ma ora ho capito che il periodo da vittima è terminato". Inizia così quello della rivincita: "Il mio gruppo è pronto a tornare sul mercato", è l'annuncio ufficiale.

Valeria. Non poteva mancare, un accenno alla telenovela "prendi e lascia" con la Marini. Anche perché negli ultimi giorni l'attrice ha lasciato Palazzo Borghese, trasferendosi in hotel. "Preferisco non parlare - mette le mani avanti Vittorio - di vicende di natura personale capitate in coincidenza con questo incontro. Per il lavoro capita di trascurare la vita di coppia, sono cose che succedono".

Lo spot. E' la pubblicità, notissima, in cui la Marini grida al suo compagno "videochiamami...". "Ho accettato di farlo - spiega lui - per Valeria, per non farle perdere i soldi, 200 mila euro o non so quanti, visto che in base all'offerta doveva esserci anche il suo partner. Ho fatto un cameo muto, e ovviamente gratuito".

Il figlio. Tredici anni, biondo, il ragazzo è presente all'incontro, ma un po' in disparte. "Si chiama Mario, come mio padre - spiega Cecchi Gori - lui mi portava con sé al lavoro da quando avevo nove anni, è la migliore scuola per un figlio che vuole seguire le orme del papà". Una vera e propria investitura.

Le sale cinematografiche. Sono una grande risorsa del gruppo; soprattutto le multisale, come l'Adriano di Roma. Un patrimonio che era stato messo all'asta; ma oggi l'imprenditore annuncia che resteranno tutte sue: "Non posso fornirvi troppi dettagli - spiega - sulla trattativa che abbiamo concluso. Posso però confermare che abbiamo risolto il problema in via definitiva". Un bel colpo, per uno che di mestiere fa il produttore e distributore di film."Vorrei anche ricordare - continua lui - che siamo la maggior ditta di dvd, e che distribuiremo su disco l'ultimo Benigni (Roberto è un amico fraterno)".

Telecom. Spetta all'avvocato Gaetano Franchina illustrare un contenzioso che risale a quando Cecchi Gori perse La7. "Stanno per arrivare alla fine - spiega il legale - i giudizi che abbiamo promosso contro Seat e Telecom: uno sull'illegittimità dell'aumento di capitale che ha permesso l'estromissione di Cecchi Gori dalle tv, l'altro una richiesta di danni per mille miliardi". Vedremo a breve l'esito.

Banche. L'esposizione verso gli istituti di credito è stato uno dei motivi dei guai di Cecchi Gori. "Con due banche, la Cassa di Risparmio di Firenze e la banca del Fucino, la magistratura ci ha dato ragione: gli interessi extralegali che ci avevano applicato sono illegittimi. Se facciamo i calcoli, vediamo che ciò significa un'enorme riduzione del debito, che viene quasi azzerato". Ancora, l'avvocato annuncia un'imminente richiesta di una transazione col fisco.

Fiorentina. Cecchi Gori è ricorso in appello contro la sentenza sul fallimento della società calcistica. "E intanto - racconta - colui che lo ha decretato, il giudice Puliga, è sotto processo per corruzione a Genova: l'accusa è di aver portato al fallimento società sane per ricavarne un profitto". Una vicenda che sulle pagine dei giornali locali fiorentini viene definita "fallimentopoli". In ogni caso, annuncia l'ex patron, lui non tornerà mai a gestire una società calcistica: "Ormai questo sport è diventato come il wrestling: spettacolo sì, ma si sa già quale sarà il risultato".

Cinema. Il progetto più ambizioso è quello di un film dal romanzo dello scrittore cileno Antonio Skarmeta, (quello del Postino), Il ballo della vittoria: "Un prodotto destinato al mercato internazionale - spiega il produttore - solo così si può rilanciare il cinema italiano. E lo dico io che ho vinto tre Oscar".

Politica. "Faccio il senatore da dieci anni - conclude Cecchi Gori e mi dispiace perché avrei voluto farlo meglio, sono stato distratto dalle martellate che mi sono piovute sul capo. Ma non lo nego, mi piacerebbe rifarlo: sempre che qualcuno me lo proponga".

Vittorio Cecchi Gori secondo Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi 2015 su "Il Corriere della Sera". Firenze 27 aprile 1942. Imprenditore cinematografico e televisivo, figlio di Mario Cecchi Gori (Brescia 21 marzo 1920Roma 5 novembre 1993), l’uomo che ha prodotto una gran parte della cosiddetta commedia all’italiana. «All’altro mondo mi piacerebbe incontrare papà ed essere riconosciuto». Giovinezza lunga e dorata, fino a che il padre è rimasto vivo. Maurizio Crosetti l’ha descritta così: «Play boy nella dolce vita romana, un salto sul set per scherzare con Vittorio Gassman, una collezione di donne da cinemascope (Marisa Del Frate, Maria Grazia Buccella), a parte un bonsai biondo, Maria Giovanna Elmi. Babbo Marione lo tiene lontano da tutto, affidandosi a segretari e autisti purché il figliolo non faccia danni. E Vittorio gioca, ride, sogna». Benedetto Ferrara: «Che vita, Vcg: con la sua spider che scorrazza tra i Parioli e i set. “Sono cresciuto sulle ginocchia di Eduardo De Filippo”, dice lui». A un certo punto incontra Rita Rusic, che sposerà (1983) e dalla quale si separerà solo nel 2000. Crosetti: «Marione (cioè il padre – ndr), quel ragazzo lo chiamava “il mi’ bischero”. Quando Vittorino presentò a Marione un’ex modella di Postalmarket, figlia di un muratore, sassofonista a tempo perso, dalle sedicenti origini dalmate ma stanziale a Busto Arsizio, una che si chiamava Rita Rusic e credeva di essere un’attrice, Marione commentò: “Quella, il mi’ figliolo se lo ficca in saccoccia”. Difatti: sedici anni insieme, due figli (Vittoria e Marietto), il ruolo di Rita sempre più operativo quando muore Marione, d’infarto, nel 1993. Adesso è lei che fa la produttora, la Ritona: scopre Leonardo Pieraccioni e Giorgio Panariello. Insomma, se prima c’era il padre a fare ombra al su’ figliolo, ora quell’ombra appartiene alla moglie. E Vittorino ci sta dentro, finché non esplode e sono risse epocali, chiamate al 113, tentativi di strangolamento reciproco. Lei dice: “Mi picchiava e andava con le prostitute”. Lui risponde: “Una croata, ecco cos’è: una croata”. Lei gli fa causa per duemila miliardi di lire, la metà esatta del patrimonio quando ancora un patrimonio esisteva, lui le deve versare per gli “alimenti” un assegno da settanta vecchi milioni al mese». Alla morte del padre eredita tra l’altro la squadra di calcio della Fiorentina, di cui diventa presidente e con la quale vince una coppa Italia, una Supercoppa italiana (1996) e, nel 2001, un’altra coppa Italia. L’uomo simbolo di questa stagione è il centravanti argentino Gabriel Batistuta. «Io sono laureatooo!» (cacciando l’allenatore Gigi Radice). Intensa attività di produttore e di industriale della comunicazione tra il 1993 e il 2000, anno in cui hanno inizio le difficoltà economiche. Sono suoi tutti i film di Celentano e molte delle opere di Salvatores, Troisi, Benigni, Olmi, Antonioni, Fellini, Scola, tra le quali non poche insignite dell’Oscar. Tutta questa attività è troppo spesso misconosciuta o dimenticata a causa della grande attenzione che i media hanno riservato e riservano alla sua vita sentimentale, alle sue vicende giudiziarie, alle sue numerose originalità (Crosetti, riferendo di quello che successe dopo la morte del padre: «... non abbottona la camicia spalancata sul pelo, dove sfavilla un crocifisso incastonato di diamanti, non smette di levigare il ciuffo cotonato color mogano alla Tony Dallara, non interrompe la raccolta di gigantesse, pensa di depurare l’Arno perché lo vede lurido quando si affaccia dal suo attico, si mette in testa di poter essere più alto di Berlusconi in tutto: nel pallone, in politica, con le tivù, nel cinema...»). Nel 1995 compra Telemontecarlo e Videomusic, poi trasformata in Tmc 2 (su Videomusic vedi anche MARCUCCI Marialina). È eletto senatore nel Partito popolare nel 1994 ed è tra quelli che al momento del voto di fiducia al primo governo Berlusconi escono dall’aula determinandone la caduta. Rieletto poi nel 1996. Nel 2001 gli rifiutano la Toscana e lui si candida ad Acireale, per l’Ulivo. Promette di acquistare la squadra locale, all’epoca in serie C1, e versa un anticipo di 400 milioni al presidente Pulvirenti (oggi proprietario del Catania) garantendo che perfezionerà l’acquisto se sarà eletto. Non raccoglie però abbastanza voti e viene anzi messo sotto inchiesta per voto di scambio. Non riesce a farsi eleggere neanche nel 2006, quando si candida per la Camera nella circoscrizione Lazio 1, nelle liste del Movimento per l’Autonomia (Lombardo) alleato della Lega Nord. Da allora non si è più candidato. Nel 2000 comincia la grande crisi. «In una manciata di mesi Vittorione perde Batistuta, Rui Costa, le tivù, il seggio in Parlamento, la mamma, la Fiorentina (“È una casa di cristallo” dice, prima di frantumarla) e una montagna di miliardi. I tifosi della curva Fiesole lo chiamano Cecchi Grullo, e appendono allo stadio uno striscione con questa terribile domanda postuma a Marione: “Quella volta un ti potevi fà ’na sega?”» (Crosetti). La Fiorentina, fallita, viene poi rilevata da Diego Della Valle. La vendita delle televisioni a Telecom dà luogo a una vertenza infinita. «Per un debito di otto milioni di euro, che forse era solo di tre, e che con una lettera mi ero detto pronto a pagare, mi hanno pignorato centinaia di miliardi. La mia società, 350 film prodotti, era la Fiat del cinema e colpendo me hanno colpito il cinema italiano. Mi hanno accusato di riciclaggio e dopo quattro anni è stato archiviato tutto. Il capo del tribunale fallimentare di Firenze che si occupava del mio caso, Sebastiano Puliga, ha avuto accertamenti di natura disciplinare. Ho pagato anche perché sul calcio mi ero messo contro poteri forti che nel calcio truccano le carte». L’11 dicembre 2001 una perquisizione in casa sua a Roma, alla presenza della fidanzata Valeria Marini, porta alla luce un’ingente quantità di cocaina, che egli si ostina a chiamare “zafferano”. Il 28 ottobre del 2002 non apre la porta agli agenti che vogliono notificargli un’ordinanza di custodia cautelare (tra i reati contestati c’è la bancarotta fraudolenta). Gli agenti, guidati da Fabio Pocek, si fanno aprire da un suo collaboratore ed entrano mentre Cecchi Gori grida al complotto. Per il fallimento della Fiorentina (decretato dal Tribunale di Firenze il 27 settembre 2002), all’origine del suo primo arresto, il 10 novembre 2006 il Tribunale di Firenze lo condanna per bancarotta a 3 anni, poi portati a 3 anni e 4 mesi dalla Corte d’appello di Firenze il 10 dicembre 2008, e così confermati dalla Cassazione il 9 maggio 2012; tre anni sono comunque coperti da indulto. Per il fallimento della Safin Cinematografica (decretato dal Tribunale di Roma il 20 febbraio 2008), la società che controllava le sale cinematografiche, il 25 giugno 2008 è nuovamente arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta per oltre 24 milioni di euro: inizialmente rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, dopo due giorni di reclusione dice «Voglio morire, ma da solo non ce la faccio, aiutatemi con un’iniezione letale», viene quindi ricoverato in una clinica romana e infine assegnato agli arresti domiciliari (fino al 6 ottobre). Il 1° febbraio 2013 il Tribunale di Roma lo condanna in primo grado a 6 anni, confiscandogli inoltre il capitale sociale delle società Cecchi Gori Cinema e Spettacolo e New Fair Film e confermando il sequestro delle quote di Adriano Entertainment e Vip 1997. Nella vicenda è coinvolto anche il magistrato Luisanna Figliolia, rinviata a giudizio il 9 dicembre 2010 con l’accusa di concussione: secondo la testimonianza di Mara Meis (vedi sotto), poi sostanzialmente confermata anche dalla Rusic e dalla Marini, la Figliolia avrebbe convinto l’imprenditore, con l’aiuto della maga Maria Giulia Dominicis, di essere vittima di un complotto, e gli avrebbe concesso il suo aiuto in cambio di laute remunerazioni (viaggi, feste, assegni da 100 mila euro mensili per il marito). Per il fallimento della FinMaVi (decretato dal Tribunale di Roma il 23 ottobre 2006), ex cassaforte e società operativa del gruppo, il 25 luglio 2011 è ancora arrestato, con l’accusa di bancarotta fraudolenta per 600 milioni di euro. Il 7 ottobre 2013 il Tribunale di Roma lo condanna in primo grado a 7 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, decretando inoltre la confisca delle quote societarie e dei beni precedentemente sequestrati. Nel maggio 2010 Mediaset si è aggiudicata all’asta per 17,5 milioni di euro la cosiddetta Library della Finmavi, un archivio cinematografico comprendente oltre 500 titoli e i relativi diritti televisivi. «Una grossa ferita che non si rimarginerà mai. Finché vivrò combatterò per riaverli. La storia del cinema italiano svenduta: Monicelli, Pasolini, Benigni, Risi, Verdone e tanti altri ancora. Lei non può immaginare quello che può rendere la Library, una fortuna letteralmente regalata» (a Malcom Pagani). Dopo la tempestosa separazione da Rita Rusic, è stato a lungo con l’attrice Valeria Marini (che racconta: «La prima volta che l’ho incontrato, a Palazzo Borghese, si stava facendo fare la manicure. “Ti dispiace se continuo?”, mi ha chiesto...»). I due si sono detti addio in televisione: mentre lei raccontava la sua crisi a Porta a Porta, lui faceva lo stesso a Matrix (ottobre 2005). Successiva relazione con Mara Meis, al secolo Mara De Gennaro (San Severo Foggia 1972), concorrente a Miss Mondo 1996. Si sono lasciati, dopo due anni, all’inizio del 2008. Da gennaio 2010 ha una relazione con Filomena Azzarito detta Philly, alta, bionda e florida ex ballerina di burlesque. Sono rientrate nella sua orbita – per ragioni professionali – sia Rita Rusic sia la Marini. Tra le due non corre però buon sangue. La Rusic: «I rapporti tra di noi sono migliorati dopo che è uscita di scena la compagna». Ma Valeria Marini si è sacrificata restando vicina a Vittorio anche nelle difficoltà. «Sì, con cinque auto a disposizione». Nella sua autobiografia Lezioni intime (Cairo 2008), Valeria Marini dice che a letto Cecchi Gori era «Duracell»: «Le nostre notti d’amore trasformavano il talamo in un ring di incontri a più riprese». «Io Vittorio Cecchi Gori me lo ricordo per un paio di incontri in occasioni festivaliere: abbronzato, ciarliero, sbrigativo. Un vero padrone del vapore, uno che sembrava la parodia di un personaggio di Alberto Sordi e che invece era vero. Come vere e strazianti erano le storie di alcuni miei colleghi che raccontavano di sue sonore dormite durante la proiezione dei film da lui prodotti, seguite dalla richiesta di tagli e cambi a scene che aveva visto solo nei suoi sogni» (Davide Ferrario). «Io in politica non sarei mai dovuto entrare. Lo feci per Martinazzoli e per combattere la battaglia sulle tv. Il grande errore della mia vita. Una strada pericolosa che mi ha quasi ucciso» (a Malcom Pagani). «Se a Berlusconi gli dai un dito, ti prende il culo». Due figli da Rita Rusic, Vittoria (1986) e Mario (1992). Due cani, Amore e Principessa.

PER ESEMPIO. PARLIAMO DE "IL FORTETO".

Non lo dirà mai nessuno. Il Forteto, la sinistra e l'ideologia anti-famiglia, scrive Eugenia Roccella il 17 gennaio 2018 su L’Occidentale. La storia del Forteto è nota: una comunità chiusa, con le tipiche ed evidenti connotazioni della setta basata su regole assurde, abusi e maltrattamenti; un capo, Rodolfo Fiesoli, violento e prevaricatore, che si proponeva come Dio in terra, tanto da intimare a un ragazzo spastico in carrozzella: “alzati e cammina” (e naturalmente il ragazzo cadde). Fiesoli era culturalmente rozzo, esibizionista, chiaramente poco affidabile come educatore, e inoltre aveva già scontato una condanna per abusi sessuali quando il giudice Meucci gli affidò il primo bambino down; eppure per tanti, tanti anni (più di trenta), il Forteto fu circondato da una protezione politica e istituzionale compatta, che si è sgretolata solo di fronte all’evidenza terribile delle testimonianze e alla lunga lotta dei ragazzi abusati e maltrattati, e dei loro genitori, per avere giustizia. A fine dicembre le condanne sono state confermate dalla Corte di Cassazione, e ieri una bella puntata di Matrix ha dato voce a qualcuno di questi ragazzi ormai cresciuti, provando anche a intervistare chi ha coperto, e a volte promosso, il “modello educativo” di Fiesoli e compagni. Quasi tutti si sono sottratti, e chi ha risposto ha cercato disperatamente di sminuire le proprie responsabilità. Ma, a partire dai deputati di quel collegio, come Di Pietro, fino ai vari presidenti della Regione Toscana che si sono succeduti negli anni (Claudio Martini, Vannino Chiti, e ora Rossi), le responsabilità sono evidenti, anche se sono solo morali e non sanzionate dalla legge. Perché tutto questo è potuto accadere? Perché intellettuali, politici e magistrati, non hanno voluto vedere, e hanno dato credito a un personaggio palesemente inadeguato e inquietante? E’ semplice: per motivi squisitamente ideologici. Fiesoli denigrava la famiglia naturale, la considerava come il luogo di tutti i mali, promuoveva (meglio dire imponeva) l’omosessualità, teorizzava la “famiglia funzionale”, cioè una non famiglia, e tutto questo piaceva alla sinistra del Mugello, che Guareschi avrebbe definito trinariciuta. Il processo del 1978 che portò alla prima condanna era stato istruito da Carlo Casini, un cattolico, quindi i trinariciuti si convinsero subito che si trattava di un errore giudiziario, anzi, dell’accanimento di un procuratore bigotto contro l’esponente di un modello educativo nuovo e anticonformista. Quindi, tutti lì a glorificare Fiesoli, a fornirgli patenti culturali, a inondarlo di finanziamenti; e tutti lì i politici: il passaggio al Forteto era un classico delle campagne elettorali della sinistra. Oggi tutti si nascondono, negano, minimizzano, qualcuno (pochi, per la verità) ammette l’errore e si scusa. Ma nessuno mette in discussione le proprie convinzioni ideologiche, di fronte a quei bambini ormai cresciuti che hanno dovuto rinnegare i propri genitori, essere sfruttati e maltrattati, subire angherie e abusi. Nessuno che dica: ho sbagliato, non ho voluto vedere la verità perché l’ideologia mi ha accecato, perché credevo nelle teorie dell’anti-famiglia (come le chiama Cristopher Lasch), nella sperimentazione di modelli educativi che rompessero la tradizione (vedi il progetto “Barbiana e il Mugello, una scuola per l’integrazione”, fatto dal Forteto, costruito con l’università di Firenze, associazioni del privato sociale sulla disabilità, e la comunità montana), in pratiche di “analisi selvaggia” come le confessioni in pubblico. No, questo non lo dirà mai nessuno.

Forteto, le parole delle vittime inascoltate per anni: “Abusati e umiliati”, scrive il 17 gennaio 2018 TGCom. A Matrix il racconto di Lara Volpi rinchiusa diciassette anni nella setta di Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi. “Ho perso praticamente tutto, ho perso la mia famiglia, la mia infanzia, ho lavorato una vita e non ho preso niente”. Così a Matrix, Lara Volpi racconta il suo passato da vittima del Forteto, la comunità agricola attiva in provincia di Firenze e creata nel 1977 da Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi con l'obiettivo di essere una comunità produttiva e alternativa alla famiglia tradizionale in nome (a loro dire) di Don Lorenzo Milani. La donna è rimasta nella comunità-setta per ben 17 anni ed è stata portata lì quando ne aveva solo 11 anni. Un’esperienza durissima da superare soprattutto ora che il fondatore, Rodolfo Fiesoli, è stato condannato in appello a 15 anni e 10 mesi per maltrattamenti e violenze sessuali anche su minori. Una vicenda che ha fortemente segnato tutta la comunità che ancora oggi cerca di superare il difficile momento. “Sono cicatrici che non guariranno mai – aggiunge la Volpi - noi eravamo solo dei numeri, venivamo umiliati e ammaestrati”. E ora con la condanna del loro carnefice, Lara Volpi sottolinea: “Non è finita solo perché Rodolfo è dentro, deve pagare fino all’ultimo giorno. Lui ci ha preso la nostra vita”.

"Commissione d'inchiesta per evitare un Forteto bis", scrive giovedì 29/03/2018 "Il Giornale". Una commissione parlamentare d'inchiesta sul sistema degli affidi in Italia alla luce della vicenda del Forteto. A chiederla, con una proposta di legge già presentata nel neonato Parlamento, il deputato di Forza Italia Stefano Mugnai. Da consigliere regionale della Toscana Mugnai è stato uno dei politici che ha portato alla luce lo scandalo della comunità sorta nel Mugello negli anni '70, e la storia dei minori in condizioni di disagio abusati (la Cassazione a dicembre ha confermato quasi tutte le condanne) dal guru del Forteto e da altri operatori. «È un atto dovuto alle vittime - sottolinea l'onorevole Mugnai - che nell'attività di inchiesta parlamentare troveranno nuovo riconoscimento, ma anche a tutti i bambini a cui possiamo, con il nostro lavoro, evitare il rischio che una simile aberrazione si possa mai ripetere. La commissione d'inchiesta parlamentare sulla vicenda Forteto renderà onore alla XVIII legislatura che va ad iniziare». Mugnai è ormai un esperto della vicenda. Nei suoi mandati da consigliere regionale della Toscana ha presieduto la commissione d'inchiesta che svelò lo scandalo degli affidi al Forteto con una relazione dagli esiti choc e ha fatto anche parte di quella cosiddetta bis che ha approfondito le responsabilità politiche ed istituzionali. La proposta di legge consta di otto articoli. Avrà «il compito di esaminare e valutare «gli indirizzi applicati da ciascuna regione in materia di affidamento di minori». Perché uno scandalo come quello del Forteto, che si è perpetuato per anni, non debba ripetersi.

Forteto, Fiesoli resta in carcere: ridotta l'eseguibilità della pena. Rigettato il tentativo di farlo uscire da parte del legale, che ricorrerà in Cassazione, scrive il 2 febbraio 2018 Firenze Today. Il Profeta della comunità del Forteto, Rodolfo Fiesoli, resta in carcere. E' la decisione della corte d'appello di Firenze, in seguito al ricorso presentato dal legale Lorenzo Zilletti per provare a fare uscire il suo assistito. Il legale di Fiesoli, ricorrendo per 'incidente di esecuzione', in sostanza sosteneva che, dal momento che per uno degli abusi contestati è stato disposto un processo di appello bis, la pena non fosse eseguibile e Fiesoli non dovesse stare in carcere. Il ricorso è stato però respinto. Fiesoli, 76 anni, resta dunque in carcere, dopo la sentenza definitiva della Cassazione alla pena di 15 anni e 10 mesi per abusi commessi su minori ospitati dalla comunità e il successivo arresto dello scorso 23 dicembre. I giudici di appello, respingendo il ricorso, hanno però ridotto l'eseguibilità della pena, valida per un solo capo di imputazione, a 6 anni e 2 mesi. I legali di Fiesoli hanno annunciato un nuovo ricorso in Cassazione. Il futuro processo d'appello bis relativo ad uno dei casi di abusi contestati sarà anche decisivo per la rideterminazione della pena complessiva per Fiesoli.

Il Forteto, scandalo della giustizia italiana durato oltre trent’anni. La cooperativa a cui venivano affidati bambini disabili, nonostante i fondatori fossero stati condannati per abusi, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri il 29 Dicembre 2017 su "La Voce di New York". Il dramma del Forteto, la cooperativa toscana dove sono avvenuti gli stupri contro minori, è una tragica storia dove magistrati restano invischiati negli intrecci della politica, cattolica e comunista. E la giustizia per le vittime? Alla fine arriva, ma con un ritardo incomprensibile. Qualche giorno fa, due persone, Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi, sono state condannate, in via definitiva per maltrattamenti e violenze sessuali su minorenni: 15 anni e 10 mesi di reclusione, l’uno, 8 anni e 6 mesi, l’altro.  Insieme a loro, a minori pene, altri 16 imputati. Dov’è la notizia? Vediamo. I due sono stati a lungo “capi carismatici” della Cooperativa Agricola Il Forteto, con sede a Barberino del Mugello: a cui, nel corso di oltre trent’anni, sono stati affidati numerosissimi bambini, provenienti da condizioni familiari disagiate. Molti anni prima, erano già stati condannati entrambi a due anni di reclusione, per maltrattamenti, atti di libidine violenta e corruzione di minorenne, nei confronti di una ragazza affidata alla struttura. Da quella prima sentenza (irrevocabile l’8 Maggio 1985) emergeva una “istigazione, da parte dei responsabili del Forteto, alla rottura dei rapporti tra i bambini che erano loro affidati e i genitori biologici”; e, inoltre, “una pratica diffusa di omosessualità”. Già 32 anni fa. Tuttavia, gli affidamenti di minorenni alla “comunità” proseguiranno: come se i due allora avessero preso una multa per divieto di sosta. Perchè, Il Forteto, non è un nome qualsiasi. Tanto che la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, ancora il 13 Luglio 2000, è chiamata a decidere un ricorso che li riguarda. A Strasburgo, piuttosto sbigottiti, rilevarono che Goffredo e Fiesoli erano stati condannati, quindici anni prima, proprio “per maltrattamenti e abusi”, commessi su persone all’epoca loro affidate. E che, ciononostante, costoro seguitavano a svolgere “un ruolo attivo” nella Cooperativa: rimasta destinataria, “da parte dei pubblici poteri”, di bambini in affidamento. Come prima. Si interromperanno soltanto nel 2012, in seguito al nuovo arresto di Fiesoli. Il fatto è che a Il Forteto ci sono stati “orrori autorizzati”. “Il punto d’origine”, così definito nella Relazione conclusiva della Commissione d’inchiesta della Regione Toscana, (approvata all’unanimità, il 22 Giugno 2016), è situato alla data del 1 giugno 1979. 38 anni fa. Dopo essere stato tratto in arresto, nel novembre dell’anno prima, Rodolfo Fiesoli veniva rimesso in libertà. A seguire, il Presidente del Tribunale per i Minorenni, Gian Paolo Meucci, dispone l’affidamento, proprio a Fiesoli, di un bambino di tre anni, affetto da sindrome di Down. È l’investitura “giusta”: perché deliberatamente assunta nell’inosservanza “contestatrice” della coeva vicenda giudiziaria, che qualche cautela, almeno gestoria, avrebbe potuto indurre. Questa decisione renderà Il Forteto, legibus solutus; in questi precisi termini, nel Maggio 2015, il PM, a sostegno delle richieste di condanna, ha osservato: “Per alcuni decenni in Toscana si è verificato un fenomeno rispetto al quale le leggi dello Stato hanno subìto una sospensione”. Nella sentenza poi divenuta definitiva, e per cui Fiesoli è da qualche giorno recluso, il Tribunale di Firenze, conseguentemente, confermerà “…l’incomprensibile sostegno dei vertici del tribunale dei minorenni, che per decenni hanno avallato l’assurda teoria del ‘complotto’…” (pag. 148). Quella prima condanna fu fatta passare “per un clamoroso errore giudiziario, motivato dalla reazione delle forze conservatrici della società, per distruggere un’iniziativa progressista e di rottura come il Forteto” (pagg. 148-149)

Certo. Perché Meucci era considerato, dalla maggioritaria intelligentija giuridica, il padre del diritto minorile più “avanzato”; nonché, particolarmente al Tribunale per i Minorenni di Firenze, punto di riferimento per quanti gli succederanno. Il provvedimento-sfida del 1979 ha forte valore simbolico: e ne feconda “la giurisprudenza” per i decenni successivi. Nel 1995, sotto la presidenza del successore di Meucci, verranno affidate direttamente a Goffredi due sorelle (a dieci anni da quella prima condanna definitiva, pronunciata anche a carico di quest’ultimo). Un altro Presidente post-Meucci, concorrerà, nientemeno, alla difesa dello “Stato italiano” innanzi la CEDU. In una sua lettera del luglio 1998, destinata a quel Consesso (che deciderà, come detto, nel 2000), in primo luogo, contesta, anche lui, la condanna del 1985 a carico di Fiesoli e Goffredi: “procedimento di venti anni fa”; non manca un elenco di frequentazioni eccellenti, a garantire l’onore della comunità; sottolineando, infine, che il Forteto “ha la fiducia degli enti locali della Regione Toscana, dei servizi territoriali”. Complimenti. Un terzo Presidente “successore” del Tribunale, che pure risulta avere espresso “perplessità” sulla struttura, poi vi si conduceva una “vita artificiale”, spiegherà, a proposito di quell’ìniziale, insuperabile anomalia, costituita dalla prima condanna (e per quei reati), che le parole di Meucci lo avevano rassicurato: “…è una montatura, tutto andrà via…”

Ma da dove viene Meucci? Vicino alla Democrazia Cristiana, tra la fine degli anni ‘40 e la metà degli anni ‘60 è a fianco di Giorgio La Pira, come collaboratore e consulente giuridico. Nel 1963, venne considerata una sua candidatura alla Camera. Peró, il comitato provinciale della Dc fiorentina ne bocciò la candidatura, preferendogli un altro. Da questo momento in poi, Meucci prese progressivamente le distanze dal mondo democratico cristiano. E approda all’area comunista: insieme, fra gli altri, a padre Ernesto Balducci (fra i maggiori “teologi del dissenso” italiani), divenendo, così, un punto di riferimento del PCI, sia in ambito fiorentino che nazionale. Sicchè, alla fine degli anni ‘70, Il Forteto nasce in un contesto politico-culturale, il cd cattolicesimo comunista, che di quella “Cooperativa Agricola” fa un simbolo. Essa veniva percepita (Relazione cit.) “come esperienza di convivenza sociale, dedicata all’interiorità e al lavoro”, che si opponeva “alla società tradizionale, considerata invece impedimento alla piena libertà personale. In Toscana, negli ambienti che contano, Il Forteto diviene un totem; accostarvisi con senso critico, un tabù”. Meucci, potente magistrato, che, di fatto, “assolve d’autorità” Fiesoli e Goffredi, rende quella struttura “intangibile, posta su un piedistallo di inarrivabilità.”  Solo grazie all’intervento di questo “contesto”, potrà accadere che un’esperienza “battezzata” nel 1979 dalla vile lascivia dei suoi fondatori, già ad un anno dalla sua apertura, “si trasformerà nell’incarnazione luminosa dell’anticonformismo: della liberazione dalle sovrastrutture e dalle gabbie sociali costituite.” Da allora, mai nessuno ha voluto indugiare su quelle premesse politico-culturali. Nè sulle loro conseguenze “concentrazionarie”. Sulle quali, anzi, prosegue la Commissione Regionale, nel Giugno 2016, “i membri del Tribunale per i Minorenni e dei servizi sociali, basano ancora oggi le proprie giustificazioni, dichiarandosi ‘incolpevoli’”: in una reazione a catena, nella quale ciascuno si accredita sulla base dell’opinione dell’altro. “Alla fine della catena: Meucci.” “…un autentico corto circuito istituzionale”. E anche la CEDU, vanamente, aveva ribadito che il “Tribunale per i Minorenni di Firenze…tenuto in principio a controllare l’attuazione delle sue decisioni, ha confermato il modo di procedere dei servizi sociali, senza tuttavia sottoporlo ad una verifica approfondita”. Fra Magistratura e Servizi Sociali, però, comanda la prima. A Strasburgo, dove si considerano “gli stati” in quanto tali, forse certe sfumature possono anche perdersi. Di un Sostituto Procuratore presso quel Tribunale, la sentenza di condanna addirittura scriverà: “…non vede, non sa, non controlla, non approfondisce, non chiede, e se chiede, si accontenta di risposte puerili” (sent. cit., pag. 880). Il magistrato Meucci è mancato nel Marzo 1986: stava per essere nominato Procuratore Generale di Firenze, dopo 44 anni in magistratura, dalla quale ricevette solo promozioni e plausi. Gli altri numerosi suoi colleghi, nei decenni successivi, pur tenuti “a controllare”, non risulta abbiano granchè controllato. Secondo il dott. Vittorio Borraccetti, già Procuratore di Venezia, coautore di un saggio sulla vicenda (Aberrazioni Comunitarie, Antigone Edizioni, 2017) “bastava leggere la sentenza dell’85, e non parliamo poi di quella del 2000 della Corte Europea, per comprendere l’errore”. Non risulta che il CSM, né nel 1985, né nel 2000, né fino ad oggi, abbia inarcato un sopracciglio, nemmeno per occhio di mondo. Avanti un altro.

"Commissariate la coop il Forteto! E' nelle mani dei fedelissimi di Fiesoli". Presidente commissione inchiesta sul Forteto e rappresentante vittime vogliono il commissariamento della coop. Scritta lettera a Calenda. Ma nessuno risponde, scrive di Antonio Amorosi, Sabato 27 gennaio 2018 su Affari Italiani. “Commissariate il Forteto! La cooperativa è nelle mani dei fedelissimi di Fiesoli!”, dice il consigliere Pd della Regione Toscana Paolo Bambagioni. E' l'allarme lanciato ad Affaritaliani dell'ex presidente della commissione d'indagine sulla cooperativa di Vicchio in provincia di Firenze che per 30 anni è stata il centro dei maltrattamenti e degli abusi su minori affidati dalle istituzioni. Lo chiede come ha fatto in precedenza Stefano Mugnai di Forza Italia, anche lui in passato presidente della commissione. Da anni insieme i due consiglieri, anche da opposti schieramenti, si sono battuti per far emergere la verità sugli orrori. Quella della cooperativa il Forteto è una delle storie più assurde e drammatiche degli ultimi anni. Bimbi in difficoltà tolti alle famiglie e che venivano sottoposti a violenze fisiche, psicologiche, sessuali e morali e che dopo il lavaggio del cervello erano violati sessualmente dal “guru” della comunità, Roberto Fiesoli. I ragazzini in affido, alcuni anche con la sindrome di down, venivano poi assegnati non a coppie vere ma a due «genitori funzionali» intercambiabili. L'omosessualità era rappresentata come liberatrice dalla materialità e i rapporti eterosessuali banditi. “E la cooperativa non aveva alcuna credenziale a ricevere minori in affido”, ha ricordato di recente in un convegno l'ex-magistrato, già procuratore della Repubblica a Venezia e membro del Csm, Vittorio Borraccetti che ha studiato il caso. Orrori nascosti quelli di Fiesoli, il “guru” della comunità e non solo della sinistra del Mugello, consumati all’ombra di un muro di connivenze fatta dal mondo coop, dalle Regione, dai Comuni rossi del Mugello, dal tribunale dei minori e dal servizi sociali che dovevano vedere ciò che era sotto gli occhi di tutti. Un'autorità quella della sua coop che quasi nessuno poteva scalfire. Nonostante ripetute denuncia e accertamenti. L'esperienza educativa del Forteto è stata numerose volte raccontata come esempio positivo anche in libri editi dalla prestigiosa casa editrice di Bologna Il Mulino. Eppure già tra gli anni '70 e '80 Fiesoli era stato arrestato e condannato per violenza sessuale, corruzione di minorenne e maltrattamenti. Con lui il suo braccio destro Luigi Goffredi. Nonostante questo ricevevano minorenni in affido. Addirittura nel 2000 la Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo ha condannato l'Italia per l'affidamento di due minori strappati alle cure della madre e affidati proprio al Forteto. L'Italia si è difesa davanti all'organo di giustizia, ha ricordato Borraccetti, sostenendo che le considerazioni e le condanne contro il Forteto erano frutto di pregiudizio politico. Il 22 dicembre scorso Fiesoli è stato portato in carcere perché condannato definitivamente con sentenza confermata della Cassazione (è stato arrestato dai carabinieri per scontare una pena residua di 14 anni, 8 mesi e 17 giorni). In appello, a pene diverse, sono stati condannati con Fiesoli altri 15 soggetti. Per alcuni di loro però è intervenuta la prescrizione che fra l'altro ha annullato interamente la condanna a 6 anni dell'ideologo di Fiesoli, Luigi Goffredi, suo braccio destro.

COMMISSARIARE LA COOP IL FORTETO. ECCO PERCHE'. Ma la comunità che sembra tanto una setta non si è sciolta. Nonostante la condanna “la cooperativa resta nelle mani dei suoi fedelissimi”, racconta Paolo Bambagioni. “Abbiamo scritto anche al ministro Calenda che sovrintende il Mise, il ministero che si occupa del controllo delle cooperative e al presidente del Senato Grasso, ma senza risultati”. “Nessuno vuole affrontare il tema della guida della cooperativa agricola sorta negli anni ’70 contemporaneamente alla comunità”, spiega Bambagioni, “io lo dico anche per salvaguardare i lavoratori esterni”. La cooperativa agricola produce fatturati dai 18 ai 20 milioni di euro e occupa circa un trentina di lavoratori esterni, oltre a soggetti cresciuti nella comunità che hanno convissuto con i metodi del “guru” e con quanto accadeva, oltre ai suoi fedelissimi. “La coop agricola vende prodotti caseari nei supermercati coop e principalmente all'estero, negli Stati Uniti, in Oceania e a Tokio” - , racconta Sergio Pietracito uno dei testimoni nei processi e presidente dell'associazione vittime - “Per me, e per la sentenza del 17 giugno, non esistono una cooperativa e una comunità, ma solo una setta. Dentro restano i soliti noti. Figurano nomi di persone accusate di risposte reticenti e omissioni al processo in primo grado per difendere Fiesoli. In questa storia, del resto, il gruppo ha sempre contato più dei singoli. Dietro, in regia, resta gente definita dalla corte 'apice di menzogne' o anche dei condannati. Non vedo nessun nuovo corso”. Bambagioni sottolinea che “il commissariamento della cooperativa Il Forteto, oltre ad essere un atto di giustizia per le tante vittime (negli anni sarebbero stati assegnati alla coop circa 86 minori, come affermato dalla commissione regionale d'indagine, ndr), dovrebbe servire anche come salvaguardia della realtà economica in quanto verrebbero ripristinati condizioni di neutralità e indipendenza rispetto a coloro che si sono macchiati di questi crimini”. Ma il silenzio continua. Lo stesso che per molti anni non ha consentito alla vicenda di finire nelle tv nazionali. Anche se di recente è da segnalare su Canale 5 uno speciale dedicato al caso dal programma Matrix condotto da Nicola Porro. Un disegno di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta è stato presentato nel 2015 dalla senatrice Laura Bottici del M5S. Già proposta anche da altri esponenti delle opposizioni. La commissione è stata approvata solo al Senato ma si è arenata lì. “Il Forteto è stata un’esperienza drammatica, per molti aspetti criminale”, scrivono i giudici della condanna: “Le vittime di quei fatti, oggi come allora e salvo un paio di eccezioni, sono entrate nella comunità Il Forteto su disposizioni della pubblica autorità (tribunale per i minorenni, servizio sociale, servizio di salute mentale)... diventata (negli anni, è nata nel 1977-78, ndr) una delle più importanti realtà economiche della Toscana nel settore caseario”. I leader in gara per il prossimo governo dovrebbero prendere un impegno verso questo disastro drammatico procurato da 30 anni di omertà e salvaguardare quel che di buono esiste nella cooperativa. Se ne è rimasto.

Un libro svela gli orrori del Forteto. Presentato alla Camera Setta di Stato, il libro che svela gli orrori del Forteto, scrive Francesco Curridori Lunedì 16/11/2015 su "Il Giornale". Il caso Forteto ritorna a rivivere grazie al libro Setta di Stato di Duccio Tronci e Francesco Pini. In apparenza può sembrare un classico caso di cronaca di provincia, di abusi sui minori ma i reati che si nascondono dietro alla comunità il Forteto, fondata nel 1978 da Luigi Rodolfo Fiesoli, conosciuto come il “Profeta”, condannato in giugno a 17 anni di carcere (anche se è ancora libero) è l'emblema di come la sinistra protegga gli amici e di come le reticenze e le omissioni della politica sono più gravi dei reati stessi. "Ho provato una grande amarezza perché il Pd non voleva che la mozione arrivasse in aula. Chi governa dovrebbe avere la massima trasparenza", ha detto Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia ricordando come il Pd nel luglio scorso abbia respinto il commissariamento della cooperativa proposto da Fi-Lega-M5S-Fdi, che volevano andare a fondo sulla vicenda che tocca da vicino la sinistra toscana che ha sempre idolatrato Il Forteto come una comunità d'eccellenza e spesso, proprio in quei luoghi dell'orrore vi chiudeva le sue campagne elettorali. "Dietro al Forteto - spiega Tronci, uno degli autori - ci sono legate tutta una serie di omissioni, reticenze che vedono responsabile le istituzioni, lo Stato". "Sono 84 gli anni complessivi di condanne quelli comminati dal tribunale di Firenze a 16 persone per reati che vanno dagli abusi omosessuali ai maltrattamenti ai minori. Parliamo di una comunità in cui ci sono ancora tutti i condannati e quattro membri su cinque dell’attuale cda hanno testimoniato a favore di Rodolfo Fiesoli al processo e non dobbiamo poi dimenticare che in questi anni Il Forteto, come cooperativa si è beccato 1,2 milioni di euro dalla Regione Toscana e nel 2014 ha fatturato 18 milioni di euro". Si sta parlando di una cooperativa dove tutti compreso i bambini, dovevano lavorare tutti i giorni, senza ferie, né sabati né domeniche. "Una comunità particolare - spiega la deputata forzista Debora Bergamini, promotrice della mozione - dove si propagandavano teorie contrarie alla famiglia tradizionale. È noto che uomini e donne vivevano separatamente, la commistione era vista come una minaccia al funzionamento dell’intera comunità e chi veniva affidato al Forteto poteva vivere solo lì perché l’esterno era negativo". "Una vera e propria "setta" - spiega Pini, il secondo autore del libro - dove c’è un capo, un leader indiscusso e non c’è spazio per il dissenso". "Dentro il Forteto - conclude Pini - il rapporto sessuale doveva essere esclusivamente tra persone dello stesso sesso. Tutte le persone che hanno testimoniato al processo hanno raccontato delle pressioni psicologiche subite ma la comunità ha avuto la capacità di circondarsi di magistrati, assistenti sociali, giornalisti che hanno raccontato il Forteto come se fosse il paradiso dell’Eden e così non si è mai smesso di mandarvi bambini in affidamento".

Ecco il malaffare del Pd: ​"Al Forteto regole crudeli ed esperienza criminale". "Amministratori pubblici e esponenti politici hanno garantito sovvenzioni e sostegno istituzionale", scrive Monica Serra Mercoledì 09/09/2015 su "Il Giornale". Le vittime degli abusi sessuali "sono entrate nella comunità Il Forteto su disposizioni della pubblica autorità (tribunale per i minorenni, servizio sociale, servizio di salute mentale). Oggi come allora la tesi dell'accusa deve fare i conti, innanzitutto, con il dato obiettivo di un sistema pubblico che ha mantenuto costantemente aperta una linea di credito illimitata verso l'esperienza educativa e pedagogica de Il Forteto". Sono state depositate oggi le motivazioni della sentenza con cui il Tribunale di Firenze ha condannato il fondatore della comunità per bambini in difficoltà di Vicchio del Mugello, Rodolfo Fiesoli, a 17 anni e mezzo di reclusione per violenza sessuale su minori e maltrattamenti. Oltre al "profeta" sono state condannate altre 13 persone, che hanno lavorato nella comunità. Una "linea di credito illimitata", si legge nelle motivazioni di 940 pagine redatte dal giudice Matteo Zanobini, "accordata dagli operatori, che hanno indicato in quella comunità una risorsa utile ed efficace per la tutela di minorenni in situazione di disagio, se non di vero e proprio abbandono; credito ribadito dai provvedimenti dell'autorità giudiziaria minorile che, ancora nel 2012 (dopo l'arresto del capo indiscusso Rodolfo Fiesoli), ha confermato affidamenti familiari a favore di alcuni soci della cooperativa; da amministratori pubblici e da esponenti politici che hanno garantito sovvenzioni e sostegno istituzionale". Fiore all'occhiello prima, e grande imbarazzo poi, per la sinistra italiana, il Forteto è stato sovvenzionato dalla regione Toscana, così come numerose altre istituzioni, che ha elargito importanti finanziamenti tanto da farlo diventare, nella sua affiliazione della cooperativa agricola, una potenza economica. "A prescindere dai programmi economici del gruppo - si legge ancora nelle motivazioni -, Il Forteto, fin dal suo nascere, aveva le caratteristiche tipiche di una setta, con un "credo" essenzialmente legato alle prospettive liberatorie proprie di un approccio terapeutico (ancorché praticato da persone totalmente incompetenti)". Il metodo terapeutico della comunità era costituito dalla confessione "pubblica" di problemi, veri o presunti, "fino al limite dell'ammissione di cause remote totalmente inesistenti (come gli abusi intrafamigliari), di malesseri attuali: metodo che, più tardi, con l'ingenuo avvallo di un sociologo e la credulità istituzionale, era stato rappresentato con l'altisonante concetto di "chiarimento"". Il Tribunale sottolinea che "le doti terapeutiche erano riconosciute ad una persona, Rodolfo Fiesoli, che deteneva il potere di ostacolare o consentire relazioni umane, di ottenere o pretendere rapporti omosessuali senza il consenso dell'interessato o a "puro titolo terapeutico" (dunque con l'inganno): quest'autorevolezza - tipica del "guaritore" - all'interno del gruppo, unita a capacità affabulatorie e ad una certa ammirata spregiudicatezza e provocatorietà, lo avevano reso capo indiscusso di un collettivo composto quasi esclusivamente da ragazzi e ragazze molto più giovani di lui". I giudici sottolineano anche che nella comunità del Forteto sotto la direzione di Fiesoli "venivano inflitte sofferenze e costrizioni psicologiche", con le donne che erano separate dagli uomini perché si voleva "sostituire la famiglia tradizionale con una famiglia migliore, dove si potevano sviluppare delle dinamiche meno dannose che nella famiglia tradizionale, dove non c'era sincerità, chiarezza". La comunità, definita dai giudici "setta", caratterizzata dalla particolare divisione tra uomini e donne e l'esplicito invito all'astensione sessuale come mezzo di elevazione spirituale. "È interessante notare come Rodolfo Fiesoli, pur essendo pacificamente un omosessuale, fosse riuscito a trasfigurare, agli occhi dei suoi stessi adepti, l'omosessualità in una "componente" propria di ogni persona, la cui piena realizzazione identitaria avrebbe trovato compimento solo riconoscendone la presenza attraverso relazioni "omoaffettive" - scrivono i giudici - Rodolfo Fiesoli ha infatti cercato di nascondere la propria omosessualità accreditandola come diversità di identità sessuale, per imporre a terzi l'obiettivo di una sessualità smaterializzata e spiritualizzata, tale da permettergli pratiche omosessuali sotto forma di prescrizione/imposizione di percorsi terapeutici finalizzati in realtà al suo esclusivo godimento". "Solo così si spiegano le condotte omosessuali di Rodolfo Fiesoli - proseguono le motivazioni - testimoniate dal Martinelli e dal Benvenuti negli esordi comunitari fino agli approcci più recenti con Giuseppe Aversa, passando lungo la trafila dei "compagni di letto" narrata da Pietracito e consolidatasi con una vera e propria convivenza stabile con Fabrizio Forti durata dal 2004 al 2011". "Una dichiarata omosessualità da parte di Rodolfo Fiesoli - spiega il Tribunale - gli avrebbe impedito non solo il "governo" del gruppo attraverso una figura dominante, spiritualizzata ma dai modi bruschi e canzonatori, ma anche il consenso e l'appoggio della comunità esterna, del mondo politico e sindacale, dell'intellighenzia votata ad attività solidaristiche e alla beneficienza pubblica". Per questo il tema della sessualità "è stato manipolato e camuffato al punto da mettere sia gli imputati sia le vittime in seria difficoltà quando sono stati invitati nel corso del processo ad illustrare le abitudini sessuali che hanno caratterizzato le relazioni dei membri della comunità Il Forteto. Il tema della sessualità era tuttavia strettamente connesso alla critica radicale del modello di famiglia tradizionale". A far luce sugli orrori del Mugello contribuì in misura determinante una commissione d'inchiesta bipartisan istituita dalla regione Toscana nel 2013 e presieduta dal consigliere regionale di Forza Italia Stefano Mugnai che, il 17 giugno scorso, quando è stata pronunciata la sentenza di condanna, aveva affermato con soddisfazione: "Con questa sentenza, sulla cui sostanza non avevo dubbi, sul Forteto si scolpisce una verità giudiziaria che ristabilisce giustizia per le vittime di quel sistema abusante e che di fatto collima perfettamente con le drammatiche risultanze della commissione".

Quei legami sotterranei tra il Forteto e il Mostro di Firenze. Il nome di Rodolfo Fiesoli, fondatore de Il Forteto, e del suo braccio destro Luigi Goffredi sono spuntati in un sottofascicolo delle indagini sull’ultimo delitto del Mostro di Firenze, scrive Andrea Riva Venerdì 30/10/2015 su "Il Giornale". Emergerebbero alcuni legami inquietanti tra la comunità de "Il Forteto" a Vicchio (Firenze - attualmente al centro di un processo per abusi sessuali e maltrattamenti a minori - e i delitti del Mostro di Firenze. I nomi di Rodolfo Fiesoli, fondatore e "guru" del Forteto, e del suo braccio destro Luigi Goffredi sono spuntati "in un sottofascicolo delle indagini sull’ultimo delitto, a Scopeti, nel 1985. Su di loro erano stati fatti accertamenti, che non avevano portato a nulla", ha detto l’ex capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, oggi scrittore di gialli tradotto a livello internazionale. Entrambi, Fiesoli e Goffredi, sono stati condannati quest’anno, con altri, nel processo per maltrattamenti e abusi sessuali anche su giovanissimi che il tribunale dei Minorenni di Firenze affidava al Forteto. C’è anche un’altra traccia che dalle indagini del Mostro di Firenze conduce al Forteto. L’ha ricordata Giuttari e riguarda telefonate anonime, di minaccia, che nel 2001 arrivarono ad un’estetista di Foligno da più voci, non solo maschili. "Da quelle telefonate - spiega Giuttari - iniziarono le indagini mie e del pm Giuliano Mignini sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, che noi riteniamo sia collegata alle vicende del Mostro. Alla donna dicevano: ’Farai la fine dei traditori Pacciani e quel medico che è stato strozzato, noi siamo una setta e il nostro gran maestro viene da Firenze. All’epoca nessuno pensava che Narducci fosse stato strangolato. Dalle indagini emerse che con la stessa scheda telefonica erano state fatte chiamate anche a 'Il Forteto' e all’utenza fiorentina di un ufficio pubblico. Tutte partivano da Foligno". Gli elementi di contatto evidenziati da Michele Giuttari sono stati oggetto di un colloquio con il consigliere regionale della Lega Nord, Jacopo Alberti, in conseguenza del quale lo stesso Giuttari verrà ascoltato dalla speciale commissione d’inchiesta sul Forteto del Consiglio regionale della Toscana. L’audizione sarà nei prossimi giorni: la data - ancora da confermare - è il 9 novembre. "Dal colloquio col dottor Giuttari - ha detto il consigliere della Lega Nord, Alberti - sono emersi chiari collegamenti fra l’inchiesta sul Mostro e quella riguardante il Forteto" e "al termine del colloquio ho chiesto al mio interlocutore la disponibilità ad essere ascoltato dalla commissione d’inchiesta come importante testimone nell’ambito dell’aberrante vicenda, legata a quella 'piovra tentacolare' che porta il tristemente famoso nome di Forteto".

“Setta di Stato”, il libro verità sul caso Forteto, scrive Franco Mariani il 15 luglio 2015 su “La Terrazza di Michelangelo”. Sono incazzati neri Francesco Pini e Duccio Tronci, sia come cittadini, sia come giornalisti. Una incazzatura che dopo mesi e mesi di riflessione, studio, indagine è sfociata nel libro Setta di Stato – Il caso Forteto”, AB edizioni, che nei giorni scorsi è stato presentato a Firenze assieme ai colleghi Gigi Paoli (La Nazione) e Franca Selvatici (La Repubblica). Una incazzatura che però non ha alterato il loro lavoro professionale, anche se appare più volte tra le righe del libro che racconta le violenze subite da chi è, suo malgrado, passato dal Forteto, attraverso le testimonianze dirette di chi, da bambino, ha vissuto l’incubo dell’affidamento al Forteto, guidata dal “profeta” Rodolfo Fiesoli e finita sotto inchiesta, e processato e condannato in primo grado, per abusi e maltrattamenti su minori.  Le difficili infanzie coi genitori naturali, fino alle storie di chi è uscito dalla comunità e ha provato a rifarsi una vita, con esiti diversi. Ma anche il ruolo della politica, dei giudici minorili che hanno firmato i decreti di affidamento, dei servizi sociali, della chiesa: tutti fattori che hanno favorito il blackout istituzionale che ha portato a trent’anni di silenzi. Trent’anni di silenzio che il libro ripercorre ma soprattutto denuncia per primo e che si augura porti a nuovi sviluppi visto che, dopo la prima sentenza di condanna, emessa qualche settimana fa, nulla è cambiato, anzi…Il libro ricostruisce la storia del Forteto dalla sua nascita negli anni Settanta fino ai giorni d’oggi. Delinea un profilo del profeta Rodolfo Fiesoli, condannato in via definitiva nel 1985 e di nuovo a 17 anni e mezzo in primo grado pochi giorni fa, quando il tribunale di Firenze lo ha riconosciuto colpevole di abusi e maltrattamenti su alcuni ragazzi affidati a componenti della comunità. Il Forteto una comunità-cooperativa agricola, un soggetto economico da 18 milioni di euro di fatturato con 140 soci e quasi 100 dipendenti, per questo “Setta di Stato” racconta anche come si svolgevano le giornate al Forteto dall’alba al tramonto, in un viaggio dentro i locali della struttura. Le vicende sono accomunate dalla sordità delle istituzioni alle denunce, mosse già dalla fine degli anni Settanta, nei confronti della comunità. Un capitolo racconta i legami con la vicenda del mostro di Firenze e tanti altri misteri che si celano dietro la lunga storia del Forteto. Pini e Tronci pubblicano anche diversi documenti ufficiali fra atti giudiziari, politici, relazioni dei servizi sociali, che illustrano i rapporti del Forteto con il mondo delle istituzioni e le anomalie nei meccanismi dell’affidamento di minori alla comunità. Un libro, già in ristampa, che all’Ibs, in occasione della presentazione. Ha superato, nella classifica delle vendite, l’Enciclica “Laudato Sì” di Papa Francesco.

Forteto: setta criminale, politici e giudici “amici” anche dopo le sentenze, scrive Duccio Tronci. Forteto, dai giudici le motivazioni della sentenza. Il Forteto fu un’esperienza “criminale”, “caratterizzata da regole assurde e crudeli”. Il sistema pubblico “ha mantenuto costantemente aperta una linea di credito illimitata” verso la struttura “nonostante gli arresti, prima nel 1978 e poi nel 2012, dei vertici della cooperativa”. Questo grazie anche alla linfa ricevuta da “amministratori pubblici e da esponenti politici che hanno garantito sovvenzioni e sostegno istituzionale”. Le dure motivazioni della sentenza Forteto, pubblicate ieri dal giudice relatore Matteo Zanobini, non ci dicono nulla di nuovo sui gravissimi fatti accaduti all’interno (e anche all’esterno) della cooperativa-comunità del Mugello. Sono un documento importantissimo, intendiamoci. Ma esse stesse fanno riferimento a fatti accaduti ben 37 anni fa, quando fu arrestato per la prima volta Rodolfo Fiesoli, poi condannato in via definitiva nel 1985 per reati simili a quelli accertati nel primo grado del 17 giugno scorso. E poi ancora 15 anni fa, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per le violazioni commesse nell’affidamento di due minori. Tutti questi fatti, messi nero su bianco, insieme alle tante denunce delle vittime e dei genitori naturali arrivate già alla fine degli anni ’70, sarebbero già stati sufficienti per mettere in guardia le istituzioni su ciò che stava accadendo. Sarebbero bastati abbondantemente per capire che quel sistema di affidamenti andava fermato. E invece si è deciso di ignorarli. L’auspicio è che le motivazioni spronino le istituzioni a far luce davvero sul sistema di intrecci che ha consentito al Forteto di sguazzare nella sua illegalità, nelle sue atrocità. Sarebbe una cosa importantissima per chi ha subito le angherie della comunità, ma anche perché fatti del genere non accadano mai più, da nessuna parte. Proprio ieri in Consiglio regionale si è insediata la nuova commissione d’inchiesta, che sarà presieduta da Paolo Bambagioni. E’ la persona che si è battuta di più nel Partito democratico per far sì che i fatti emergessero. Certo non può sfuggire, come hanno sottolineato tutte le opposizioni, l’anomalia di una commissione d’inchiesta guidata da un esponente della maggioranza, appartenente al partito che ha governato la Regione da sempre. Se non si è voluti partire dai fatti di 37 e 15 anni fa, come sottolineano i magistrati, almeno lo si faccia adesso. I giudici del tribunale di Firenze sfatano una volta di più, e definitivamente, la bufala totale della separazione che ci sarebbe stata (o ci sarebbe) fra comunità e cooperativa. Il Forteto è unico e indivisibile e negli anni, ancora come sottolineano i giudici, è diventata una vera e propria “setta”. Ancora oggi al Forteto vivono e lavorano insieme vittime e carnefici, le persone che hanno denunciato e che sono state condannate. E 4 membri su 5 dell’attuale Cda hanno testimoniato al recente processo a favore di Rodolfo Fiesoli. Basta ripartire da qui: per prima cosa eliminare ogni equivoco sulla realtà Forteto di oggi e salvaguardare chi ancora vive o lavora dentro. E fare luce sulle responsabilità di giudici, politici, assistenti sociali, o tutti quelli che hanno favorito il sistema Forteto, è molto più di un obbligo morale.

Inchiesta sul Forteto: Setta di Stato, scrive Editoria Toscana. Il caso letterario toscano dedicato a bambini affidati, abusi sessuali, amici potenti della misteriosa comunità mugellana. E' di alcune settimane fa l’insediamento della seconda commissione regionale d’inchiesta sulle responsabilità politiche ed istituzionali nella vicenda del Forteto. Il momento giusto per acquistare e leggere “Setta di Stato”, il libro che due giornalisti fiorentini, Francesco Pini e Duccio Tronci hanno dedicato alla comunità guidata da Rodolfo Fiesoli, finito sotto accusa insieme a 22 persone, con capi di imputazione quali abuso e maltrattamenti ai danni dei minori a loro affidati. Il libro lavora essenzialmente intorno a due capisaldi: la relazione finale sulla vicenda approvata all’unanimità dal Consiglio regionale nella scorsa legislatura e la recente sentenza del tribunale di Firenze, che ha condannato Rodolfo Fiesoli e 15 suoi adepti. E poi raccoglie con determinazione le testimonianze dirette che raccontano la vita da incubo in decenni di quotidianità. La lettura di “Setta di Stato” è un'esperienza faticosa sia emotivamente che politicamente. Ricostruzioni obiettive si alternano alle deposizioni raccapriccianti delle vittime. In molte pagine verrebbe voglia di chiudere il libro, tale è la pena che si prova per i protagonisti e il oro aguzzini. Solo la voglia di conoscere la verità conduce il lettore alle conclusioni. L’obbiettivo dei due giornalisti è, fra l'altro, quello di ricostruire e documentare le responsabilità sul riaccreditamento della struttura negli anni successivi alla prima sentenza penale di condanna di Fiesoli, ma anche le responsabilità dei magistrati che facevano gli affidamenti dei ragazzi, negli anni oltre 55. Vengono poi analizzate le responsabilità del settore sociosanitario, che non ha garantito un controllo adeguato, né sulla struttura, né sulla permanenza dei minori al suo interno. L'inchiesta giornalistica approfondisce la confusa commistione tra le tre realtà associative, in cui il Forteto avrebbe dovuto essere diviso: la cooperativa, l’associazione, la fondazione. Le conclusioni del volume non sono né cristalline, né soddisfacenti. Non per responsabilità degli autori, quanto perché rimangono avvolte da un alone di mistero le ragioni di quella che, al processo di primo grado, il Pubblico Ministero Ornella Galeotti ha definito “una grande allucinazione collettiva”. Per decenni il Forteto è stato dipinto come struttura d’eccellenza. Poi le testimonianze delle vittime e l’inchiesta giudiziaria hanno disvelato abusi e maltrattamenti ai ragazzini ospiti della comunità del Mugello. Nel processo di primo grado il fondatore è stato condannato a 17 anni, ma non andrà in carcere. Adesso la Città Metropolitana di Firenze gli chiede di risarcire € 1.000.000,00 di danni per per aver tradito le finalità dell'ente. Ma le motivazioni della sentenza di condanna parlano a chiare note di un sistema pubblico, tra politici, amministratori e giudici, che ha “mantenuto costantemente aperta una linea di credito illimitata” verso il Forteto nonostante gli arresti, prima nel 1978 e poi nel 2012, dei vertici della cooperativa e della comunità, garantendo sovvenzioni e sostegno istituzionale. Come questo sia stato possibile nella Toscana “civile e progressista” rimane inspiegabile, nonostante l'inchiesta giudiziaria, quella politica e pure quella giornalistica. Forse per restituire un senso plausibile alla vicenda bisogna partire da lontano, dal contesto epocale in cui il Forteto nasce e si sviluppa. Una coincidenza temporale straordinaria fa sì che la comunità/cooperativa dati pressappoco gli anni in cui in Toscana nascono la Regione (e le conseguenti deleghe agli enti secondari), si strutturano i servizi sociali territoriali (gestiti dalle stesse giovani amministrazioni pubbliche) e i Tribunali per Minori mettono in atto i principi del nuovo diritto di famiglia riformato dal parlamento proprio in quegli anni. Si tratta dunque di soggetti istituzionali nuovi, dotati tutti di norme di legge definite, ma privi nella fase iniziale di procedure amministrative strutturate e rodate. Nella fase pionieristica ogni organismo umano consente ampio margine alla discrezione personale degli individui sulle cui gambe queste entità camminano. E capita che chi si sente forte di questa primogenitura commetta errori di sottovalutazione, proprio in forza dell'inesperienza di un metodo assente, o non ancora rodato. E più è grande la fama di questi individui, pensiamo all'unanime stima di cui godeva un giudice quale Gian Paolo Meucci, più è difficile individuare e disinnescare eventuali errori procedurali. Come si spiega altrimenti l'abbaglio in cui incorre il Tribunale dei Minori di Firenze, affidando un bambino -il documento è agli atti del processo- alla “cooperativa del Forteto”, non una struttura sociale accreditata, ma un soggetto economico operante in agricoltura, alla stregua di una SpA, o di una impresa di coltivatori diretti? Sintetizzando con un paradosso, la concezione della realtà diffusa in Italia in quegli anni sembrava non considerare valide le acquisizioni raggiunte in scienza negli ultimi secoli, cioè che ogni avvenimento è determinato da un evento che lo precede e che dovrebbe sempre esserci una causa ed un effetto, come si dice una “causalità”. E' la concezione moderna su cui si fonda la filosofia occidentale e che lega il passato al futuro e valuta la funzione del tempo. Il passato è la spinta che il presente subisce per proiettarsi nel futuro, da Newton ad Einstein a Cartesio, il pensatore francese che nel seicento aveva sintetizzato il metodo di analisi e di ricerca che caratterizza la concezione deterministica dell'occidente evoluto. Ma nell'Italia di quegli anni non sempre pareva sussistere un principio di causa-effetto. Di questo libro c’era proprio bisogno. Ma Pini e Tronci si sono assunti un compito delicato, per gli imprevedibili sviluppi che il procedimento penale potrebbe avere in futuro. Rispetto a eventuali conseguenze legali i due autori si muovono con coraggiosa determinazione per ricostruire e documentare le responsabilità di Rodolfo Fiesoli e dei complici, evitando però di coinvolgere le tante persone in buona fede. I proventi della vendita del volume, per quanto fortunata, non compenseranno sforzi e rischi che i due autori si sono assunti, certo solo per spirito di servizio civico e di militanza giornalistica. Un’inchiesta così rigorosa sulla vicenda Forteto mancava e in generale è un fatto raro nel panorama giornalistico locale. Ancora oggi la consapevolezza collettiva della vicenda è modesta. La Cooperativa “Il Forteto” è il braccio economico della setta. Per salvarla, restituendo dignità ai lavoratori vittime di abusi e credibilità al brand, il commissariamento sarebbe un passaggio tecnico imprescindibile a detta degli ispettori ministeriali. Ma il parlamento ha bocciato ogni iniziativa a favore.

Editoria Toscana — rubrica a cura di Nicola Novelli. — Fondatore e Direttore responsabile di Nove da Firenze, dal 1997 il primo giornale on line fiorentino. Laureato in Scienze Politiche è giornalista pubblicista dal 1989. Dal1999 presiede Comunicazione Democratica, associazione di promozione sociale che edita www.nove.firenze.it. Dal 2012 è membro del Consiglio regionale dell'Ordine dei Giornalisti della Toscana e membro delegato della Consulta delle Libere Professioni presso la Camera di Commercio di Firenze.

Affidi al Forteto, bufera su Tony. Accuse all’ex giudice dopo l’intervista al Corriere Fiorentino: «Mandò bambini da Fiesoli, ecco il documento che lo prova», scrive “Il Corriere Fiorentino”. Ha scaricato la responsabilità delle coperture istituzionali sul Forteto sull’«imperare di quella cultura cattolica di sinistra, allora molto forte a Firenze», ha puntato l’indice sul suo predecessore, il presidente del Tribunale dei Minori Giampaolo Meucci, e ha aggiunto che quando fu lui a presiedere il Tribunale, dal ’99 al 2006, «non ho mai mandato un ragazzo lassù», nella comunità di Vicchio. L’intervista con l’ex giudice Piero Tony, pubblicata dal Corriere Fiorentino, ha fatto rumore. Soprattutto perché le carte smentiscono la presa di distanza del magistrato dal Forteto. A rendere pubblico il documento che contrasta con la versione di Tony, sul sito di LadyRadio, è stato il giornalista Francesco Pini (autore con Duccio Tronci, di Setta di Stato. Il caso Forteto, di prossima pubblicazione per Ab Edizioni): «Tony affidò minori al Forteto, ecco le prove» scrive. L’ordinanza del Tribunale dei minori di Firenze citata risale al 17 marzo 2004 e riguarda l’affidamento di due fratelli a membri del Forteto. Tony all’epoca era presidente del Tribunale dei Minori, e presiedette il collegio che decise il doppio affidamento. I destinatari furono una coppia composta da due dei 23 imputati nel recente processo contro il Forteto (poi assolti) e una single, che invece al processo è stata parte civile. E proprio uno dei due ragazzi è stato tra quelli che hanno raccontato in Tribunale le violenze subite dal «profeta» Rodolfo Fiesoli. Tony era già salito agli onori delle cronache per il caso Forteto, quando spuntò una registrazione audio nella quale il magistrato, durante la presentazione del libro «Fili e nodi» dello stesso Fiesoli fatta a Prato nel 2011, difendeva a spada tratta il Forteto e spiegava che la condanna inflitta nell’85 al «profeta», per maltrattamenti e atti di libidine in presenza di minori, era un esempio di «malagiustizia»; non solo, ma si prodigò in elogi nei confronti del sistema di chiarimenti serali imposti dal «profeta», cui raccontò di aver assistito personalmente. «Tony ha sempre sostenuto il Forteto e ora fa lo scaricabarile? — commenta uno stupefatto Sergio Pietracito, presidente dell’associazione delle vittime — È il primo che dovrebbe chiedere scusa; l’unica cosa che deve fare è rassegnarsi e fare mea culpa». Pietracito proprio ieri ha scritto una lettera al cardinale Giuseppe Betori per ringraziarlo per la sua omelia di San Giovanni, e per quel riferimento alle «sofferenze» delle vittime del Forteto. Ma chiede all’arcivescovo di Firenze anche di farsi «in prima persona garante affinché il sostegno verso le singole persone sia reale e duraturo nel tempo e rompa il muro di omertà e diffidenza che regna ancora in Mugello». Sorpreso dalle affermazioni di Piero Tony è anche Severino Saccardi, ex consigliere regionale Pd e direttore della rivista Testimonianze: «Tony punta l’indice contro il cattolicesimo di sinistra, se la prende con Meucci, ma ritengo tutto questo illogico, visto che è stato presidente del Tribunale dei Minori dopo la sentenza dell’85: prima era difficile rendersi conto di cosa fosse il Forteto, dopo, invece, non si poteva non aprire gli occhi». «Quel che ha detto Tony è vergognoso — tuona Stefano Mugnai, consigliere regionale di Forza Italia — attaccare Meucci ci può anche stare; ma lui dov’era?»

Forteto: quegli abusi ai minori protetti dal Pd, scrive Giampaolo Rossi su "Il Giornale". Quella del “Forteto” è una delle più allucinanti vicende italiane. Per decenni, tra le colline del Mugello si è consumata una storia di orrori, abusi, violenze, potere e ideologia sulla pelle di ragazzi e bambini, sotto gli occhi distratti delle istituzioni, in alcuni casi addirittura complici. Il Forteto è l’incarnazione di una folle sperimentazione sociale nata alla fine degli anni ’70 nella tempesta della contestazione ideologica all’autorità, della liberazione sessuale e delle prime teorie gender fondate sui postulati della neutralità uomo-donna. La vicenda è raccontata in un libro inchiesta di due giornalisti toscani, Francesco Pini e Duccio Tronci, dal titolo emblematico: “Setta di Stato”. Forteto viene fondata nel 1978 da Luigi Rodolfo Fiesoli, poi conosciuto come il “Profeta”, sessantottino di Prato inquietante e carismatico. La comunità, che si struttura come cooperativa agricola, diventa subito un modello per la sinistra toscana; il simbolo realizzato dell’opposizione ai valori della società borghese e della famiglia tradizionale, un’esperienza concreta di nuove relazioni tra i sessi, un riferimento ideale per politici e intellettuali. Pur non essendo una struttura d’accoglienza, al Forteto vengono inviati in affidamento disabili fisici e psichici, minori con problemi d’inserimento; il modello educativo appare, ai tanti esperti, funzionale e valido. Eppure, fin dall’inizio, circolano strane voci sulle pratiche adottate in quella comunità: si parla di abusi sessuali, violenze e intimidazioni. Il “Profeta” imponeva l’omosessualità come mezzo per la purificazione, e il rifiuto della famiglia d’origine come strumento di liberazione individuale. Arrivano le prime denunce di genitori picchiati dai figli su ordine di Fiesoli e di ex seguaci riusciti a fuggire dai violenti condizionamenti psicologici e sessuali. Nel 1978 un coraggioso magistrato toscano, Carlo Casini, apre l’inchiesta; Fiesoli ed il suo braccio destro Luigi Goffredi vengono arrestati e nel 1985 condannati in via definitiva per “libidine violenta, corruzione di minorenne e maltrattamenti”. Non sono provate le spedizioni punitive contro genitori e fuoriusciti ma confermati gli abusi sessuali su due disabili affidati e violenze psichiche contro un ragazzo di quindici anni. In un paese civile la storia finirebbe qui: i due sarebbero in galera e Forteto sarebbe chiusa. Ma nella Toscana rossa la storia continua, incredibilmente. Nonostante la condanna di Fiesoli, i giudici minorili ricominciano ad affidargli “direttamente” ragazzi minorenni e bambini; il primo (un bimbo down di tre anni) dopo appena sei mesi dall’arresto con il processo in corso. Goffredi riesce persino ad avere due bambini in adozione dopo la sua condanna. Per decenni gli abusi sessuali e le violenze psicologiche continuano sotto l’occhio distratto delle Istituzioni preposte a proteggere quei ragazzi. Tutti sapevano che anche i meccanismi di affidamento erano irregolari. All’interno della comunità venivano create “famiglie funzionali”, nuclei fittizi che servivano per ottenere l’affidamento del bambino ma che poi veniva seguito da uno dei “discepoli”. Nessuno controllava. I racconti dell’orrore che uscivano da quel luogo non distoglievano i giudici minorili, gli psicologi dell’infanzia, gli assistenti sociali dagli elogi sperticati al modello educativo del Forteto. Nel 2000 arriva una condanna contro lo Stato italiano addirittura dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per le gravi anomalie riscontrate nelle procedure di affidamento al Forteto. Nel 2002 Bruno Vespa dedica, al caso Forteto una puntata di Porta a Porta; dichiarerà di non aver mai subito così “tante pressioni quotidiane sistematiche e sconcertanti” per impedire che l’inchiesta andasse in onda. Poi, nel 2012 nuove denunce e un nuovo processo concluso nel giugno 2015 con la condanna di Fiesoli a 17 anni, Goffredi a 8 e di altre 14 persone della cooperativa a pene fino a 8 anni, per violenze sessuali e maltrattamenti ai danni di ragazzi e bambini affidati. Il libro di Pini e Tronci raccoglie un elenco infinito di racconti di orrori consumati in quella comunità, ricostruisce la storia ed elenca nomi e cognomi di politici, magistrati, intellettuali che hanno coperto o sono stati irresponsabilmente superficiali. La comunità del Forteto era un fiore all’occhiello delle cooperative rosse toscane e tappa obbligata di tutti i leader della sinistra italiana in campagna elettorale, sia locali che nazionali: da D’Alema a Bersani, fino a Renzi. Antonio Di Pietro, eletto al Mugello, andò oltre; firmò la prefazione ad un libro sull’esperienza comunitaria descrivendolo come uno spazio “di amore reale che trova suggerimenti nel Vangelo e in un’attenta osservazione dell’altro”. D’altronde la Comunità era anche un serbatoio di tessere e voti. La Regione Toscana (da sempre governata dalla sinistra), fin dal 1980 quando acquistò per 300 milioni di lire la prima fattoria che poi assegnò a Fiesoli, ha continuato ininterrottamente a finanziare la cooperativa nonostante le denunce e le condanne; milioni di euro in contributi di cui l’ultimo nel 2014, di 700 mila euro. Un fiume di denaro pubblico non solo alla cooperativa ma anche alla Fondazione, presieduta da Goffredi, che organizzava cicli didattici per le scuole e corsi per educatori; un condannato per abuso ai minori che insegnava come educare i minori. Fiesoli e Goffredi hanno continuato fino in tempi recenti ad essere invitati nei convegni pubblici per parlare dell’esperienza del Forteto, a scrivere libri pubblicati da importanti case editrici. Nelle loro testimonianze educative nessun accenno all’omosessualità minorile imposta come pedagogia, alle violenze, alla pedofilia e alla zoofilia (secondo alcune testimonianze) indotte come azioni terapeutiche. Uno dei primi fuoriusciti dalla comunità la definì un luogo “dove il sesso agisce da parafango per la pazzia”. Qualche giorno fa l’ultima vergogna. In Parlamento, una mozione unitaria delle opposizioni (da Forza Italia al M5S, da Sel alla Lega a FdI) ha chiesto il commissariamento della cooperativa e l’Istituzione di una Commissione d’inchiesta per accertare i livelli di complicità e connivenze. La mozione è stata bocciata dal Pd. Chissà cosa sarebbe successo se Forteto fosse stata una parrocchia e Fiesoli un sacerdote cattolico. Ma il pedofilo, quando è di sinistra, va protetto. Il caso Forteto rimane tuttora una delle pagine più nere e immorali della sinistra italiana.

 “Setta di Stato”, l’incubo Forteto raccontato da Francesco Pini e Duccio Tronci, scrive Domenico Rosa. Nel libro-inchiesta "Setta di Stato. Bambini affidati, abusi sessuali, amici potenti" (AB Edizioni) gli autori, Francesco Pini e Duccio Tronci, ricostruiscono minuziosamente la vicenda Forteto servendosi di documenti processuali, archivi dei media toscani e soprattutto attraverso la testimonianza delle vittime. La comune nata a seguito della contestazione sessantottina ad opera del guru Rodolfo Fiesoli, assieme all’inseparabile Luigi Goffredi, si è svelata col tempo per quello che realmente era, un giardino degli orrori in cui si sono verificati abusi sessuali, violenze di ogni genere, minori schiavizzati, punizioni corporali. Dietro tutto questo c’è l’ideologia del profeta Fiesoli: creare una nuova società con il compito di distruggere una volta per tutte la famiglia (padre, madre, figli ndr) sostituendola con la famiglia funzionale dove l’uomo nuovo si libera dalla ‘materialità’, che vuol dire semplicemente eterosessualità. In questo Foffo (vezzeggiativo di Rodolfo), si dimostra veramente profeta. Infatti, nella cooperativa agricola nel cuore del Mugello, sita nei comuni di Vicchio e Dicomano (Firenze), regna la tanto attuale ideologia omosessualista, i ragazzi (giovani e minori) per liberarsi dalla materialità devono evitare l’altro sesso (non a caso i dormitori sono divisi in maschili e femminili) e soddisfare le voglie del Fiesoli che ha un vero e proprio harem: dorme in camera con 4 ragazzi, i quali sono stati precedentemente soggiogati dal fascino delle parole del leader. Il rapporto col profeta, ricordano le vittime, va oltre la sessualità, si tratta di un vero e proprio atto di fede, di donazione e di rinuncia a tutto il resto del mondo. Pini e Tronci riportano la definizione degli autorevoli studiosi di psichiatria Paolo Curci e Cesare Secchi dell’Università di Modena e Reggio Emilia secondo cui la setta toscana è una “comunità ideologica o ad andamento totalizzante”. Il carisma del capo riesce ad allontanare i giovani dalle famiglie di origine, che troppo spesso chiudono violentemente il rapporto con i familiari picchiando padri, madri e sorelle… sempre aizzati dal falso profeta. Con un fare demoniaco Foffo strumentalizza la Sacra Scrittura, fa affiggere nei locali della cooperativa una citazione di Gesù: “Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre” (Mt 10, 35). Un altro versetto del Vangelo spesso citato dal guru è tratto da Marco (3, 33-34): “’Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?’ Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: ‘Ecco mia madre e i miei fratelli’”. Il presidente dell’associazione delle vittime del Forteto, Sergio Pietracito, così definisce il suo ex maestro Rodolfo: “Era un comunistaccio sfegatato, lui il cristianesimo e il socialismo li metteva insieme”. Nel Mugello prende piede una sorta di piccola contro-società chiusa all’esterno, in “un modello di cattocomunismo toscano – sintetizzano gli autori – che ha ispirato anche altre esperienze”. Ma la missione di Fiesoli è quella di accogliere i più deboli, iniziano così gli affidi dei minori più problematici da parte del Tribunale dei minorenni di Firenze, dall’Istituto degli Innocenti, dai comuni, dai servizi sociali. Anche in questo caso i piccoli, già spesso con problemi gravi alle spalle, sono costretti ad accusare ingiustamente i genitori. Vengono create coppie fittizie per avere in affidamento i bambini, che diventano carne da macello per l’orco Fiesoli e i suoi sodali. Non bastano le denunce di genitori disperati e una condanna definitiva arrivata nel 1985 nei confronti del profeta per atti di libidine violenti e continuati per aver masturbato due persone malate di mente e del suo braccio destro Goffredi per maltrattamenti e atti di libidine violenta, la ripugnante comune continuerà a ricevere dalle istituzioni giovani minorenni in affidamento. Qui – come spiegano alla perfezione i giornalisti Pini e Tronci – entra in gioco un sistema di amicizie potenti che vanno da giudici a politici da medici a personaggi di varia natura. Antonio Di Pietro paracadutato dalla sinistra italiana nel collegio sicuro del Mugello diventa senatore nel 1997, un anno dopo parla della comunità Forteto in questi termini: “un amore reale che trova suggerimenti nel Vangelo e in un’attenta osservazione dell’altro”. Ma non è il solo, anzi, come ricordano Pini e Tronci, l’ex magistrato è in buona compagnia, al Forteto sono di casa i big della politica. Le testimonianze raccolte dalla commissione regionale d’inchiesta presieduta da Stefano Mugnai (all’epoca PdL oggi Forza Italia), parlano di visite da parte di Massimo D’Alema, Livia Turco, Rosy Bindi (che ha smentito), Piero Fassino, degli ex parlamentari Eduardo Bruno (Comunisti Italiani), Vittoria Franco (Pd) e Francesca Chiavacci (attuale presidente nazionale dell’Arci), dell’ex ministro democristiano Tina Anselmi, dell’ex presidente della Toscana Claudio Martini (Pd), di Paolo Cocchi (Pd, già assessore regionale e sindaco di Barberino del Mugello), di Riccardo Nencini (socialista, oggi viceministro nell’attuale governo Renzi), di Michele Gesualdi (Pd, allievo di don Milani, già presidente della Provincia di Firenze). In più ci sono rapporti stretti con i giudici: Francesco Scarcella, Piero Tony, Gianfranco Casciano, Andrea Sodi. Accreditata negli ambienti che contano non risulta difficile per la cooperativa dell’orrore accedere a finanziamenti pubblici. Solo dal 1997 al 2001 la Regione Toscana ha sborsato alla setta di Fiesoli un milione e duecento mila euro per le attività agricole. Insomma, l’importante per i governati toscani è che il burro sia buono e l’Unicoop possa acquistare i prodotti del Forteto, i bambini invece possono finire tranquillamente tra le grinfie dei pedofili. Come se non bastasse nel 2000 arriva una condanna dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per il caso di due fratellini affidati al Forteto. L’Italia deve risarcire di duecento milioni di lire la madre dei fratelli Anversa alla quale sono state impedite le visite con una serie di falsificazioni da parte di medici e assistenti sociali. Gli specialisti redigevano relazioni ingiustamente critiche nei confronti della madre naturale per ostacolare i suoi incontri con i ragazzi. In Europa si accorgono che nella comunità hanno un ruolo attivo due pregiudicati: Rodolfo Fiesoli e Luigi Goffredi. Sono sempre loro infatti ad avere rapporti con le istituzioni per quanto riguarda gli affidamenti, quelle stesse istituzioni che dopo la sentenza fanno finta di niente. Francesco Pini e Duccio Tronci ci guidano all’interno di una delle pagine più buie della storia recente avvenuta nella civilissima Toscana. A pochi chilometri dalla magnifica Firenze orrore, abusi, violenze e persecuzioni hanno avuto luogo con la contiguità di una precisa parte politica. Se qualcuno ancora oggi pensava esistesse una certa superiorità morale della sinistra italiana (in Toscana governa ininterrottamente dal dopoguerra ad oggi) la vicenda vergognosa del Forteto sfata definitivamente il mito berlingueriano.

Il Forteto: La setta dell’orrore e della vergogna, scrive Domenico Rosa su “Imola Oggi”. Oltre vent’anni di abusi, zoofilia, minori schiavizzati, punizioni corporali. Questo era Il Forteto, la comunità-cooperativa fondata dal santone Rodolfo Fiesoli nella civilissima Toscana, accreditata negli ambienti che contano come un esempio di solidarietà e integrazione. Sono proprio queste le parole utilizzate dal sindaco di Vicchio, Alessandro Bolognesi (PD), nell’assegnare la massima onorificenza del comune mugellano, il Giotto d’Oro, alla famigerata Cooperativa. Siamo nel maggio 2003. A nulla sono valse 10 anni dopo le richieste di Caterina Coralli, consigliere FdI di Vicchio, per la revoca del premio. A seguito dell’arresto del profeta Fiesoli per violenza sessuale aggravata ai danni di minori e maltrattamenti aggravati ai danni di minori, avvenuto nel 2011, nasce una commissione d’inchiesta regionale presieduta dal consigliere PdL Stefano Mugnai (oggi FI). Nelle 88 pagine redatte dalla commissione si individua in Fiesoli il guru della ‘setta’. L’orco che rende schiavi sessuali adolescenti indifesi, costretti a un duro lavoro e a subire ogni sorta di angheria. Fino al 2009 quando già fioccano le denunce il Tribunale dei minori continua ad affidare i bambini alla comunità degli orrori. Non a caso i legami dell’orco con personalità della politica, della magistratura, della comunità scientifica sono molteplici. Si legge nella relazione: “Ecco un elenco dei personaggi che, a vario titolo, e con differenti modalità, passano dal Forteto: Edoardo Bruno, Piero Fassino, Vittoria Franco, Francesca Chiavacci, Susanna Camusso, Rosi Bindi, Livia Turco, Antonio Di Pietro, Tina Anselmi, Claudio Martini, Riccardo Nencini, Paolo Cocchi, Michele Gesualdi (Presidente Provincia di Firenze), Stefano Tagliaferri (Presidente Comunità Montana del Mugello), Alessandro Bolognesi (Sindaco di Vicchio), Livio Zoli (Sindaco di San Godenzo e Londa), Rolando Mensi (Sindaco di Barberino di Mugello)”. In più i presidenti del Tribunale per i minori: Francesco Scarcella, Piero Tony, Gianfranco Casciano e l’attuale procuratore della repubblica di Prato, Massimo Floquet. Mugnai, presente ieri pomeriggio 20 maggio 2015 alla presentazione del libro “Il Forteto: destino e catastrofe del cattocomunismo” (Settecolori) di Stefano Borselli, di cui è il prefatore, insieme all’autore, a Sergio Pietracito, una delle vittime de “Il Forteto”; Caterina Coralli, Capo gruppo uscente di FdI al Comune di Vicchio, il giornalista Pucci Cipriani Direttore di “Controrivoluzione”, Roberto Dal Bosco, scrittore e studioso vicentino, l’Avv. Ascanio Ruschi, Presidente della Comunione Tradizionale e Giovanni Donzelli, Capo gruppo FdI in Regione, ha ricordato di come gli abusi non fossero estemporanei ma sistematici. Dell’appoggio degli ambienti culturali, dei libri agiografici sulla comunità editi dall’importante casa editrice Il Mulino e del silenziatore calato dai media nazionali su atrocità inenarrabili. Sergio Pietracito, una delle vittime di Fiesoli, trova il coraggio di parlare. Nei suoi occhi si legge il dolore, ma ormai sta portando avanti una missione: quella della verità. Racconta del sistema pederastico messo in atto dall’orco. “Addestrati a rinnegare i valori tradizionali. A recidere i legami con gli amici all’esterno e i familiari”. il guru porta avanti l’idea di società omosessuale. In questo davvero un profeta. Il suo verbo è netto: “Fuori il mondo è merda, ma va usato”. Istrionico, imbonitore, capace di accreditarsi ovunque. La testimonianza di Sergio è commovente. Borselli lo ringrazia e assieme a lui tutte le vittime che hanno fatto crollare il castello del male con il loro coraggio di venire allo scoperto. La connivenza tra il mondo che conta e Il Forteto è lampante, Giovanni Donzelli chiede giustizia. Sul banco degli imputati mette chiunque abbia avuto rapporti col mondo dell’orrore del profeta. Cita l’ex presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, il quale apriva sempre la sua campagna elettorale a Il Forteto, il procuratore Floquet, un tempo affidatario dei minori alla ‘setta’ e oggi procuratore della Repubblica di Prato. Tra i simpatizzanti della cooperativa non manca un nome che va oltre la destra e la sinistra. Lo studioso Dal Bosco fa infatti il nome di Franco Cardini, autore di una prefazione a un libro agiografico su Il Forteto. Pietracito rincara la dose e attribuisce allo storico fiorentino le parole: “Ci vorrebbero 10-100-1000 Forteto”. Donzelli conclude: “Cardini qualche volta era di destra? Anche lui deve pagare”. Il caso del medievista dimostra come spesso anche nel mondo non proprio di sinistra che spadroneggia in Toscana si aveva un’idea positiva della comunità degli abusi. Mugnai a proposito ricorda di un assessore comunale del centrodestra che gli aveva confessato di aver affidato in tutta buona fede minori alla cooperativa. “Convinto che fosse l’ambiente migliore per loro”. Oggi non dorme la notte. L’incubo Forteto. La setta ancora oggi troppo poco scandagliata, l’abisso di perversione che merita chiarezza e visibilità anche su giornali e Tv nazionali. Per dirla come l’avvocato Ruschi “in attesa di una verità processuale esiste già una verità storica”. Di fronte a orrori del genere non ci si può arenare nelle secche della cronaca giudiziaria.

29mila minori ospitati ogni anno nelle comunità alloggio. Oltre 400 euro la retta giornaliera che lo Stato arriva a pagare per ognuno di questi bambini in alcune comunità. 80 quelli che ogni giorno vengono sottratti ai genitori biologici. 2 miliardi il giro d’affari generato intorno ai minori. 0 euro il valore di un sorriso di un bambino, scrive “Federcontribuenti”. Numeri raccapriccianti ma che più di ogni altra parola spiegano perché Federcontribuenti ha sentito la necessità di creare Finalmente Liberi, la commissione d’inchiesta diretta dall’avvocato Cristina Franceschini che si occuperà esclusivamente di tutti quei bambini che ogni giorno vengono sottratti immotivatamente alle proprie famiglie e dati in affidamento alle strutture gestite dallo Stato, spesse volte non adeguate alla vita in crescita di un minore ma che rappresentano un vero proprio business per lo Stato e per i suoi apparati. Obbiettivo di Finalmente liberi è quello di fare luce sulle gravi incongruenze di un percorso giudiziario e psicologico poco trasparente e non scientificamente appropriato, che trasforma genitori e figli in vittime dello Stato. “Noi consideriamo Finalmente Liberi una missione sociale ma anche etica – dice l’avvocato Franceschini – Vogliamo dare voce a tutti quei bambini che subiscono scelte che non sono in grado nè di comprendere e nè di controllare. Lo faremo con l’aiuto di un pool di esperti che ha condiviso la mission della commissione d’inchiesta e ha deciso liberamente di aderirvi e dare il proprio contributo per denunciare un grave problema troppo spesso ignorato dalla società e dall’opinione pubblica”. Una commissione che intende mettere nero su bianco anche il peso che queste strutture hanno sui bilanci dello Stato, confrontandolo con il sostegno che viene garantito alle famiglie e alle associazioni che si occupano di minori e malati: “Quello che la gente non sa – dice il Presidente di Federcontribuenti – è che ogni anno, forse anche ogni mese, lo Stato apporta tagli significativi ai contributi elargiti a famiglie e associazioni con a carico minori e disabili. Una spesa che non può essere neanche paragonata alle cifre da capogiro investite per le case famiglia o per gli alloggi temporanei che, al contrario del nucleo familiare originario, nella maggior parte dei casi contribuiscono in modo negativo alla crescita di un bambino. Quello che vorrei che capissero i cittadini – conclude Paccagnella – è che l’indignazione provata per il caso del bambino di Padova dovrebbe essere manifestata ogni giorno, 80 volte al giorno. Parliamo senza mezzi termini di abusi come minimo psicologici sui minori inferti con i soldi dei contribuenti. Quello che mi chiedo è se davvero la società vuole farsi complice dello Stato in questi abusi o se, una volta per tutte, s’intende mettere un freno a realtà non compatibili alla nostra etica e moralità”.

Affidamento minori e le relazioni degli operatori, scrive “Finalmente Liberi”. «Se avessi raccontato alle maestre che mia madre provava l’impulso di schiantarsi contro un camion mentre era con me in macchina, o che mio padre, pur generoso, non non è mai stato proprio affettuoso, avrei rischiato di vedermi prelevata con forza dai servizi sociali?» L’outing lo fa Roberta Lemma, vice presidente di Federcontribuenti e fautrice di Finalmente Liberi, la commissione di inchiesta di Federcontribuenti sugli affidamenti minorili nata con il solo scopo di richiamare l’attenzione delle Istituzioni su un fenomeno che riguarda direttamente i minori e le famiglie coinvolte. «Nel sistema che vede segnalare un minore all’attenzione del tribunale dei minori e dare inizio alla procedura di analisi e valutazione dello stato psico fisico del bambino e dei genitori incontriamo spesso criticità tali da mettere in pericolo il sistema di tutela minori stesso. Finalmente Liberi non si occupa solo della teoria giuridica nell’ambito minorile, ma soprattutto, si pone come attenta osservatrice dell’accanimento, spesso ingiustificato, degli operatori che ruotano intorno al tribunale dei minori». Il pericolo si annida nelle valutazioni scritte rilasciate dai psicologi o dagli stessi assistenti sociali come dagli operatori delle case famiglia, «leggendo molte relazioni viene da pensare che chiunque di noi, considerate le osservazioni sollevate, è a rischio di valutazione negativa. Nelle relazioni troviamo osservazioni di questo tipo: la mamma si tocca spesso i capelli mostrando fragilità emotiva. Il bambino scaglia i giocattoli che il padre gli porge. La casa è troppo in ordine per permettere ai bambini di giocare liberamente. La casa è troppo in disordine». Il giudice come punto di riferimento per le sue decisioni prende proprio queste relazioni, ma quale genitore non sarebbe nervoso davanti ad un test che deve valutare la sua capacità genitoriale? O quale bambino non gioca gettando a terra i giocattoli? Proprio di questo parliamo, queste persone vengono messe volutamente in una situazione di inferiorità, schiacciate dal potere che la penna che li descrive ha. Precisiamo che non si parla di bambini che hanno subito violenza, parliamo di famiglie in difficoltà per i più svariati motivi, spesso conseguenza di una cattiva politica sulle famiglie, caduti nella segnalazione ai servizi sociali. Quale famiglia italiana non vive un qualche disagio di natura economica o emotiva o quale famiglia nell’arco della sua vita non si trova a vivere una momentanea tragedia o quale coppia di genitori non litiga. Si riscontra spesso anche una coercizione di minori, un atteggiamento di esuberante senso di protezione, un comportamento di superiorità nei confronti di famiglie in difficoltà da parte di coloro che operano nell’ambito della tutela del minore. «Ribadiamo la necessità di rivedere il sistema di tutela dei minori quando non vittime di violenza, la necessità di coinvolgere sin dall’inizio l’intero nucleo familiare spesso tagliato fuori. L’allontanamento del minore e il suo affido devono diventare l’ultima opportunità e non la prima. La procedura va snellita, i protagonisti devono sapersi porre domande, non diventare plotone d’esecuzione. Molti padri non vengono tutelati nel loro compito genitoriale, le famiglie affidatarie diventano spesso un ostacolo alla ritrovata serenità della famiglia di origine. Non abbiamo tanto bisogno di giudicanti ma di persone capaci di trattare casi così delicati con tutta l’umanità, il buon senso e l’onestà intellettuale di cui devono essere capaci». Conclude Roberta Lemma, «la mia famiglia mi ha cresciuta con attenzione e amore e questo anche se mia madre si è ammalata di depressione quando ancora ero piccola, una depressione che spesso le ha fatto tentare il suicidio e con un padre che sempre mi ha amata anche se non è una persona capace di slanci affettuosi. Non può essere una sculacciata, uno schiaffo, un disegno angosciante o una difficoltà momentanea il movente del prelievo forzato del minore. La segnalazione dovrebbe dare inizio ad una attenta valutazione ed investigazione e non all’accanimento psicologico; solo nei casi di comprovata violenza può essere giustificato un intervento immediato di prelievo e allontanamento del bambino e, anche in questo caso, spesso sarebbe sufficiente spostare il minore dai nonni o dai zii quando non intercorre il pericolo di essere raggiunto dalla violenza».

A Roma durante l’evento “Affidamento temporaneo: abuso o tutela?” – il fenomeno degli “allontanamenti facili”, il convegno ha visto la partecipazione dell’avvocato Francesco Miraglia che è intervenuto denunciando il sistema e portando dei casi concreti: «Uno dei problemi è chi controlla i controllori, quando ci sono delle case famiglia gestite da qualcuno che è anche stato condannato per terrorismo a 17 anni di reclusione e oggi è gestore di due case famiglia e sottoposto a procedimento penale, c’è qualcosa che non funziona. Io sto aspettando dalla Regione Emilia Romagna da più di un mese per sapere chi decide e chi da l’autorizzazione per aprire una casa famiglia». Ma l’avvocato ha portato anche l’esempio di un caso abruzzese dove «qualcuno che ha subito dei procedimenti penali per maltrattamenti ha chiuso da una parte una casa famiglia e ne ha aperta un’altra. Vuol dire che c’è un problema». E poi ancora «a Trento più di qualche giudice onorario è presidente della cooperativa che gestisce la casa famiglia e poi successivamente è giudice onorario e partecipa alla Camera di Consiglio su quel caso, un problema c’è». Il problema, secondo il legale, sta anche nel tribunale dei minorenni «dove c’è un certo automatismo tra le relazioni dei servizi sociali, la richiesta della procura e il provvedimento. Viene prima allontanato il minore e poi passano mesi per fissare le udienze in cui i genitori e l’avvocato possano dire la propria».

Nella mattinata de 7 maggio 2014 presso il Palazzo della Regione di Trento, l’onorevole Giacomo Bezzi assieme al consigliere comunale Gabriella Maffioletti ha presentato il disegno di legge «Disposizioni in materia di affidamento di minori: modificazioni dell'articolo 34 della legge provinciale sulle politiche sociali», scrive “La Voce del Trentino”. Un disegno di legge rivoluzionario che se accolto dal Consiglio Provinciale è destinato a trasformare il campo della tutela minorile allineandolo alle convenzioni internazionali sui diritti del fanciullo con il passaggio da una cultura della protezione a una cultura dell’accoglienza. Il disegno di legge ha tre capisaldi: Superamento entro il 31 dicembre 2017 dei servizi a carattere semiresidenziale e residenziale per minori, con l'attivazione di vere e proprie comunità di tipo familiare. Purtroppo nonostante la legge abbia disposto che il ricovero in istituto doveva essere superato entro il 31 dicembre 2006, in realtà i minori sono ancora affidati a strutture che sono sostanzialmente degli istituti. La priorità rimane ancora la tutela mentre dovrebbe essere l’accoglienza. Attivazione obbligatoria di un progetto formale di recupero o rafforzamento per la famiglia di origine che impedisca ai minori allontanati dalle famiglie di passare dalla condizione di ‘allontanati’ a quella di ‘abbandonati’: spesso infatti i minori rimangono nelle strutture per anni senza alcun recupero della famiglia di origine, come il caso pubblicato oggi dai media del minore che alla fine è tornato a casa senza aspettare il decreto del giudice che è arrivato solo in un secondo momento. I tempi dei minori non sono quelli della giustizia. Affidamento familiare dei minori, con priorità rispetto all'affidamento a servizi a carattere semiresidenziale e residenziale o dal 2018 a comunità di tipo familiare. Questo è il chiaro intento del legislatore che vorrebbe garantire il diritto del minore a una famiglia, quando la famiglia naturale non lo possa fare. Nel DDL si favorisce anche l’affidamento ai parenti. Si tratta di un disegno di legge che non dovrebbe trovare alcuna opposizione se non negli interessi privati delle strutture residenziali e di certi psicologi, psichiatri, operatori, ecc. che lavorano nel sociale. Solo pochi giorni fa abbiamo saputo di uno psicologo che svolge anche il ruolo di consulente tecnico d’ufficio e che è stato denunciato da due mamme trentine per avere, a loro avviso, commesso dei gravi errori che hanno portato all’allontanamento o al pericolo di allontanamento dei minori: questo psicologo è anche dirigente di una comunità del privato sociale che fattura circa 10 milioni di euro all’anno. Gli interessi economici sono quindi ingenti e c’è il pericolo che queste lobby, che per anni hanno banchettato sulla pelle dei minori, esercitino la loro influenza per impedire una riforma che va a tutto vantaggio dei minori. Per questo motivo ieri l’onorevole Giacomo Bezzi e il consigliere comunale Gabriella Maffioletti hanno presentato un esposto alla Corte dei Conti perché si faccia luce sul possibile danno erariale causato dagli allontanamenti “facili” dalle famiglie e dalla difficoltà di implementazione dell’affido famigliare. Il Trentino infatti è tra le pecore nere per quanto concerne i minori sottratti alle famiglie. È al penultimo posto prima della Liguria per le percentuali di bimbi allontanati dalle famiglie, mentre la percentuale del 33% di affidamenti familiari ci colloca assieme a regioni con disponibilità finanziare molto inferiori alle nostre come l’Abruzzo (31%) e il Molise (32%) mentre ad esempio la Sardegna è al 68%. Inoltre secondo le statistiche in Trentino, nel 2010, 160 bambini sono stati allontanati dalle famiglie per un periodo inferiore all’anno, bambini che molto probabilmente avrebbero potuto evitare il dramma dell’abbandono con una politica genitoriale opportuna, in grado di prevenire e risolvere i disagi. Nell’esposto sono stati rivelati anche alcuni conflitti di interesse come ad esempio quello di certi giudici onorari che lavorano anche nel settore minorile.

L’affidamento minorile: case famiglia, servizi sociali e bambini sottratti, scrive “Federcontribuenti”. In Italia oltre 32 mila bambini sono stati tolti alle famiglie, vengono chiamati, sequestri di Stato. Come camminare su di un campo minato, dove ogni parola o affermazione rischia di far esplodere una bomba perchè, dietro il fenomeno dei sequestri di Stato, ci sono i tribunali dei minori, i servizi sociali, le case famiglia cattoliche e un fiume di soldi. Dal presidente Paccagnella:” stiamo trattando con dei parlamentari per portare questa denuncia in parlamento, luogo dove ogni argomento dovrebbe trovare spazio. Sugli affidamenti e relative elargizioni da parte dello Stato sono categorico: ogni storia familiare, quando non si è in presenza di prove schiaccianti di violenza o abusi, va studiata in maniera più approfondita e ove si presenta la famiglia in stato di indigenza economica, le risorse economiche vanno assegnate alla stessa per far sì che possano recuperare la propria posizione nella società continuando a crescere i propri figli, sicuramente la spesa dei denari del contribuente sarà inferiore a quella dell’affidamento e non ci troveremmo in presenza di queste storie disumane ”. Una famiglia media, composta da due adulti e due bambini può vivere con un salario sindacale, diciamo circa mille e 200 euro al mese. Il costo per ogni bambino messo in un istituto, da parte dello Stato, è di circa 3 mila euro al mese. Se ne sta occupando la Federcontribuenti, la quale, dopo aver ricevuto una lettera anonima, si è attivata per scoprire la veridicità del contenuto. La lettera inizia con questa frase: I fiori migliori devono essere dati al Dio, quindi i Suoi figli devono essere dati alla chiesa. Aiutateci. La Federcontribuenti scopre così un fenomeno inquietante, un sottobosco, storie di ordinaria follia. Decine di forum, aperti dai familiari coinvolti nella sottrazione di minori, foto pubblicate, atti, sentenze, documenti su carta intestata e timbri di questo o quell’ufficio. Le foto ritraggono i bambini tolti alle famiglie. Sono tutti piccoli, belli, bellissimi. Le storie sono tutte ben documentate e scritte in perfetto italiano. Sembra essere in presenza di un mondo sommerso legato ai minori con la compiacenza di tribunali, uffici comunali, istituti per famiglia. Un capitolo a parte le case famiglia per madri sole con bambini: alcune di queste madri denunciano di essere state costrette, con vessazioni, ad abbandonare i propri figli. Quanti bambini figli di madri sole e senza reddito vengono dati in affido ad altre famiglie? E quanti di questi affidi temporanei diventano poi delle adozioni definitive? È vero che agli aspiranti genitori vien detto che che l’affido è una scorciatoia, in quanto sono gli stessi operatori a dire loro che per alcuni bambini si sa già che sarà un affido sine die? Quanto ci sarà di vero in queste storie? Non lo sappiamo, ma nessuno indaga nè si pone queste domande. Se ne è occupato anche il settimanale Panorama che scrive: ” il 14% dei bambini collocati negli istituti è straniero, quasi 17 mila i bambini dati in affidamento, negli ultimi anni il fenomeno è salito del 29,3%”. Basta un litigio, un disegno frutto di uno scherzo o di una fantasia nata da una pessima televisione, per rischiare di subire un sequestro di Stato. Dietro l’agire di certi tribunali dei minori può esserci connivenza con servizi sociali e case famiglia per le adozioni illegali? Al momento c’è un’unica indagine in corso a Napoli in cui sono indagate diverse persone di alcune case famiglia e servizi sociali per aver favorito la permanenza nelle case famiglia anche senza ragione.

Affidamento minori. Scoppia il caso: perchè il prelievo diventa la sola alternativa? Si chiede Federcontribuenti. "Sembrerebbe che basti essere una madre sola per rischiare di vedersi prelevare un figlio già dopo il parto. Stiamo seguendo in queste ore un difficile caso a Roma. Tale concetto, grave sotto ogni punto di vista umano ed intellettuale, se fosse vero ci renderebbe tutti, indistintamente, dei criminali. Decenni per riconoscere i diritti dei figli nati fuori dal matrimonio e ancora combattiamo, condanniamo ed emarginiamo madri sole o genitori in difficoltà economica? Infine perchè, a questi bambini, viene tolto anche l’affetto dei nonni?” Se quel bambino non andava prelevato? Se quel bambino fosse vittima di una strategia legale volta a vincere una causa per divorzio? Se quel bambino fosse finito al centro di un business? Se tutto ciò accadesse per davvero, di quali crimini ci staremmo macchiando? Certi che, quello che non si fa, non si dice, dopo troppe segnalazioni che denunciano tali aberrazioni, si è cercato di capire se, e come, tutto questo può accadere durante la conferenza stampa promossa da Federcontribuenti. Presente Finalmente Liberi, la commissione d’inchiesta sul fenomeno dei, comunemente chiamati, sequestri di Stato. Secondo l’avv. Franceschini, responsabile della commissione, mancano nei giudizi verso i bambini, contraddittorio, garantismo, legalità e senso civico. ” Oggi ci troviamo ad affrontare casi di centinaia di famiglie distrutte per motivi assurdi, perizie superficiali, denunce per abusi difficili da accertare solo per ottenere l’affido nelle cause di divorzio. Giudici che rimettono ogni valutazione sul bambino ad esperti troppo spesso coinvolti con le strutture di ospitalità destinate agli stessi minori”. La dott.ssa in pediatria Pignotti: “Non ci si rende conto di quale aggressione viene consumata nei confronti di un bambino quando gli si sottrae l’affetto e la presenza della famiglia. Studiando la Pas e le procedure relative l’affidamento mi sono resa conto dei criteri insensati con cui vengono affrontati questi casi. Bisogna rendersi conto che questi bambini vengono traumatizzati. E traumi come questi si trascinano anche nella vita adulta. Di queste cose si può morire”. Il psichiatra Cioni, punta il dito sugli interessi di casta e la mancata volontà di mettere un freno agli automatismi, anche in funzione dei costanti studi che in tutto il mondo vengono promossi nel settore. E a parlare di interessi, ma anche di realtà torbida e contaminazione istituzionale è il giudice Morcavallo che ha recentemente rassegnato le sue dimissioni per aderire attivamente alla commissione d’inchiesta: “Problemi che vanno denunciati all’opinione pubblica. Il meccanismo decisorio troppo spesso si basa su pretesti che nulla hanno a che vedere con fatti e prove. Sono decine di migliaia i bambini che così vengono sradicati dalle proprie famiglie per essere collocati in strutture che rendono denaro pubblico. Il tutto accompagnato dal silenzio delle istituzioni, anche quelle che dovrebbero essere preposte all’esercizio di controllo sulle decisioni prese dalla magistratura”. L’amara constatazione sul fenomeno dei sequestri del presidente di Federcontribuenti, Marco Paccagnella: ” Sembrerebbe che basti essere una madre sola per rischiare di vedersi prelevare un figlio già dopo il parto. Stiamo seguendo in queste ore un difficile caso a Roma. Tale concetto, grave sotto ogni punto di vista umano ed intellettuale, se fosse vero ci renderebbe tutti, indistintamente, dei criminali. L’opinione pubblica deve intervenire sia per sensibilizzare un cambiamento necessario per definire la nostra società come civile, ma anche per sottrarsi dalla responsabilità di queste azioni”. Una responsabilità indiretta, riconducibile ai soldi pubblici investiti per mantenere le strutture di accoglienza, la commissione ha quantificato in 2 miliardi il giro d’affari che ruota intorno all’affidamento dei minori. Purtroppo quando si parla di spesa pubblica è sempre necessario indagare per capire come vengono spesi questi soldi, e questo è quello che si propone di fare Federcontribuenti costituendo la commissione d’inchiesta. Si lavora per proporre una riforma di tutta la normativa che va dal ruolo dei servizi sociali, alla modalità del prelievo dei minori, ai metodi usati per valutare la loro situazione, ai motivi che portano al prelievo stesso. Una coppia di genitori in difficoltà, quando persistono realtà non violente e non letali per il bambino, andrebbe aiutata e andrebbe permesso ai nonni e agli zii di prendersi cura del nipote. Perchè il prelievo diventa la sola alternativa? Prima di tutto si vogliamo tutelare questi bambini affinché anche loro possano dire di essere…FinalmenteLiberi.

Affido: il Garante per l’Infanzia dichiara guerra ai giudici incompatibili. E se incompatibili, per una volta, fossero i giudici chiamati a pronunciarsi sull’affido, invece che le famiglie in difficoltà, che si vedono sottrarre i figli? La domanda potrebbe suonare provocatoria, ma è quella che ha ispirato una inchiesta denuncia di “Panorama”, e che pare aver risvegliato le coscienze. Quelle che contano, per lo meno. Si partiva dalla contestazione che nei Tribunali dei Minorenni, oggi, si contano oltre 100 giudici onorari che versano in un profondo conflitto di interesse: si tratta di psicologi, medici e assistenti sociali, che da una parte sono chiamati a pronunciarsi sull’allontanamento dei bambini dalle proprie famiglie, e dall’altra sono essi stessi titolari, dipendenti o consulenti di centri di affido o istituti, dove poi accolgono gli stessi minori. Con rette, neanche a dirlo, spesso elevate. Sono emersi casi ai limiti del paradossale, come quello di un giudice onorario chiamato a decidere sull’affidamento di un ragazzino di cui egli stesso era tutore. Si parla di veri e propri “scippi”, di un “business osceno”, come è stato definito dall’avvocato bolognese che ha denunciato questa deplorevole anomalia del sistema. Bene, dopo la denuncia, qualcosa sembra cominciare a smuoversi. Il Garante per l’Infanzia, Vincenzo Spadafora, ha prontamente reagito alla notizia annunciando che proporrà subito di “scrivere un rigido codice etico, coinvolgendo gli ordini professionali, per vietare a ogni giudice onorario di tribunale dei minori di avere un ruolo nelle comunità di affido.” Non solo: Spadafora ha aggiunto che proporrà ai tribunali la sottoscrizione di un protocollo sulle ispezioni, così da metterli in condizione di effettuare controlli presso le strutture che dovessero risultare “sospette”. Già il fatto che dei giudici possano intervenire così pesantemente nella vita dei bambini e delle loro famiglie, è un aspetto piuttosto controverso del nostro sistema di affido. Che qualcuno se ne approfitti pure, per mero tornaconto personale e a scapito dei bambini, è davvero vergognoso. E richiede censure immediate.

Finalmente Liberi ha contato circa 105 giudici onorari in evidente conflitto di interesse e ci si prepara alla denuncia. Scrive “Feder Contribuenti Nazionale”. Vincenzo Spadafora, Garante dell’infanzia e adolescenza pochi giorni fa durante il congresso organizzato dal Cismai si è espresso così sul business delle comunità per l’accoglienza dei minori denunciato dalla commissione di inchiesta Finalmente Liberi di Federcontribuenti: “Ma quale business? Io ho conosciuto comunità che stanno chiudendo. Per evitare che passino messaggi come questo, completamente sbagliati, è dunque necessario tenere alta la soglia della tensione”. Generalizzare è sempre sbagliato, pericoloso ma su questo tema è cento volte più letale la generalizzazione. Probabilmente è vero, esistono case famiglia che operano con professionalità, ma è altrettanto vero che esistono molti, troppi casi dove il bambino viene letteralmente fatto prigioniero, sequestrato anche quando non necessario, per errore, abuso o favoritismo. Entriamo quindi nello specifico e cerchiamo di capire quali sono le cose che non vanno, ” il nostro scopo è fare e dare giustizia tutelando genitori e bambini, non cerchiamo la polemica, il nostro è un invito aperto al Garante, – precisa l’avv. Franceschini responsabile di Finalmente Liberi -, abbiamo tra le mani casi pazzeschi e siamo disposti a mostrarli al dott. Spadafora ”. Ad esempio, un ragazzino di 12 anni chiede, perchè ne ha diritto, di essere ascoltato dal giudice, per dirgli che vuole stare con la madre: “sono il nonno di F., strappato con violenza all’affetto non solo della madre, ma anche dei nonni. Io e mia moglie siamo entrambi professori in pensione, mia figlia fa la maestra eppur avendo l’autorizzazione ad educare una classe di bambini un giudice le ha tolto la potestà genitoriale. Il tribunale dei minori, dopo la relazione di un giudice onorario e quella di una psicologa di parte avversa, mia figlia si è separata dal marito, ci ha zittiti, dicendo che sapeva tutto su di noi, ora possiamo vedere F. solo allo spazio neutro. Veniamo a mia figlia. La patria potestà le è stata tolta grazie alla relazione di un perito di parte avversa e senza tenere in alcuna considerazione le due relazioni di psichiatri certificate da due istituzioni statali per ribaltare a sentenza”. Di casi come questo ne abbiamo molti, come di genitori con la sola colpa di non avere abbastanza soldi per crescere un figlio e gli viene tolto. Soprattutto abbiamo tantissimi giudici in conflitto di interessi perchè hanno direttamente o indirettamente a che fare con le comunità a cui vengono affidati, dietro fondi dello Stato, i bambini. Le spieghiamo, dott. Spadafora, come funziona il meccanismo. Sulla base dei dati in nostro possesso e tenga presente che nessun ente conosce davvero il numero dei bambini allontanati dalle proprie famiglie, parliamo di migliaia all’anno, solo il 7% ha alle spalle abusi sessuali o violenza, poi ci sono allontanamenti per futili motivi, come problemi economici o scaturiti da separazioni conflittuali. Basta la segnalazione ai servizi sociali, un furbo psicologo di parte e scatta il sequestro, il dramma è che non ci si può appellare agli atti del tribunale e il risultato è una grande, disumana, ingiustizia nei confronti di questi bambini. Bisogna intervenire sui provvedimenti ritenuti per legge “provvisori” ma che in realtà durano anni togliendo ai genitori il diritto di difendersi ed appellarsi”. Infine la questione dei giudici onorari che decidono il destino del minore. Sono psicologi, sociologi, medici e assistenti sociali, pagati un tanto ad udienza, pagati dagli istituti e dalle cooperative che accolgono i bambini e sa chi li nomina i giudici onorari? Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva e il CSM ratifica, le sembra un sistema in grado di assicurate equità e giustizia? Fin ora, Finalmente Liberi ha contato circa 105 giudici onorari in evidente conflitto di interesse e ci si prepara alla denuncia. La Commissione invita quindi pubblicamente l’Autorità Garante, Spadafora, ad un incontro per mostrargli, carte alla mano, la realtà che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno ammette.

Intervista shock al giudice Morcavallo sull’affidamento minorile, scrive “Federcontribuenti”. Il giudice Morcavallo entra in Finalmente Liberi, commissione di inchiesta costituita dentro Federcontribuenti sulla questione dei bambini sottratti alle famiglie e ammette:

«Tra le strutture private adibite alla ricezione di minorenni ve ne sono molte malfunzionanti o addirittura infernali; altre (poche) sono gestite con cura e scrupolo. Il problema non si esaurisce nel controllo sulle strutture, ma nell’evitare il meccanismo perverso per cui queste diventino centri di smistamento di bambini che mai avrebbero dovuto essere sottratti alla famiglia.»

Cosa può determinare l’allontanamento di un minore dai propri genitori?

«L’attuale procedura consente al Tribunale per i Minorenni di sospendere la potestà genitoriale ad uno o entrambi i genitori, dietro la segnalazione di un operatore scolastico o sanitario. Un comportamento o atteggiamento sospetto da parte di un bambino, un disagio economico, può gettare una famiglia nell’inferno. Non solo segni evidenti di abusi sul corpo, non solo confessioni drammatiche. Per vedersi sottrarre un figlio basta intravedere una difficoltà ad interagire con i coetanei, eccessiva aggressività, inappetenza, linguaggio sboccato, tutto quel che può essere interpretato come sintomo di disagio. Difendere i minori è un dovere assoluto, ma l’approssimazione, lo standardizzare una procedura, il trattare i singoli casi come fossero documenti su cui apporre un timbro, significa correre il rischio di commettere errori gravi, veri atti disumani. Durante le separazioni di solito tale segnalazione agli organi preposti è fatta dal genitore affidatario (nel 93% la madre) che, su consiglio di consulenti legali senza scrupoli, utilizza l’apparato giudiziario per far allontanare l’altro genitore dalla vita del figlio. Capita di vedersi sospeso dal ruolo di genitore anche senza una consultazione, d’ufficio. Gli assistenti sociali hanno la totale gestione del minore. Molti hanno perso i contatti per anni con i loro figli, istituzionalizzati in altre città o in luoghi di cui non viene fornita localizzazione. Quando il decreto di sospensione emesso dal tribunale è provvisorio, non consente ai genitori di ricorrere in appello. Si può andare avanti per anni senza alcuna possibilità di contraddittorio e difesa dalle accusa che hanno determinato il provvedimento. Non vengono accolte prove sull’innocenza, non vengono sentiti testimoni: valgono esclusivamente le insindacabili relazioni degli assistenti sociali e le perizie dei consulenti psichiatrici, in linea con le aspettative del magistrato.»

Federcontribuenti costituisce Finalmente Liberi, una commissione di inchiesta che si occuperà esclusivamente della questione dei bambini sottratti alle famiglie e dati in affidamento. Intervista al Giudice del tribunale dei minori di Bologna, Francesco Morcavallo.

E’ vero che dietro gli allontanamenti, le perizie e le casa famiglie, spesso, si nasconde uno spietato business? Conosce all’incirca la cifra spesa ogni anno dallo Stato?

«Quasi cinquantamila minori in istituto (termine rispondente alla realtà, in luogo degli pseudonimi comunità e casa-famiglia) non rispecchiano la realtà del problema della tutela dell’infanzia e dell’adolescenza; tanto più che, per la stragrande maggioranza, gli allontanamenti non sono motivati su fatti certi, ma su impressioni relative al carattere ed alla adeguatezza (termine quanto mai vuoto) delle persone nello svolgimento dei compiti familiari quotidiani ed in ragione delle difficoltà economiche delle famiglie, in realtà risolvibili mediante la concreta applicazione dei diritti sociali costituzionalmente garantiti (ma effettivamente negati da quelle stesse istituzioni pubbliche e para-amministrative che, in alternativa, perseguono il metodo della sottrazione dei minori dai contesti arbitrariamente qualificati come ‘inadeguati’). Si determinano così l’arbitrio e l’incertezza dei criteri di decisione, utili non soltanto a fini di autoritario controllo sociale, ma anche ad alimentare la circolazione di somme di denaro pubblico per circa due miliardi di euro ogni anno, che tiene vivo il mercato degli affidamenti e -insieme ad ingenti esborsi di denaro privato- quello delle adozioni».

Cosa ha da dirci sulla Pas?

«La così detta p.a.s., sindrome immaginaria, i cui inventori e fautori si affrettano a proclamarne oggi a gran voce, in protocolli e linee-guida, l’assoluta inesistenza, ha costituito e costituisce ancora uno strumento utilissimo all’esercizio di quell’arbitrio in nome del quale le vite delle famiglie possono essere controllate ed il novero dei bambini da destinare al mercato degli affidamenti può essere continuamente alimentato. Il meccanismo è semplice e – applicato con la disonestà e l’ignoranza dominanti nell’ambito de quo - efficace: nella famiglia che, secondo l’impostazione autoritario-cattolica, si etichetta come disgregata, a) la madre è inadeguata allo svolgimento del proprio ruolo perché formula accuse forse false nei confronti del padre del bambino; b) il padre è inadeguato al svolgimento del proprio ruolo perché forse le accuse della madre sono fondate; c) inter litigatores e in attesa di fatti certi, il bambino è posto in sicurezza (e in circolo di mercato) mediante l’intrusione dell’accolita di amministratori, mediatori, psicologi ed esperti pronti a fornire (imporre) il sostegno dell’autorità, nonché spessissimo mediante la collocazione protetta, cioè in istituto (privato, ovviamente)».

Secondo lei, quale dovrebbe essere il primo passo di Finalmente Liberi?

«Il primo passo dovrebbe coincidere con quello che è stato proprio anche di altre meritorie iniziative: descrivere la realtà in modo documentato e diffondere la descrizione stessa, anche sollecitando magistrati, avvocati, medici e psicologi affinché si dissocino dal distorto sistema».

E’ vero o sono leggende, le storie che vedrebbero gravi abusi su minori, all’interno di alcune strutture private?

«Tra le strutture private adibite alla ricezione di minorenni ve ne sono molte malfunzionanti o addirittura infernali’ altre (poche) sono gestite con cura e scrupolo. Il problema non si esaurisce nel controllo sulle strutture, ma nell’evitare il meccanismo perverso per cui queste diventino centri di smistamento di bambini che mai avrebbero dovuto essere sottratti alla famiglia».

Che tipo di controlli vengono effettuati su queste strutture? Vero che molte sono di matrice opussiana?

«I controlli amministrativi sulle strutture predette sono del tutto inattendibili. Molte sono gestite da religiosi, molte altre da laici. In effetti, la contaminazione e l’etero-direzione del sistema giurisdizionale ed amministrativo minorile, soprattutto da parte dell'Opus Dei, si attua non soltanto attraverso la gestione di istituti, ma anche e primariamente mediante la pervasiva e massiccia contaminazione della magistratura, specialmente di quella minorile, delle istituzioni di controllo sul sistema della giustizia, con particolare riguardo al C.S.M., nonché dell’amministrazione e del parastato. Del resto, il problema non è peculiare dell’ambito minorile, essendo ben noto che quella stessa organizzazione è assurta dalla fine degli anni Settanta del Novecento alla titolarità del soglio pontificio ed all’egemonia nel sistema creditizio e finanziario, nonché ininterrottamente dal 1992 al controllo del governo italiano ed alla predominanza in tutti gli schieramenti politici nazionali così detti ‘tradizionali’ (anche - ed anzi in special modo - in quelli riciclatisi dalla tradizione marxista all’esito degli eventi del 1989, attraverso la denigrazione e la sostanziale distruzione del partito e del movimento autenticamente socialisti - nell’ambito di metodi per l’acquisizione del potere cui, secondo quanto stanno chiarendo inchieste ormai decennali, avversate dai centri di potere politico e giudiziario, non sono rimasti estranei l’utilizzo di strutture associative occulte, la manipolazione dell’attività dei servizi segreti e l’alleanza con organizzazioni criminali consolidate -)».

Per ciascuno minore si versa una quota di 100-150 euro al giorno, per un totale complessivo annuale di circa 1000 MILIONI di euro a carico della collettività (fonte Osservatorio Nazionale Famiglie Separate – Gesef). Si dal varo della legge 285 del 1997 che stanzia annualmente centinaia di miliardi per garantire e tutelare i diritti dell’infanzia, si sono quintuplicati i centri di accoglienza, gestione e trattamento dei disagi minorili. Un’armata fatta di servizi sociali territoriali, migliaia di operatori formati e retribuiti con fondi pubblici, una schiera di avvocati e di psicologi, che non troverebbero altrimenti spazio sul mercato del lavoro professionale già saturo, traggono dalle conseguenze giudiziarie della conflittualità tra ex coniugi e del disagio minorile una inesauribile fonte di prosperoso guadagno. Temiamo che dietro gli enormi interessi economici che ruotano intorno alla “tutela del minore” possano celarsi lobbies di potere, serbatoi di voti, per un business che nulla ha a che vedere con la tutela dei minori.

Francesco Morcavallo e l’inchiesta de Le Iene sull’affidamento dei minorenni. Le Iene Show intervistano Francesco Morcavallo. Nella puntata di mercoledì 21 maggio 2014 Matteo Viviani, inviato de Le Iene Show intervisterà Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei Minorenni di Bologna. Le dichiarazioni sono destinate a lasciare clamore e ad alimentare polemiche sulle pratiche relative agli affidamenti. Il programma si era già occupato di questa spinosa tematica sostenendo che in alcuni casi le ragioni per cui dei bambini venivano sottratti ai loro legittimi genitori erano piuttosto vaghe e farraginose. L’intervista a Francesco Morcavallo si proponeva di acclarare eventuali ragioni a scelte così impegnative che apparivano di primo acchito ingiustificate. L’ex giudice del Tribunale dei minorenni non ha escluso la possibilità di interessi che possano inficiare l’obiettività nella decisione sull’affidamento dei più piccoli. Ma se il caso è destinato a far discutere, è doveroso precisare come Le Iene Show partono da esperienze concrete in cui intervistano protagonisti. Ammesso che in tali casi siano ravvisabili anomalie o discrepanze, non è intenzione del programma screditare intere categorie o far sorgere il dubbio che tutte le pratiche di affidamento siano viziate da irregolarità o interessi che poco hanno a vedere con il bene dei minori. Tuttavia, fa scalpore pensare che anche una materia così delicata possa essere macchiata da abusi e da giochi sottobanco che hanno come primo risultato quello di spezzare famiglie segnando irrimediabilmente il futuro dei minori coinvolti. Le parole di Francesco Morcavallo sono ancora più significative perché provengono da una figura che per la propria esperienza professionale parla con cognizione di causa: le sue considerazioni aprono prospettive per certi versi inquietanti. E’ chiaro che non rimane che attendere nuovi sviluppi così come in altre coraggiose inchieste condotte da Le Iene: sempre nella puntata di mercoledì 16 maggio, Luigi Pelazza continuerà la sua indagine sui soprusi e sulle torture perpetrate dai nostri soldati impegnati nelle cosiddette missioni di pace.

Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei Minori, intervistato da Matteo Viviani descrive le anomalie relative alle pratiche di affidamento. Matteo Viviani nella puntata De Le Iene Show è tornato su un tema che segue da alcuni mesi: come funzionano gli affidamenti dei minori? Ad aprile aveva già intervistato Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei minorenni di Bologna, che aveva raccontato come spesso le decisioni in tribunale siano influenzate da interessi e pressioni da parte di psicologi, medici, sociologi e assistenti sociali. Sebbene la legge lo vieti espressamente infatti ci sono giudici onorari, chiamati a decidere su eventuali affidamenti di bambini sottratti alle loro famiglie, che hanno una partecipazione diretta o indiretta all’interno delle comunità di affido alle quali si rivolgono. Viviani in quell’occasione aveva raccolto la testimonianza di genitori ai quali era stato tolto l’affidamento dei figli a seguito di motivazioni vaghe e farraginose. Una questione spinosa visto che sono coinvolti soggetti minori e che senza dubbio merita di essere approfondita proprio nel loro interesse e nel nome della trasparenza. Ovviamente anche nel servizio di ieri le conclusioni alle quali si può arrivare riguardano casi singoli e concreti e non devono portare a screditare intere categorie o modus operandi. E di certo il fatto che a raccontare certi abusi sia un giudice dà maggiore attendibilità alla testimonianza. Tempo fa Viviani aveva aiutato Andrea Barlocco e Sabrina Saccomanni ai quali erano stati portati via i bambini a causa delle presunte condizioni igieniche della casa. La cosa apparentemente incomprensibile in questo caso era l’affidamento diretto alla comunità, senza contattare parenti e familiari.

Le Iene, 21 maggio 2014: Come funziona il business dei bambini.

23.07 Il punto è che Viviani ha in mano le prove di cinquanta casa di conflitto d'interesse nella gestione di casi di minori affidati al parere di giudici onorari...

23.05 Viviani va a cercare la Presidente del Tribunale dei minori di Trento per sottoporle il caso. Ma quando la trova...

23.02 Salta fuori che un giudice onorario di Trento sia anche vicepresidente di una cooperativa che gestisce una casa famiglia. Per legge non si potrebbe proprio per non creare un terribile "conflitto di interessi". Che storia brutta. La Iena Matteo Viviani indaga con un collega della dottoressa che al momento è in ferie.

23.00 Però gli allontanamenti accadono solo in casi "disperati", giusto? Non proprio...(e nel frattempo chi gestisce questi bimbi si fa un sacco di soldi!).

22.58 Una conversazione straziante tra una mamma che è stata separata dai suoi bambini e, appunto, i suoi figli che urlano: "Ma io ce li ho i genitori!". E come dar loro torto?

22.56 Francesco Morcavallo che ha gestito per un bel pezzo casi di affido di minori ci spiega un po' come funziona questo sistema. Soprattutto alla luce delle scoperte fatte dalle Iene negli ultimi tempi.

I nostri figli portati via da un giudice. In Italia, più di 32mila bambini vengono chiusi nelle comunità o dati in affido. Spesso per cause non del tutto giustificate. E si moltiplicano le critiche contro assistenti sociali, psicologi e magistrati. Accusati di interventismo e perizie frettolose. Ma soprattutto di alimentare un business, che per alcuni vale più di 1 miliardo, scrive Antonio Rossitto “Panorama”. Barbara e Patrizia si sono ritrovate il 2 ottobre del 2009, in una mattinata di pioggia. Barbara, 54 anni, vive in Toscana: ha mento affilato e parole decise. Patrizia, 35 anni, ha la stessa forma del viso e uguale risolutezza. Madre e figlia non immaginavano di assomigliare tanto l’una all’altra. Non si vedevano dal 1976: dal giorno in cui Patrizia venne tolta a Barbara per essere chiusa in un istituto e poi data in adozione. Si sono riabbracciate dopo 33 anni. Per scoprire di essere unite da quel mento affilato e da un’unica sorte. Perché anche a Patrizia hanno portato via un figlio: Davide, di sette anni. "Gliel’hanno sottratto ingiustamente, come successe a me" dice Barbara. Nel soggiorno di una villa spersa nella campagna veneta, guarda la sua figlia naturale con un misto di rabbia e di dolcezza: "Questa volta, almeno, combatteremo insieme" le promette. Legate dallo stesso destino. Il destino che, dicono gli ultimi dati ufficiali, oggi travolge più di 32 mila minorenni.  Il più delle volte allontanati dalle famiglie per motivi giustificati, come gli abusi sessuali, i maltrattamenti o l’indigenza. Altre per ragioni fumose e impalpabili. Negli ultimi dieci anni il loro numero è aumentato del 29,3 per cento. Più della metà finisce in affidamento temporaneo ad altre famiglie. Il resto in quelli che prima erano chiamati istituti, ma dal 2001 sono stati più formalmente ribattezzati servizi residenziali: oltre un migliaio di comunità che ospitano 15.624 ragazzini. Un numero enorme, che costa allo Stato mezzo miliardo di euro all’anno solo in rette giornaliere. Ma la cifra, calcolano vari esperti di giustizia minorile, andrebbe più che raddoppiata. Oggi, però, è tutto il sistema a essere sistematicamente messo in discussione. Battagliere associazioni e libri-verità parlano di "bambini rubati dalla giustizia". Raccontano di assistenti sociali troppo interventisti, di psicologi disattenti, di una magistratura flemmatica, di interessi economici. E di errori giudiziari sempre più frequenti. Come quello in cui sono incappati due fratellini di Basiglio, ricco paesino alle porte di Milano. Il più grande ha 14 anni, la sorella dieci. Il 14 marzo 2008 la polizia locale li preleva da casa e li porta in due comunità protette. A scuola, una maestra ha trovato un disegno che li descrive mentre fanno sesso insieme. Viene attribuito alla bambina. È invece l’atroce scherzo di una compagna di classe. È stata lei a fare quell’allusiva vignetta: lo conferma il perito grafico del tribunale, che però viene nominato solo dopo 41 giorni. Anche a causa di questo inspiegabile ritardo i ragazzini trascorrono più di due mesi in comunità. Mesi di angosce: il più grande, per la sofferenza, perde 9 chili. L’avvocato che si è battuto per fare affiorare la verità è un sardo con baffoni e occhi neri: Antonello Martinez. Vive anche lui a Basiglio, in una casa poco distante da quella dei fratellini. Per due mesi il legale si danna l’anima: fino a quando i bambini non tornano dai genitori con molte scuse. E fino a ottobre, quando la procura di Milano non chiede il rinvio a giudizio per la preside della scuola, due maestre, uno psicologo e un’assistente sociale del comune. L’accusa è "falsa testimonianza ". L’udienza preliminare è fissata per il 21 gennaio. Un disegno malinterpretato, esattamente come quello che nel 1995 avvia la macchina giudiziaria nel caso di Angela L.: la sua storia è raccontata nel libro, pubblicato dalla Rizzoli, Rapita dalla giustizia. Il padre di Angela viene accusato di abusi sessuali: un falso da cui la Cassazione lo scagionerà completamente nel 2001. Ma la figlia, di appena sei anni, prima viene reclusa in due centri d’affido temporaneo per quasi 36 mesi; poi è data in adozione a un’altra famiglia. Angela tornerà dai genitori solo nel maggio 2006: a quasi 18 anni, ben dieci dopo il suo "rapimento legalizzato ". Uno sbaglio tragico e clamoroso. Tanto che la Corte europea per i diritti dell’uomo nell’ottobre 2008 ha condannato lo Stato italiano a risarcire la famiglia: 80 mila euro per un "buco esistenziale" durato un decennio. Della denuncia di casi come quelli di Angela L. e di Basiglio l’avvocato Martinez ha fatto una battaglia. Da quando si è occupato dei due fratellini, ha ricevuto più di 700 segnalazioni: madri e padri disperati, disposti a tutto pur di riavere indietro i loro figli. È diventato presidente dell’associazione Cresco a casa: "Tutti" accusa "denunciano lo stesso scandalo. I nostri figli sono nelle mani degli assistenti sociali. Scrivono: “I genitori non sono idonei”. Poi mandano la relazione a un magistrato che, senza troppe verifiche, adotta un provvedimento provvisorio. Quello definitivo arriva, quando tutto va bene, anni dopo. Ma i bambini intanto sono usciti di casa". Il caso di Basiglio è illuminante: alle 9 di mattina il dirigente scolastico avverte i servizi sociali, che inviano un telefax al tribunale dei minorenni di Milano. Passa solo qualche ora: il giudice dispone che i bambini vengano allontanati dalla famiglia. Di sera, la polizia locale esegue. Per inciso, nessuno aveva mai chiesto spiegazioni: né ai ragazzini né ai genitori. Martinez si infervora, è seduto in una saletta del suo studio di Milano: divani di pelle e boiserie alle pareti. "Questi sono veri sequestri di Stato" prosegue concitato. E attacca: "Ogni giorno vengono portati via 80 bambini. Li chiudono in un centro protetto per anni, e costano allo Stato in media 200 euro al giorno". Una cifra che farebbe lievitare considerevolmente la spesa ufficiale per l’accoglienza, stimata in mezzo miliardo di euro. Basta fare due calcoli: 200 euro al giorno fanno un totale di 73 mila euro all’anno per ogni minorenne. Che moltiplicati per i 15.624 ospiti dei centri significa oltre 1,1 miliardi di euro: più del doppio di quanto riveli la cifra in mano ai ministeri, probabilmente troppo prudente. Chi finisce in queste comunità? Mancando dati nazionali, si può fare riferimento a quelli della Lombardia: per il 34 per cento sono ragazzi dai 15 ai 17 anni; il 28,1 per cento ha dagli 11 ai 14 anni; il 19,4 dai 6 ai 10 anni. Le percentuali sono simili in Veneto, dove i minori fuori famiglia sono quasi 1.700. L’età media è quindi piuttosto alta. Anche perché la permanenza in queste strutture è lunga: a Milano il 53 per cento ci resta più di due anni. Questo significa che centinaia di migliaia di euro vengono spesi per ogni ragazzino. Ciò che accade alla fine di questi allontanamenti forzati è sorprendente: in Piemonte, per esempio, quasi la metà torna a casa. C’è un altro dato che inquieta: quasi il 77 per cento dei minori viene allontanato per "metodi educativi non idonei" e per l’"impossibilità di seguire i figli". "Motivi soggettivi, non reali come i maltrattamenti o l’abbandono " denuncia Gian Luca Vignale, consigliere regionale del Pdl. Il Piemonte, chiarisce, spende 35 milioni di euro all’anno per mantenere 1.179 minorenni nelle comunità. "Mentre solo un terzo di questi soldi viene stanziato per sostegni alle famiglie" considera Vignale. Il costo delle rette spesso soffoca i magri bilanci dei comuni, che a volte arrivano a chiedere un contributo ai genitori cui sono tolti i figli. Negli anni Novanta, alla famiglia di Angela L. venne recapitata una richiesta d’indennizzo di 60 milioni di lire per i 16 mesi trascorsi dalla bambina nel centro di affido: l’equivalente di quasi 2 mila euro al mese. Un paradosso in cui è incappata pure Antonella Causin, che vive a Santa Maria di Sala, nel Veneziano. Nello studio del suo avvocato, Luciano Faraon, sventola indignata una lettera che le è stata inviata la scorsa settimana. I suoi figli, di 12 e 8 anni, vivono dal febbraio del 2007 in due diverse case-famiglia. Il comune ora le chiede "il pagamento delle spese per la permanenza nelle strutture ". "Vogliono la mia busta paga" spiega la donna, 44 anni, sgranando gli occhi azzurri. "Devo pure dargli soldi per avermi rovinato la vita". Le peripezie della donna cominciano nel 2005. Si separa dal convivente, chiede l’affidamento dei figli. Viene sentita dagli psicologi: racconta che l’uomo, un maresciallo della Guardia di finanza, è finito in strani giri. È violento, distratto. Non le credono: per i consulenti tecnici è soltanto "una madre esasperata ". Così i ragazzini sono dati al padre. Dopo dieci mesi, però, le accuse della donna diventano reali: l’ex compagno viene arrestato per spaccio di droga. "Da quel momento è cominciato l’inferno" racconta Causin. "Il maschio ha cambiato quattro famiglie e due scuole in pochi mesi. Come fosse un pacco postale". Anche i genitori della donna avevano dato la loro disponibilità a occuparsi dei nipoti. "Invece li hanno sempre tenuti lontano da loro" racconta la signora. "Addirittura li hanno accusati di un avvicinamento indebito: ma erano andati in chiesa per la prima comunione del più grande". La storia dimostra quanto a volte sia lenta la giustizia minorile. Il tribunale di Venezia ha disposto l’allontanamento dei due bambini nel dicembre del 2005, con un provvedimento provvisorio. Quattro anni dopo non solo non è stata presa alcuna decisione definitiva, ma la macchina giudiziaria è ripartita. L’avvocato della signora Causin ha denunciato i consulenti del tribunale: il legale sostiene che avrebbero falsificato i test e le dichiarazioni della donna. Il giudice ha nominato una nuova psicologa. Che in sei mesi ha incontrato la donna e il suo ex compagno appena quattro volte. Le critiche a periti tecnici, assistenti sociali e magistrati sono sempre più dure. Il criminologo Luca Steffenoni sui casi di malagiustizia minorile ha appena scritto un libro, Presunto colpevole (editore Chiarelettere). "I tribunali hanno appaltato tutto all’esterno" sostiene. "Il processo è uscito dall’alveo delle prove, per trasformarsi in approfondimento psicologico. Gli assistenti sociali hanno diritto di vita e di morte sulle persone. Basta uno screzio tra due coniugi per far nascere patologie incurabili, che legittimano la sottrazione dei figli". Accuse cui ribatte Graziella Povero, assistente sociale di Torino e presidente dell’Asnas, storica associazione di categoria: "C’è un’aggressione continua alle nostre decisioni. Dicono che rubiamo i bambini. La gente comincia a essere diffidente. Ci accusano di avere convenienze economiche. Attacchi assurdi: che interesse potremmo mai avere a collocare un bimbo in una struttura piuttosto che in un’altra?". Povero ammette che qualche caso di disonestà ci può essere, "come in tutte le professioni": "Ma noi siamo dipendenti pubblici" aggiunge. "Il nostro lavoro è sempre subordinato a quello della magistratura, e quindi anche alle sue eventuali lentezze". Per indagare su questa presunta indolenza bisogna entrare nel tribunale dei minorenni di Roma, il più grande d’Italia. Da aprile è presieduto da un magistrato d’esperienza: Melita Cavallo. Nei corridoi del palazzo sul lungotevere che ospita gli uffici si narra del suo interventismo. Appena insediata, Cavallo scopre che un collega ha 1.600 fascicoli arretrati: se ne intesta la metà e "consiglia" al collega il pensionamento. "La permanenza nelle casefamiglia è eccessivamente lunga" dice la presidente. "Un tempo ragionevole è un anno, non cinque, come avviene adesso. Noi magistrati stiamo diventando i notai dello sfacelo dei minori: solo quando sono stati distrutti psicologicamente li diamo in adozione". Cavallo insiste, parla di "assistenzialismo spinto": "Si spendono un sacco di soldi" continua. "Faccio un esempio: tre fratelli rimasti in comunità cinque anni sono costati 800 mila euro. Non era meglio, allora, dare un alloggio o un lavoro al padre? Avremmo salvato una famiglia. Invece abbiamo negato l’infanzia ai figli. E oggi i genitori sono più divisi di prima". Anche le verifiche preliminari spesso sono deficitarie, ammette il magistrato: "Alla prima decisione si arriva con pochi elementi in mano. C’è quasi un rifiuto ad averne altri. Perché i giudici ormai sono molto condizionati e sempre più prudenti". O, al contrario, troppo interventisti. La Cassazione ha appena confermato l’"ammonimento" già inflitto a un sostituto procuratore del tribunale dei minorenni di Roma dal Consiglio superiore della magistratura. Nel dicembre del 2006, il pm aveva ordinato che i carabinieri prelevassero due bambini da casa della madre, per portarli in quella del padre. Adesso però i giudici della suprema corte scrivono: "L’interpretazione delle norme non può costituire un alibi per tenere comportamenti anarchici ". Insomma, quell’allontanamento è stato "un provvedimento abnorme ", per la Cassazione. Cavallo non commenta, ma aggiunge: "Purtroppo è diventata tesi diffusa che togliamo i bambini ai poveri per darli ai ricchi". Questa tesi, in realtà, è sempre più frequentemente sconfessata dai fatti: anche molte famiglie abbienti finiscono nel girone degli allontanamenti. Lidia Reghini di Pontremoli, 51 anni, discende da un nobile casato toscano e vive a Roma. Ha una ragazzina di 13 anni, che ha studiato nei migliori collegi della capitale. È stata affidata a un istituto religioso nell’aprile del 2008. "Per i giudici l’ho voluta mettere contro suo padre, il mio ex convivente, che era stato arrestato per spaccio di cocaina" racconta. Dopo avere deciso l’allontanamento della madre, il tribunale dei minorenni manda gli atti alla procura ordinaria: ipotizza che la madre, con "una condotta criminosa", abbia inflitto sofferenze psichiche alla figlia. Un’accusa abnorme. Archiviata dal giudice nel maggio 2008, su richiesta dello stesso pubblico ministero. Ora la donna ha denunciato l’assistente sociale che aveva seguito il suo caso: la procura di Roma ha aperto un’indagine. "Mia figlia chiede solo di tornare a casa. Vuole fare una vita normale, come quella di prima " spiega, mentre si alza dal divano a fiori verdi del soggiorno per preparare un tè. "Ogni giorno mi domando come mai sono finita in questo gorgo: non esiste alcun motivo, se non l’accanimento personale. O un interesse economico". Che esistano o meno tornaconti, una cosa è certa: tenere un bambino in una "comunità protetta" costa molto. E non assicura quella stabilità affettiva che potrebbe offrire una famiglia. Anche per questo motivo il governo sta cercando in ogni modo di incentivare l’affido familiare. "Porterebbe un grande risparmio economico e soprattutto maggiore benessere per i minori" dice Eugenia Roccella, sottosegretario al Welfare . "La soluzione ideale sarebbe chiudere le comunità e collocare temporaneamente tutti i minori in altre famiglie: cosa che oggi è impensabile". Un’utopia, appunto. "Il problema è che sono pochi i genitori disponibili" dice il pediatra veronese Marco Mazzi, presidente dell’Associazione famiglie per l’accoglienza: "Su dieci richieste d’affido, riusciamo a dare risposta solo a due". Una scelta fatta da poche coppie, e di buonissima volontà: ricevono qualche centinaio di euro al mese per un bambino che comunque alla fine non potranno mai tenere con sé. "E bisogna garantire anche i contatti con i veri genitori, che devono vedere i minorenni periodicamente" chiarisce Mazzi. Le cose, però, spesso vanno diversamente. Valentina Timofiy, un’ucraina bionda arrivata in Italia come badante, da più di tre anni non vede la figlia dodicenne. È stata affidata "provvisoriamente " a una famiglia di Genova: per scoprirlo ha dovuto assoldare un investigatore privato. Nonostante molte lacrime e mille telefonate, non le hanno mai voluto dare informazioni. Timofiy, 41 anni, oggi vive a Tortona, in provincia di Alessandria, assieme al suo nuovo compagno. La casa è piena di ninnoli e di foto della figlia. "Le hanno fatto il lavaggio del cervello " accusa. La donna ha la sofferenza stampata sul volto. "L’ultima volta che l’ho vista mi ha domandato: “Mamma, perché mi hai dimenticata?”. Le ho spiegato che io penso a lei ogni minuto della giornata. Ma che mi vietano d’incontrarla". Timofiy comincia a piangere. Ha anche tentato di buttarsi da una finestra, ma è stata salvata dal convivente. Ormai vive senza la figlia da quattro anni. Alla fine di ottobre il tribunale dei minorenni di Milano ha deciso... di non decidere: l’ennesimo provvedimento temporaneo. I giudici hanno interrogato anche la coordinatrice del servizio sociale degli stranieri di Milano: "La signora è una madre attenta, in grado di occuparsi della figlia" ha assicurato. "Ma non è stata mai aiutata né sostenuta dai servizi sociali". Così il tribunale ha stabilito: la madre deve riprendere a incontrare la figlia. Quella figlia che in tre anni ha visto soltanto una volta, qualche settimana fa. Nascosta nella sua auto, è riuscita a scorgere una ragazzina con i capelli e gli occhi neri: usciva da scuola e dava la mano a una madre. Che però non era lei.

Lo scandalo dei minori «affidati». Perché in Germania e in Francia, dove il numero degli abitanti è molto più elevato che in Italia, il dato degli affidi si ferma rispettivamente a 8 mila mentre da noi è 5 volte tanto? Scrive Maurizio Tortorella “Panorama”. È uno scandalo che meriterebbe l’intervento urgente di qualche magistrato penale. In Italia, secondo gli ultimi dati ufficiali, sono circa 39 mila i bambini tolti alle loro famiglie dai Tribunali dei minori (per presunte violenze, per indigenza dei genitori, e per altre cause): 30 mila di loro sono ospitati in case d’affido e comunità protette, e il fenomeno da anni è in forte crescita. Tutto normale? Per nulla. Le anomalie sono grandi e sospette. Perché in Germania e in Francia, dove il numero degli abitanti è molto più elevato che in Italia, il dato degli affidi si ferma rispettivamente a 8 mila e a 7.700. E poiché in Italia comuni e aziende sanitarie locali pagano per ciascun minorenne affidato una retta minima giornaliera di 200 euro (ma spesso si arriva a superare i 400). Per questo c’è chi solleva il terribile sospetto che dietro al fenomeno affidi si nasconda un colossale business della sofferenza minorile, in troppi casi basato su perizie «addomesticate», se non su veri e propri illeciti: a denunciarlo è la Federcontribuenti, che stima in 2 miliardi di euro la spesa pubblica annua destinata a sostenere gli affidamenti di minorenni. «È un’anomalia troppo grave perché possa essere ignorata da politici e magistrati penali» protesta Marco Paccagnella, che della Federcontribuenti è presidente. Per contrastare gli abusi, l’associazione ha appena dato vita a una commissione d’inchiesta intitolata «Finalmente liberi» che denuncerà i comportamenti non trasparenti. «Una delle grandi carenze del sistema italiano è proprio l’opacità» dice Cristina Franceschini, l’avvocato veronese a capo della commissione. «Da noi non è previsto nemmeno un registro degli affidamenti, attivo invece in tutti gli altri paesi, né si sa quante siano le comunità protette». Gli ultimi dati governativi sui minorenni sottratti alle famiglie risalgono al 2010: quell’anno ne erano stati calcolati 39.698, collocati dai tribunali dei minor in centri di affido temporaneo o in altre famiglie, il 24 per cento in più rispetto a 10 anni prima. «Abbiamo già scoperto quasi 100 casi» rivela Zorzella «nei quali i giudici minorili onorari, in gran parte psicologi, operano nelle case d’affido o compaiono addirittura tra i loro fondatori». Il conflitto d’interessi è evidente: è ammissibile che a decidere se un bambino debba essere sottratto alla famiglia sia chi ha un ruolo professionale (e retribuito) nella struttura destinata ad accoglierlo? «Stiamo facendo le ultime verifiche» dice Paccagnella. «Le prime denunce sono già pronte. E abbiamo solo cominciato».

Li chiamano affidi, ma troppo spesso sono uno scippo. Il più osceno business italiano: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Sembra un uomo pensoso e forse triste, Francesco Morcavallo. Se davvero lo è, il motivo è una sconfitta. Perché, malgrado una battaglia durata quasi quattro anni, non è riuscito a smuovere di un millimetro quello che ritiene un «meccanismo perverso» e insieme «il più osceno business italiano»: il troppo facile affidamento di decine di migliaia di bambini e bambine all’implacabile macchina della giustizia. Dal settembre 2009 al maggio 2013 giudice presso il Tribunale dei minorenni di Bologna, Morcavallo ne ha visti tanti, di quei drammatici percorsi che iniziano con la sottrazione alle famiglie e finiscono con quello che lui definisce l’«internamento» (spesso per anni) negli istituti e nelle comunità governati dai servizi sociali. Da magistrato, Morcavallo ha combattuto una guerra anche culturale contro quello che vedeva intorno a sé. Ha tentato di correggere comportamenti scorretti, ha cercato di contrastare incredibili conflitti d’interesse. Ha anche denunciato abusi e qualche illecito. È stato a sua volta colpito da esposti, e ne è uscito illeso, ma poi non ce l’ha fatta e ha cambiato strada: a 34 anni ha lasciato la toga e da pochi mesi fa l’avvocato a Roma, nello studio paterno. Si occupa di società e successioni. E anche di diritto della famiglia, la sua passione.

Dottor Morcavallo, quanti sono in un anno gli allontanamenti decisi da un tribunale dei minori «medio», come quello di Bologna? Sono decine, centinaia?

«Sono migliaia. Ma la verità è che nessuno sa davvero quanti siano, in nessuna parte d’Italia. Lo studio più recente, forse anche l’unico in materia, è del 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che al 31 dicembre di quell’anno i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale 39.698. Solo in Emilia erano 3.599. Ma la statistica ministeriale è molto inferiore al vero; io credo che un numero realistico superi i 50 mila casi. E che prevalga l’abbandono».

L’abbandono?

«Quando arrivai a Bologna, nel 2009, c’erano circa 25 mila procedimenti aperti, moltissimi da tanti, troppi anni. Trovai un fascicolo che risaliva addirittura al 1979: paradossalmente si riferiva a un mio coetaneo, evidentemente affidato ancora in fasce ai servizi sociali e poi «seguito» fino alla maggiore età, senza interruzione. Il fascicolo era ancora lì, nessuno l’aveva mai chiuso».

E che cos’altro trovò, al Tribunale di Bologna?

«Noi giudici togati eravamo in sette, compreso il presidente Maurizio Millo. Poi c’erano 28-30 giudici onorari: psicologi, medici, sociologi, assistenti sociali».

Come si svolgeva il lavoro?

«I collegi giudicanti, come previsto dalla legge, avrebbero dovuto essere formati da due togati e da due onorari: scelti in modo automatico, con logiche neutrali, prestabilite. Invece regnava un’apparente confusione. Il risultato era che i collegi si componevano «a geometria variabile». Con un solo obiettivo».

Cioè?

«In aula si riuniva una decina di giudici, che trattavano i vari casi; di volta in volta i quattro «decisori» che avrebbero poi dovuto firmare l’ordinanza venivano scelti per cooptazione, esclusivamente sulla base delle opinioni manifestate. Insomma, tutto era organizzato in modo da fare prevalere l’impostazione dei servizi sociali, sempre e inevitabilmente favorevoli all’allontanamento del minore».

E lei che cosa fece?

«Iniziai da subito a scontrarmi con molti colleghi e soprattutto con il presidente Millo. Le nostre impostazioni erano troppo diverse: io sono sempre stato convinto che l’interesse del minore debba prevalere, e che il suo restare in famiglia, là dov’è possibile, coincida con questo interesse. È la linea «meno invasiva», la stessa seguita dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».

Gli altri giudici avevano idee diverse dalle sue?

«Sì. Erano per l’allontanamento, quasi sempre. Soltanto un collega anziano la vedeva come me: Guido Stanzani. Era magistrato dal 1970, un uomo onesto e serio. E anche qualche giudice onorario condivideva il nostro impegno: in particolare lo psicologo Mauro Imparato».

Che cosa accadeva? Come si aprivano i procedimenti?

«Nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di allontanamenti dalle famiglie per motivi economici o perché i genitori venivano ritenuti «inadeguati»».

Che cosa vuol dire «inadeguato»?

«Basta che arrivi una segnalazione dei servizi sociali; basta che uno psicologo stabilisca che i genitori siano «troppo concentrati su se stessi». In molti casi, è evidente, si tratta di vicende strumentali, che partono da separazioni conflittuali. Il problema è che tutti gli atti del tribunale sono inappellabili».

Perché?

«Perché si tratta di provvedimenti formalmente «provvisori». L’allontanamento dalla famiglia, per esempio, è per sua natura un atto provvisorio. Così, anche se dura anni, per legge non può essere oggetto di una richiesta d’appello. Insomma non ci si può opporre; nemmeno il migliore avvocato può farci nulla».

Tra le cause di allontanamento, però, ci sono anche le denunce di abusi sessuali in famiglia. In quei casi non è bene usare ogni possibile cautela?

«Dove si trattava di presunte violenze, una quota comunque inferiore al 5 per cento, io a Bologna ho visto che molti casi si aprivano irritualmente a causa di lettere anonime. Era il classico vicino che scriveva: attenzione, in quella casa molestano i figli. Non c’era nessuna prova. Ma i servizi sociali segnalavano e il tribunale allontanava. Un arbitrio e un abuso grave, perché una denuncia anonima dovrebbe essere cestinata. Invece bastava a giustificare l’affido. Del resto, se si pensa che molti giudici onorari erano e sono in conflitto d’interesse, c’è di che capirne il perché.»

Che cosa intende dire?

«Chi sono i giudici onorari? Sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. Che spesso hanno fondato istituti. E a volte addirittura le stesse case d’affido che prendono in carico i bambini sottratti alle famiglie, e proprio per un’ordinanza cui hanno partecipato».

Possibile?

«A Bologna mi trovai in udienza un giudice onorario che era lì, contemporaneamente, anche come «tutore» del minore sul cui affidamento dovevamo giudicare».

Ma sono retribuiti, i giudici onorari?

«Sì. Un tanto per un’udienza, un tanto per ogni atto. Insisto: certi fanno 20-30 udienze a settimana e incassano le parcelle del tribunale, ma intanto lavorano anche per gli istituti, le cooperative che accolgono i minori. È un business osceno e ricco, perché quasi sempre bambini e ragazzi vengono affidati ai centri per mesi, spesso per anni. E le rette a volte sono elevate: ci sono comuni e aziende sanitarie locali che pagano da 200 a oltre 400 euro al giorno. Diciamo che il business è alimentato da chi ha tutto l’interesse che cresca».

È una denuncia grave.  Il fenomeno è così diffuso? Possibile che siano tutti interessati, i giudici onorari? Che tutti i centri d’affido guardino solo al business?

«Ma no, certo. Anche in questo settore c’è il cattivo e c’è il buono, anzi l’ottimo. Ovviamente c’è chi lavora in modo disinteressato. Però il fenomeno si alimenta allo stesso modo per tutti. I tribunali dei minori non scelgono dove collocare i minori sottratti alle famiglie, ma guarda caso quella scelta spetta ai servizi sociali. Comunque la crescita esponenziale degli affidi e delle rette è uguale per i buoni come per i cattivi. E c’è chi ci guadagna».

Per lei sono più numerosi gli istituti buoni o i cattivi?

«Non lo so. A mio modo di vedere, buoni sono quelli che favoriscono il contatto tra bambini e famiglie. Ce ne sono alcuni. Io ne conosco 2 o 3».

Ma, scusi: i giudici onorari chi li nomina?

«Il diretto interessato presenta la domanda, il tribunale dei minori l’approva, il Consiglio superiore della magistratura ratifica».

E nessuno segnala i conflitti d’interessi? Nessuno li blocca?

«Dovrebbero farlo, per legge, i presidenti dei tribunali dei minori. Potrebbe farlo il Csm. Invece non accade mai nulla. L’associazione Finalmente liberi, cui ho aderito, è tra le poche che hanno deciso d’indagare e lo sta facendo su vasta scala. Sono stati individuati finora un centinaio di giudici onorari in evidente conflitto d’interessi. Li denunceremo. Vedremo se qualcuno ci seguirà̀.»

Quanto può valere quello che lei chiama «business osceno»?

«Difficile dirlo, nessuno controlla. In Italia non esiste nemmeno un registro degli affidati, come accade in quasi tutti i paesi occidentali».

Ipotizzi lei una stima.

«Sono almeno 50 mila i minori affidati: credo costino 1,5 miliardi l’anno. Forse di più».

Torniamo a Bologna. Nel gennaio 2011 accadde un fatto grave: un neonato morì in piazza Grande. Fu lì che esplose il conflitto fra lei e il presidente del tribunale dei minori. Come andò?

«La madre aveva partorito due gemelli dieci giorni prima. Uno dei due morì perché esposto al freddo. Che cosa era successo? In realtà la famiglia, dichiarata indigente, aveva altri due bambini più grandi, entrambi affidati ai servizi sociali. Il caso finì sulla mia scrivania. Indagai e mi convinsi che quella morte era dovuta alla disperazione. I genitori avevano una casa, contrariamente a quel che avevano scritto i giornali, ma ne scapparono perché terrorizzati dalla prospettiva che anche i due neonati fossero loro sottratti».

E a quel punto che cosa accadde?

«Il presidente Millo mi chiamò. Disse: convochiamo subito il collegio e sospendiamo la patria potestà. Risposi: vediamo, prima, che cosa decide il collegio. Millo avocò a sé il procedimento, un atto non previsto da nessuna norma. Allora presentai un esposto al Csm, denunciando tutte le anomalie che avevo visto. E Stanzani un mese dopo fece un altro esposto. Ne seguirono uno di Imparato e uno degli avvocati familiaristi emiliani».

Fu allora che si scatenò il contrasto?

«Sì. Fui raggiunto da un provvedimento cautelare disciplinare del Csm. Venni accusato di avere detto che nel Tribunale dei minori di Bologna si amministrava una giustizia più adatta alla Corea del Nord, di avere denigrato il presidente Millo. Fui trasferito a Modena, come giudice del lavoro. Venne trasferito anche Stanzani, mentre Imparato fu emarginato. Nel dicembre 2011, però, la Cassazione a sezioni unite annullò quella decisione criticando duramente il Csm perché non aveva ascoltato le mie ragioni, né aveva dato seguito alle mie denunce».

Così lei tornò a Bologna?

«Sì. Ma per i ritardi del Csm, anch’essi illegittimi, il rientro avvenne solo il 18 settembre 2012. Millo nel frattempo era andato via, ma non era cambiato gran che. Fui messo a trattare i casi più vecchi: pendenze che risalivano al 2009. Fui escluso da ogni nuovo procedimento di adottabilità. Capii allora perché un magistrato della procura generale della Cassazione qualche mese prima mi aveva suggerito di smetterla, che stavo dando troppo fastidio a gente che avrebbe potuto farmi desistere con mezzi potenti».

Sta dicendo che fu minacciato?

«Mettiamola così: ero stato caldamente invitato a non rompere più le scatole. Capii che era tutto inutile, che il muro non cadeva. Intanto, in marzo, Stanzani era morto. Decisi di abbandonare la magistratura».

E ora?

«Ora faccio l’avvocato. Ma lavoro da fuori perché le cose cambino. Parlo a convegni, scrivo, faccio domande indiscrete».

Che cosa chiede?

«Per esempio che i magistrati delle procure presso i tribunali dei minori vadano a controllare i centri d’affido: non lo fanno mai, ma è un vero peccato perché troverebbero sicuramente molte sorprese. Chiedo anche che il Garante nazionale dell’infanzia mostri più coraggio, che usi le competenze che erroneamente ritiene di non avere, che indaghi. Qualcuno dovrà pur farlo. È uno scandalo tutto italiano: va scoperchiato».

La storia degli abusi del Forteto e dei cattivi scolari di don Milani. Come è stato possibile che per 35 anni un guru violento, odiatore della famiglia, sia stato difeso dalla sinistra, scrive Nicoletta Tiliacos su ”Il Foglio”. Molti elementi, alcuni incredibili, rendono unica la storia degli abusi consumati per decenni nella comunità e cooperativa agricola del Forteto di Vicchio, nel Mugello. Luogo che dal 1977 accoglie bambini e adulti in difficoltà e che si è rivelato una sorta di inferno dei vivi, come ora risulta anche dalla relazione – votata all’unanimità nello scorso gennaio – della commissione d’inchiesta istituita dalla Regione Toscana, oltre che dal nuovo processo tuttora in corso a carico del suo responsabile, il settantunenne Rodolfo Fiesoli, di Prato (in carcere dal 2011) e di ventidue suoi collaboratori. Unica e incredibile è la cecità di chi doveva garantire l’affidabilità del Forteto. Stiamo parlando di giudici del tribunale dei minori, di assistenti sociali, di Asl, di amministrazioni locali, regione compresa, che in trentacinque anni hanno elargito fondi alla comunità di Fiesoli, dello stesso mondo delle coop. Ma anche di politici, giornalisti, sociologi, educatori e circoli cattolici progressisti che hanno avallato il mito del Forteto. Santificato in una messe di pubblicazioni, tra cui alcuni saggi editi dal Mulino. Nel 2003 c’era stato “La strada stretta: storia del Forteto”, del ricercatore   Nicola Casanova, con prefazione dello storico Franco Cardini, mentre nel 2008 è uscito “La contraddizione virtuosa. Il problema educativo, Don Milani e il Forteto”, sempre a cura di Casanova e di Giuseppe Fornari. Nella pagina di presentazione della Fondazione del Forteto, si dice che il volume traccia “un parallelismo tra l’esperienza educativa di don Lorenzo Milani e l’esperienza di solidarietà e accoglienza della comunità del Forteto: in entrambi i casi l’attenzione per i dimenticati, per gli ultimi, si è rivelata la più grande forza in grado di conferire dignità e significato all’essere umano”. Parole che spiegano perché il Forteto abbia goduto, per tanto tempo e nonostante tutto, di un’illimitata apertura di credito presso l’intellighenzia progressista italiana, laica e cattolica. Molto si deve proprio alla sua aura di depositario dell’eredità educativa e antiautoritaria di don Lorenzo Milani, cioè dell’animatore della scuola di Barbiana (siamo sempre nel Mugello) e celebrato autore di “Lettera a una professoressa”. Quell’apertura di credito, in modo ingiustificabile, non ha vacillato nemmeno dopo che Fiesoli, nel 1979, subì una condanna a due anni di carcere per atti di libidine violenta, corruzione di minorenne e maltrattamenti (sentenza passata in giudicato nel 1985). Il giudizio faceva seguito al lavoro di indagine dell’allora magistrato inquirente Carlo Casini – futuro fondatore del Movimento per la vita – e del suo collega Gabriele Chelazzi, poi sostituto procuratore all’Antimafia, morto nel 2003. Nel 1978, i due magistrati avevano acquisito le testimonianze di persone passate per il Forteto che avevano subìto abusi e avevano assistito a violenze su bambini e adulti. Era l’iniziazione alla quale Fiesoli sottoponeva i suoi ospiti, teorizzandone il valore “liberatorio”. Il guru del Forteto, che all’epoca negò tutto, uscì dal carcere nel giugno del 1979. “E proprio in quelle stesse ore – ha scritto lo scorso 20 ottobre il quotidiano la Nazione – il tribunale dei minorenni allora guidato da Giampaolo Meucci gli affida un bambino down, un segnale chiarissimo di quale parte avrebbe tenuto quell’istituzione in quel momento e negli anni successivi”. Meucci, ricorda il vaticanista Sandro Magister sul suo blog Settimo Cielo, era “grande amico di don Milani” e continuava a ritenere il Forteto una comunità “accogliente e idonea” (alla vicenda Magister ha dedicato diversi articoli, tra cui l’utile cronologia: “Cattivi scolari di don Milani. La catastrofe del Forteto”). Ma accanto a Fiesoli si sarebbe schierata anche la rivista cattolica progressista Testimonianze, fondata dal sacerdote fiorentino Ernesto Balducci. Solo due settimane fa, è tornato alla luce, dopo una lunga e misteriosa sparizione, il fascicolo processuale del 1978 con le testimonianze raccolte da Casini e Chelazzi. La Nazione cita, tra le altre, quella di una coppia di Prato: “E’ successo due o tre volte che nel corso delle riunioni egli (Fiesoli, ndr) si sia tirato giù i pantaloni e le mutande, prendendosi in mano il membro e mostrandolo, secondo lui doveva essere un gesto disinibitorio”. E’ l’inizio, prosegue il quotidiano, “di un racconto choc fatto di divieti ad avere rapporti sessuali fra coniugi, di richieste di rapporti omosessuali, di riunioni collettive per guardarsi reciprocamente i genitali, di parolacce, di insulti, di inviti a picchiare i propri genitori. E qui torna anche l’altro lato emerso nell’inchiesta di oggi: ‘Tra le cose che secondo il Fiesoli bisognava fare c’era rompere con la famiglia. A me disse che non sarei stata libera da mia madre finché non l’avessi picchiata’”. Per capire che cosa siano quelle che al Forteto erano dette “famiglie funzionali”, leggiamo anche ciò che scrive Armando Ermini sul blog fiorentino Il Covile, diretto da Stefano Borselli, che negli anni ha sempre seguito con attenzione la vicenda: “Se c’è una cosa chiara fin da subito, è l’odio totale per la famiglia nutrito dai leader della comunità del Forteto. Si faceva in modo che i ragazzi affidati non avessero più alcun contatto con la famiglia d’origine, si faceva loro credere di essere stati abbandonati nel più completo disinteresse, si incentivava in loro ogni tipo di rancore e di rivalsa affinché ogni ponte col passato fosse tagliato… le coppie affidatarie erano in realtà composte da estranei privi di legami affettivi fra di loro. E anche quando nella comunità ne nasceva uno, vi era l’assoluto divieto di costruire qualsiasi simulacro di vita di coppia. I rapporti eterosessuali erano osteggiati in ogni modo, e fra maschi e femmine esisteva una separazione assoluta. La così detta ‘famiglia funzionale’, geniale invenzione di Rodolfo Fiesoli, poteva significare qualsiasi cosa ma non aveva nulla a che fare con la famiglia naturale e nemmeno con un suo qualsiasi surrogato”. Ma allora, si chiede Ermini, “perché i giudici deliberavano di affidare i bambini alle non coppie del Forteto? Perché i servizi sociali indicavano come affidabili queste non coppie? Perché per giornalisti, scrittori, sindacalisti, politici, preti, il sistema Forteto era additato come esempio? Perché la Regione Toscana lo favoriva in ogni modo? La risposta, credo, può essere una sola… quantomeno era condivisa la concezione secondo la quale la famiglia naturale era il problema, un luogo di oppressione destinato ad essere soppiantato da altre forme di aggregazione fra individui, o comunque un istituto da modificare in profondità nel suo significato tradizionale”. Senza l’ideologia che l’ha originata, nutrita e protetta – quella della famiglia nemica, da disintegrare e neutralizzare – la vicenda del Forteto non si capirebbe (in Francia quell’ideologia nel frattempo è diventata, con il ministro Peillon, la missione della scuola). Il suo presupposto, leggiamo nella relazione della Regione Toscana sul Forteto, è che “la coppia e la famiglia comunemente intese rappresentano luogo di egoismo e ipocrisia inadeguato all’educazione dei giovani ai valori di uguaglianza, altruismo e solidarietà. Solo disaggregando l’unità familiare, secondo quanto asserito da Fiesoli… ci può essere il perseguimento di tali valori”.

Scandalo Forteto, dove si stupravano i bambini: le protezioni in Parlamento e nella Magistratura, si legge sul sito di Magdi Cristiano Allam. Dice don Stefano – ex amico del “profeta”, che Fiesoli «è un uomo affascinante e potente, consapevole del proprio carisma», capace «di percepire nelle persone i loro punti deboli», un uomo che gode di «rapporti con personaggi politici». Gli atti dell’inchiesta raccontano scene di sesso (estorto con la forza fisica o con la crudeltà psicologica), punizioni corporali, «stupri psicologici» di fronte agli altri (negli anni Novanta si ricorda il figlio di un magistrato che fu fatto mangiare a 4 zampe da una ciotola come fosse un cane: così raccontano due vittime). E parlano di controlli inesistenti dei servizi sociali. Perché questo? Per gli stretti legami che univano il Forteto alla gang politica al potere in Toscana. Un’informativa della polizia, datata marzo 2011, conferma l’esistenza di questi intrecci politici con chi doveva controllare e non ha controllato: «Fiesoli creava le famiglie a suo piacimento. I nuovi arrivati vengono affidati legalmente dal Tribunale a una coppia di genitori ma non è detto che siano poi cresciuti ed educati dalle persone a cui sono stati legalmente affidati. I servizi sociali, negli ultimi anni, si sono fidati dei soci del Forteto e anche se ogni tanto si presentavano in loco a fare delle visite non effettuavano dei veri e propri controlli. C’era spesso Fiesoli ad accoglierli e trascorreva tutto il tempo con loro». L’11 febbraio scorso è però un assistente sociale (il cui nominativo, a differenza di altri, non risulta nell’agendina telefonica sequestrata al Fiesoli) ad avvisare i carabinieri di Vicchio: «Un minore mi ha parlato di rapporti omosessuali». Nel medesimo giorno i carabinieri vengono contattati dall’avvocato Coffari che sostiene di aver presentato i primi esposti contro Fiesoli. C’è poi la storia di una famiglia che osò denunciare Fiesoli e la sua banda, e che mette in luce un inquietante sistema di connivenze e intrecci tra politica, magistratura e inquirenti: agli atti risulta l’esposto che i genitori fanno nel 2002 contro l’ex comandante della stazione di Vicchio accusato di non fare indagini sul Forteto e la coppia si ritrova indagata per calunnia dalla procura allora diretta da Ubaldo Nannucci. La cosa incredibile è che, perquisendo la sede del forteto, è stata trovata la copia dell’esposto che la coppia di coniugi aveva scritto contro Fiesoli e che era indirizzato al Comune di Santa Maria a Monte (Pisa), al prefetto di Pisa e al Tribunale dei Minori. Chi ha fornito – cosa gravissima – copia dell’esposto all’accusato? Il Prefetto? Improbabile. Il tribunale dei minori? Forse ( e poi capirete perché). Qualche politico del Comune di Santa Maria a Monte (Pisa)? Forse. E non finisce qui, nella casa del Fiesoli è stata trovata anche la copia del verbale di una denuncia che una minorenne fece all’Ufficio Minori della Questura di Firenze l’11 gennaio 1997. Nella «Fondazione Il Forteto» siedono diverse personalità. Nell’atto si legge che il comitato scientifico è stato nominato dal Cda della Fondazione Il Forteto il 9 settembre 1998 ed era allora composto tra l’altro dall’ex presidente del tribunale dei minori Gianfranco Casciano, dall’ex giudice minorile Antonio Di Matteo, dall’onorevole del Pd Eduardo Bruno, dal professore Giuliano Pisapia (oggi sindaco di Milano,che poi curerà il processo della Cassazione che condannò Fiesoli nel 1985), dall’ex pm Andrea Sodi, da Mariella Primiceri, allora a capo dell’Ufficio Minori della questura di Firenze. Nell’elenco figura anche Tina Anselmi. I nominativi appena elencati risultano nell’agendina di Fiesoli, che è stata sequestrata dai carabinieri. Di magistrati, tra cui Sodi, parlano alcune vittime nei verbali anche se l’ex pm ha spiegato di non aver mai dato informazioni a Fiesoli. Ci si domanda perché tali personalità non siano sotto indagine. Perché Pisapia facendo parte del Comitato scientifico dell’associazione, non è indagato come corresponsabile di quello che avveniva al Forteto? Cosa sapeva e ha taciuto? Scrive il Corriere Fiorentino che un riferimento all’onorevole Bruno viene trovato nelle carte sequestrate nella casa di Fiesoli: si tratta di una copia della lettera dell’ex onorevole indirizzata all’onorevole Scozzari (probabilmente Giuseppe Scozzari, eletto nell’allora Ppi). Bruno sollecita il collega a non dare credito a un’interrogazione parlamentare del 1999 contro il Forteto perché è «un compendio di falsità e di accuse infamanti nei confronti della Magistratura e della cooperativa il Forteto». Sempre in un verbale di una delle vittime si trova il nome di Di Pietro: il numero di telefono del fondatore dell’Idv risulta nell’agendina del Fiesoli e l’ex pm, che in quel momento sta correndo per vincere le elezioni nel Mugello contro Giuliano Ferrara, ha firmato la prefazione al libro «Il Forteto» scritto da Lucio Caselli. Nella richiesta di arresto la Procura parla di due realtà: quella «interna», dettagliata nei racconti delle presunte vittime, e quella «esterna» e pubblica. Una specie di doppio binario che, argomentano gli inquirenti, ha permesso di trovare credibilità istituzionale tanto che Fiesoli ha partecipato a Palazzo Vecchio all’evento TEDx lo scorso anno, e il suo intervento — registrazione compresa — è finito agli atti dell’inchiesta. Il giorno dopo l’arresto di Fiesoli, il 22 dicembre scorso, la polizia scrive «di essere stata contattata telefonicamente da (omissis, ndr) che riferiva che il presidente della cooperativa aveva contattato la Cgil invitando a riferire agli attuali lavoratori del Forteto che avevano presentato denuncia, che sarebbero stati licenziati». Agendine, numeri di politici, protezioni politiche e interventi di sindacalisti e cooperanti. Un intreccio mafioso di potere. Se Fiesoli è sotto processo, perché non lo sono i suoi protettori? Una cooperativa agricola o una setta di maniaci? Perché i politici appoggiano il Forteto? La struttura toscana è stata scenario di abusi sessuali su minori per ben trent’anni. Che cos’ha fatto il governo? Niente, anzi no, molti politici hanno reso visita al Forteto e supportato le attività del Fiesoli, capo della struttura. A far paura non sono solo le violenze subite dai bambini affidati al Forteto, ma anche il silenzio e l’appoggio del governo.

Le ultime notizie non consolano per nulla: dopo 14 mesi di ispezioni, il ministero dello Sviluppo Economico ha deciso di non commissariare la struttura. Renzi dovrebbe essere molto ben informato della vicenda che ha luogo nelle sue terre toscane. Chissà se il premier, oltre che cambiare l’Europa, prenderà dei provvedimenti anche nel caso Forteto … le vittime della cooperativa, che gli hanno spedito una lettera, lo sperano molto. Tatiana Santi de “La Voce della Russia” si è rivolta per un commento sulla triste vicenda ad Alessandro Fiore, membro del direttivo dell’associazione ProVita, che ha lanciato una petizione a sostegno delle vittime del Forteto.

Che interessi ci sono dietro al Forteto? Perché i politici a suo avviso non hanno preso provvedimenti nonostante le testimonianze delle vittime?

«Questa è la domanda centrale che ci da la chiave di tutto. In effetti, com’è possibile che dagli anni ’70 fino ad oggi siano andati avanti abusi di ogni tipo, addirittura con atti clementi da parte del tribunale dei minori e dei servizi sociali? Rodolfo Fiesoli, il cosiddetto “profeta”, era molto abile a cercare contatti anche tra persone molto potenti, parliamo di politici, magistrati e personaggi dello spettacolo. Nelle testimonianze si punta su questo problema, cioè che molti politici andavano lì, appoggiavano il Fiesoli, cantavano le lodi del Forteto, scrivevano insieme a lui dei libri. In cambio di cosa? Io direi non solo dei formaggi della cooperativa agricola, ma purtroppo anche per prestazioni di altro tipo che si possono ben immaginare».

Qual è lo stato attuale della vicenda? Sembra che la cooperativa non sarà commissariata. Il Forteto quindi è tuttora aperto?

«Il Forteto non è mai stato chiuso. Dopo che sono stati presentati all’opinione pubblica i fatti, anche grazie a diverse trasmissioni televisive, negli ultimi tempi pare non ci siano stati affidamenti di minori. La struttura però è rimasta aperta e noi sappiamo da varie fonti che all’interno ci sono ancora almeno due bambini, tra cui un disabile. Ventitre persone, tra cui Rodolfo Fiesoli, sono sotto processo per maltrattamenti, abusi, violenza sessuale di gruppo. Desta grande sorpresa che il governo non abbia voluto commissionare la struttura, quando gli ispettori stessi del governo avevano chiesto questa misura».

Quindi anche il capo del Forteto il “profeta” è ai domiciliari, non in galera?

«Era stato arrestato nel 2011, poi però messo agli arresti domiciliari».

Ora il "profeta" del Forteto fa cacciare il suo giudice. Incredibile decisione al processo contro Fiesoli per le violenze sui minori nella comunità del Mugello. Il presidente ricusato per avere usato "un tono incalzante" durante le udienze, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Qual è il segreto della comunità del Forteto, delle sue protezioni, della sua abilità nell'evitare i guai? Il fondatore, il «profeta» Rodolfo Fiesoli, fu condannato negli anni 80 per atti di libidine e maltrattamenti su minori affidatigli, eppure ha continuato indisturbato la sua attività. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato nel 2000 l'Italia per l'affidamento di due bambini con annesso risarcimento da 200 milioni di lire, ma il tribunale dei minori di Firenze ha continuato a inviare ragazzini alla comunità di «accoglienza» sul Mugello. Più di recente, il governo Renzi (in cui siede l'ex presidente di Legacoop) ha negato il commissariamento (richiesto dal precedente governo Letta) della annessa e omonima coop agricola. L'altro giorno il Profeta ha messo a segno un altro colpaccio. Dall'ottobre scorso egli è sotto processo a Firenze con altre 23 persone per reati sessuali e maltrattamenti su minori, e le drammatiche testimonianze rese in questi mesi dalle vittime del Forteto ne stanno compromettendo la posizione: a Vicchio si predicava e si praticava l'omosessualità sui minorenni in affido per «liberarli dal male», e poi violenze, lavaggio del cervello, sfruttamento. Ora Fiesoli ha ottenuto la ricusazione del presidente del collegio giudicante, Marco Bouchard, chiesta da uno dei suoi legali, Lorenzo Zilletti. La decisione è destinata ad allungare i tempi del processo e ad avvicinare pericolosamente i termini della prescrizione, che ha già ghigliottinato alcune denunce. Ma il fatto più sconcertante è che uno dei tre magistrati che ha deciso la ricusazione, Maria Cannizzaro, è stata presidente di quel tribunale dei minori fiorentino che spediva disinvoltamente i bambini al Forteto. Il giudice Cannizzaro è addirittura il consigliere relatore di questa ordinanza. Denuncia Stefano Mugnai, consigliere regionale di Forza Italia presidente della commissione d'inchiesta che ha portato alla luce gli orrori del Forteto: «Dai documenti ricevuti dalle vittime di questa vicenda, scoraggiate e umiliate dalla ricusazione, durante la sua attività presso il tribunale per i minorenni di Firenze il giudice Cannizzaro ha siglato lei stessa provvedimenti che hanno avuto come esito l'affidamento di minori» a Fiesoli e compagni. Mugnai ricorda che «il tribunale di Genova avrebbe aperto un fascicolo sull'operato dei giudici minorili fiorentini che hanno continuato imperterriti ad affidare bambini al Forteto malgrado due sentenze passate in giudicato. Da parte delle istituzioni l'ennesimo tradimento alle vittime e uno schiaffo alla verità processuale. Sono indignato». E qual è stato il grave comportamento che ha svelato la «posizione preconcetta» del giudice Bouchard verso il Forteto? La sua colpa è di avere usato l'indicativo al posto del condizionale nel porre le domande a due imputati. Nella motivazione si eccepisce che Bouchard abbia usato uno «stile colloquiale», un «tono incalzante e assertivo e a tratti insofferente» e che «le contestazioni non sono espresse in forma dubitativa». «La ricusazione è un fatto mai avvenuto prima a Firenze - dice il consigliere regionale Maria Luisa Chincarini (Centro democratico) -. Persino Berlusconi è mai riuscito a ottenerla in uno dei suoi processi. Sembra proprio che si voglia far di tutto per lasciar sole le vittime di abusi che con tanto coraggio hanno avuto la forza di denunciare quanto subito in decenni di sevizie e malversazioni. Sembra l'ennesima dimostrazione che c'è davvero qualcosa di grosso dietro la vicenda del Forteto». Di segnale «gravissimo e preoccupante» parla anche il consigliere regionale Pd Paolo Bambagioni: «Vedo la precisa volontà di proteggere in qualche modo il sistema Forteto e non andare al cuore delle responsabilità dei crimini perpetrati per anni ai danni di innocenti bambini».

Forteto, gli strani legami del giudice che ha tolto il processo al suo collega. Ecco la firma sul documento che ha ricusato il magistrati Bouchard. È della toga che affidava i minori al Profeta a giudizio per abusi, scrive ancora Stefano Filippi su “Il Giornale”. Sergio Pietracito, presidente dell'associazione vittime del Forteto, è allibito. Con un gruppo di fuorusciti dalla comunità delle violenze sul Mugello, non ha perso nemmeno una delle 50 udienze che finora si sono svolte del processo di Firenze al fondatore Rodolfo Fiesoli. Ha raccontato gli orrori visti e subiti, ne ha ascoltati molti altri. Sperava che la verità sul Forteto finalmente venisse a galla, più forte delle coperture e degli appoggi di cui gode il Profeta. Oggi si ritrova un collegio giudicante decapitato, privo del presidente ricusato dalla corte d'Appello di Firenze su istanza dei difensori di Fiesoli. Una ricusazione decisa, tra gli altri, dal giudice relatore Maria Cannizzaro, ex magistrato di quello stesso tribunale dei Minori che mandava ragazzini al Forteto. «E lei, non si doveva astenere?», si stupisce Pietracito. Porta la data del 22 aprile 2010 l'ordinanza con la quale il tribunale dei Minori di Firenze (presidente Gianfranco Casciano, giudice relatore ancora Maria Cannizzaro) tolse due ragazzini alla comunità Ceis di Pistoia incaricando i servizi sociali di Prato di collocarli altrove. Tre settimane dopo, l'11 maggio, i servizi sociali della Usl 4 notificarono al tribunale «l'accompagnamento presso la comunità Il Forteto». Nessuno ebbe nulla da eccepire. «È mancata una regia nella gestione degli affidi, i bambini non venivano affidati ma semplicemente consegnati al Forteto», ammise l'attuale presidente del tribunale dei minori, Laura Laera, quando ne prese la guida nel 2012. Negli archivi non esistevano dossier sulle famiglie, i minori e le loro destinazioni. Non contava che il Profeta fosse stato condannato nel 1985 per reati gravissimi (atti di libidine violenti continuati, lesioni aggravate continuate, corruzione di minorenne) con il suo principale collaboratore, Luigi Goffredi. Non contava che nel 2000 la Corte europea dei diritti dell'uomo avesse condannato l'Italia a risarcire 200 milioni di lire per il trattamento riservato dal Forteto ad alcuni minori ospiti. Un anno e mezzo dopo quell'affidamento, nel dicembre 2011, Fiesoli fu nuovamente arrestato con l'accusa di reati sessuali dei quali deve rispondere con altre 22 persone nel processo in corso a Firenze. Le vittime del Profeta e dei suoi accoliti sono sgomenti. «Stiamo assistendo a un dibattimento durissimo - dice una di loro, Marika Corso - non sappiamo come fare a ripetere tutti quei racconti in aula per la seconda volta». Pietracito difende il presidente della corte ricusato, Marco Bouchard: «Non si può estrapolare da un contesto più ampio poche battute per inficiare l'integrità di una persona di così alto livello. Tutto ciò è semplicemente vergognoso». A Bouchard è stato addebitato un «tono incalzante e assertivo, a tratti insofferente, con scoppi e sovrapposizione della voce», nel porre domande «non espresse in forma dubitativa». Nonostante violenze, denunce e condanne definitive, il Forteto è sempre stato considerato una comunità modello in Toscana. Tribunale dei Minori e servizi sociali hanno continuato per decenni ad affidarvi bambini in difficoltà. Il Profeta è un intoccabile, con tante amicizie giuste negli ambienti giudiziari, culturali e politici di Firenze. I big del Pci-Pds-Ds vi chiudevano le campagne elettorali. Intellettuali, magistrati e amministratori locali l'hanno sempre difeso: sette giorni prima dell'ultimo arresto Fiesoli partecipava a Palazzo Vecchio a un convegno sull'accoglienza cui era presente anche l'allora sindaco Matteo Renzi. Soltanto un mese fa la cooperativa agricola annessa alla comunità ha evitato il commissariamento chiesto dal governo Letta. La coop Il Forteto aderisce alla Legacoop di cui il ministro Giuliano Poletti è stato a lungo presidente. Con il governo Renzi-Poletti il Forteto la sfanga: è soltanto una coincidenza? E ora ecco la ricusazione del presidente del collegio giudicante che potrebbe portare ad azzerare tutto. Si allungheranno i tempi del processo e si estenderà l'ombra della prescrizione, visto che per alcuni episodi oggetto del dibattimento i termini scadono nel 2015. I deputati Massimo Parisi (Forza Italia) e Giorgia Meloni (Fratelli d'Italia) hanno presentato interrogazioni al ministro Orlando sulla regolarità delle procedure seguite nel palazzo di giustizia di Firenze. Stefano Mugnai, presidente della commissione d'inchiesta regionale che ha smascherato gli orrori del Forteto, ha chiesto al governatore Enrico Rossi di ricorrere contro la ricusazione: la Regione è parte civile nel processo.

Il governo imbosca il caso Forteto con l'aiuto del ministro ex coop, continua Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un anno fa, il 2013, nel pieno dello scandalo del Forteto, il governo Letta mandò un'ispezione nella cooperativa agricola del Mugello. Molti minori abusati dal fondatore della comunità, Rodolfo Fiesoli (oggi sotto processo con altre 22 persone per reati sessuali e maltrattamenti sui minori), vi avevano lavorato illegalmente: c'era una promiscuità sospetta tra la comunità degli orrori e la coop, entrambe fondate dal «profeta». I quattro mesi di controlli si erano chiusi con la richiesta di commissariamento. Oggi è cambiato il governo. Il posto di Enrico Letta è stato preso da Matteo Renzi, che da sindaco di Firenze il 12 novembre 2011 ospitò il «profeta» a un convegno nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio: Fiesoli sarebbe stato arrestato pochi giorni dopo. E nell'esecutivo è entrato Giuliano Poletti, ex vicepresidente nazionale di Legacoop, la centrale delle coop rosse che si è sempre opposta al provvedimento: il Forteto ne è socio. Morale: niente commissariamento per la coop agricola che era tappa immancabile per i leader del partito che salivano al Mugello. La decisione del ministero dello Sviluppo economico, cui compete la vigilanza sulle coop, ha il sapore di una beffa clamorosa. Una vergogna. Gli ispettori avevano evidenziato gravi irregolarità nelle buste paga (niente straordinari né festivi), negli stipendi (tutti inquadrati con lo stesso contratto pur svolgendo mansioni diverse), soci costretti a «sottoscrivere inconsapevolmente strumenti finanziari», e poi «un atteggiamento discriminatorio verso i soci usciti dalla coop» dopo l'emergere degli scandali. La coop ha la «tendenza a confondere le regole e i principi della comunità con il rapporto lavorativo e societario». Il commissariamento era necessario. Nulla era cambiato nemmeno dopo un supplemento di ispezione: nel secondo rapporto si legge che «permangono le irregolarità» relative a una serie di violazioni dello statuto e del regolamento interno. «La situazione non appare al momento sostanzialmente mutata», è scritto. Ma per il governo di Renzi e Poletti è tutto in regola, in poche settimane ogni irregolarità è stata miracolosamente sanata. La decisione è grave anche per l'andamento del processo in corso contro Fiesoli e i suoi sodali. Nella comunità del Forteto sono stati commessi abusi e violenze per decenni in un silenzio complice. Il «profeta» è stato condannato negli Anni '80 per reati analoghi e una sanzione è giunta all'Italia dalla Corte di giustizia europea. Ciononostante i tribunali dei minori non hanno smesso di mandare bambini alla comunità, e la coop ha continuato a operare in questa ambiguità. Alcuni dipendenti della coop dovranno deporre al processo, ma senza un cambio del gruppo dirigente saranno sotto pressione. «E coloro che hanno denunciato vivranno in condizioni lavorative inaccettabili», accusano i consiglieri regionali toscani Stefano Mugnai (Forza Italia), Giovanni Donzelli (Fratelli d'Italia) e Maria Luisa Chincarini (Centro democratico). Mugnai è il presidente della commissione d'inchiesta regionale che portò alla luce gli orrori del Forteto: «Cala un'altra coltre di silenzio rosso», dice. Sdegno anche dal Comitato delle vittime. «Il governo Renzi si è preso una responsabilità gravissima nell'assecondare le pressioni ricevute dal Partito democratico locale, sindacati e centrali delle cooperative a difesa del Forteto - denunciano i tre consiglieri -. Gli ispettori dopo aver scelto il commissariamento sono stati nuovamente inviati al Forteto e hanno trasformato la richiesta di commissariamento in diffida non perché avevano sbagliato la prima analisi, ma solo per un cambio di atteggiamento e per la scelta del Consiglio di amministrazione del Forteto di modificare lo statuto e redigere un codice etico». Già: al governo Renzi basta un po' di autoregolamentazione per ripulire chi è sotto processo per abusi e violenze sui minori dopo essere già stato condannato per gli stessi gravissimi reati.

Lo studioso Dal Bosco: “Collegamenti tra delitti del Mostro di Firenze e Forteto”, scrive Domenico Rosa su “Imola Oggi”. Il giovane studioso Roberto Dal Bosco sarà a Firenze il prossimo martedì 20 maggio 2014 alle ore 17 all’Auditorium della Regione in via Cavour, 4 per la presentazione del libro “Il Forteto: destino e catastrofe del cattocomunismo” (Settecolori) di Stefano Borselli con la prefazione di Stefano Mugnai e i contributi di Armando Ermini e Piero Vassallo. Interverranno: Stefano Borselli, curatore del volume; Giovanni Donzelli, Capo Gruppo di FdI alla Regione Toscana; Stefano Mugnai, Presidente della Commissione regionale d’inchiesta su “Il Forteto”; Sergio Pietracito, una delle vittime de “Il Forteto”; Caterina Coralli, Capo gruppo uscente di FdI al Comune di Vicchio e il giornalista Pucci Cipriani Direttore di “Controrivoluzione”. Presiederà e modereà l’incontro l’Avv. Ascanio Ruschi, Presidente della Comunione Tradizionale. A Roberto Dal Bosco, scrittore e studioso vicentino, autore tra l’altro, dell’opera “Incubo a cinque stelle: Grillo , Casaleggio e la cultura della Morte” (Fede e Cultura), rivolgiamo alcune domande:

Dunque il Forteto è la catastrofe del cattocomunismo e del donmilanmeuccismo?

«Il caso Forteto non è solo la catastrofe del catto-comunismo. E’ un buco nero che sconvolge la realtà italiana in profondità…In questi decenni abbiamo visto a quali abiezioni si sia arrivati al Forteto. Stupri pedofili, pseudo – incesti, pratiche zoofile, l’ordine dell’omofilia obbligatoria e il divieto della procreazione: tutto questo emerge dai verbali. Penso alle povere vittime, il dolore che viene da questo “abisso” è un danno immane. Eppure questa non è la fine dell’incubo».

In che senso?

«La vera domanda è: perché nessuno ha fatto nulla? Perché anzi, tutti quei politici, magistrati, amministratori si sono mostrati con il guru Fiesoli dopo le condanne? Come è possibile che Fiesoli avesse tutte quelle coperture? Come è possibile che si inviti una persona sotto processo per pedofilia presentare il TEDx a Palazzo Vecchio?… C’è qualcosa che non si spiega… L’idea – mi rendo conto, tutta da provare – è che il Forteto possa essere stato qualcosa in più di una semplice comunità di recupero. Molti misteri di fatto sono finiti per incrociarsi lì. Nell’aprile del 2006 “La Nazione” titolava: “Un detenuto racconta di una super Loggia massonica e pedofila che avrebbe ordinato di compiere gli omicidi di Firenze”. Si dava conto che le indagini per i delitti del Mostro stavano lambendo una comunità, ma il nome del Forteto esce raramente.»

Un collegamento tra il Forteto e i delitti del “Mostro”…ho capito bene?

«Ripeto. l’idea è tutta da provare. Comunque il p.m. Giuliano Mignini parlò di un documento secretato per il quale al Forteto avvenivano orge sataniche, con ampia affluenza di VIP …mi rendo conto che pare fiction horror di basso livello , ma potrebbe esservi una logica politica in fondo a questa storia. La stessa che alimenta i sospetti su Marc Dutroux…»

Sta parlando del “mostro di Marcinelle”?

«Precisamente. Marc Dutroux, quello che lei chiama il “mostro di Marcinelle”, era il noto pedofilo assassino che sconvolse il mondo quando vennero ritrovati nel suo giardino alcuni cadaveri di bambini. Come Fiesoli, Dutroux agì indisturbato per anni, anche quando era già finito nel radar delle forze dell’ordine: riuscì anche a fuggire da un furgone-cellulare quando era agli arresti. Quel che si dice è che l’impunità di Dutroux fosse dovuta al suo ruolo di procacciatore di “carne fresca” per alcuni potentati che gravitano intorno alla UE in quella che con Firenze è detta essere la città più massonica d’Europa, Bruxelles. Oltre all’aspetto rituale che può avere l’abominio dello stupro pedofilo – siamo in piena gnosi , nell’”antinomismo”, nel tantrismo demoniaco – c’è anche una logica meramente politica: se hai partecipato a questi festini, sarai ricattabile per sempre, quindi membro affidabile di quell’élite sino alla morte. E’ un’iniziazione e al contempo un sistema di ricatto: la pedofilia come strumento politico. Il caso del “Mostro di Marcinelle” ha toccato anche il premier belga, l’omosessuale dichiaratamente massone Elio De Rupo, a cui qualcuno chiede talvolta di chiarire i suoi rapporti con Dutroux. C’è il Mostro di Marcinelle, c’è il Mostro del Forteto, nell’attesa di capire se vi sia qui anche il Mostro di Firenze. La Massoneria pare entrare in ognuno di questi casi. Piero Vassallo che reputo il più grande filosofo cattolico vivente, ha delineato perfettamente, nel libro di Borselli, la radice gnostica del caso Forteto. Va delineato inoltre che si tratta di una ulteriore insorgenza di uno spirito oscuro sui colli fiorentini in questi due ultimi secoli. Nell’Ottocento l’antropologo americano Leland scrisse: “Aradia il Vangelo delle Streghe” a Firenze. Si tratta di uno scritto dettatogli da una strega che lo rese partecipe di quella che lei chiamava la “vecchia religione”, e cioè la stregoneria. Il libro divenne strumentale nella costruzione della neo-stregoneria odierna chiamata WICCA, ora diffusissima negli Stati Uniti e perfino in Europa…»

Insomma tutto partì da Firenze…

«La terra più bella d’Italia, che mostra un lato ferale e oscuro. E’ quello che, forse, percepì De Sade, quando entrò a Firenze, eccitato dall’idea che quella fosse stata un tempo una terra vulcanica. E’ un assioma noto: il demonio si accanisce sempre sulle cose baciate da Dio…»

Allora possiamo considerare il Forteto come una vera e propria “setta”?

«Tutto da studiare. Secondo una tipologia creata dallo psichiatra americano Robert Jay Lifton, puoi definire un culto come apocalittico quando è presente una triade di caratteri. Il primo: il guru diventa oggetto di adorazione maggiore rispetto ai princìpi religiosi, che egli puo’ trasgredire senza dare scandalo. Secondo vi debbono essere elementi di Thought reform, cioè “riforma del pensiero”, di indottrinamento continuo, rituali programmati di autocritica con la confessione dei propri errori. Terzo, sfruttamento dei seguaci da parte del leader. Al Forteto abbiamo tutta la triade soddisfatta. Fiesoli fa ciò che vuole, vi sono estenuanti rituali, confessione pubblica. Lo sfruttamento è tale che vengono fatti lavorare indefessamente anche bambini più piccoli. Tutto questo sotto lo sguardo dei sindacati, del Partito ex comunista, della magistratura, degli assistenti sociali, dei sacerdoti, di intellettuali rinomati di cui ancora parleremo…»

MALEDETTI TOSCANI.

Stereotipi sui fiorentini? Sto seriamente considerando la possibilità di trasferirmi a Firenze. Sono un po' terrorizzato dalla nomea di persone poco ospitali e poco aperte verso lo "straniero" che accompagna gli abitanti di questa bella città.

Conosco pochi fiorentini e in maniera, risponde CIB, credo che non si possa generalizzare...peeeeero ammetto che i fiorentini (e frequento principalmente Firenze) sono i più polemici che abbia mai conosciuto! Ma per quanto ami Firenze..c'è una cosa che non sopporto..la loro ironia costante..sottile e ficcante! Cioè..i romani sono caciaroni e scherzano ma per il gusto di scherzare! Di fare caciara......I fiorentini danno sempre l'idea di essere velenosetti!!! Ma ripeto non si può generalizzare e ti dirò di più. In tutta Italia (ed ho girato abbastanza) se dovessi scegliere dove vivere vivrei a Firenze! non avere dubbi! Smentisco con riserva ;) Buona fortuna.

Risponde Marta. Allora la gente strana c'è ovunque. Poi a Firenze puoi trovare persone con cui ti trovi bene ma anche altre con cui puoi trovare peggio, però ti posso assicura che i fiorentini sono persone cordiali e comunque se poi non ti trovi bene con una persona non è un problema la lasci stare... sai quante persone esistono al mondo ...

Risponde Matteo. Non è giusto generalizzare,e una certa nomea di gente un po' superba e chiusa appartiene al passato, Firenze aveva ed ha una vocazione internazionale e di città del mondo e questo si riflette in parte almeno sulla atteggiamento verso i non fiorentini o non toscani, tranquillo verrai accolto bene.

Risponde Gordon Ramsay. Ho avuto a che fare con dei toscani..a primo impatto sembrano simpatici..ma alla lunga diventano tediosi..sono abbastanza "polemici"..bravi solo loro..sanno tutto loro..non gli va bene mai niente..sarà un caso..ma tutti quelli che ho conosciuto erano così..poi magari mi sbaglio..

Risponde Higa. Io ho due amici di Firenze, uno di Prato ed ho conosciuto sul luogo di lavoro anche due ragazzi di Siena. Mi trovo e mi sono trovato strabene con tutti. Sono stato in Toscana molte volte, a Firenze 2 volte e sono stato veramente bene, come posto e come gente.

8 luoghi comuni su Firenze e i fiorentini tra ironia e realtà, scrive Alessandro Bertini. “Chi, nel mondo, non dico in Italia, può vantare la famosa frase "sono fiorentino?" Solo a Firenze si può dire! Che provi a dirlo un... perugino! Potrebbe farlo, ma mentirebbe! Spudoratamente, perchè è di Perugia! Senza Firenze non si va da nessuna parte: come fa uno da Arezzo a andare a Bologna? Se passa da Parma c'arriva, ma da sotto! Gli tocca fare i'giro! Per andare da Pisa alle Marche bisogna passare da qui! Firenze c'è sempre voluta e ci vorrà sempre!”. In un suo vecchio, esilarante, spettacolo del 1983 con cui attraversò la Toscana in lungo e in largo raccogliendo un successo strepitoso (erano gli anni del primo film da regista "Tu mi turbi" e di "Non ci resta che piangere" insieme a Massimo Troisi, pietra miliare di qualsiasi cinefilo fiorentino) Roberto Benigni iniziava così un monologo fiume che travolgeva con la sua carica e vis comica i più disparati argomenti, dalla politica alla religione, senza trascurare alcuni spaccati di una Toscana che non c'è più, quella delle Case del popolo, fatta di personaggi semplici e veraci. Nessuno meglio di lui, nato a Vergaio (un paesino del comune di Prato che però quando nacque il comico non era ancora provincia...), avrebbe potuto riassumere in poche frasi uno dei pilastri della fiorentinità: la visione Firenze-centrica. Siam fatti così, un c'è nulla da fare! Esiste solo la nostra città. Che ha un milione di difetti (non si azzardi a dirlo un forestiero però) ma nonostante tutto rimane la più bella del mondo! Mettiamo subito in chiaro un paio di cose: a noi piace dire pane al pano e vino al vino! Il fiorentino è schietto e sincero. Non facciamo troppi rigiri di parole, e per questo motivo possiamo risultare talvolta eccessivamente bruschi e diretti. Senza frapporre indugi vado quindi a completare questo profilo semi-ironico del fiorentino che non ha assolutamente la pretesa di elevarsi a verità assoluta ma vuol essere solo un gioco per chi ama non prendersi troppo sul serio. Cercando di scostarsi un po' dallo stuolo di luoghi comuni che si leggono in giro e albergano nelle menti della gente.

FIORENTINI, GUELFI E GHIBELLINI. A proposito di luoghi comuni... il più notorio ci vede come litigiosi e bastian contrario. Tutto vero! Non ci vuole molto per confutarlo, basta aprire i libri di storia o andare a vedere i fuochi d''artificio (i Fochi) di San Giovanni il 24 giugno e ascoltare i soliti pareri discordanti ("quest'anno sono stati proprio bellini" "Vaia Vaiaaaa! L'eran meglio quelli dell'anno scorso!"). Ci dividiamo su qualsiasi cosa, anche sui locali dove andare, anche se alla fine son sempre gli stessi. Si salva solo Antognoni (forse, qualcuno che osava contestarlo quando giocava nella Viola c'era!). Sarà per questo che la città continua a vivere sulla gloria del passato e non si smuove da questa preoccupante staticità?

SPILORCI E GENEROSI, GENTILI E SCORBUTICI. SOPRATTUTTO ORGOGLIOSI. L'orgoglio di essere di Firenze sovrasta qualsiasi altra considerazione e prima o poi, se parlate con uno di loro, verrà fuori questa notizia sulla loro genia. Lo scriveva anche Curzio Malaparte (un altro pratese...): "i fiorentini sono indomiti, orgogliosi, superbi". Per cogliere il meglio bisogna lavorare con pazienza e costanza: il fiorentino dalla battuta pronta e sempre voglioso di scherzare in realtà è diffidente e il suo gruppo di amicizie è un circolo chiuso. Non è vero che siamo poco ospitali, solo non lo siamo a prescindere! Qualcuno la chiama "puzza sotto il naso", io credo che sia una naturale mossa di difesa per non prenderlo sotto il sellino.

LA SERATA? CON GLI AMICI IN UN LOCALE DEL CENTRO. Non chiedete a un fiorentino di trascorrere una serata fuori città! Difficile farlo uscire dalle mura, ancora di più dalla provincia! Si va in centro a divertirsi, anche se parcheggiare diventa un'impresa al pari di trovare un posto in piedi in curva Fiesole per la partita con i gobbi...

E SABATO STRUSCIO... IN CENTRO! "Riborda!" (= versione fiorentina del romanesco #daje che spopola su Twitter). Una passeggiata in via de' Calzaiuoli, piazza della Repubblica, via de'Servi o in via Gioberti. Il sabato si trascorre così, a fare shopping o far finta di farlo. La domenica invece, se non si sa cosa fare, c'è il piazzale Michelangelo.

C'E' SOLO LA FIORENTINA! La Viola è sacra! In realtà la città e soprattutto la provincia è piena di tifosi di altre squadre, in gran parte juventini. Poi ci sono anche quelli che del calcio proprio non gliene frega niente, ma sono una minoranza. Ecco, tutti questi non saranno d'accordo su questa affermazione che invece è il pensiero comune dei tifosi viola: la Fiorentina rispecchia il grande senso di appartenenza alla città, quindi se sei un tifoso di altre squadre e vivi qui significa che "Te non sei di Firenze, te ci abiti e basta".

STESSA SPIAGGIA, STESSO MARE. I locali per la serata? Sempre gli stessi così come i ristoranti. E le mete dell'estate? Stessa cosa. I fiorentini di una certa generazione si ritrovavano all'isola d'Elba e a Castiglione della Pescaia. Li avevano comprato la casa al mare, lì si rifugiavano nel weekend di giugno e luglio. Adesso le cose sono un po' cambiate ma se andate in questi posti troverete ancora una grande concentrazione di giovani e meno giovani provenienti da Firenze.

FILM PREFERITI? AMICI MIEI NATURALMENTE, MA ANCHE IL CICLONE. Sembra quasi un mantra da ripetere in ogni conversazione. Se non ci infiliamo una frase in dialetto di un film non siamo contenti! Le nuove generazioni conoscono meno le supercazzole ma nel lessico sono entrate espressioni riprese in alcuni dei lungometraggi di Leonardo Pieraccioni come “ola ola vo’ a dormire nell’aiola”, "il poggio più in giù" o "tu se'stanco, vai a letto".

PER FINIRE, PANE E CIOCCOLATA. Ma c'avete rotto con questa storia del pane sciocco! Ok, solo da noi e da poche altri parti il pane non è salato e in tutto il resto dell'Italia questa cosa viene vista con perplessità, ma avete mai mangiato pane, burro e marmellata o la cioccolata con il pane toscano cotto a legna?! O una bella bruschettina (la fettunta) con aglio e olio (quello bono) o il vero prosciutto toscano?

Ovviamente ci s'ha ragione noi!

MALEDETTI TOSCANI. Libro scritto da Curzio Malaparte. Il Malaparte di “Maledetti toscani” è il papà di Bianciardi. Ostile agli italiani per orgoglio territoriale, maestro delle differenze minime tra una polis toscana e l'altra, capace di reminiscenze letterarie ricche e folgoranti (da Machiavelli a Lorenzo de' Medici, da Dante a Boccaccio, da Sacchetti a Collodi), è il campione della toscanità e dei suoi significati profondi e molteplici. Leggere questo intelligente, prepotente e guascone pamphlet da non toscani significa leggere letteratura curda tradotta con buona dignità e discreta fedeltà: è stato il mio caso, e mi spiace non aver potuto apprezzare parecchie sfumature. Forse non di poco conto come mi sono sembrate: come le osservazioni sulle differenze tra i dialetti d'una città e d'un'altra, come certi rilievi antropologici sulle distanze tra la gentilezza senese e la civiltà d'un popolo intero, o sulla lentezza dei pistoiesi, o sull'apertura mentale – diciamo così – delle donne livornesi. Sta di fatto che l'opera letteraria vive, febbrile e incandescente e sinceramente leziosa, allegramente consapevole d'essere per noi italiani un divertissement autentico, per voi toscani una dichiarazione di guerra. Perché niente è più toscano di Prato, e nessun toscano è migliore di un pratese.

“Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'esser toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese. E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli altri, italiani o stranieri, perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno dentro. O forse perché, quando si tratta d'essere migliori o peggiori degli altri, ci basta di non essere come gli altri, ben sapendo quanto sia cosa facile, e senza gloria, essere migliore o peggiore di un altro. Nessuno ci vuole bene (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla). E se è vero che nessuno ci disprezza (non essendo ancora nato, e forse non nascerà mai, l'uomo che possa disprezzare i toscani), è pur vero che tutti ci hanno in sospetto. Forse perché non si sentono compagni a noi (compagno, in lingua toscana, vuol dire eguale). O forse perché, dove e quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra” (Malaparte, Incipit di “Maledetti toscani”). Tutto sono, i toscani, fuorché femmine, scrive Malaparte. I toscani camminano a testa ritta, petto in fuori, mele strette. Disprezzano tutti e se ne fregano d'essere disprezzati. Disprezzano tutti per la loro stupidità. I toscani sono i più intelligenti di tutti, in Italia, e addirittura gli scemi, dalle parti loro, sono intelligenti. La libertà è un fatto dell'intelligenza: dall'intelligenza deriva e consegue. Tradiscono più gli amici dei nemici, perché per “tradire un amico ci vuol grandezza d'animo, nobiltà dei sentimenti, altezza d'ingegno e lealtà” (p. 12). Lealtà significa sapersene pentire. È una regola del gioco. Quando i Toscani ti guardano, ti stanno giudicando. Non devono scoprire niente, perché sanno che sei fatto male, ma vogliono capire “di che sei fatto” (p. 77). I Toscani sono civili, non gentili. “A dirla tra noi, la gentilezza sta di casa soltanto a Siena. Altrove, nel resto della Toscana, è civiltà di modi, e non di voce, di piglio, di tono, di parole. Civiltà, non gentilezza: che son due cose diverse” (p. 20). Non salutano mai per primi nessuno, nemmeno in Paradiso. Dio è già preparato, è lui che viene a salutarti per primo, quand'è il momento, se sei toscano. Credono che non ci sia nulla di sacro, a questo mondo, fuorché l'umano, e che ogni anima sia uguale a un'altra. Basta tenerla asciutta. I Toscani fanno tutto a misura d'uomo, anche i miracoli dei santi. Non perdono mai di vista la “misura del mondo”, questo è il loro segreto (p. 37). Chi somiglia ai toscani? I loro soli amici, scrive Malaparte, sono i perugini, che “dei toscani hanno gli estri, i pruriti, e i fuochi, gli orecchi a punta, il naso d'osso, e le braccia pelose, e forse qualcosa in più dei toscani, e forse qualcosa in meno” (p. 28). Gli Umbri, e più di tutti i Perugini, sono i soli, in Italia, che vogliano bene ai toscani, e non abbiano paura della loro intelligenza e della loro libertà.

Malaparte era pratese, e così scrive di Prato: “Non v'è nulla di feroce, né di sanguigno, nell'aria di Prato. Fra tutte le città della Toscana, Prato è chiara: chiara come Pisa. E i pratesi, contro la loro fama, son lisci come i ciottoli del Bisenzio (…). Io son di Prato, m'accontento d'esser di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non essere venuto al mondo, tanto compiango coloro che, aprendo gli occhi alla luce, non si vedono intorno le pallide, spregiose, canzonatorie facce pratesi, dagli occhi piccoli e dalla bocca larga” (p. 57). Il solo difetto dei Toscani, aggiunge, è di non esser tutti pratesi. I pratesi sono un popolo senza padrone, nemico di qualsiasi autorità, spregiatore – scrive Curzio – d'ogni titolo e d'ogni prosopopea. Ecco perché da quelle parti i galli, prudenti, nascono senza cresta. Ho la sensazione che Malaparte stia parlando di sé stesso; meglio: di come avrebbe voluto essere, e non è mai stato. Peccato. Pronunciata con rabbia, con spirito, con invidia, con disprezzo, con affetto, quest’espressione è ormai da tempo entrata a far parte del lessico comune. Maledetti toscani, che si sentono sempre superiori a tutti gli altri italiani. Maledetti toscani, che riescono ad ironizzare sulla situazione più tragica e a creare imbarazzo nel momento di maggiore allegria. Maledetti toscani, che credono di poter dare lezioni a tutti perché “la lingua italiana l’hanno inventata loro”. Maledetti toscani, che se non ci fossero bisognerebbe inventarli. Maledetti toscani, che si amano e si odiano. Indispensabile per un vero toscano, ma consigliato anche a chi toscano non è, conoscere il libro attraverso il quale l’autore ha regalato alla lingua italiana questa arguta espressione. Questo non solo per arricchire il proprio bagaglio culturale, ma anche e soprattutto perché si tratta di un libro incantevole, pervaso allo stesso tempo da una tagliente ironia e dalla poesia più accorata.

Non è un romanzo, anzi, per la sua struttura è affine piuttosto ad un saggio; ma non è neppure un saggio, perché non s’è mai visto un saggio scritto con un linguaggio tanto vivo e partecipe. Normalmente, un saggio è poco più di un testo di studio, redatto con tono freddo ed espositivo. Non è questo il caso di Malaparte, che in questo libro usa parole argute, ironiche, appassionate e grondanti amore. Di questo si tratta: una lunga e sincera dichiarazione d’amore per il popolo toscano. Il che non implica certo disprezzo o snobismo verso gli altri popoli d’Italia: Malaparte tiene a sottolineare che i toscani non sono ne’ migliori ne’ peggiori degli altri italiani. Semplicemente diversi, ed è di questa diversità ed unicità che vanno fieri. Consapevoli, dice Malaparte, di non essere particolarmente amati nelle altre regioni, essi trovano nei loro “cugini” umbri un’affinità di carattere ed abitudini che non riscontrano in nessun altro popolo d’Italia. Proprio al popolo umbro è dedicato l’unico capitolo del libro nel quale non si tratta di toscani, almeno non direttamente. Malaparte, però, doveva avere una predilezione per certe province, e di quelle e dei loro abitanti ha parlato più diffusamente in questo libro. Principalmente di Prato, essendo lo stesso Malaparte di origini straniere ma di nascita pratese. Affacciato al balcone della “Stella d’Italia” (l’hotel che oggi non esiste più), Malaparte ci fa respirare l’aria di una sera pratese e ci stupisce raccontandoci dei cenciaoli e di quello che trovavano al disfare le balle di stracci arrivate da tutto il mondo, perché tutti gli stracci, dice, finiscono a Prato. Passando per i senesi, per i fiorentini, per il campigiani, raccontandone i caratteri così simili eppure così diversi, si arriva ai livornesi e ad una stupenda descrizione del quartiere della Venezia e delle semplici abitudini di chi ne abita le suggestive case. Sembra di sentire lo sciabordio dell’acqua, lo sbattere delle persiane, le risate delle donne, il chiamare da finestra a finestra. E’ un mondo che sta sparendo, così come si sta corrompendo anche il carattere dei toscani che Malaparte descrive con tanto affetto. Oggi siamo appiattiti, risucchiati dalla fretta e dallo stress, impoveriti dal punto di vista culturale e relazionale: non è un problema solo dei toscani, ma forse la lettura di un libro come questo potrà farci riflettere su quello che stiamo perdendo.

Quando ho conosciuto quello che poi è diventato il mio ragazzo, è stata una dura impresa riuscire a capirlo. Lui non è straniero, anzi, parla benissimo l’italiano, però diciamo che ha dei piccoli difetti all’apparato morfo-fonatorio. La prima sera che siamo usciti insieme ho capito circa la metà delle cose che mi ha detto e vi giuro che, seduta sul gradino davanti alla biblioteca, il primo a cui ho pensato è stato lui, il più grande: Dante. Ma non aveva passato in rassegna i dialetti per unificarci sotto un unico idioma, l’italiano? Perché qui, invece, parliamo la stessa lingua e comunque non ci capiamo? Con i giorni che passavano ho cominciato a capire qual era il problema…le sue C erano mute! Per un orecchio abituato alla durezza delle consonanti del sud come il mio, l’assenza di una sola di queste ha scatenato il panico. Dunque, prima cosa da fare: aggiungere una C ad ogni consonante aspirata “la hasa, la hamiSCia, le Hose, l’ahascia…”. Ma non era così semplice, non molto più tardi è arrivato il momento in cui ho capito che anche le T e le D erano aspirate: “hapitho”, “compratho”, “basciatho”. Le cose si complicavano, dunque…aggiungere le C, eliminare l’aspirato. Cominciavo ad abituarmi, sì, tutto diventava più chiaro. Un giorno gli telefono per chiedergli cosa sta facendo e lui mi risponde: “do i’cencio”. Dall’altra parte ero impietrita…[cos'è che starà facendo veramente? Glielo richiedo? No, no.] Poi lui continua e dice che c’è un gran ‘bailame’ in casa. Continuo a non capire, parlo cinque lingue, ma la sua no, è incredibile. [Amore, ma che hai detto?] “Un tu sarai miha sorda?” [No, non sono sorda.] Siamo a casa e a un certo punto mi dice che va a buttare il ‘sudicio‘. Ok, questa è facile, la so, è la spazzatura! Ci prepariamo per uscire e mi fa: “Sadidandà”? [Quest'è troppo, ma che stai dicendo?] E continua con altre varie perle: “l’è un trojajo”, “‘na sega”, “i’ popone”, “i’ canino”. Insomma, io sono lì e lo guardo. Per capirlo faccio appello alla mia intuizione, al Treccani, al dizionario toscano che abbiamo in casa, ma quando siamo a tavola con la mamma, il papà, la sorella e la nonna c’è un coro di consonanti aspirate, una moria di C, una ripetizione dei soggetti (tettù, voivvu) e tante, tantissime parole che io non capisco e forme verbali mai sentite. Tutta la mia conoscenza grammaticale evapora, sono sola contro cinque. Sorrido, sì, sorrido. “Unnè miha forte i’nostro accento”, dicono. No, no, per carità! Un po’ di tempo ormai è passato, io comincio ad imparare e quando gli dico che è ora di cominciare a pronunciare le consonanti, lui difende il suo toscano-centrismo e se la prende con le mie vocali sostenendo che non ne pronuncio una giusta, da allora abbiamo fatto un patto: io pronuncio le consonanti e lui le vocali. Essere complementari è una strategia vincente…e non solo in linguistica!

IL GRANDUCATO RENZIANO.

L’importanza di essere toscani. Il Granducato rivive a Roma. L’ora del «giglio magico» dopo il clan degli avellinesi di De Mita, la Brigata Sassari di Cossiga fino al cerchio magico di Bossi, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Tito, ttu t’hai ritinto il tetto, ma tu ‘un te n’intendi tanto di tetti ritinti». Ad ascoltare Rossella Orlandi nel suo esordio da direttore dell’Agenzia delle Entrate, in certi momenti, pareva di risentire un celebre sketch di Raimondo Vianello. E via via che infilava «hassistihe» e «homplessità» perfino i distratti se ne sono infine accorti: «Ma sono tutti toscani!». Che Matteo Renzi si sia giorno dopo giorno circondato di collaboratori corregionali e in particolare fiorentini, a dispetto della diffidenza di un fiorentino come Dante Alighieri che bollò i concittadini come «quello ingrato popolo maligno», era chiaro da tempo. Ma la nomina della Orlandi, empolese di nascita e fiorentina di adozione, ha messo il sigillo. Dopo il «Clan degli avellinesi» («Gli irpini rappresentano il 70 per cento dell’intelligenza politica nazionale», ammiccava Ciriaco De Mita), dopo la «Corte Arcoriana» berlusconiana, dopo la «Brigata Sassari» cossighiana e dopo il «Cerchio Magico» leghista con baricentro varesotto, è il momento del «Giglio Magico» renziano. Certo, essendo lui di Rignano sull’Arno e dunque del contado esente da una certa «puzzetta sotto il naso» (tesi non nostra ma dei toscani nemici della capitale) dei fiorentini doc, il giovane premier va oltre la ristretta cerchia dei concittadini. E se Enrico Mattei assunse nella Società Nazionale Metanodotti tanti compaesani che Snam arrivò a significare «Siamo Nati A Matelica», va riconosciuto che il segretario democratico pare avere al contrario rottamato una serie di rivalità che da tempo immemorabile dividono i toscani. Oggi, di queste rivalità, restano solo certi titoli irridenti del Vernacoliere di Livorno come quello a ridosso della tragedia di Chernobyl: «Nuvola atomi’a. Primi spaventosi effetti delle radiazioni. È nato un pisano furbo! Stupore nel mondo, sgomento ‘n Toscana». O gli annunci di Tele Toscana Nord, che «per farla finita con le ipocrisie», si è spinta a mandare in onda le previsioni del tempo nei due dialetti separati di Massa e di Carrara. O gli scambi di contumelie tra i tifosi, pochi anni fa, dopo la decisione del governo di salvare la Fiorentina, evitandole per «la storia calcistica e il bacino dei tifosi» l’umiliazione di ricominciare dall’ultima delle serie inferiori, a scapito del Pisa. Perfino i livornesi, allora, fecero provvisoriamente pace coi pisani contro i fiorentini «mangiafagioli, leccapiatti e ramaioli». E sui siti web si lessero cose come queste: «Siete il vomito del vomito, peggio dei gobbi!!!! Pisa vi gotta sur groppone». «Ah ah ah... Le zecchette del contado ragliano. Muti, inferiori: passa Firenze! Noi siamo i vostri padroni, voi solo umili servetti». Dietro queste scaramucce, c’erano le scie di una storia tragica. Di guerre fratricide. Basti ricordare la battaglia di Campaldino che vide il massacro degli aretini col risultato che a Firenze, ricorda la Nuova Cronica del Villani «si fece grande festa e allegrezza». O ancora la battaglia di Montaperti ricordata nella Divina Commedia («lo strazio e ‘l grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso») e passata alla storia per la sanguinosissima sconfitta dei fiorentini contro i senesi. «Invano invocavano essi san Zanobi in loro aiuto», lasciò scritto un anonimo cronachista di Siena, ferocemente fiero della strage di fiorentini, «noi li macellammo come un beccaio macella le bestie nel venerdì Santo». Spiegò un giorno il pratese Curzio Malaparte (autore del libro Maledetti toscani ) a Enzo Biagi: «Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l’esser toscano». Soprattutto nei rapporti storici di amicizia o di odio dei vicini di casa: «Quando son nemici lo sono per l’eternità». Tanto che a Siena, nei derby calcistici, campeggiava uno striscione: «A Montaperti c’eravamo anche noi». Il Rottamatore, dicono gli amici, è andato oltre. Ed ecco che come spalla sul tema che più gli preme, le riforme, ha scelto l’aretina di Montevarchi (fiorentinizzata) Maria Elena Boschi. E in Europa, al posto del forzista Antonio Tajani, ha nominato il pisano Ferdinando Nelli Feroci. E nel cda di Enel ha messo l’avvocato pistoiese Alberto Bianchi, già presidente di Firenze Fiera dal 2002 al 2006 e uomo di fiducia della «cassaforte» renziana per la raccolta di fondi e l’organizzazione di eventi. E a Finmeccanica ha piazzato il senese Fabrizio Landi. E via così. Per non dire della scelta come capo dell’ufficio legislativo a Palazzo Chigi di Antonella Manzione (un’avellinese che «ha lavato i panni in Arno» comandando i vigili urbani nell’era renziana) e come sottosegretario all’Interno di suo fratello, Domenico Manzione, per anni sostituto procuratore a Lucca. Fatto sta, dicono i nemici di Matteo Renzi, che se anche allarga il campo visivo, «lo sguardo gli cade comunque quasi sempre su un toscano. Ferma restando la “prima scelta” per i fiorentini». Quelli che all’ombra di Palazzo Vecchio sono nati o sono cresciuti o almeno si sono affermati. Ed effettivamente è una lista che, compilata un mesetto fa da Marco Palombi e Carlo Tecce sull’ostile Fatto quotidiano sotto il titolo «Granducato renziano», si allunga ogni giorno di più. E c’è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Luca Lotti, da Montelupo Fiorentino, empolese all’anagrafe, che giorno dopo giorno pare lanciato come uno dei più stretti collaboratori del premier. E c’è Francesco Bonifazi, il tesoriere del Pd. E c’è Simona Bonafè, varesina di nascita ma ormai fiorentina dopo aver fatto anche l’assessore a Scandicci, scelta come una delle cinque capolista alle Europee. E c’è Lapo Pistelli che dopo essere stato spintonato via da Renzi quand’era il candidato a sindaco di Firenze è stato risarcito con la nomina a viceministro agli Esteri in attesa, chissà, se Federica Mogherini dovesse entrare nella Commissione Ue, di salire di un altro gradino. E c’è, appunto, la nuova direttrice dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi di cui già abbiamo detto. Ed è in arrivo Giuliano da Empoli, che porta la sua toscanità come una stimmate anche nel cognome. E tanti e tanti altri ancora... Val la pena di ricordarli? Basti dire che perfino il nuovo fotografo personale del premier, Tiberio Barchielli, fino a ieri direttore di un sito internet dal titolo, come scrive Filippo Ceccarelli, «non troppo rassicurante» («Gossip blitz») viene da Rignano sull’Arno. Dove Renzi è nato e cresciuto. Come mai? Forse perché, come spiegò il poeta Mario Luzi a Enzo Biagi, «i toscani sono quelli che presumono di avere il quadro del presente senza ombre, senza illusioni»? C’è solo da sperare che avesse torto un altro toscano, Indro Montanelli, feroce con i suoi compaesani come solo un compaesano poteva essere: «Quando fanno un piano astratto i toscani sembrano dei demoni, ma nella realtà perdono, come dei poveretti. Scrivono Il Principe per vincere un concorso da segretario comunale e sono bocciati». Tocchiamo ferro. Se avesse ragione lui, saremmo nei guai davvero...

Governo, Renzi e il record di poltrone: 2,5 al giorno, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Non c’è nulla da fare: Matteo Renzi ha davvero una marcia in più degli altri. Il suo predecessore, Enrico Letta, era noto per essere flemmatico e dal passo lento su tutto o quasi. Era un fulmine, e lo rivelò proprio Libero, nell’occupazione delle poltrone pubbliche. Il suo governo fece 558 nomine e promozioni in 292 giorni, con una media di 1,91 poltrone occupate al giorno che ottenne il record nella storia della seconda Repubblica. Ma quel record non c’è già più. È stato battuto, quasi polverizzato da Renzi, la cui specialità principale evidentemente è proprio quella del salto sulla poltrona pubblica. In 130 giorni passati dal primo consiglio dei ministri del 22 febbraio scorsi il nuovo esecutivo ha varato la bellezza di 323 nomine o promozioni, cifra che porta la media giornaliera a 2,48 occupazioni di poltrona al giorno. Di queste circa un terzo sono state approvate direttamente dal consiglio dei ministri, le altre sono frutto di singole decisioni prese dai vari ministeri o dalla stessa presidenza del Consiglio dei ministri, che non è stata affatto con le mani in mano cercando di piazzare più uomini che poteva e rinnovando gran parte degli incarichi dirigenziali interni. Le nomine e promozioni fatte non solo sono molto più numerose, ma hanno anche un peso specifico decisamente superiore alle scelte fatte dal governo precedente. Ha ovviamente inciso su questo aspetto la scadenza dei consigli di amministrazione e dei collegi sindacali delle principali società di Stato di cui è azionista il ministero dell’Economia. Il peso specifico della corsa renziana alla occupazione delle poltrone è naturalmente dato dal rinnovo completo dei vertici di Enel, Eni, Poste, Finmeccanica e Terna oltre dal rinnovo parziale di altre società pubbliche (come le Ferrovie dello Stato, conseguenza della nomina di Mauro Moretti a Finmeccanica). L’operazione occupazione poltrone di Renzi ha anche un costo medio giornaliero assai superiore a quello di Letta, perché se è vero che sono stati diminuiti gli stipendi dei nuovi manager fatti insediare, questo risparmio avrà effetto solo dopo anni, perché sono state liquidate buonuscite milionarie a chi era costretto a lasciare la poltrona dopo molti anni. Nel nominificio di Renzi e dei suoi ministri c’è però davvero di tutto. E in ogni filotto di poltrone scelte le rare novità vanno sempre a braccetto con le scelte più tradizionali dell’occupazione politica, riciclando ex parlamentari trombati e vecchie glorie della partitocrazia. È accaduto nei cda delle società di Stato, è capitato anche con uno dei fiori all’occhiello del premier: la nomina della nuova Autorità nazionale anticorruzione. Alla guida è stato insediato un magistrato con superpoteri (anche in seguito agli scandali Mose ed Expo 2015) come Raffaele Cantone, ma nel board è spuntato anche un vecchio parlamentare dc poi passato attraverso il Ppi e la Margherita (insieme allo stesso Renzi) come Francesco Merloni, fratello di Vittorio, noto imprenditore che guidò Confindustria. Filosofia simile a quella che ha fatto transitare nei cda delle grandi società di Stato vecchie conoscenze della politica come Marta Dassù e Roberto Rao (e anche Luisa Todini a dire il vero è ex parlamentare, pur avendo fatto altro nella vita). Nella grande occupazione del potere si sono conquistate poltrone di ogni tipo: da quella della Agenzia delle Entrate con Rossella Orlandi (e sono stati nominati dal nuovo governo anche tutti gli altri direttori delle agenzie che dipendono dall’Economia), a quella di vicecomandante dell’Arma dei Carabinieri su cui il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha insediato il generale di corpo di Armata Ugo Zottin. Il governo ha commissariato l’Enit insediandovi Cristiano Radaelli, ha aggiunto una poltrona rosa alla Consob per Anna Genovese, ha nominato presidente dell’Istat Giorgio Alleva, ha sostituito all’Ilva Enrico Bondi con Piero Gnudi, ex ministro, ex presidente dell’Enel e per anni commercialista di fiducia sia di Romano Prodi che dell’attuale ministro dello sviluppo economico, Federica Guidi. All’Ismea è stato insediato il nuovo presidente Ezio Castiglione, alla presidenza dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana è stato invece nominato il professore Franco Gallo, fiscalista assai amico di Giuliano Amato e di Vincenzo Visco (fu anche ministro delle Finanze a cavallo fra le due Repubbliche), mentre il ministero dei Beni culturali ha nominato Ludovico Ortona (fedelissimo del compianto ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga) amministratore unico della Società per lo sviluppo dell’arte, della cultura e dello spettacolo-Arcus spa. Alla guida dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione (Invalsi) è stata nominata la professoressa Anna Maria Ajello. Raffica di promozioni e nomine per i dirigenti interni dei ministeri, e in questo caso non c’è stato ministro che si sia tirato indietro. Il più attivo però è stato proprio Renzi a palazzo Chigi anche grazie alla moltiplicazione delle varie strutture di missione, fatta rinfrescando uno strumento in grado di bypassare leggi e regolamenti ordinari che però era stato accantonato per motivi etici dopo i vari scandali emersi intorno alla protezione civile (quelli della cricca degli appalti pubblici). Fresche fresche sono state sfornate due nuove strutture di missione della presidenza del Consiglio proprio a luglio, con tanto di capi e organici nuovi di zecca: una dovrà tenere sotto controllo le ristrutturazioni delle scuole, l’altra le emergenze idrogeologiche del territorio italiano. Insieme alle grandi nomine sono piovute promozioni di militari, spostamenti di prefetti, insediamenti di dirigenti ministeriali e anche l’occupazione di poltroncine di secondo piano, che i ministri per legge debbono comunicare alle Camere. Poltroncine occupate all’Istituto nazionale di astrofisica (in cda il professor Andrea Ferrara) o all’Istituto nazionale di ricerca metrologica-Inrim (in cda il professor Livio Battezzati), o all’Ente parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni dove è stato spedito il commissario straordinario Amilcare Troiano. Nella stessa serie la nomina di Franco Ferlizzese a presidente del comitato di gestione della Cassa conguaglio gas di petrolio liquefatto, e a componenti dello stesso comitato di Donatella Castrini, Valentina di Bona, Stefano Bisogno e Lino Pietrobono. Qui si liquefa il gas, ma le poltrone resistono bene...

Renzi conclude le nomine per Palazzo Chigi, ma sono tutti fiorentini, scrive “Libero Quotidiano”. Tutti a palazzo Chigi. Matteo Renzi completa la sua squadra e apre le porte dei posti chiave del governo ai suoi fedelissimi. Dopo aver nominato i ministri a febbraio, scelto i sottosegretari a marzo, in questi giorni Matteo Renzi sta per chiudere la sua squadra di Palazzo Chigi con la nomina dei componenti del suo staff della capitale. Anche se di romani questi hanno poco. Infatti, come riporta La Repubblica, la squadra del premier sarà composta in gran parte dal suo giro fiorentino. Chiamato anche il "giglio magico". La lista dei vertici - Le posizioni sono tutte di vertice, come quella del capo della Segreteria, quella di capo dell'ufficio legislativo del governo, responsabile del cerimoniale e tante altre, anche a livello europeo. A Giovanni Palumbo, già capo di gabinetto con Renzi alla guida della Provincia di Firenze, spetterà quella di capo segreteria. Anche per Erasmo de Angelis, ex sottosegretario del governo Letta e vicino al premier, si prospetta un'altra poltrona lussuosa a Roma. Altro probabile, in arrivo da Firenze, è Franco Bellacci, autentico factotum del Renzi sindaco di Firenze. Invece, l'ex capo dei vigili urbani di Firenze, Antonella Manzione, è già operativa a capo dell'ufficio legislativo del governo e la sua nomina fortemente voluta dal premier ha creato diversi scontri nella maggioranza e col Colle. Le altre posizioni - Ma la lista dei prescelti non finisce qua. Come riporta oltre al consigliere diplomatico Armando Varricchio, il premier si affida al responsabile del cerimonale Ilva Saponara. Colei che stabilisce la tabella di marcia del premier per gli incontri istituzionali. Accanto al "segretario generale Mauro Bonaretti cresce l'influenza del suo vice, Raffaele Tiscar". Poi c'è spazio anche per alcune nomine per curare la comunicazione. Un settore a cui Renzi 2.0 ci tiene molto. In questo campo domina Sensi, uomo ombra del Presidente. Collabora con lui Luca Di Bonaventura, che gestisce il rapporto con i media per Luca Lotti". Ma un'ulteriore nomina è in arrivo con l'ingresso di un giornalista pescato dall'ufficio stampa del Pd. Poi c'è spazio anche per una nomina per Strasburgo, di cui l'Italia, dal 1 luglio, ha la Presidenza semestrale. Ecco, quindi, che affianco al sottosegretario Sandro Gozi c'è il portavoce del semestre Federico Garimberti. Infine, pronto a immortalare il premier in ogni momento, ci pensa il suo fotografo personale, Tiberio Barchielli.

La mappa del potere di Matteo Renzi: guarda tutte le poltrone finite ai toscani, scrive “Libero Quotidiano”. I casi più eclatanti sono quelli di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme, Luca Lotti sottosegretario a Palazzo Chigi e Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd. Ma sono almeno una trentina le poltrone che Matteo Renzi ha distribuito ai suoi amici toscani. Per merito, certo. Ma non può non balzare all'occhio come nel governo, nel partito, nelle società pubbliche i posti che contano siano stati occupati da gente che parla toscano. Un'evidenza che ha portato il Fatto a titolare un lungo articolo così: "Nomine, il granducato renziano". "Ormai per essere nominati a qualcosa il requisito base è essere toscani", dice una fonte che vuole restare anonima a Carlo Tecce e a Marco Palombi. Una battuta? Per nulla. Renzi si è perfino portato a Palazzo Chigi il paparazzo personale: Tiberio Barchielli, storico fotografo di Rignano sull'Arno (il paese del premier), è passato in poche settimane dalle belle ragazze in bikini del sito che dirige (Gossip Blitz) a Palazzo Chigi: è lui l'autore degli scatti ufficiali di Renzi con i leader del mondo Obama, Hollande, Cameron. Nel granducato renziano hanno un posto di rilievo Simona Bonafè, varesina di nascita ma politicamente toscanissima. Assessore a Scandicci, con la Boschi è stata tra le coordinatrici della campagna di Renzi per le primarie democratiche 2012, è diventata l'ombra di Matteo e dopo essere stata capolista è volata in Europa.  Tra le donne del premier c'è anche Antonella Manzione: già dirigente della polizia municipale a Firenze e direttore generale del Comune, è diventata capo del dipartimento Affari giuridici legislativi di Palazzo Chigi; il fratello Domenico Manzione è viceministro dell'Interno. Nella squadra di sottosegretari c'è Antonello Giacomelli da Prato; Roberto Nencini di Mugello; Cosimo Ferri, pontremolese, Gabriele Toccafondi di Firenze, Silvia Velo) e Lapo Pistelli che fu mento del giovanissimo Renzi: ora è viceministro agli Esteri in attesa di promozione quando Federica Mogherini si accomoderà in Commissione Ue. Tra i capi-dipartimento e affini sta per entrare (manca solo la firma) Giuliano da Empoli, presidente del prestigioso Gabinetto Viesseux di Firenze, ex assessore alla Cultura e prossimo consigliere politico del presidente del Consiglio; Erasmo D'Angelis capo struttura di commissione contro il dissesto idrogeologico per lo sviluppo delle infrastrutture idriche. Non potevano mancare nomine toscane nei consigli d'amministrazione delle grandi partecipate statali: Rossella Orlandi, empolese, si è beccata l'Agenzia delle Entrate, Alberto Bianchi sta all'Enel, Fabrizio Landi a Finmeccanica, Elisabetta Fabri alle Poste, Marco Seracini all'Eni. All'Eni è arrivata anche Diva Moriana, aretina trapiantata a Firenze vicepresidente di Intek la società di Vincenzo Manes finanziatore di Renzi. In Ferrovie c'è Gioia Ghezzi che ha in passato ha aiutato Renzi a Firenze a scrivere un progetto di legge sull'omicidio stradale. E pure Federico Lovadina, 32 anni, tributarista fiorentino dello studio legale Boschi-Bonifazi-Lovadina. Nel 2001 Renzi lo aveva nominato nel Cda di Mercafir, il mercato ortofrutticolo. Ora sta nel Cda delle Ferrovie. Toscano è anche Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore in pensione: è il commissario italiano in Europa al posto di Antonio Tajani. Nell'ombra, ma non troppo, il gran visir degli affari renziani: Marco Carrai, l'uomo più potente di Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere in Toscana, gran cerimoniere della diplomazia renziana tra politica e alta finanza. Se ai renziani stretti al governo aggiungiamo i toscani in via di conversione, la pattuglia si fa battaglione: Pistelli, mentore del giovanissimo Renzi e poi sua vittima sacrificale alle primarie per il sindaco di Firenze, è viceministro agli Esteri in attesa di promozione quando Mogherini si accomoderà nella Commissione Ue...

"Ormai per essere nominati a qualcosa il requisito base è essere toscani”, scrivono Marco Palombi e Carlo Tecce su "Il Fatto Quotidiano". La battuta - anonima, perché nessuno oggi vuole sfidare il re e la sua corazza del 40,8% - che circola nei palazzi della politica ha del vero. In ogni tornata di nomine, in tutti i posti che contano, in ogni crocicchio decisivo del potere c’è un profluvio di toscani in purezza o naturalizzati: governo, partito, società pubbliche. Persino la cittadinanza ormai si ottiene per speciali meriti di geografia renziana: quella concessa a Joseph Weiler, giurista statunitense e presidente dell’Istituto europeo di Fiesole, per dire, è stato il primo argomento della conferenza stampa di Matteo Renzi lunedì scorso, subito dopo le condoglianze per la morte di decine di immigrati nel canale di Sicilia. Quella che segue è una breve panoramica di come Roma s’avvia a diventare il Granducato di Toscana. I casi più eclatanti sono, ovviamente, quelli di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme e unico volto pubblico del governo (escluso Renzi), e Luca Lotti, sottosegretario a Palazzo Chigi e plenipotenziario per il sottobosco della Capitale e non solo. Ai due va aggiunto un altro renzianissimo dal compito delicato quanto fondamentale: il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi (mentre un’altra componente del cosiddetto “giglio magico”, Simona Bonafè, s’è dovuta accontentare del ruolo di capolista nella circoscrizione Centro alle Europee). Ma non sono certo gli unici: Erasmo D’Angelis, già consigliere regionale in Toscana e ai vertici di Publiacqua, dopo essere stato sottosegretario (ai Trasporti) con Enrico Letta in quota Renzi, oggi fa “il capo struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche” a Palazzo Chigi e il capo segreteria del premier (ma la nomina, come molte altre, è in attesa di firma). A capo dell’ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio c’è poi Antonella Manzione, ex capo dei vigili a Firenze durante l’era Renzi (il fratello, Domenico Manzione, invece, è viceministro dell’Interno). Sempre a Palazzo Chigi lavorano il fotografo Tiberio Barchielli, da Rignano sull’Arno, il paese del piccolo Matteo, e – informalmente, in attesa del decreto di nomina – due consiglieri che erano già vicini al Renzi sindaco di Firenze: Giuliano da Empoli, che è pure presidente del fiorentinissimo Gabinetto Viesseux, e l’ex McKinsey Yoram Gutgeld, che vive da mesi in agonia speranzosa della nomina ufficiale a capo della cabina di regia economica del governo. Pure all’Agenzia delle Entrate, nonostante le resistenze dell’ex regnante Attilio Befera, è arrivata una toscana: Rossella Orlandi, empolese che ha lavorato a lungo a Firenze. Se ai renziani stretti al governo aggiungiamo i toscani in via di conversione, la pattuglia si fa battaglione: Lapo Pistelli, che fu mentore del giovanissimo Renzi e poi sua vittima sacrificale alle primarie per il sindaco di Firenze, è viceministro agli Esteri in attesa di promozione quando Federica Mogherini si accomoderà nella Commissione Ue. Viceministri sono il franceschiniano Antonello Giacomelli da Prato (che ha in mano la delicata partita della Rai) e il socialista Riccardo Nencini da Barberino di Mugello. Sottosegretari sono invece il magistrato Cosimo Ferri, pontremolese che nel curriculum vanta anche l’amicizia di Denis Verdini, il fiorentino Gabriele Toccafondi, alfaniano che invece col ras berlusconiano non parla quasi più, e Silvia Velo, già bersaniana, a cui è stata concessa una poltrona all’Ambiente. I vecchi boiardi liquidati, quattro donne presidenti, tanti amici nei Cda. Renzi ha affrontato così la tornata di nomine per le società partecipate dallo Stato. Quando il premier ha pubblicato la dichiarazione dei redditi, un paio di mesi fa, in calce c’era il none di Marco Seracini, commercialista di mestiere e ora nel collegio sindacale di Eni. Seracini ha scoperto l’indole renziana prestissimo: l’associazione Noi Link, prototipo di Fondazione Open (o Big Bang), utilizzata per la campagna elettorale da sindaco, fu proprio un’intuizione di Seracini. Appena eletto, Renzi l’ha spedito al vertici di Montedomini, un’azienda pubblica fiorentina di servizi alla persona. Oltre al commercialista, c’è l’avvocato civilista: è il pistoiese Alberto Bianchi, studio a Firenze, amico di Lapo Pistelli, liquidatore di Efim, il fondo per il finanziamento per l’industria meccanica, roba da Prima Repubblica. Per una parcella di Efim a un gruppo di avvocati, la Corte dei Conti ha condannato Bianchi per danno erariale: 4,7 milioni di euro. Ci sarà l’appello e l’avvocato piestoiese è convinto di poter ribaltare la sentenza. Nel frattempo, Renzi l’ha indicato nel Cda di Enel. Il legame fra il premier e Bianchi è strettissimo: assieme a Maria Elena Boschi, Marco Carrai e Luca Lotti, il pistoiese gestisce la Fondazione Open, la cassaforte renziana. Il fratello Francesco Bianchi è commissario straordinario del Maggio Fiorentino da febbraio 2013, il ministro era Lorenzo Ornaghi. Dunque: il commercialista, l’avvocato e il finanziatore. Fabrizio Landi di Siena, consigliere d’amministrazione di Fin-meccanica, contribuì alla raccolta fondi di Renzi con 10.000 euro. Landi proviene da Esaota, una grossa aziende specializzata in apparecchi biomedicali. L’attuale sindaco Dario Nardella ha presentato Landi a Renzi. Il primo giro di aziende pubbliche, s’è chiuso con altri due colpi renziani. L’imprenditrice Elisabetta Fabri, fiorentina, rampolla di una famiglia di albergatori (Starthotels), è andata in Poste Italiane. E Diva Moriani, aretina trapiantata a Firenze, vicepresidente di In-tek, la società di Vincenzo Manes finanziatore di Renzi, ha trovato spazio in Eni. Il presidente del Consiglio ha promosso un intero studio legale. Gli avvocati erano tre, due sono molto noti: la ministro Boschi e il tesoriere del Pd Bonifazi. Il terzo, meno conosciuto, è Federico Lovadina, tributarista, fiorentino. A 32 anni, nel 2011, il sindaco l’ha nominato nel Cda di Mercafir, il mercato ortofrutticolo, adesso il gran salto: Cda di Ferrovie dello Stato. In Fs, c’è anche Gioia Ghezzi, undici anni in McKinsey & C, che in passato ha aiutato Renzi a Firenze per scrivere un progetto di legge sull’omicidio stradale. L’ultima scelta è caduta su Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore in pensione, ex capo di gabinetto di Massimo D’Alema alla Farnesina: è il commissario italiano in Europa al posto di Antonio Tajani, ora europarlamentare di Forza Italia. È di Pisa. Il toscanismo sostituisce il berlusconismo.

Ed a Firenze il suo sostituto……..

Firenze, truffa nel calcio storico: "Il sindaco Nardella ci deve spiegare", scrive “Libero Quotidiano”. Truffa aggravata nei confronti del Comune di Firenze. La denuncia contro il sindaco renziano Dario Nardella porta la firma di Francesco Torselli. Il Consigliere comunale di Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale l'ha distribuita durante una conferenza stampa organizzata a Palazzo Vecchio per rendere pubblico quanto ha scoperto ovvero "una gara d’appalto vinta con un’offerta che prevedeva prestazione di manodopera ad un costo inferiore rispetto a quanto previsto dal CCNL e senza alcun costo aggiuntivo previsto per la sicurezza dei lavoratori. Il calcio storico sospeso con la relativa perdita da parte del comune di Firenze dell’incasso della finale. Un servizio effettuato con meno uomini di quanti ne fossero stati previsti dal disciplinare di gara e dalle autorità di pubblica sicurezza. Una fattura inspiegabilmente maggiorata rispetto al servizio prestato". "Insomma", tuona Torselli, "una serie di anomalie che configurano le ipotesi di una truffa aggravata ai danni del comune di Firenze, ai sensi dell’Art. 640 del Codice Penale". “Abbiamo tutti gli elementi – ha spiegato il consigliere – per dubitare della legittimità della gara, svoltasi con il sistema Si.Ge.Me. (mercato elettronico), con la quale è stato assegnato il servizio di controllo accessi in occasione del torneo 2014 di calcio storico fiorentino, nonché sulle modalità con le quali questo servizio sia stato svolto. Non capiamo i motivi per i quali il comune di Firenze abbia dichiarato valida un’offerta che prevedeva una prestazione di manodopera ad un prezzo di 12,03 Euro/ora, quando il CCNL, 6° livello settore sport, prevede un minimo di 12,20 Euro/ora, senza peraltro che l’offerta contenesse nemmeno un Euro destinato ai costi per la sicurezza dei lavoratori, obbligatori secondo la normativa vigente, così come ribadito nel pronunciamento n. 4849/2010 della V sezione del Consiglio di Stato”. E ancora: “Ci lasciano decisamente perplessi – ha proseguito Torselli – come ad esempio i nominativi dei lavoratori effettivamente impiegati, che risultano differenti (di 31 nominativi su 70 per la giornata del 14/06 e di 24 nominativi su 70 per la giornata del 15/06) rispetto a quelli che l’azienda aggiudicataria del servizio avrebbe dovuto obbligatoriamente presentare contestualmente all’offerta. C’è poi la questione delle presenze effettive: gli addetti al controllo accessi sarebbero dovuti essere 70 per la giornata del 14 giugno e 70 per la giornata del 15, ma secondo noi, in entrambe le giornate, gli addetti presenti sul posto di lavoro (che il comune non ha verificato) erano decisamente di meno”. “Da queste ultime considerazioni – ha continuato Torselli – si delinea il reato di truffa aggravata: la ditta aggiudicataria del servizio ha emesso una fattura al comune di Firenze (la n. 194 del 1/07/2014) di 11.266 Euro che, stando a quanto offerto, equivale a 72 servizi prestati per la giornata del 14 giugno ed altrettanti per la giornata del 15. Quindi, anche se fossero state rispettate le disposizioni di pubblica sicurezza (70 addetti per il 14/06 e 70 addetti per il 15/06) vi sarebbe un eccesso di 319,00 Euro tra quanto il comune dovrebbe pagare e quanto invece richiesto dalla ditta aggiudicataria del servizio. E siccome siamo certi che i servizi prestati non sono stati 70, né per la giornata del 14 giugno, né per la giornata del 15, evidentemente la truffa assume dimensioni anche maggiori. E stiamo ovviamente parlando di denaro pubblico”. Tutte queste considerazioni sono state poste in una interrogazione a Nardella nella seduta del consiglio comunale del 7 luglio scorso, alla quale ha risposto la vicesindaco Giachi, smentendole una per una e ribadendo l’assoluta regolarità, sia della gara che dello svolgimento del servizio. Ma Torselli ha voluto andare a fondo alla questione presentando un esposto al Questore. "La Polizia Amministrativa della Questura di Firenze", spiega il consigliere, "mi ha informato di aver concluso le proprie indagini e di aver ritenuto veritiere tutte le mie considerazioni, inviando il tutto alla Procura della Repubblica per procedere con l’accertamento della truffa aggravata ai danni del comune".

TOSCANA SEPARATISTA.

Toscana, gli indipendentisti che vogliono dire addio all’Italia (e votano M5S) Il portavoce: "Tra un paio d'anni ci presentiamo alle regionali". Il loro obiettivo è "una regione repubblicana, europeista, pacifista, laica e indipendente". Tra i fondatori ci sono ex leghisti e uomini di sinistra. Ma alle Europee votano Cinque Stelle, con cui condividono "il rancore nei confronti dello Stato italiano", scrive Ilaria Lonigro su “Il Fatto Quotidiano”. “La Toscana sia una Repubblica riconosciuta dalla comunità internazionale”. I nuovi indipendentisti toscani, da Firenze alla costa, da Lido di Camaiore (Lucca) a Collesalvetti (Livorno), non si accontentano, come ha fatto il Veneto, di promuovere la richiesta di riconoscimento di Regione a Statuto speciale. Vogliono di più: dire ‘addio’ allo Stato italiano, in modo “pacifista” e “democratico”, come recita lo Statuto del loro movimento politico-culturale Toscana Stato, nato da pochissimo. Il 12 aprile, a Firenze, all’Hotel Lorena – un nome non casuale – è stato fondato il “primo movimento indipendentista toscano del dopoguerra”, rimarcano con fierezza i soci di Toscana Stato. L’esempio veneto li ha incoraggiati. “Dopo il referendum in Veneto che ha dimostrato la chiara volontà dei veneti di distaccarsi dall’ormai fallimentare Stato italiano, un manipolo di toscani coraggiosi, ed orgogliosi, iniziano il loro percorso verso l’indipendenza”, hanno annunciato sul loro sito. “Siamo appena nati e raccogliamo alcune decina di persone, ma contiamo di intercettare la volontà di migliaia di toscani”, sostiene il portavoce, il livornese Emiliano Baggiani, 33 anni, informatico libero professionista. “Ci siamo dati una scadenza di un paio di anni per presentarci alle elezioni regionali. La Scozia farà il referendum per l’indipendenza, si spera riuscirà a farlo anche la Catalogna: c’è fermento. Noi siamo per l’Europa dei popoli”. Un ritorno al Granducato con carro armato in piazza della Signoria a Firenze? Niente di tutto ciò: il movimento vuole una Toscana repubblicana, europeista, pacifista, laica e indipendente. Con quale forma di governo, saranno i cittadini a deciderlo. “L’indipendenza non esclude che la Toscana possa divenire una repubblica sovietica socialista, che ne so? Non lo escludo! Io sono per la democrazia diretta, quindi starà ai toscani decidere dove andare”, dice a ilfattoquotidiano.it Romano Redini, 81 anni, medico odontoiatra, tra i fondatori del movimento. Provocatore, si definisce “anti italiano da sempre” e snocciola citazioni di Carducci, Ferrucci e Viesseux mentre parla di identità toscana. Delusi dalla Lega e uomini di sinistra. Ma votano M5S - In Toscana Stato ci sono uomini di sinistra, come lo scrittore e studioso Sergio Salvi, 82 anni, e molti ex leghisti. Redini, come Baggiani e Alessandro Tarducci, 37 anni, anche lui tra i fondatori, militava tra le fila della Lega Nord. “Ero segretario provinciale a Lucca, son dovuto venire via perché la Lega andava con Berlusconi, prima nel ’94, poi nel 2000”, racconta sorseggiando un ponce alla livornese. “Mi hanno espulso tre mesi dopo che ho dato le dimissioni”, spiega Redini, che ha abbandonato il nome di “Romano” e si fa chiamare “Toscano”. “La Lega era al suo interno, alla fine, un partito centralista. Si viene via da Roma per poi essere schiavi di Milano? Non puoi venirmi a parlare di indipendenza quando prendi i soldi da Roma”, si sfoga ancora Baggiani, che è consigliere comunale a Collesalvetti, eletto con la Lega Nord della quale però non fa più parte. Per le Europee, però, i tre non hanno dubbi: voteranno M5S, con cui condividono lo sdegno per la corruzione degli apparati statali. “Noi col M5S ci ritroviamo in questo rancore nei confronti dello Stato italiano, che per noi è marcio fino al midollo. La politica non è mai stata debole come adesso e siamo sotto una vera e propria dittatura della burocrazia, che ha creato il debito pubblico, da cui è matematicamente impossibile tornare indietro, tanto è enorme. Ma noi, al contrario del M5S, portiamo avanti anche una questione identitaria”, precisa Baggiani. Che, come i lombardi e i veneti che pretendono l’indipendenza, tira in ballo la questione del residuo fiscale. “La Toscana è una di quelle realtà che hanno un residuo fiscale attivo, ossia c’è una differenza positiva tra le tasse che versano i toscani e quello che invece Roma investe nei servizi. Per sistemare l’Arno ci vorrebbero 7 miliardi di euro. Perché se piove come nel ’66 si va tutti sott’acqua. Basterebbe tenersi per un anno il residuo fiscale e sistemeremmo anche questo problema. E’ inutile che vendano le auto blu, è fumo negli occhi. Ci hanno presi per scemi? Renzi per la Toscana non ha combinato nulla”. L’ideologia culturale - Toscana Stato non mira solo all’indipendenza. La sua è anche una battaglia culturale. “Ci è stato fatto un vero e proprio lavaggio del cervello. Non si può dire che l’Italia è nata come un Paese unito: abbiamo delle culture di fondo concettualmente diverse da Nord a Sud. Siamo stati uniti con la forza”, dice Tarducci. “Proporrò – annuncia il portavoce Baggiani – che a Livorno venga tolta la via al generale Enrico Cialdini (1811-1892) che, durante la repressione dei briganti, sterminò migliaia di persone, peggio delle SS”. Salvi, scrittore e studioso delle nazionalità europee e delle culture e lingue minoritarie, ricorda poi che “la Toscana è stata Marca di Tuscia, poi Granducato” e ora “mi auguro che evolva in una repubblica popolare: io sono di sinistra, ho studiato l’autodeterminazione dei popoli, che è un concetto della II internazionale e Lenin vi ha scritto un libro. L’Italia non è una nazione, è un provvisorio coacervo di nazioni diverse. Il toscano, come lingua naturale, è molto diverso da altre lingue naturali di altre Regioni, basti vedere i pronomi. Abbiamo una lingua e una storia indipendente, non riesco a capire perché si debba essere soltanto una regione nella terminologia dello Stato italiano. La Toscana è una nazione”.

TOSCANA CAMPANILISTICA.

Pisa merda: storia e origine dei campanilismi toscani, scrive Deborah Macchiavelli. Ogni regione italiana ha le proprie rivalità, ma in quanto a campanilismi la Toscana non teme confronti. Ecco quelli più famosi che ancora non abbiamo smesso di praticare. Agosto 2011, direzione Salento. Fuori dal finestrino solo terra arsa con qualche impianto eolico sullo sfondo. Abbiamo già passato Bari, dunque ci troviamo ad almeno 600 km di distanza dalla Toscana. La macchina supera uno scalcinatissimo muro a secco in mezzo al nulla. L'epifania dura un attimo, ma è sufficiente per farmi intravedere una scritta a caratteri cubitali: Pisa merda. Una testimonianza concreta di un campanilismo senza confini, che ama la goliardia e sfida persino il caldo torrido della campagna pugliese. Scriveva Goethe nel suo celebre Viaggio in Italia: «Qui sono tutti in urto, l’uno contro l’altro, in modo che sorprende. Animati da un singolare spirito di campanile, non possono soffrirsi a vicenda». Sebbene si tratti di un vizio che corre lungo tutto lo Stivale, i campanilismi toscani restano i più famosi e radicati dell'intera Penisola. Ecco le province che, a distanza di secoli, continuano a soffrire di reciproca insofferenza. 

Pisa e Livorno. Più che un semplice campanilismo, un'espressione proverbiale. Perché, si sa, a Livorno dare del pisano è peggio che offendere la mamma. Un odio atavico e insanabile, ormai fonte d'ilarità per tutte le regioni, dalle origini lontane e spesso sconosciute ai più. Pisa infatti era ancora una repubblica marinara quando venne sconfitta dai genovesi alla Meloria nel 1284, il celebre scoglio della costa livornese. «T’avessi ’n culo ti caerei alla Meloria» s'inveisce ancora oggi ricordando la rovinosa débâcle. Complici la politica medicea e il processo d’interramento del bacino di Porto Pisano durante il '500, Livorno diverrà il porto principale della Toscana, oscurando per sempre la supremazia marittima di Pisa. Invece di riversare il proprio odio contro Genova, i Pisani preferirono le vicine Livorno e Firenze. Una corrisposta antipatia, che spesso finisce per diventare leggenda. 

Pisa e Lucca. «Meglio un morto ’n casa che un pisano all’uscio ». Secondo alcune fonti questo famoso detto ebbe origine proprio nella Lucca del Medioevo. All'epoca infatti la zona della lucchesia divenne uno dei principali obiettivi dei saccheggi da parte della Repubblica di Pisa, tanto che un morto divenne preferibile ad un guerriero Pisano sulla porta di casa. Di fronte a questa affermazione, i pisani sono soliti rispondere «che Dio ti accontenti!». In questa diatriba, l'altezzosa Firenze occupa poi una posizione particolare. Se da un lato Dante definì Pisa vituperio delle genti, al contempo i fiorentini sembrano particolarmente gradire le donne lucchesi. La ricetta della felicità? «Pane di Prato, vino di Pomino, potta lucchese e cinci fiorentino».

Firenze e Siena. Ancora oggi la bella Fiorenza non dimentica «lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso», sebbene il conflitto risalga al 1260. Fu allora infatti che  si consumò a Montaperti una delle battaglie decisive tra guelfi e ghibellini. Firenze, a capo della fazione guelfa, venne pesantemente sconfitta dai Senesi e i loro alleati, in uno scontro sanguinoso che dette inizio al dominio della fazione ghibellina sulla Toscana. L'acerrima rivalità sopravvive imperterrita, spesso traducendosi in aspri giudizi di valori: «Siena, di tre cose è piena: di torri, di campane e di figli di puttane». Come cani e gatti (o meglio, guelfi e ghibellini), anche a oltre 750 anni di distanza. 

Le eterne rivalità dei campanilismi. Secondo la legge del campanile, tutto ciò che è  straniero, fuori della cerchia del gruppo è nemico e bisogna diffidarne, ritenerlo al di sotto del proprio livello. E la Toscana è terra di campanili pwer eccellenza. Ecco qualche esempio, scrive Carlo Lapucci su “Toscana Oggi”. Una delle leggi più importanti della natura è la polarità: un sistema duale che si forma naturalmente e si ritrova nei pianeti, nelle forze, nelle formazioni sociali, nella psicologia come in molte altre realtà. Nella coppia umana generalmente a un padre severo si contrappone una mamma permissiva: se il padre è permissivo la mamma assume forme di severità e viceversa. La stessa cosa accade nelle formazioni sociali in cui i membri si strutturano praticamente in due grandi formazioni: patrizi e plebei, ottimati e popolani, guelfi e ghibellini, anarchici e codini, cattolici e protestanti, conservatori e progressisti e infinite altre polarità. Questa divisione quasi per dicotomia si ramifica in altre contrapposizioni meno forti, meno evidenti, ma determinanti e condizionanti, che si formano su ogni problema: interventisti e neutralisti, innocentisti e colpevolisti, pro e contro la pena di morte, l'ergastolo, la guerra. L'Italia ne ha a dovizia di queste divisioni, anzi pare che tutte le scuse siano buone per crearne sempre di nuove, spesso sostenendo tesi, teorie, fatti di cui si ha scarsa conoscenza. C'è una storia che nacque nei secoli in cui il mondo della letteratura era contrapposto tra sostenitori del primato dell'Ariosto e coloro che preferivano il Tasso. Due tifosi dell'uno e dell'altro si sfidarono a duello e quando il campione del Tasso fu trafitto, morendo confessò di non aver mai letto neppure un verso né dell'uno, né dell'altro. Si ricordano ancora i sostenitori di Bruneri e Cannella, di Coppi e Bartali, i contrasti tra città e campagna, si fanno ancora, in mancanza di meglio, partite a calcio tra scapoli e ammogliati. La Toscana calcisticamente è segnata dal contrasto Juve-Fiorentina. Soprattutto i territori vicini a Firenze abbondano di juventini detti con gentile eufemismo gobbi, e così nelle città tradizionalmente avverse al capoluogo della Toscana.

Le regole del gioco. Una regola inderogabile di questo gioco vuole che il toscano in genere e il fiorentino in particolare sia molto critico con se stesso, con la sua parte, la sua terra, la sua città o paese e, parlando comunemente, ne dice peste e corna con tutto il male possibile, trovando difetti e colpe anche dove non sono. Il suo interlocutore che viene di lontano si sente confortato a dargli ragione e comincia a sciorinare anche lui tutto quello che di peggio pensa sull'argomento, rincarando la dose, dicendone di cotte e di crude. Non sia mai: il toscano a questo punto s'inalbera, cambia registro e in un attimo da critico disgustato diviene un ammiratore sfegatato del suo paese che nessuno si deve permettere di vituperare o disprezzare: a farlo ci pensa da sé e gli altri se ne guardino bene: l'autoflagellazione è un piacere riservato agli abitanti e non consentito ad altri. Si spera di star parlando di cose passate o che stanno passando, anche se si riscontra ancora la loro esistenza certo meno grave e patologica che nel passato quanto arrivavano i guelfi e spianavano la città costruita dai ghibellini, tornavano i ghibellini e spianavano la città costruita dai guelfi. Persiste comunque sempre più superficialmente la tentazione della demonizzazione, ossia nell'individuare nella parte avversa l'elemento del tutto negativo, da estirpare, annientare come il male incarnato. D'altra parte tanti venti hanno soffiato sui fuochi delle discordie nazionali, tanti interessi esterni anche oggi spingono, fomentano le contrapposizioni con fini oscuri e meno oscuri: l'Italia è stata un teatro, meglio dire un ring, dove si sono scontrati decine e decine di popoli che hanno seguito la regola del divide et impera, tanto che nacque un proverbio molto diffuso nei dialetti italiani: Franza o Spagna, basta che se magna, che a me, più che qualunquismo pare segno di una stanchezza di tanti inutili schieramenti e lotte sterili. Anzi, monarchi, proconsoli, governatori stranieri, viceré, hanno forse acuito lo spirito del contrasto, mentre la componente religiosa, che spesso si è inserita nel gioco, ha favorito la demonizzazione dell'avversario, radicando talvolta le contrapposizioni.

Il campanilismo. Forse tutto questo ha acuito il fenomeno molto vivo in Italia del campanilismo, comportamento molto antico, nato forse con la stessa società, anzi fondamento delle prime formazioni tribali. La legge che lo governa è semplicissima ed è tanto forte da non aver bisogno d'essere scritta: tutto ciò che è esterno, straniero, fuori della cerchia del gruppo è nemico e bisogna starne lontano, diffidarne, ritenerlo al di sotto del proprio livello. Gli attriti e le diffidenze maggiori si determinano tra coloro che sono confinanti, elementi coi quali sono inevitabili le contese, i contrasti e con cui ci si deve misurare quotidianamente. La lontananza (diminuendo gli elementi di conflitto) migliora la qualità di coloro che non sono confinanti, fino a quando la distanza aumenta al punto tale che non accentua le diversità dei modi di vivere, di pensare, gli usi, i valori. Allora l'uomo molto lontano diventa incomprensibile e si carica di tutti i difetti che l'ignoranza e la poca frequentazione alimentano con la fantasia e le dicerie, tanto che gli antichi consideravano più o meno barbari i popoli lontani ai quali attribuivano arretratezza, ferocia, avidità. Questo schema è durato a lungo e ha lasciato le sue tracce. Basta poco per ricreare differenze e diffidenze: chi sta in alto non vede bene chi sta in basso e viceversa, chi sta sul mare non ama i terragnoli e un proverbio dei pianigiani di terra avverte: Montanini e gente acquatica, amicizia e poca pratica. Immaginiamoci quando si viene alle città e ai paesi. C'è un'ottava popolare raccolta a Salutìo, Sant'Eleuterio che riguarda il Casentino ed è assai illuminante:

Se Santa Manna la bruciasse 'l foco

e Rassina dovesse sprofondare,

Bibbiena consumasse poco a poco

e Poppi dentro l'Arno scivolare,

se la Badia sparisse dal suo loco

e la Verna col Sasso ruzzolare

ci rimarrebbe Pratovecchio e Stia

che è la peggio canaglia che ci sia.

Del resto l'esempio ci viene da uno dei padri della patria. In un passo famoso del Purgatorio (XXV, 40-54), descrivendo il corso dell'Arno, Dante trova il modo di chiamare porci i casentinesi (par che Circe li avesse in pastura), botoli ringhiosi gli aretini (Botoli trova poi, venendo giuso, / ringhiosi più che non chiede lor possa), lupi i fiorentini (tanto più trova di can farsi lupi / la maledetta e sventurata fossa) e volpi i pisani (trova le volpi sì piene di froda). Poi qua e là nel nostro poema nazionale ce n'è per tutti tanto che ci vuole un gran coraggio a fare l'Europa.

Le discordie dei piccoli. Di questa materia si può dare solo un piccolo campionario, tale è la sua vastità. I blasoni popolari, vale a dire quei detti che costituiscono le formule con le quali i popoli si prendono in giro tra loro, ci avvertono che non correva buon sangue tra Firenze e Prato, tra Firenze guelfa e Pisa ghibellina, tra Pisa che fu potenza imperiale e Livorno che le fu messa tra i piedi dal Granduca Cosimo I, che la povera Semifonte per aver contrastato Firenze sparì e che tra Firenze e Siena non c'è mai stato amore, tanto che è ancora vivo il detto Per forza Siena! quando si vuol significare che una cosa bisogna farla anche se ne manca del tutto la voglia. Si dice che, venuta Siena nella signoria fiorentina sotto Cosimo I, i senesi dovettero fare di necessità virtù. Per la festa di S. Giovanni, patrono di Firenze, quando tutte le città toscane portavano l'omaggio al Granducato, gli ambasciatori lo facevano tutti poco volentieri, ma quelli di Siena proprio a malincorpo. Al momento che l'araldo chiamava a gran voce:

- Siena...l'ambasciatore borbottava sottovoce:

- Per forza! e si moveva con calma.

I Senesi si sono rifatti anche recentemente stampando un adesivo che piazzavano sulle macchine: A Montaperti c'ero anch'io! Ruggini ce ne sono tante che riaffiorano qua e là nei detti come: A Lucca ti vidi e a Pisa ti conobbi, Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio e altre simili gentilezze che sopravvivono anche tra centri più piccoli. Un vecchio malanimo ormai sopito è quello che contrappose Empoli a Samminiato. Fino al 1860 il giorno del Corpus Domini veniva fatto volare a Empoli un somaro, dalla cima del campanile della Collegiata fino in piazza. L'usanza è decaduta, ma le ali del ciuco, che scendeva lungo una corda tesa, sono ancora visibili al museo della Collegiata, appese al soffitto della loggia. L'usanza si vuole che sia nata come celebrazione della vittoria degli empolesi sulla vicina Samminiato. I samminiatesi avevano detto che i nemici avrebbero preso la città quando si fossero visti gli asini volare. La storia ebbe il suo cantore in Ippolito Nieri che scrisse il poema giocoso: La presa di Saminiato, i versi finali (XII, 120) suonano:

E questa festa in sì degna memoria,

pel Corpusdomin si rinnova ogn'anno,

per contrassegno della gran vittoria,

con obbligare ancor quei che verranno...

né meglio mai poteva il mio cantare

che col volo d'un Asin terminare.

Le ruggini dei minimi. I contrasti investono anche le località più piccole, bisognerebbe dire, anzi, proprio quelle, antipatie segrete che non appaiono a chi non vive proprio dentro una comunità. Tra San Cascian dei Bagni e Celle sul Rigo ad esempio c'è una antica ruggine che risale all'ultimo periodo del Medio Evo nel quale la rivalità tra i due borghi portò San Casciano nell'orbita senese e Celle in quella di Orvieto. Le leggende enfatizzano anche fatti irrilevanti per irridere l'avversario e sui Cellesi corre la storia che durante una processione delle Rogazioni i fedeli di Celle percorrevano una viottola campestre cantando processionalmente. A un tratto schizza davanti al sacrestano che stava in testa al corteo con la croce, una bella lepre che prima si ferma a guardare e poi sparisce. Non molto dopo la lepre sbucò di nuovo e il crucifero, che era un accanito cacciatore, non resse più e istintivamente le tirò la croce mancando però il colpo. Del fatto si servirono i sancascianesi per beffare i cellesi e composero anche un blasone popolare ancora vivo: Perfido cellese tirò il Cristo alla lepre e non la prese. Lo scarso affiatamento tra i popoli dei due paesi, distanti appena cinque chilometri, si è acuito allorché Celle è stato inserito come parte del comune di San Casciano, cosa che ha aggiunto una specie di dipendenza con dissapori amministrativi. Fatto è che il matrimonio tra Lauretta (di San Casciano) e Mauro (di Celle) è stato salutato come un evento che non si ricordava a memoria d'uomo. È avvenuto il 18 novembre 1973 in campo neutro, a Figline. Tra La Lastra e Signa le cose si vanno appianando, ma ci sono stati malintesi. Signa è più grande e la differenza si sentiva di più in passato. Posta a destra dell'Arno aveva collegamenti facili con Campi, Prato Firenze; disponeva della stazione ferroviaria, aveva campo sportivo, teatro, fabbriche e una squadra di calcio: Le Signe. La Lastra, più piccola, a sinistra dell'Arno ebbe una posizione favorevole fino agli anni Trenta per il passaggio della strada Livornese, poi soppiantata da altre linee di comunicazione. Aveva un'economia agricola ed ebbe una squadra di calcio, la Lastrense, solo nel dopoguerra. Le baruffe si raccontano ancora nelle veglie. Spulciando qua e là di vecchie ruggini paesane se ne trovano a migliaia: Sinalunga ha come sua bestia nera Bettolle dove vogliono avere il proprio comune. Colle Val d'Elsa  un tempo filo senese e Poggibonsi una volta filo fiorentina sfogano l'amaro nelle rivalità calcistiche con manifestazioni di grande calore. Montepulciano e Acquaviva si fanno dispetti come il recente ratto del Grifo, simbolo della città. Montevarchi San Giovanni hanno dovuto trovare un difficile accordo sulla sistemazione dell'ospedale. Una storia esemplare è quella di Lucignano di Montespertoli e la vicina San Pancrazio che ha sempre avuto maggiore vita e importanza: la chiesa disponeva di un fonte battesimale, che in passato le piccole chiese non avevano, e anche d'un campanile con ben quattro campane. Lucignano, più piccola, aveva la chiesa con un campanile a vela, basso, con soltanto tre campane. L'arrivo di Don Visibelli pose fine a questa specie di sudditanza. Fece edificare un campanile di 30 metri, in cemento armato e rivestito di pietra con ben quattro campane, per di più intonate:  era a dire il vero sproporzionato alle necessità, ma il suo suono si sente ancora a grande distanza, più lontano di quello di San Pancrazio. Nel 1944 la chiesa fu dotata anche di un fonte battesimale e la vecchia ruggine aumentò con le solite manifestazioni di simpatia fino ad esplodere negli anni del dopoguerra in una memorabile baruffa furibonda innestata da uno sconfinamento della processione del Corpus Domini. Altri tempi. Quando si ha voglia di litigare tutte le scuse son buone. San Piero in Bossolo e San Romolo a Tignano, che non si sono amate mai di grande amore, presero come pretesto l'uso che venne negli anni Cinquanta di portare in giro processionalmente la Madonna Pellegrina che passava di parrocchia in parrocchia sostandovi per qualche tempo. Il pievano, tra l'altro mio lontano parente, aveva nella sua chiesa due splendide e antiche immagini: la Madonna del Pa-trocinio e l'altra, straordinaria, La Madonna di San Pietro in Bossolo attribuita a Coppo Marcovaldo: non vedeva che bisogno ci fosse di un'altra immagine, ma aveva fatto il necessario. La statua passava da una parrocchia all'altra con due processioni solenni che s'incontravano al confine, ma su questa cerimonia ci furono delle discussioni per il punto nel quale doveva avvenire l'incontro. Questo naturalmente riguardava l'esatta linea di confine delle due parrocchie e non doveva essere né un centimetro di più, né uno di meno. Il percorso del pievano prevedeva un punto, il percorso della chiesa vicina ne prevedeva un altro. Si arrivò alla cerimonia, ma nessuno voleva muoversi d'un centimetro dalla sua posizione i punti restavano distanti. Ci fu un'ultima discussione, qualche baruffa e alla fine il pievano, che era grande come un armadio, tuonò sopra la folla parole rimaste celebri:

- Insomma il confine è questo, il punto d'incontro è questo qua e se mi fate andare in bestia prendo a calci nel... voi e...

Si spostarono le teste di ponte e almeno per quella volta tutto andò bene. Convenevoli e complimenti tra noi. I cortonesi chiamano bisisi quelli di Castelfiorentino. A Talla chiamano ranocchiai quelli di Salutio frazione più vicino a Talla che a Rassina, pur facendo parte di questo comune. Quelli di Salutio chiamano guzzacavigli (aguzza paletti) quelli di Talla. Gli abitanti di Montepulciano chiamano besini i chiancianesi e rapai quelli di Acquaviva e della Val di Chiana. In Val di Chiana chiamano lumacai gli abitanti di Montepulciano. Nei dintorni chiamano gatti gli abitanti di Lucignano. Nei dintorni chiamano ranocchie gli abitanti di Foiano. I popoli toscani nel pensiero di Dante. Pisa vanta una celebre invettiva:

Ahi, Pisa, vituperio delle genti del bel paese là dove il sì suona (Inf. XXXIII, 79).

Poi Siena:

E io dissi al Poeta: Or fu giammai

gente sì vana come la sanese?

Certo non la francesca sì d'assai! (Inf. XXIX, 122).

Fiesole, seppur vicina, non si salva, anzi:

Quell'ingrato popolo maligno

che discese da Fiesole ab antico

e tiene ancor del monte e del macigno. (Inf. XV).

Non poteva mancare Prato:

...tu sentirai di qua da picciol tempo

di quel che Prato, non c'altri, t'agogna... (Inf. XXVI, 9).

Pistoia, patria del ladro Vanni Fucci, nel mal far supera le generazioni passate:

Vita bestial mi piacque e non umana,

sì come a mul ch'io fui; son Vanni Fucci

bestia, e Pistoia mi fi degna tana. (Inf. XXIV, 124).

Fuori della cerchia antica «cosa non regna che bona sia», a cominciare, secondo la regola, dai paesi limitrofi:

Ma la cittadinanza, ch'è or mista

di Campi, di Certaldo e di Figghine,

pura vedeasi nell'ultimo artista.

Oh quanto fora meglio esser vicine

quelle genti ch'io dico ed al Galluzzo

e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro, e sostener lo puzzo

del villan d'Aguglion, di quel da Signa

che già per barattare ha l'occhi aguzzo...

... Sariasi Montemurlo ancor de' Conti;

sariasi i Cerchi nel piovier d'Acone

e forse in Valdigreve i Buondelmonti. (Par. XXVI, 49 e seg.).

Toscana, è guerra di aeroporti tra Pisa e Firenze. Fino a ieri alleate nella creazione di un unico scalo, oggi le due città sono in rotta di collisione. Il motivo? Il rilancio dell'aeroporto del capoluogo, incoraggiato anche dal governatore Rossi, finirebbe per danneggiare Pisa. E così, si è aperta una resa dei conti anche all'interno del Pd regionale, scrive Paola Pilati su “L’Espresso”. L'aeroporto di Pisa Una battaglia politica all'interno del Pd e una battaglia legale tra amministratori locali e governatore nella regione di Matteo Renzi. Sullo sfondo, gli interessi economici di un privato, il tycoon argentino Eduardo Eurnekian, intenzionato a diventare il padrone degli aeroporti della Toscana. Basterebbero questi tre condimenti a rendere piccante qualsiasi privatizzazione, figuriamoci questa che vede protagoniste due città che quanto a orgoglio di campanile ne hanno da vendere: Pisa e Firenze, fino a ieri alleate sull’idea di fare un unico sistema aeroportuale, oggi in rotta di collisione per un fatto che brucia come uno sfregio, e che si può riassumere con un prosaico: “ci volete fare le scarpe”, rivolto dal sindaco della città della torre pendente agli inquilini di Palazzo Vecchio e a Marco Carrai, presidente dell’aeroporto fiorentino e plenipotenziario di Renzi con il mondo degli affari. Il governatore della Toscana risponde alle critiche di chi lo accusa di parteggiare troppo per lo sviluppo dello scalo di Firenze a scapito di quello di Pisa. "In questa vicenda non abbiamo nulla da nascondere. Per me gli interessi della regione vengono prima di tutto il resto". Ecco i fatti. Firenze vuole rilanciare il proprio aeroporto, e ciò niente di male. Ma dall’idea iniziale, che avrebbe conservato a Pisa il ruolo di scalo per i voli low cost, e valorizzato quello di Firenze come “city airport”,  improvvisamente la società presieduta da Carrai passa a un nuovo disegno: far crescere Firenze con attrezzature e caratteristiche tecniche tali che non possono non danneggiare quello di Pisa, finora il più importante della regione. Per di più in questo progetto Firenze ha un alleato di peso, il governatore Enrico Rossi il quale - come Regione Toscana - è azionista pure dell'aeroporto di Pisa, eppure non si oppone al “tradimento”. Anzi: l’operazione ora in corso da parte di Rossi punta vendere un pacchetto del 12 per cento (sul suo 17 per cento totale) della Sat, la società di gestione dell'aeroporto pisano Galileo Galilei. L'acquirente è quell’Eurnekian che ha appena conquistato Firenze, e che sull'aeroporto di Pisa ha lanciato un’Opa contro la quale gli altri azionisti pubblici, il comune e la provincia, fanno resistenza. La mossa di Rossi avrebbe due effetti: primo, agevolare la riuscita dell’Opa a dispetto degli altri soci. Secondo: portare Pisa sotto lo stesso ombrello che ha appena conquistato Firenze, ne ridurrebbe l'autonomia e quindi la capacità di reagire. E spianerebbe la strada al sorpasso da parte del capoluogo nel business aeroportuale. Questa la tesi con cui il primo cittadino pisano Marco Filippeschi, Pd, per niente intimidito dal fatto di appartenere entrambi alla stessa famiglia politica, spara a palle incatenate contro Rossi. Dal Comune sono partite: una diffida al governatore su qualsiasi vendita di azioni, visto che c’è un patto di sindacato che vincola gli enti locali nella Sat (la rottura del quale imporrebbe una penale di 35 milioni alla Regione); una denuncia anche sulla procedura: come è possibile che una decisione così delicata come la privatizzazione dell'aeroporto non abbia il voto dell'assemblea regionale? E qui si tocca un punto debole della manovra di Rossi. La delibera per la vendita, infatti, era pronta per essere votata dall'assemblea regionale il 28 maggio. All'ultimo momento, la convocazione è stata cancellata: non ci sarebbe stata, pare, la maggioranza per il via libera. E allora? Allora Rossi sceglie una scorciatoia. Far approvare la vendita dalla giunta, in una delle prossime riunioni. Il sorpasso di Vespucci (l’aeroporto fiorentino) su Galilei (il nome di quello pisano) dipende da 400 metri di asfalto e la richiesta di un finanziamento pubblico di almeno 120 milioni. I 400 metri sono quelli che servono ad allungare la nuova pista, inizialmente di 2000 metri, per attirare aerei più grandi, e dunque drenare traffico da Pisa. A scoprire le carte è il Master Plan di Firenze di ottobre 2013: con una pista più lunga di quella prevista inizialmente Carrai punta a conquistare 6 milioni di passeggeri e attirare i voli low cost, proprio quelli che fanno il core business di Pisa. L’Enac, l’ente che controlla il settore, a sorpresa si dichiara d’accordo tramite il suo presidente Vito Riggio. A Pisa è bufera. Le proiezioni sugli effetti del nuovo piano raggelano tutti. Se oggi Pisa ha 4,5 milioni di passeggeri e Firenze 2 milioni, lo scenario al 2029 potrebbe essere completamente rovesciato. Con la pista da soli due chilometri Pisa continuerebbe la sua crescita, fermandosi a 6,4 milioni di passeggeri (più 43 per cento), mentre Firenze raddoppierebbe a 4,3 milioni. Con la pista da 2,4 chilometri Pisa rimerebbe inchiodata più o meno ai valori di oggi (4,7 milioni di passeggeri), mentre Firenze decollerebbe arrivando a 6 milioni. Soprattutto, suonano come un campanello d’allarme i 120 milioni di finanziamento pubblico che si chiedono per il progetto. Ma come, ragionano a Pisa, noi abbiamo sostenuto la crescita del nostro aeroporto con le nostre forze, e voi andate a battere cassa? Che fine faranno poi i progetti appena avviati per lo sviluppo dell’aeroporto, i denari per il nuovo shuttle di collegamento città-scalo, se le previsioni del traffico cambiano con il rafforzamento del concorrente? Un disastro. Come giustifica Enrico Rossi il suo appoggio a tutto questo? «Grazie al lavoro fatto in questa legislatura una società industriale nella gestione di aeroporti si è fatta avanti disposta ad investire oltre 150 milioni, a costituire un'unica società tra i due scali, facendo nascere così il polo degli aeroporti della Toscana. Non possiamo permettere di perdere questa occasione. La Toscana per me sta un filo sopra degli interessi di Pisa e Firenze, due città che hanno nulla da perdere da questo gioco al rialzo», dichiara il governatore. Perché intanto, all’inizio di quest’anno, a sostenere le ambizioni di Firenze è sceso in campo un acquirente privato, Corporacion America Italia, la società che fa capo all’argentino Eurnekian, che compra azioni di entrambi gli aeroporti, lancia subito un’Opa su Firenze, poi su Pisa, dichiarando che vuole gestire tutto quanto insieme. La differenza sta nel fatto che mentre a Firenze l’Opa va in porto liscia liscia, a Pisa gli azionisti pubblici, come si è detto, si oppongono. Per principio, ma anche per il prezzo proposto, che non valorizza quello che oggi è la massa critica dell’aeroporto pisano, che vale (secondo gli analisti) 1,3 volte quello di Firenze. Ma a tormentare il sindaco e il presidente della provincia, è anche un singolare segreto. Quello che Enrico Rossi, sempre lui, ha fatto cadere sul rapporto commissionato alla Kpmg sul sistema aeroportuale regionale. Cosa dice questo rapporto? “L’Espresso” ha avuto modo di leggerlo. Ebbene, ne risulta che Firenze finirà per cannibalizzare Pisa, e che l’interesse alla fusione dei due scali si traduce in un vantaggio soprattutto per la prima. Nel 2024, secondo Kpmg, la crescita del margine operativo del Vespucci nell’ipotesi “stand alone” sarebbe del 34 per cento, mentre nello scenario “holding unica” salirebbe al 40; per Pisa la crescita del margine restando da sola sarebbe del 25 percento, fusa con Firenze, migliorerebbe di poco, al 28 per cento. Insomma, avrebbe più da perdere - la sua autonomia e molti clienti - che da guadagnare. La battaglia continua.

Ciò nonostante. Viaggiare in Toscana è un’impresa, scrive Paolo Ermini su “Il Corriere Fiorentino”. Spesso. Anzi, quasi sempre. E a prescindere dal mezzo di trasporto che scegliamo. Non c’è scampo. Né in auto né in treno. E nemmeno in aereo. Provate per credere. Provate a prendere per un settimana di seguito uno degli ex (?) accelerati che portano i pendolari al lavoro per tutta la regione e poi fatevi una domanda: siamo in un Paese civile? Eppure sono anni che piovono accuse e denunce. Nulla. Anche il presidente della Regione Rossi ha voluto toccare più volte con mano lo stato delle nostre ferrovie, fuori dalle linee dell’alta velocità. In un’occasione gli hanno addirittura soppresso il treno sotto il naso. E lui, il presidente, è rimasto un’ora sul binario ad aspettare il treno successivo. Dalle Ferrovie nessuna certezza di un cambio significativo nelle scelte aziendali. Sarà il governo di Renzi a cambiar passo? Se pensate che con l’auto privata vi possa andar meglio provate invece ad andare da Firenze a Siena (o viceversa) via Autopalio. La vecchia, usuratissima, superstrada è una catena ininterrotta di cantieri. In pratica si viaggia su una sola corsia di marcia. Code sempre in agguato, ritardi assicurati, appuntamenti che saltano. Possibile che non ci fosse modo di scaglionare nel tempo i lavori? L’Anas, che gestisce la trafficatissima strada, ha fatto sapere nei giorni scorsi che solo il cantiere che non fa capo a essa è lì da anni. E gli altri? Quando saranno chiusi? Perché il cittadino niente mai deve conoscere, sapere, capire (se non giustificare)? Ma provate anche a prendere un aereo. Le odissee in questo caso riguardano meno persone, per forza di cose, ma non sono meno esasperanti. In più sono preventive. Per tante destinazioni bisogna infatti prendere il treno (ahi!) o l’auto (ahi! ahi!) e raggiungere Bologna. Lo sanno tutti meno tanti pisani che contano, intestarditi in una difesa miope del loro aeroporto fuori da quello sviluppo coordinato Vespucci-Galilei che è l’unica arma per evitare il declassamento complessivo del sistema degli scali toscani. Andando avanti così, senza raccordarsi, i due aeroporti rischiano la retrocessione comune, facendo l’ultimo favore al bolognese Marconi. E noi parleremo di una Toscana in alto mare (che però non è un invito a comprarsi una nave). P.S. Avevo appena finito di scrivere questo articolo quando sul video del pc è comparso il messaggio di un amico. C’era scritto: «Sono reduce dall’aeroporto — si fa per dire — di Peretola, dove doveva arrivare un amico. Nel tardo pomeriggio di oggi vari voli (incluso quello da Parigi delle 19,20) sono stati dirottati su altri aeroporti, segnatamente Bologna, per... maltempo. Oggi! Con questo meraviglioso cielo limpido! Pare che ci fosse vento. Anche se ne nessuno se ne era accorto. Basta qualche refolo in coda per non fare atterrare gli aerei (la direzione è Monte Morello, come sappiamo). Uno scandalo. Quando il mio amico mi ha telefonato dicendomi che era a Bologna credevo che mi stesse prendendo in giro». Tutto vero, invece. E noi ci scherziamo su per non disperarci.

DELITTI DI STATO ED OMERTA' MEDIATICA.

Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.

Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.

O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).

O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.

Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.

Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.

Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.

Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.

E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.

PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.

Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive Filippo Vendemmiati su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto,  “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere,  rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza:  l’inchiesta giornalistica,  quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco,  da omissioni complicità..  Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni  inadempienti  nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è  quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante  un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime,  costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa  ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime,  sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare  ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento  fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.

Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.

Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.

Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.

Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.

La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.

Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.

Applausi e abuso di potere: #ViaLaDivisa!, scrive “Un altro genere di comunicazione”, riportato da altre fonti, tra cui “Agora Vox”.

Federico Aldrovandi è uno studente diciottenne ferrarese, frequenta il 4° anno dell’ I.T.I.S. ed è un ragazzo brillante: ha svariati interessi, fa karate e ama suonare, ha tanti amici e a scuola è anche impegnato in un progetto contro le tossicodipendenze. La sera del 24 settembre 2005, Federico la trascorre con i suoi amici in un locale di musica dal vivo di Bologna. Quando il concerto si conclude, i ragazzi si dirigono in auto verso Ferrara. Arrivati in città, Federico si fa lasciare a circa 1 km da casa per tornare a piedi. Federico “era tranquillo, non barcollava e non era agitato", dichiareranno successivamente i suoi amici. In quel momento, però, passa una volante della polizia che decide di effettuare un controllo. Dopo poco viene chiamata una seconda pattuglia. Comincia una colluttazione che porta Federico alla morte. La famiglia, avvisata ben 5 ore dopo l’avvenuto decesso, ritiene inverosimile l’ipotesi di un sopraggiunto malore, così come comunicato dagli agenti all’ambulanza del 118, poiché il corpo di Federico presenta moltissime lesioni ed ecchimosi. Secondo i risultati dalla perizia del medico legale disposta dal Pubblico Ministero, la causa ultima della morte sarebbe spiegata da un’insufficienza cardiaca conseguente ad un mix di alcol e droga. Di segno totalmente opposto, invece, l’indagine effettuata dai periti della famiglia, che rintracciano la causa del decesso nella mancanza di ossigeno nei polmoni, dovuta alla compressione del torace da parte di uno degli agenti, e dichiarano che la dose di droga assunta è assolutamente irrilevante e incompatibile con la morte del ragazzo e l’alcol persino al di sotto dei limiti imposti dal codice della strada. Inoltre il corpo rileva i segni delle violenze subite. Si apre l’inchiesta, che vede indagati quattro agenti per omicidio colposo. Durante il primo incidente probatorio, in cui una testimone oculare racconta di aver visto due agenti comprimere Federico sull’asfalto, picchiarlo e manganellarlo mentre chiedeva aiuto tra i conati di vomito, emergono segni di trascinamento sull’asfalto e schiacciamento dei testicoli. Dalle indagini vengono alla luce, inoltre, svariate incoerenze che fanno aprire una seconda inchiesta per falso, omissione e mancata trasmissione di atti. Nel tempo vengono effettuate ulteriori perizie. Infine, i quattro agenti vengono condannati in Primo Grado a 3 anni e sei mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”, pena confermata in Appello e resa definitiva in Cassazione. La pena verrà poi ridotta a sei mesi per via dell’indulto. Nel 2010, altri tre poliziotti vengono condannati per omissione di atti d’ufficio e favoreggiamento, confermando l’ipotesi del depistaggio e l’intralcio alle indagini. I genitori di Federico si sono sempre battuti affinché fosse fatta chiarezza sulla morte del figlio, aprendo prima un blog e poi una pagina facebook dedicata alla vicenda. Hanno dovuto scontrarsi con l’omertà, il silenzio della politica e il “corporativismo” della polizia. È bene precisare che è proprio l’appello della mamma di Federico ad evitare che il caso venga archiviato per decesso da overdose letale. Nel 2012, sulla pagina facebook «Prima difesa», gestita dall’associazione omonima e da un gruppo aperto a cui partecipano tanti rappresentanti delle forze dell’ordine, tra cui uno dei quattro poliziotti condannati in via definitiva, compaiono queste parole: «La “madre” se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un “cucciolo di maiale”, ma un uomo!» E sulla pagina «Prima difesa due» i commenti si sprecano, tra cui quelli dell’agente in questione, che fa riferimento a Ferrara quale “città rossa come la bandiera sovietica” e invita tutti i “comunisti di m…” a vergognarsi. Nel marzo del 2013 gli agenti del Coisp (coordinamento per l’indipendenza sindacale delle forza di polizia), per manifestare solidarietà ai quattro poliziotti condannati, partecipano ad un sit-in a Ferrara, che si tiene provocatoriamente sotto la finestra dell’ufficio di Patrizia Moretti, madre di Federico. La donna decide allora di srotolare la ormai nota foto di Federico, nelle condizioni in cui è stato ridotto la notte della sua morte, davanti ai manifestanti che voltano le spalle per poi recarsi verso il circolo dei negozianti e partecipare al dibattito “Poliziotti in carcere, criminali fuori, la legge è uguale per tutti?”, poiché evidentemente le due cose non possono sovrapporsi. Se sei poliziotto non puoi essere contemporaneamente criminale. È di questi giorni, invece, la notizia riguardante i cinque minuti di applausi e la standing ovation riservata a tre dei quattro agenti condannati, alla sessione pomeridiana del Congresso nazionale del Sap, il sindacato autonomo di polizia. Queste le parole di Gianni Tonelli, segretario del Sap, in una nota: “L’onorabilità della Polizia di Stato è stata irrimediabilmente vilipesa e solo una operazione di verità sarà in grado di riscattare il danno patito. Alla stessa stregua i nostri colleghi, ingiustamente condannati, hanno patito un danno infinito.” E questa una delle reazioni politiche comparse in rete: Perché evidentemente “chi porta la divisa non può essere insultato come se niente fosse”. Celere la reazione di Patrizia Moretti, le cui parole vengono divulgate tramite la pagina dedicata al figlio, rivolte ai politici che le hanno invece dimostrato vicinanza: “Ho ricevuto tanta solidarietà da alte cariche, ma se il tutto si esaurisce in una telefonata, rimane una parola vuota. Io mi sottraggo da questo dialogo malato con chi applaude gli assassini di mio figlio, lascio la parola alla politica".

Il sorprendente episodio degli applausi capita, tra l’altro, in un momento in cui si sta cercando di fare luce su di un’altra morte sospetta, avvenuta nel marzo di quest’anno, quella di Riccardo Magherini, 39 anni. Un uomo che perde la vita a Firenze in circostanze poco chiare, mentre si trova nelle mani dei carabinieri. In un primo momento, infatti, la versione data risulta essere quella di un arresto cardiaco dovuto anche all’utilizzo di sostanze stupefacenti. Il padre, però, non convinto di questa versione decide di approfondire e di portare avanti gli accertamenti. I testimoni cominciano a raccontare di calci e percosse, compare un video in cui l’uomo chiede disperatamente aiuto, gridando “non ammazzatemi, ho un bambino” e iniziano a circolare le eloquenti foto del cadavere. Alla fine del mese scorso, i familiari di Riccardo, sostenendo che l’uomo, tra le altre cose, sia stato immobilizzato troppo a lungo attraverso una forte pressione toracica, sporgono denuncia: i carabinieri responsabili dell’arresto vengono, così, accusati di omicidio preterintenzionale e i primi sanitari intervenuti di omicidio colposo.

Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, morto nel 2009 a 31 anni durante la custodia cautelare per possesso di sostanze stupefacenti, anch’esso in circostanze poco chiare, ha pubblicato una lettera aperta tramite il suo profilo Facebook, in seguito agli elementi venuti alla luce sulla morte di Riccardo: Dava in escandescenze… E si liquida così. Troppo facile. In una frase, fredda, spietata, si liquida una VITA, un’affettività, un mondo fatto dei tanti piccoli o grandi momenti unici che caratterizzano ogni esistenza. Ogni VITA. In due parole si tenta di mettere una pietra tombale sulla verità. E si sta dicendo che quella VITA non contava nulla, o poco di più. Troppo facile… Ma non si può. La VITA è il bene più prezioso, da difendere, tutelare, proteggere. Così come la dignità. Dei vivi… E dei morti. I morti. Quelli scomodi. Quelli che nell’immaginario collettivo se la sono cercata. Quelli, tanti troppi, che sono morti per colpa loro. E così ci si mette a posto la coscienza e si va a dormire tranquilli… Che tanto a noi non succederà mai. Povero disgraziato per riprendere le parole di uno dei tanti personaggi illustri che voleva contribuire a liquidare un omicidio di Stato tra i più terribili come quello di Federico, come morte per droga. Troppo facile. Il tentativo di cancellare una realtà scomoda, di cancellare con un solo gesto la verità. In nome di interessi superiori che faccio sempre più fatica a comprendere. Riccardo Magherini, come mio fratello Stefano, non è morto perché drogato. Non è morto perché dava in escandescenze. La realtà è molto più semplice, e molto più terribile. La sua VITA è terminata mentre chiedeva aiuto a chi avrebbe dovuto tutelarlo. Mentre era inginocchiato davanti a loro e gridava disperatamente aiutatemi sto morendo. Ed è morto. Tutto terribilmente semplice e chiaro. E sul suo povero corpo i segni indelebili di quella notte, di quell’incontro. Credo non ci sia altro da aggiungere…Se non che mi ha emozionata, in questi giorni, poter essere vicina alla famiglia di Riccardo, conoscere i suoi amici… E capire, per loro tramite, chi era Riccardo. E quanto ha lasciato in ogni persona che ha fatto parte della sua VITA. E il vuoto, incolmabile. E la disperazione per quella morte assurda. Tutto il resto solo ipocrisie. Anche nel caso di Stefano Cucchi, il personale carcerario imputa la morte a un supposto abuso di droga o pregresse condizioni fisiche, attribuendogli la responsabilità di aver rinunciato alle cure.  Ma già durante il processo, il ragazzo mostra difficoltà a camminare e dopo l’udienza le sue condizioni peggiorarono ulteriormente: presenta lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace, fratture alla mascella e alla colonna vertebrale e un’emorragia alla vescica. Muore all’ospedale Sandro Pertini nell’ottobre 2009, senza che i familiari abbiano mai potuto verificarne lo stato di salute. Dodici persone – sei medici, tre infermieri e tre guardie carcerarie – vengono accusate dell’omicidio con diversi capi d’imputazione, tra cui: abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di potere. I sei medici dell’ospedale vengono condannati per omicidio colposo ma gli agenti, accusati di aver picchiato il ragazzo, vengono assolti per insufficienza di prove, insieme agli infermieri, accusati di non aver prestato assistenza a Cucchi mentre era ricoverato.

E poi c’è il caso Giuseppe Uva, 43 anni, morto il 14 giugno del 2008, fermato in stato di ubriachezza con un suo amico e portato in caserma con lo stesso. Qui Giuseppe Uva rimane in balia di decine di poliziotti. Il suo amico dalla stanza accanto sente urla disumane per più di due ore, così si decide a chiamare un’ambulanza, sussurrando per non farsi ascoltare: “Venite nella caserma in Via Saffi stanno massacrando un ragazzo". Gli operatori del 118 chiamano immediatamente in caserma per capire cosa stia accadendo ma uno dei militari risponde “No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi". Alle 5 del mattino, dalla caserma parte la richiesta del tso per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia poi prosciolti nel 2013 - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte". Da quella notte, l’ultima di Giuseppe, sono trascorsi sei anni e la sua famiglia combatte affinché venga fuori la verità. L’11 marzo scorso il Gip di Varese ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità su arrestato e abbandono d’incapace degli otto agenti – due carabinieri e sei agenti di polizia – responsabili del fermo e dell’interrogatorio. Il 24 marzo al programma “Chi l’ha visto?” spunta un’altra testimone, una donna che quella notte si trova proprio lì, in ospedale, quando Giuseppe Uva entra scortato dagli agenti: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo sulla barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo». Un copione che si ripete, dunque, quello di queste morti avvenute in “circostanze sospette”: le vittime dipinte come tossici disadattati, descrizione che dovrebbe risultare sempre e comunque una giustificazione per le forze dell’ordine. Per gli agenti Aldrovandi non è altro che un “invasato violento in evidente stato di agitazione", Riccardo una specie di folle tossico che girovaga “senza meta” per il centro di Firenze, intento a sfondare vetrine “per rabbia” e “a furia di pugni”, a rubare cellulari e a “entrare nella macchina” di una ragazza. Per quanto riguarda Stefano, il sottosegretario di Stato Carlo Giovanardi arrivò ad asserire che fosse semplicemente un tossicodipendente anoressico e sieropositivo, dovendosi scusare in seguito per queste false affermazioni, mentre Giuseppe Uva non è nulla di più che “un ubriaco” da imbottire di sedativi e psicofarmaci. Il senatore Manconi ha descritto questo meccanismo post-mortem di stravolgimento della biografia come una “doppia morte“, che avviene“enfatizzando o inventando elementi che possano compiere l’opera di degradazione della vittime”: "Alla vittima rimasta sul terreno, a quella morta in cella o dentro un Cie si applica un processo di stigmatizzazione, di deformazione della sua identità. Così e successo con Aldrovandi, come con Cucchi, Uva e tanti altri. La morte fisica viene seguita da un processo di degradazione dell’identità della vittima, un linciaggio della sua biografia". Ma fortunatamente ci sono altre voci. Quelle dei familiari, ad esempio. Patrizia Moretti lo scorso febbraio, alla fine della manifestazione per chiedere l‘allontanamento dall’incarico di polizia per quegli stessi agenti che ora vengono applauditi pubblicamente dai colleghi, ha voluto ribadirlo con queste parole: “Sappiate che ci saranno sempre le famiglie. Ci saranno sorelle, figli, madri, mogli… E io, come mamma, lo grido forte: non staremo zitte, non lasceremo correre.” Perché sì, ci sono quegli applausi che ci fanno capire come le famiglie di questi ragazzi, che sono morti non perché “folli”, “invasati”, “drogati” ma perché abbandonati dallo Stato, che hanno perso la vita mentre chiedevano aiuto a chi avrebbe dovuto prendersi cura di loro e tutelarli, siano in realtà sole a combattere una battaglia per salvaguardare quello che resta del ricordo dei loro familiari. Quegli applausi ci fanno intendere che pararsi dietro alla scusa delle “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine risulta alquanto anacronistico. Rileggere le dichiarazioni secondo cui “i manifestanti del Coisp non rappresentano la polizia”, come avvenne per bocca della ministra Cancellieri successivamente al sit-in organizzato contro la mamma di Federico Aldrovandi, è oggi ancora più amaro, dopo la solidarietà dimostrata nei confronti degli agenti che uccisero Federico. Solidarietà che è proseguita anche dopo lo scoppio dell’indignazione. Perché in tutta questa storia non vi è solo mancanza di rispetto nei confronti di una famiglia, di due genitori, di un ragazzo di diciotto anni e della sua morte. Quegli applausi ci dicono molto di più. Ci raccontano di una complicità “da camerata”, di un approccio rivendicativo e settoriale, in cui “il gruppo” diventa intoccabile. E intoccabili appaiono, dunque, le divise nell’immaginario collettivo. Le divise di coloro che rappresentano lo Stato, che “rischiano la vita per difendere i cittadini”. E a cui, forse, per molti può essere concesso “di più". Questo “di più” spesso rappresenta però l’abuso di potere e vorremmo davvero capire se l’appoggio, o comunque l’omertà, dimostrata nei confronti di tali atteggiamenti sia “l’eccezione”, come continuano a ripeterci, o non piuttosto “la regola”. Una cosa è certa: il silenzio può anche uccidere. E per gli agenti condannati non possiamo che urlare: #vialadivisa! Insieme a Federico, Riccardo, Stefano e Giuseppe, chiediamo giustizia per:

Carlo Giuliani, 2001.  Sono le 17.27 del 20 luglio del 2001, Carlo Giuliani, un ragazzo di 23anni, viene raggiunto da un proiettile durante le manifestazioni del G8. A sparare è un carabiniere da una vettura blindata, un defender, Mario Placanica. Carlo è un ragazzo molto esile, si trova lì in mezzo all’assalto nel giorno peggiore del g8. Viene lasciato lì per terra e il defender, mentre tentava di allontanarsi, sale per due volte sull’esilissimo corpo di Carlo. Sin da subito i carabinieri che si trovarono in quel momento sul posto tentano di dare la colpa ad altri manifestanti, affermando che qualcuno di loro lo avrebbe colpito con un sasso. Il carabiniere che sferra i due colpi viene indagato per omicidio e poi prosciolto per legittima difesa dalla giustizia italiana. La Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale la famiglia Giuliani aveva fatto ricorso accoglie la ricostruzione italiana. Qualche anno dopo, nel 2009, lo stesso carabiniere viene accusato e denunciato per violenza sessuale su minore e maltrattamenti nei confronti di una bambina, figlia della sua compagna, che all’epoca dei fatti avvenuti ha 11 anni. Gli abusi sulla bambina sarebbero durati circa un anno. Il processo per scoprire la verità è ancora in corso: il 3 luglio del 2012 il giudice dell’udienza preliminare di Catanzaro lo rinvia a giudizio. Il 28 giugno 2013 il tribunale rigetta la richiesta della difesa di improcessabilità per disturbi mentali.

Marcello Lonzi, 2003. Marcello Lonzi muore in carcere all’età di 29 anni. Le cause del decesso vengono attribuite a un infarto, nonostante il referto dell’autopsia e le foto del corpo rivelerebbero tutt’altro. Infatti, dopo anni di lotte, nel 2006 viene riesumata la salma e si scopre che il corpo presenta ben 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato.

Riccardo Rasman, 2006. Riccardo Rasman muore nella propria casa di Trieste dopo l’intervento di due pattuglie della polizia, semplicemente perché ha sparato dei petardi per festeggiare il nuovo lavoro. Ha 34 anni e muore per “asfissia da posizione”, dopo aver subito lesioni e violenze da quattro poliziotti. E’ affetto da “sindrome schizofrenica paranoide” dalla leva militare, durante la quale subisce numerosi episodi di “nonnismo”. Da lì inizierà a vivere con la paura delle divise.

Gabriele Sandri, 2007. L’11 novembre del 2007 Gabriele Sandri, un ragazzo di 28 anni che si trova in macchina con alcuni amici per andare a vedere una partita di calcio, viene raggiunto dal proiettile sparato da un poliziotto che si trova dall’altra parte della carreggiata, in una stazione di servizio. Gabriele viene colpito al collo e muore. Il poliziotto accusato di omicidio volontario viene condannato il 14 luglio 2009 in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione. In appello la condanna viene aggravata ad omicidio volontario con una pena di 9 anni e 4 mesi, successivamente confermata anche in Cassazione.

Michele Ferrulli, 2011. Michele Ferrulli muore il 30 giugno del 2011 durante un controllo di polizia. La polizia viene chiamata da un abitante del quartiere dove è accaduto il fatto, forse perché infastidito dalla musica che Michele Ferrulli stava ascoltando con due amici mentre bevevano qualche birra. L’intervento della polizia degenera all’improvviso per motivi poco chiari e Michele Ferrulli si ritrova a terra con i 4 agenti sopra. A riprendere questi momenti c’è un video, un po’ sgranato, girato con un telefonino da alcune decine di metri, ma è evidente che l’uomo sia a terra e i 4 agenti attorno: uno di questi che lo mantiene, un altro che lo colpisce con dei pugni all’altezza del collo, e lui che continua ad invocare aiuto. Nessuno lo aiuterà, morirà poco dopo all’ospedale per arresto cardiaco.

Rosa, 2012. Rosa studentessa universitaria di 21 anni, viene ritrovata fuori da una discoteca a Pizzoli (Aq) seminuda e coperta di sangue. Viene portata in ospedale in stato di incoscienza e con un grave shock emorragico, il medico che la opera dichiara : “In trent’anni di attività non avevo mai visto nulla del genere”Le lacerazioni interessano oltre che l’apparato genitale anche altri organi che sono stati completamente ricostruiti. Rosa è stata stuprata e abbandonata in fin di vita in mezzo alla neve. Vengono indagati tre caporali del 33/o reggimento Acqui, ma rientrano in servizio dopo un breve congedo nel giorno in cui lo stesso reggimento prende il posto degli Alpini nei servizi di pattugliamento del centro storico nell’ambito dell’operazione “Strade Sicure”. Serve la pressione del comitato 3e32 de L’ Aquila perché questa notizia venga fuori e perchè sia chiesto a gran voce l’allontanamento degli indagati per stupro dal ruolo di tutori dell’ordine nell’ambito di un’operazione chiamata tra l’altro proprio “Strade Sicure”. Qualche giorno dopo, a febbraio 2012, viene arrestato Francesco Tuccia, il 21enne militare della provincia di Avellino, principale sospettato della vicenda. Al giovane militare, volontario del 33/o reggimento Artiglieria Acqui, vengono contestati i reati di tentato omicidio e violenza sessuale. Secondo il pm David Mancini, non c’è stato rapporto sessuale ma una violenza sessuale anche con l’utilizzo di un corpo estraneo. Il processo si svolge con rito immediato, si prova da subito a non lasciare sola Rosa e la sua voglia di giustizia. Sit in di donne, femministe, accompagnano il lungo percorso fino alla condanna a 8 anni di carcere per il militare. Il Tribunale condanna Tuccia anche alla pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a quella dell’interdizione legale per la durata della pena principale inflitta. I giudici, inoltre, condannano l’imputato al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili, da liquidarsi in separato giudizio. Tuccia viene condannato anche al pagamento di una provvisionale di 50mila euro in favore della parte civile (la studentessa universitaria di Tivoli) e altri 2mila in favore del Centro Antiviolenza per le Donne dell’Aquila. Quando il collegio fa ingresso in aula, Tuccia e la famiglia abbandonano subito l’aula, uscendo da una porta laterale.

Magherini come Aldovrandi?  Si chiede Silvia Mari su “Altre notizie”. “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E’ la notte in cui Magherini muore a Borgo San Frediano. “Ragazzo immobilizzato dai carabinieri. Trenta anni. Stanno rianimando. Per ora metti droga, poi vediamo”. Questa la sequenza delle telefonate del soccorso medico e i carabinieri, tra tutte quelle dei cittadini del posto che svegliati dalle urla di Riccardo chiamano le forze dell’ordine per segnalare che qualcosa di grave sta accadendo sotto le loro finestre. I fatti di quella notte, 3 marzo scorso,  sono affidati alla ricostruzione degli amici di Riccardo che lo vedono per ultimi, del taxi, dell’amico del bar che lo accoglie spaventato, quasi terrorizzato ma inoffensivo fino all’arrivo dei carabinieri che lo immobilizzano brutalmente e che dichiarano che il ragazzo è ubriaco, nudo e spacca macchine. Ma il video amatoriale rubato da un testimone alla finestra con il telefonino che ha già fatto il giro del web non mostra un uomo pericoloso e minaccioso, non documenta alcun atto vandalico, ma un ragazzo accerchiato da tanti uomini, che lo comprimono a terra, gli danno un bel calcio per farlo tacere con qualche sarcastica battutina d’accompagnamento, mentre il giovane Riccardo non fa che gridare “aiuto” e dire che “sta morendo”. Queste le sue ultime parole. L’autopsia ha certificato che la morte di Magherini, ex calciatore del Prato di 40 anni, in realtà è sopraggiunta dopo lunga e dolorosa agonia. La causa principale della consulenza medica viene addebitata ad uno stupefacente assunto da Riccardo, ma c’è una parte residuale (su cui si farà battaglia) dovuta a complicanze asfittiche e cardiologiche. Per ora si escludono traumi di tipo lesivo dovuti a percosse, ma ancora una volta le foto del corpo dopo il decesso mostrano segni e lividi che vanno ben oltre la morte per soffocamento. Non è difficile ipotizzare che il balletto di telefonate con i soccorsi e l’accerchiamento brutale e la compressione sul corpo di Riccardo non abbiano aiutato il giovane a superare la crisi, ma lo abbiano definitivamente condannato a morte. Sono quattro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118 per omicidio colposo. Viene in mente, per analogia di cronaca, il caso del diciottenne Aldovrandi. La famiglia chiede di far luce sulle responsabilità. Non è chiaro e non è legalmente tollerabile che un uomo che grida, fosse pure in preda ad una crisi per droga, che non ha colpito o danneggiato niente e nessuno, invece di essere tempestivamente soccorso, sia accerchiato, sbattuto a terra anzi schiacciato quando già gridava di soffocare,  preso a calci, come sentono i cittadini in quella notte, anche con un sarcasmo orribile da branco e con tanta sottovalutazione da parte degli uomini del soccorso, che arrivano per “sedare” un uomo che è a faccia in giù sull’asfalto, ammanettato e senza respiro. Un controsenso, un’errata valutazione delle sue condizioni fisiche, un’overdose di violenza di gruppo su un uomo terrorizzato, visibilmente fuori di sé e in preda al panico, ma non aggressivo come tutti coloro che incontrano e sentono Riccardo quella notte sono pronti a testimoniare. Ancora una volta c’è, aldilà degli esiti giudiziari anche facili da immaginare, una sproporzione evidente tra l’azione delle forze dell’ordine - in questo caso carabinieri - e la persona per la quale sono chiamati ad intervenire. Nel caso di Riccardo un uomo destabilizzato da qualche stupefacente che teme di essere accusato di rapina per non aver pagato il taxi, che scappa e chiama aiuto, che non “spacca macchine”,  che non aggredisce alcuno. Nel caso di Aldovrandi un ragazzetto che tornava a casa, pestato a morire e soffocato, per cui tutte le istituzioni sono scese in campo a processo concluso e dopo l’orrore degli applausi agli agenti assassini. E ancora Stefano Cucchi, anche lui tumefatto di calci e lasciato morire dentro un ospedale dello Stato. La giustizia che come al solito salva gli uomini in divisa a priori e nonostante i fatti, quelli che proprio per onore di ciò che rappresentano – giustizia, legalità e sicurezza - dovrebbero pagare più degli altri quando ledono la legge e i diritti umani fondamentali, lasciano soprattutto un altro interrogativo sui corpi di queste vittime. Non si sa se sia stato per incompetenza, impreparazione o per un’odiosa esaltazione accompagnata da rivalsa ideologica contro chi ha il peccato di essere più fragile, magari di essere o esser stato un tossicodipendente, di chi vive nella marginalità o nel disagio. Un debole contro cui è facile e barbaro essere forti e scatenare campagne di odio sociale. Lo stesso che vediamo quando vengono affrontati i cortei degli studenti. Mentre indisturbati i delinquenti, drappelli di barbari a piede libero, riempiono gli stadi ogni domenica con la scusa del tifo calcistico e assediano città per ore e ore, lasciando i cittadini perbene in balia e in ostaggio degli incappucciati delle tifoserie. Qui non c’è uso sproporzionato della forza, qui tutto avviene al cospetto di divise imbarazzate, prudenti e obbedienti ad ordini che, evidentemente, considerano la vita di un delinquente allo stadio di maggior valore di quella di un uomo isolato e spaventato che grida di essere aiutato.

Caso Magherini, "omicidio colposo in concorso: indagati anche gli operatori del 118. Altri due sanitari nei guai. e ora le persone coinvolte sono undici, scrive  di Gigi Paoli su “La Nazione”. E siamo ad undici. Tante sono le persone che il sostituto procuratore Luigi Bocciolini ha iscritto nel registro degli indagati per l’ancora misteriosa morte di Riccardo Magherini, il quarantenne colpito da un malore fatale dopo aver avuto una colluttazione con i carabinieri che lo stavano arrestando nella notte fra il 2 e il 3 marzo scorso in San Frediano. E’ infatti notizia di ieri che gli inquirenti hanno deciso di procedere anche nei confronti dei due centralinisti della centrale operativa del 118 che materialmente ricevettero le telefonate di richiesta di intervento: uno è colui che parlò con i carabinieri, l’altro è colui che smistò le ambulanze per dirigerle, prima una con tre volontari e poi l’altra con medico e infermiere, in borgo San Frediano. Per entrambi l’accusa è omicidio colposo in concorso ed è la stessa che viene avanzata nei confronti dei cinque sanitari intervenuti sul posto. Una ben più grave contestazione di omicidio preterintenzionale colpisce invece i quattro carabinieri che fisicamente bloccarono Magherini, in evidente stato di alterazione psico-fisica, fino a spingerlo a terra ammanettato pancia a terra. In questa posizione rimase bloccato fino a quando non ci si accorse che l’uomo non respirava più. Al centro dell’inchiesta c’è sia il presunto eccesso di violenza dei militari al momento del fermo sia il modo in cui lo stesso Magherini venne immobilizzato: secondo l’esposto presentato dai familiari dell’uomo, il quarantenne «risulta essere stato immobilizzato con un uso della forza non previsto e contemplato nelle tecniche di immobilizzazione delle forze dell’ordine, fra cui: presa e stretta del collo con le mani; calci quantomeno ai fianchi-addome anche nel momento in cui era già steso prono a terra; prolungata pressione di più agenti sul suo corpo, compreso il tronco, in posizione prona sull’asfalto». E ancora: «Nel lungo arco temporale iniziato ‘qualche minuto prima’ che arrivasse la prima ambulanza fino a quando è arrivata la seconda ambulanza con l’avvio delle manovre di soccorso (almeno 15 minuti), Riccardo era già divenuto totalmente silenzioso e immobile». Nonostante questo «i quattro militari intervenuti hanno invece deciso di continuare a tenere Riccardo immobilizzato nella medesima posizione, continuando a esercitare pressione sul dorso».

Magherini, le chiamate di quella notte, scrive “La Nazione”. Le telefonate dei testimoni e quelle tra polizia, 118 e  carabinieri nella notte del 2 marzo quando in Borgo San Frediano, a Firenze, è morto Riccardo Magherini, l'ex calciatore della Fiorentina durante un concitato arresto da parte dei carabinieri. Sono le una del mattino, quando alla centrale del 112 arriva la prima richiesta di intervento: “ci siamo svegliati, si sentiva urlare delle persone che chiedevano aiuto”, racconta un residente. Nel giro di pochi minuti da Borgo San Frediano partono altre chiamate dello stesso tenore. Poco dopo l'arresto, la centrale dei carabinieri avverte i colleghi della questura: “l'abbiamo trovato, è uno ubriaco, a petto nudo, che spaccava macchine”. Un particolare poi smentito da tutti i testimoni, secondo i quali Magherini quella notte non appariva né violento o pericoloso, ma solo terrorizzato. La prima chiamata al 118 parte alle 1,21. Arrivati sul posto, gli operatori della prima ambulanza chiedono l'intervento di un medico. “dicono che ha tirato le manette in testa a un carabiniere adesso ne ha due sopra per tenerlo fermo e fino a quando non arriva il medico non lo lasciano più”. All'inizio gli operatori della centrale non capiscono la gravita della situazione e ci scherzano su: “Freddo non gli prende perché ha due carabinieri sopra”. E' il medico intervenuto con la seconda ambulanza che fa partire l'allarme, annunciando il trasferimento di urgenza all'ospedale di Santa Maria Nuova: “paziente trovato immobilizzato in asistolia, sto massaggiando”. Quando l'operatore del 118 chiede se il ragazzo ha preso droga, il medico risponde con la voce spezzata dalla tensione: “Per ora digli così, poi ne riparliamo”.

Le telefonate tra carabinieri e 118 con tono tranquillo: "C'è uno a petto nudo in mezzo alla strada", poi la situazione che precipita, fino alla telefonata del medico del 118 che comunica alla centrale che "il ragazzo è in acr (arresto cardio respiratorio, ndr)". E' tutta in una decina di telefonate la vicenda di Riccardo Magherini, il quarantenne morto dopo essere stato bloccato dai carabinieri in Borgo San Frediano a Firenze in seguito a una crisi di panico che lo aveva portato alla perdita del controllo. Telefonate tra il 118 e i carabinieri e tra il 118 e l'equipaggio dell'ambulanza chiamata a soccorrere l'uomo. Una vicenda che ha fatto dibattere l'opinione pubblica e che ora rivive in quelle telefonate. La prima, intorno alle 1.20, è proprio dei carabinieri, che segnalano al 118 che "c'è un uomo completamente di fuori, a petto nudo. Ci sono già due mie autoradio che stanno cercando di calmarlo". I carabinieri dunque si rivolgono direttamente al 118 e chiedono di intervenire. Le telefonate continuano. L'ambulanza inviata sul posto all'inizio sembra, da quello che si capisce dalle telefonate, non riuscire a trovare il luogo dove i carabinieri hanno immobilizzato Magherini. "La mia pattuglia - dice un carabiniere - riferisce che l'ambulanza gli passa vicino ma non si ferma". Il disguido viene risolto e l'ambulanza arriva. In altre telefonate il 118 chiede all'equipaggio dell'ambulanza "quanti maschietti ci sono?", sottolineando che la persona da soccorrere, Magherini appunto, è in forte stato di agitazione. "E' mezzo nudo e ha tirato le manette in faccia a un carabiniere". I colloqui sono quasi scherzosi in alcuni punti. Sono tutte telefonate che avvengono tra le 1.20 e le 2. E la situazione sembra comune a tante altre che riguardano ubriachi o persone fuori controllo nel centro storico. Il tono delle telefonate cambia completamente dopo le due. Quando il medico del 118 inviato sul posto avverte la centrale. "Sto massaggiando, il ragazzo è in acr, sono per la strada", dice il medico con voce molto preoccupata.  "Io direi che lo metto sopra (ovvero nell'ambulanza, ndr) e avvisi Santa Maria Nuova (l'ospedale) che sto arrivando massaggiando". La centrale del 118 avvisa a quel punto l'ospedale. Riccardo Magherini non riaprirà mai più gli occhi. 

Le ultime grida di Magherini arrestato: ''Aiuto, sto morendo''. "Aiuto aiuto, sto morendo". Sono le ultime, strazianti parole di Riccardo Magherini, 40 anni, l’ex giocatore delle giovanili viola morto la notte tra il 2 e il 3 marzo in Borgo San Frediano, a Firenze, durante l'arresto dei carabinieri. La richiesta di aiuto è stata registrata con un telefonino da un residente affacciato alla finestra. Pochi minuti prima Magherini era stato bloccato mentre vagava in stato confusionale: "Aiuto, vogliono uccidermi", gridava. Arrivati sul posto i carabinieri lo immobilizzano al termine di un parapiglia, davanti a decine di persone affacciate alle finestre e a un gruppo di passanti. Sono le 1,25: un residente si affaccia alla finestra e gira il video, mentre Riccardo si trova ammanettato a terra in posizione prona, con quattro carabinieri che lo tengono fermo sull'asfalto. Nelle immagini non si vede niente, ma si sentono le invocazioni di aiuto: "Mi sparano","ho un figlio", "sto morendo". Poi, all’improvviso, Riccardo smette di urlare e di dimenarsi. Per chiarire le cause della tragedia la magistratura ha aperto un’inchiesta, al momento senza indagati. L'autopsia ha escluso che la morte sia stata provocata da percosse. Sono in corso gli esami istologici e tossicologici che dovrebbero indicare la causa della morte e chiarire se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. Chi l'ha visto ricostruisce la cronologia delle telefonate tra residenti e soccorsi. Chiamate di soccorso ancora sotto accusa, quella dell'opinione pubblica. Così potrebbero essere riassunte le telefonate di quella tragica notte fiorentina che ha visto Riccardo Magherini in San Frediano scappare da una presunta minaccia di morte, entrare e uscire dai locali, rompere alcune vetrine e finire la sua corsa tra le braccia dei carabinieri. La trasmissione di Rai 3 ha riproposto le conversazioni tra residenti allarmati e forze dell'ordine. Ma anche le chiamate avvenute tra gli stessi addetti ai lavori e proprio queste hanno suscitato imbarazzo e polemiche anche e soprattutto a Firenze. Al centralino qualcuno prende le notizie con leggerezza, altri se la ridono. "Un uomo a torso nudo.. rompe delle auto in sosta" non è una bella immagine quella che arriva attraverso l'etere a chi deve intervenire e non ha modo di valutare personalmente la scena. I cittadini sono preoccupati per le urla che provengono dalla strada, sollecitano l'intervento dei soccorsi. Quando l'ambulanza non trova le pattuglie dei carabinieri accade l'incredibile: "I carabinieri dicono che state passando ma non vi vedono" è la segnalazione del centralino alle ambulanze. Tra gli indagati ci sono i carabinieri, a causa del modus operandi sul fermo, ma anche alcuni dei soccorritori per presunte irregolarità commesse nel corso dell'intervento. Il quadro che ne esce non mette in buona luce gli operatori, rischia anzi di compromettere il rapporto di fiducia tra soccorso pubblico e cittadinanza.

Magherini, la difesa dei volontari:"Le manette ostacolarono l'intervento". "Quel video, quelle urla: quanto dolore...": parla il padre di Riccardo Magherini. Guido Magherini, padre di Riccardo, racconta la sua battaglia cominciata il 3 marzo dopo il fermo e la morte del figlio: "Ricky chiedeva aiuto, non aveva aggredito nessuno, scrive Selene Cilluffo su “Today”. Riccardo Magherini era un ex calciatore della primavera della Fiorentina. Nella notte tra 2 e il 3 marzo subisce un fermo da parte di alcuni carabinieri. Poco dopo è morto. Sul caso ancora tante le ombre. Ma ciò che è sicuro è l'impegno della sua famiglia per chiedere verità e giustizia. Per questo abbiamo parlato con suo padre, Guido Magherini.

Lei e Andrea, fratello di Riccardo, avete spesso sottolineato che il nonno della famiglia faceva parte dell'Arma dei carabinieri. Ha mai ricevuto solidarietà da parte di qualcuno dell'Arma dei carabinieri? Personale o pubblica?

"No, assolutamente, mai. A parte il primo giorno dove ci hanno mostrato vicinanza perché sono amico di alcuni di loro. Ma da quella volta lì, basta, nulla più".

Pochi giorni fa centinaia di persone hanno partecipato al Flash Mob per Ricky. Quanto è importante per Lei sentire la vicinanza di questa gente che vuole come la sua famiglia verità e giustizia?

"Un affetto così non pensavamo neppure di averlo. Abbiamo avuto la conferma che Riccardo era amato da tutti in un modo davvero bello, pulito. Le porto un esempio: siamo stati a "Chi l'ha visto" e Andrea ha detto che volevamo rispetto anche dall'avvocato che difende i carabinieri, che è pagato con soldi pubblici, come i suoi assisti. Poco dopo sulla pagina facebook gli amici del Maghero è arrivato un messaggio di una ragazza che lanciava l'idea di raccogliere fondi per le nostre spese legali. Noi l'abbiamo ringraziata, ma non vogliamo niente. Quello che abbiamo capito però è quello che stava dietro a questa proposta: un affetto davvero immenso".

Avete reso pubbliche immagini, video e molto materiale sul caso. Perché è importante che la storia della morte di Riccardo si conosca?

"E' importantissimo: la gente deve capire che la Ricky ha subito un'ingiustizia. Io all'inizio neppure volevo sentirle le urla di Riccardo e non volevo vedere il video. Sono stati l'avvocato Fabio Anselmo e il senatore Luigi Manconi a convincermi. Quando ho sentito quella voce mi si è aperto e sanguinato il cuore. Continua a chiedere aiuto ma lo fa in maniera educata e lo ha fatto fino all'ultimo respiro. Se fosse successo a me gli avrei detto di tutto ai carabinieri e lui mentre veniva torturato non lo ha fatto. Noi non ce l'abbiamo con l'arma anzi vorremmo che chi fa bene il proprio lavoro prendesse le distanze da chi quella divisa non la merita".

Quindi anche Lei come Patrizia Moretti, Lucia Uva e Ilaria Cucchi pensa che chi porta una divisa e sbaglia deve togliersela?

"Quella divisa ha un senso di onore e chi si comporta male non deve indossarla. Ricky chiedeva aiuto, in più non aveva aggredito nessuno. I testimoni lo hanno smentito. Pensi che pure io all'inizio credevo a quello che mi era stato detto nonostante sia stato io a chiamare il brigadiere dei carabinieri per sapere cosa era successo a Riccardo. Lui mi rispose che era morto per infarto, che aveva fatto il pazzo, che aveva aggredito una donna. Poi c'è stato un momento in cui ho capito che qualcosa non andava. Fino a che noi non abbiamo denunciato i militari e i paramedici l'unico indagato era Riccardo, mentre lui era una brava persona, onesta, leale ed educata. Adesso sappiamo la verità e andremo fino in fondo".

Patrizia Moretti è ancora impegnata dopo più di otto anni nella battaglia per chiedere verità e giustizia per Federico. La sua battaglia è appena cominciata. Fino a quando durerà?

"Ho 63 anni, sono in buona salute e posso andare avanti fino a che non vivo. Quando morirò io c'è Andrea, suo fratello. Poi ci sono i nostri nipoti Duccio e Brando. Fino a quando non avremo giustizia non ci fermeremo. Riccardo era una brava persona, hanno voluto farlo sembrare un delinquente. Noi siamo dalla parte della ragione, siamo noi la verità".

I legali dei soccorritori della Croce Rossa indagati: "Massaggio cardiaco mentre era ancora ammanettato", scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. “Riferendo i militari di una situazione altamente pericolosa, non è stato possibile prestare soccorso. Le reiterate richieste di togliere le manette o cambiare posizione al paziente, provenienti dai volontari della Croce Rossa, sono rimaste tutte vane. Il giovane è stato liberato dalle manette solo a massaggio cardiaco già iniziato”. E' la difesa dei legali dei tre volontari della Croce Rossa indagati per il caso Riccardo Magherini, morto la notte del 2 marzo in Borgo San Frediano durante un fermo dei carabinieri. I volontari sono indagati per omicidio colposo insieme a due operatori del 118 che coordinarono le operazioni di soccorso e al medico e all'infermiere che tentarono di rianimare Riccardo. Sul registro degli indagati anche i 4 militari intervenuti sul posto accusati di omicidio preterintenzionale. Sono le 1,32 quando l'ambulanza con i tre volontari arriva in Borgo San Frediano. “Mentre i volontari cercavano di avvicinarsi alla persona immobilizzata- dicono gli avvocati Massimiliano Manzo e Andrea Marsili Libelli- un carabiniere è andato loro incontro chiedendo in maniera vistosamente agitata, quasi aggressiva, se fra di loro vi fosse un medico, in quanto la persona era pericolosa, violenta e necessitava di essere sedata. Diversi militari si alternavano nel tenere le mani ammanettate e dietro al schiena del soggetto: chi a cavalcioni, chi con un ginocchio, chi con le mani. Una delle volontarie chiedeva al caposquadra di informare la centrale operativa del 118 circa il fatto che i carabinieri impedivano qualsivoglia valutazione del paziente”. Tempo pochi minuti e sul posto arriva anche il medico chiamato per sedare Riccardo. “Il medico chiedeva di togliere immediatamente le manette, giacché, diversamente, qualsiasi manovra di soccorsa sarebbe stata del tutto inefficace, se non impossibile- spiegano ancora. Tuttavia i militari riferivano di non trovare le chiavi delle manette, per cui i primi soccorsi (finalmente autorizzati dai militari) sono stati posti in essere con Magherini ancora ammanettato”. Chiusura, infine, sulle dichiarazioni dei tre volontari rese poche ore la tragedia davanti agli stessi carabinieri. Una testimonianza che sarebbe stata viziata da un pesante condizionamento psicologico: “Alle tre di notte due militari già presenti in Borgo San Frediano hanno sentito a sommarie informazioni uno dei volontari, nella stessa stanza con il corpo di Magherini, con comprensibile sgomento della stessa. Ed in un simile contesto, la volontaria, ancora tremante per la morte del giovane avrebbe potuto dichiarare qualunque cosa, decidendo lo stesso militare come e cosa inserire nel verbale. Tali accertamenti - concludono gli avvocati - sono viziati da assoluta nullità, del tutto inutilizzabili”. La Replica. "Leggo, oserei dire, con stupore il comunicato stampa dei difensori dei volontari della Croce Rossa che contiene la segnalazione di svariati profili di indagini tuttora in corso di accertamento". Lo dice in una nota l'avvocato Francesco Maresca, difensore dei quattro carabinieri indagati con l'accusa di omicidio preterintenzionale. "Nello stigmatizzare ancora una volta la scelta di utilizzare i giornali per presentare le proprie valutazioni processuali - continua Maresca - sono costretto a ricordare che i carabinieri intervenuti, come risulta agli atti, hanno reiteratamente richiesto e sollecitato l'intervento del 118, e quindi che gli stessi abbiano poi ostacolato gli accertamenti dei sanitari appare oggettivamente incomprensibile". E questo "sia in riferimento al caso specifico ma, ancor più, in riferimento in generale a tutti gli interventi svolti dagli operatori dell'Arma dei carabinieri" aggiunge. "Peraltro, le sommarie informazioni assunte da una dei volontari della Cri risultavano, evidentemente, prassi di indagine nell'immediatezza del decesso di una persona, così come sempre vengono svolte dagli operatori di polizia giudiziaria in seguito a un episodio del genere" prosegue la nota dell'avvocato. "Dichiarazioni poi confermate nel loro tenore dalla stessa operatrice successivamente davanti alla polizia giudiziaria delegata dal pubblico ministero e riscontrate nel contenuto circa lo svolgimento dei fatti anche da quelle degli altri volontari anch'essi sentiti nell'immediatezza e successivamente. Quale difensore dei carabinieri indagati, resto in attesa della conclusione delle indagini preliminari, ritenendo che l'intervento degli stessi è stato realizzato secondo protocollo". "Aumentano le persone da querelare per il collega Francesco Maresca". Lo dice l'avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia di Riccardo Magherini, il 40enne fiorentino morto in strada nella notte tra il 2 e il 3 marzo, dopo l'arresto, commentando il comunicato stampa dei difensori dei tre volontari della Cri, indagati insieme ai carabinieri, a 2 sanitari e a 2 operatori del 118 nell'inchiesta sulla morte dell'uomo. "Prendo atto di quanto accadde durante l'intervento - conclude l'avvocato Anselmo riferendosi alla ricostruzione dei legali dei volontari dell'ambulanza intervenuti sul posto -: presto decideremo cosa fare con la famiglia Magherini".

RICCARDO MAGHERINI, DOV’E’ LA VERITA’ TRA LE TANTE VERITA'? NUOVA VITTIMA DI MALAPOLIZIA?

Morte di Magherini, la Procura: «Processate militari e soccorritori». Si tratta di quattro carabinieri e tre volontari accusati di omicidio colposo. Il fratello della vittima: «Non finirà come il caso Cucchi, qui ci sono stati testimoni», scrive Antonella Mollica su  “Il Corriere della Sera”. La Procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone per la morte di Riccardo Magherini, l’ex calciatore di 39 anni morto durante l’arresto la notte tra il 2 e il 3 marzo scorso mentre era in preda a una crisi di panico scatenata dalla cocaina. Nella richiesta inviata al gip il pm Luigi Bocciolini e il procuratore capo Giuseppe Creazzo contestano in reato di omicidio colposo per quattro carabinieri e tre volontari che quella notte intervennero in Borgo San Frediano con l’ambulanza del 118 dopo che Magherini era stato fermato. A uno dei militari viene anche contestato il reato di percosse per alcuni calci che sarebbero stati sferrati mentre Magherini era a terra, già immobilizzato e ammanettato. Magherini, secondo la ricostruzione dei consulenti medico legali della Procura, morì per la excited delirium syndrome causata dalla cocaina e dall’asfissia determinata dalla posizione in cui venne tenuto quella notte: per oltre 20 minuti in posizione prona, con le braccia ammanettate dietro la schiena. La famiglia: nostro avversario è la prescrizione. «Le richieste di rinvio a giudizio sono una bella notizia. E ciò che differenzia la vicenda di Riccardo dalle altre, penso a quella di Cucchi, è che è successo tutto in una strada, con testimoni alle finestre», commenta Andrea, fratello di Riccardo Magherini. «Il nostro avversario è la prescrizione - ha aggiunto il padre Guido - Siamo contenti di andare a processo, è già un ottimo risultato, visto anche come vanno a finire altre vicende, come quella di Stefano Cucchi».

Secondo quanto dichiarato dall'Asl di Firenze alle 1.23 del 4 marzo 2014 il 118 di Firenze riceveva la chiamata dei carabinieri per un uomo in forte stato di agitazione. Alle 1.33 il personale paramedico è intervenuto sul posto trovando però l'uomo in un fortissimo stato di agitazione e hanno chiesto l'intervento di un medico per la sedazione arrivato alle 1.44. Secondo quanto comunicato dall'azienda all'arrivo del medico l'uomo si sarebbe già trovato in arresto cardiaco. Dopo vari tentativi di rianimazione è stato deciso il trasporto alle 2.12 verso l'ospedale di Santa Maria Nuova dove l'ambulanza è giunta alle 2.25. Alle 2.45 è stato dichiarato il decesso.

Riccardo Magherini, nuova vittima della malapolizia? Si chiede “Articolo 3”. Lo conoscevano, nel capoluogo toscano. Era stato una giovane promessa del calcio fiorentino e, proprio con la Primavera viola, vinse il torneo di Viareggio del '92, vetrina per giovani campioni. Il suo nome tra i "big" sembrava già scritto, se non che, proprio in quell'occasione, un infortunio gli costò la rottura dei legamenti e la distruzione di un sogno. Riccardo Magherini: si chiamava così, quel giovane campione che vide le sue ambizioni spazzate via, 22 anni fa. Tentò ancora fortuna nel calcio australiano, ma inutilmente. Tornato in Italia poco tempo dopo, disse semplicemente addio al mondo nel pallone, per ricominciare una vita nuova, lasciando che la sua passione restasse un ricordo, il suo nome ricordato dai più fedeli appassionati. Certo non poteva immaginare che il suo stesso nome sarebbe finito sulle pagine dei giornali, nella cronaca nera, per una morte tanto controversa quanto misteriosa. Perché Magherini è deceduto così: inspiegabilmente, nella notte tra il 3 e il 4 marzo, mentre i carabinieri tentavano di arrestarlo. Il suo cuore ha smesso di battere, probabilmente per infarto, e le ricostruzioni di quei momenti sono contrastanti, poco chiare. Magherini si trovava a Firenze, in pizzeria, ieri sera. Era con un gruppo di amici, una serata in compagnia forse organizzata per sollevargli il morale: da pochi giorni si era separato dalla moglie, con la quale aveva avuto anche una figlia, ora di due anni, ed era tornato a vivere con la madre, a quarant'anni. Una pausa, quella cena, anche dal suo lavoro, che alcuni hanno definito stressante: curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi in Toscana. Durante la cena era parso iperattivo, ma non aveva dato alcun segno di una crisi imminente. Quella che, invece, lo ha colpito nel momento in cui i suoi amici l'hanno lasciato solo. "Qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa", riferiscono fonti del comando provinciale dei carabinieri, riportate da Repubblica. Ha iniziato ad agitarsi: ha tentato di sfondare alcune vetrine e ha sottratto un cellulare ad un cameriere del locale "Borgo la pizza". "Mi vogliono sparare", aveva denunciato, "fammi chiamare la polizia". E poi la frenesia: in strada si è messo a correre e urlare, svegliando tutti. Ha rincorso addirittura un'automobile, per poi introdursi nell'abitacolo. "Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola", ha spiegato la proprietaria, interpellata sempre da Repubblica. A quel punto sono giunti i carabinieri, allertati dalla cittadinanza. In due. Con le mani alzate, si sono avvicinati all'ex campione che, però, ha reagito con violenza: spintoni e pugni. Immediatamente, sono giunti i rinforzi: altri due uomini in divisa hanno raggiunto Magherini e l'hanno bloccato. Immobilizzato in terra dai quattro militari, sull'asfalto di Borgo San Frediano, l'uomo è morto. Era da poco passata l'1 di notte, la chiamata al 118 è partita infatti all'1.23. Alle 2.45, Magherini è stato dichiarato deceduto, stroncato dall'arresto cardiaco. Ma i dubbi sono tanti. Chi era in strada, ieri sera, offre versioni discordanti. C'è chi parla di un intervento legittimo e regolare, chi, invece, getta ombre pesanti sul modo di operare dei 4 militari. Magherini "era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia", ha raccontato una giovane al quotidiano di De Benedetti. "Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere." Il pm Luigi Bocciolini ha disposto l'autopsia: si vuole chiarire se le denunce di violenza possano essere attendibili. "Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto", ha chiosato il padre, Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, intervistato da La Nazione. "Per me, è morto dalla paura. L’ho visto, Riccardo: ha il viso pieno di ematomi." A dimostrarlo, ci sarebbero delle fotografie, scattate dal fratello della vittima. Il volto, in effetti, presenta alcune escoriazioni, che potrebbero, però, essere state causate dall'attrito con l'asfalto. Resta da chiarire anche cosa possa aver scatenato la crisi. Secondo le prime ricostruzioni, si sarebbe trattato di un violento attacco di panico, dovuto all'assunzione di farmaci antidepressivi e alcool.

Riccardo Magherini: la strana morte durante l’arresto dei carabinieri, scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva gridato. Ha perso la vita, stroncato da un infarto sull'asfalto di San Frediano, a Firenze, immobilizzato per terra mentre cercavano di arrestarlo. Contrastanti le ricostruzioni: alcuni testimoni hanno denunciato presunte violenze. Correva per strada urlando, forse vittima di un attacco di panico: «Vogliono spararmi», aveva denunciato Riccardo Magherini, ex giovane promessa della Fiorentina. Poi, dopo aver sfondato delle vetrine e rubato un cellulare, ha perso la vita. Stroncato da un infarto, mentre veniva immobilizzato per terra da quattro carabinieri che cercavano di arrestarlo. Non mancano le perplessità sulla controversa morte dell’ex calciatore, oggi 40enne, deceduto sull’asfalto di una strada di Borgo San Frediano, a Firenze. Tra i testimoni c’è chi ha denunciato di aver visto gli agenti colpire l’uomo con calci all’addome. E chi, al contrario, ha spiegato come tutto sia avvenuto in modo regolare. Attesi per oggi i risultati dell’autopsia, che potranno svelare maggiori dettagli sulla vicenda. Nonostante le discordanze, in base al racconto di alcuni testimoni si è tentato di ricostruire il caso. Repubblica ha riportato la versione del comando provinciale dei carabinieri:  «L’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Correva per strada, Riccardo Magherini. Chiedendo aiuto, urlando, in forte stato confusionale. «Mi vogliono sparare», gridava, denunciando di essere inseguito e di voler chiamare la polizia. Forse vittima di un violento attacco di panico, aveva sfondato alcune vetrine e rubato un telefonino a un lavoratore del locale «Borgo la Pizza». Per poi cominciare a rincorrere un’automobile, riuscendo a entrare nella vettura. «Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola», ha raccontato a Repubblica la proprietaria. All’arrivo degli agenti, avrebbe reagito con urla e spintoni. In quattro l’hanno immobilizzato. L’uomo ha cercato di resistere, poi ha smesso di dimenarsi, vittima di un infarto. Inutili sono stati i tentativi di rianimarlo. Ma sulla strana fine non mancano i dubbi: non sono ancora emerse responsabilità dei carabinieri intervenuti, ma è stato il pm Luigi Bocciolini a disporre per oggi l’autopsia, nel tentativo di verificare se le denunce di presunte violenze siano attendibili.  Sposato e padre di una bambina di 2 anni, era andato a vivere dalla madre, dopo la separazione dalla moglie, soltanto pochi giorni fa. Il padre Guido, a sua volta ex calciatore di Milan e Palermo, ha spiegato alla Nazione di voler aspettare l’autopsia per capire come comportarsi: «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi», ha denunciato. Il fratello di Riccardo ha fotografato il corpo. Secondo un primo esame esterno, il volto presenta alcune escoriazioni. Come spiega il quotidiano del gruppo QN, il familiare ha tentato di ripercorrere le ultime ore del figlio.  «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici», ha spiegato. Giovane promessa del calcio fiorentino, Riccardo Magherini aveva anche vinto con la Primavera viola allenata da Mimmo Caso il torneo di Viareggio del 1992. Ma un grave infortunio – nella semifinale di quel torneo – gli costò la rottura dei legamenti, contribuendo a spezzare le sue ambizioni. Aveva tentato anche fortuna nel calcio australiano, per poi tornare in Italia e abbandonare il mondo del calcio. Per il 40enne il calcio era ormai il passato: dopo aver passato diversi anni a Palermo, era tornato a Firenze, dove curava i rapporti economici della famiglia di uno Sceicco degli Emirati Arabi, così come ha riportato il Corriere fiorentino. Forse è stato proprio il nuovo lavoro a procurargli dello stress. Avrebbe preso una tachipirina, dopo aver bevuto,  secondo il racconto di alcuni amici. Un mix che potrebbe avergli causato un violento attacco di panico. Poi, la fuga per strada, le urla, la vetrina sfondata. E, dopo l’arrivo degli agenti e la colluttazione, l’infarto e la morte sull’asfalto di San Frediano.  Tutto in attesa dell’autopsia attesa dai familiari.

La scomparsa di Riccardo Magherini, il padre Guido: "E' morto dalla paura...". "È morto d'infarto in circostanze da chiarire", ha concluso il padre, che non sa trovare una spiegazione a quanto accaduto. "Abbiamo già preso contatto con un medico legale che prenderà parte all'autopsia. Solo dopo decideremo se presentare una denuncia", scrive Stefano Brogioni su La Nazione.

La Nazione (Stefano Brogioni) ha raccolto il dolore di Guido Magherini, padre di Riccardo, scomparso prematuramente l'altra notte sui cui le dinamiche devono ancora essere chiarite... Alla Famiglia Magherini le più sentite condoglianze dalla redazione di Fiorentina.it e dai tifosi viola per la scomparsa di Riccardo. «Ricky non era un bandito, e non aveva nemmeno bisogno di rapinare nessuno. Si è sentito male, aveva bisogno di qualcuno e purtroppo, a quell’ora, non ha trovato nessuno dei suoi tanti amici». Ma Guido Magherini, ex calciatore di Rondinella, Milan, Lazio e Palermo, vuole vederci chiaro sulle cause dell’infarto che avrebbe stroncato la vita, ad appena quarant’anni, di suo figlio Riccardo. All’autopsia, disposta oggi dal pm Luigi Bocciolini, parteciperà anche un perito nominato dalla famiglia. «Ci diranno perché il suo cuore ha ceduto. Per me, è morto dalla paura. L’ho visto Riccardo: ha il viso pieno di ematomi». Assieme a Massimiliano Papucci, l’attuale allenatore della Rondinella e amico di vecchia data della famiglia, Guido ha ripercorso le tappe dell’ultima sera di Riccardo. Ha parlato con chi l’ha visto arrivare, delirante, confuso, e con chi ha tentato di aiutarlo prima che fosse troppo tardi. Ma gli interrogativi sono tanti. Troppi, davanti alla morte di uno sportivo amato e benvoluto. Il calcio, però, era ormai il passato di Magherini. Adesso, era concentrato — forse persino in ansia — per il suo nuovo lavoro: era diventato l’art designer di un ricchissimo arabo. In questo periodo, questa persona era venuta ad affrontare un’operazione chirurgica a Firenze. Riccardo stava curando questa sua trasferta nei minimi dettagli. «Questo gli aveva procurato dello stress», ammettono gli amici. Domenica sera, Magherini ha cenato in borgo San Frediano con il fratello dell’arabo, poi è rientrato in un hotel di Borgognissanti, dove aveva alloggiato anche lui per stare vicino al gruppo. «Riccardo non si era sentito bene, aveva preso una tachipirina. Ma ha anche bevuto», hanno ricostruito. Un mix che gli avrebbe scatenato una crisi. Quando si è ritrovato da solo, prima di andare a letto, avrebbe avuto un attacco di panico, forse addirittura delle allucinazioni. Smarrito, anzichè salire in camera, ha cominciato a vagare, senza il telefono che i carabinieri stanno ancora cercando. Ha attraversato il ponte, è arrivato in San Frediano. Casa sua. «Urlava ’aiuto, aiuto, mi vogliono ammazzare’», riferisce il padre, dopo aver parlato con i titolari dei locali visitati da Riccardo nel delirio. Infine, la colluttazione con i carabinieri. «Ne ha ferito uno quando aveva già il bracciale delle manette a un polso, colpendolo in fronte». E poi? «Quando è arrivata l’ambulanza, mio figlio era già morto». Per le risposte, quelle ufficiali, parola dunque all’indagine della procura. Riccardo, sanfredianino doc, dopo il calcio aveva gestito un negozio di abbigliamento nel suo rione. Non aveva problemi economici, nemmeno di droga, e, dice chi gli è stato vicino, anche la separazione dalla moglie «era una pausa di riflessione». Su Facebook, la bacheca dell’ex calciatore è intasata dagli addii di chi gli voleva bene. «Era un trascinatore, un leader, nel calcio e nella vita», dice Massimiliano Papucci. E scende una lacrima. Quella che hanno versato i tanti amici del Maghero.

E’ morto in circostanze strane l’ex biancazzurro Riccardo Magherini. Un pensiero di commozione affidato a Facebook dall’amministratore delegato dell’Ac Prato, Paolo Toccafondi che lo ricorda come un “imperdonabile splendido diverso”, scrive Pasquale Petrella su “Il Tirreno”. «Ciao Riky.....ti voglio ricordare così....un imperdonabile splendido diverso....!!!» Sono queste le parole di commiato affidate a Facebook da Paolo Toccafondi, amministratore delegato dell’Ac Prato - società di calcio che milita in Prima Divisione - per Riccardo Magherini, giocatore biancazzurro nella stagione 1998/99, morto in circostanze alquanto strane il 3 marzo a Firenze all’età di 40 anni. "Era un bravissimo ragazzo, estroso, un pò naif - così Paolo Toccafondi - L'ultima volta che l'ho visto è stato circa un anno fa. So che faceva l'arredatore e che aveva fra i suoi clienti soprattutto dei facoltosi arabi. Ma il mio ricordo di Riccardo è legato soprattutto al periodo in cui abbiamo giocato insieme nel Prato nel 1998-99. Era la prima stagione da allenatore di Ciccio Esposito e abbiamo raggiunto anche la finale playoff. E ancora prima, quando sono stato una stagione a Foggia, abbiamo condiviso una parte del ritiro". "Sono estremamente dispiaciuto per lui e per la sua famiglia. Il Maghero, come lo chiamavamo, era un buono, fuori dagli schemi del calciatore tradizionale. Era di una grande semplicità. Era capace di dormire in una cantina come in un Grand Hotel con la stessa disinvoltura".

È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo aver creato non pochi problemi in un paio di pizzerie e ad un’automobilista costretta a scappare dalla propria auto, i carabinieri lo hanno immobilizzato e chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l'intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l'uomo in arresto cardiaco. Un'ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione.

4 marzo 2014, muore Riccardo Magherini: ecco le versioni date dai giornalisti.

Magherini jr, tragica fine, scrive “Sportal". Nel 1992, neanche diciottenne, era una promessa della Fiorentina di Mimmo Caso, tanto da vincere un Torneo di Viareggio. Nel 2014, a quarant'anni, ha trovato la morte dopo essere stato arrestato. E' tragica la storia di Riccardo Magherini, figlio dell'ex attaccante di Milan e Lazio Guido Magherini. Secondo quanto riferito da 'Il Tirreno', il 40enne era stato fermato in località Borgo San Frediano in stato confusionale mentre vagava seminudo. Dopo averlo immobilizzato, i carabinieri hanno chiamato il 118. I volontari della Croce Rossa hanno trovato l'uomo in stato di agitazione, tanto da richiedere l'intervento di un nuovo medico che però, accorso sul luogo dieci minuti dopo, ha trovato Magherini già in arresto cardiaco. Inutili i tentativi di rianimazione, l'ex promessa si è spenta in ospedale un'ora dopo. Secondo la ricostruzione de 'Il Tirreno', Magherini prima dell'intervento dei militari aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata e portato via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. In seguito era salito sul sedile posteriore di un'auto, spaventando la donna che si trovava al volante, che ha abbandonato la vettura. La scena si è ripetuta in seguito in un'altra pizzeria. All'arrivo dei carabinieri Magherini si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiamare un'altra pattuglia.

Muore in strada mentre lo arrestano. La Procura di Firenze apre un’inchiesta. Al momento del fermo il 40enne vagava in evidente stato confusionale.  Si pensa a un attacco cardiaco. Pochi giorni fa la separazione dalla moglie, scrive “La Stampa”. È morto dopo essere stato arrestato. Riccardo Magherini, 40 anni, fiorentino, ieri vagava seminudo e in stato confusionale in Borgo San Frediano a Firenze. Dopo averlo immobilizzato, i militari hanno chiamato il 118. I volontari della croce rossa, arrivati su una prima ambulanza, visto lo stato di agitazione del quarantenne, hanno chiesto l’intervento di un medico che, dieci minuti dopo, ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale, dopo ripetuti tentativi di rianimazione. Il pm Luigi Bocciolini ha aperto un’inchiesta, affidando gli accertamenti a un pool di carabinieri e poliziotti e disponendo l’autopsia, che sarà eseguita domani. Non ci sono indagati. Stamani i familiari del quarantenne sono stati all’istituto di medicina legale per vedere la salma. Sposato, fino a poco tempo fa titolare di un negozio nel centro di Firenze, da alcuni giorni Magherini si era separato dalla moglie ed era andato a vivere con la madre. Il padre, Guido Magherini, è stato un calciatore di serie A.  La scorsa notte, prima dell’arrivo dei militari, Magherini aveva sfondato la porta di una pizzeria con una spallata, portando via il cellulare al pizzaiolo, al quale aveva chiesto aiuto, dicendo di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi era salito sul sedile posteriore di un’auto: al volante c’era una donna, che era fuggita impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, era entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri, si era scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari erano riusciti a immobilizzarlo a terra e ad ammanettarlo.  

Muore in strada mentre i carabinieri lo arrestano. Testimonianze contrastanti: “Preso a calci”, “Lo tenevano solo a terra”, scrive Luca Serrano su “La Repubblica”. E’ morto sull’asfalto di Borgo San Frediano, circondato dai carabinieri e dai volontari del 118 che avevano invano cercato di rianimarlo. Riccardo Magherini aveva 40 anni, una moglie e un figlio piccolo di due anni. Nella notte tra domenica e lunedì ha perso la vita dopo essere stato arrestato: completamente fuori di sé, forse per un violento attacco di panico, ha sfondato la vetrina di una pizzeria e strappato il cellulare ad un dipendente: «Mi vogliono sparare, devo chiamare la polizia», ha detto. I carabinieri l’hanno bloccato in strada dopo un lungo parapiglia (4 militari sono stati curati con ferite guaribili tra i 2 e i 10 giorni), sotto gli occhi di decine di persone affacciate alle finestre e di alcuni passanti. Poi, mentre si trovava bloccato a terra, ha smesso di dimenarsi e di urlare. Stroncato da un infarto. La vicenda ha fatto scattare gli accertamenti da parte della procura, con il pm Luigi Bocciolini che ha disposto l’autopsia per chiarire con esattezza le cause della morte. Al momento non sono emerse responsabilità da parte dei carabinieri intervenuti, tanto che l’esame autoptico è stato fissato senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati. Sei persone hanno dichiarato che l’intervento è stato regolare, ma altri testimoni parlano di violenze. Secondo la ricostruzione del comando provinciale dei carabinieri, l’uomo aveva passato la serata insieme con un gruppo di amici in un ristorante della zona, senza mostrare i segni di un’imminente crisi ma apparendo “iperattivo”. Una volta rimasto da solo, qualcosa di imprevedibile è scattato nella sua testa e gli ha fatto perdere il controllo. Forse un attacco di panico, forse una crisi dovuta all’assunzione di farmaci antidepressivi. Fatto sta che ha cominciato a vagare nel quartiere di San Frediano in stato confusionale, con urla così forti da essere sentite a centinaia di metri di distanza: «Si è presentato con l’aria sconvolta — racconta un lavoratore della pizzeria Borgo la Pizza — diceva che qualcuno voleva sparargli. Gli ho detto di calmarsi e che avrei chiamato la polizia, ma lui ha tirato una spallata alla vetrina, mi ha strappato il cellulare di mano ed è corso fuori». Pochi secondi e poi ha cominciato a rincorrere un’auto: «Ho visto che cercava di affiancarsi, ho accelerato ma è riuscito ad aprire la portiera e a salire in corsa — racconta la donna al volante — lo conoscevo di vista, non sembrava pericoloso ma era fuori di sé. Ho frenato e gli ho chiesto di scendere, lui l’ha fatto subito senza dire una parola». L’arrivo delle gazzelle pochi istanti più tardi, dopo che l’uomo era entrato e uscito da un’altra pizzeria della zona (da Gherardo). I primi due carabinieri si sarebbero fatti avanti con le mani alzate nel tentativo di tranquillizzarlo, ma Riccardo avrebbe reagito con urla e spintoni. Sono arrivati i rinforzi e in quattro l’hanno immobilizzato dopo un lungo parapiglia. I primi soccorsi sono stati quelli dei volontari della Croce Rossa (la chiamata al 118 è delle 1.23), che hanno trovato l’uomo in gravi condizioni tanto da richiedere l’intervento di un medico. Poi le disperate operazioni di rianimazione, terminate alle 2.45 a Santa Maria Nuova con la constatazione di morte. Bianca Ruta, una studentessa di 26 anni che ha assistito alla scena dalla finestra, chiama in causa l’operato dei militari: «La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti». Un altro testimone dà una versione opposta: «Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani».

Riccardo Magherini è morto la notte tra 3 e 4 marzo 2014 per una crisi cardiaca che lo ha colpito durante l’arresto a Firenze, scrive “Blitz Quotidiano”. Magherini, 40 anni, era in forte stato confusionale e di agitazione dopo aver rubato un cellulare e distrutto alcune vetrine. “Mi vogliono uccidere, aiutatemi”, gridava ai negozianti e alle auto di passaggio. All’arrivo dei carabinieri di Borgo San Frediano l’uomo li ha aggrediti: è stato immobilizzato a terra e ammanettato, poi ha accusato il malore. Secondo alcuni testimoni però gli agenti non si sarebbero limitati ad immobilizzarlo, ma lo avrebbero picchiato mentre era giàò a terra. Per determinare le cause della morte il pm Luigi Bocciolini ha disposto l’autopsia sul corpo dell’uomo. Secondo una prima ricostruzione, all’1 di notte del 4 marzo Magherini si aggirava a torso nudo in borgo San Frediano gridando in evidente stato di agitazione, dicendo che volevano ucciderlo e chiedendo aiuto. Prima dell’arrivo dei militari, in base alle testimonianze raccolte dagli investigatori, avrebbe sfondato la porta di una pizzeria facendo saltare la serratura con una spallata e ha chiesto aiuto al pizzaiolo, il solo rimasto all’interno, dicendo che era inseguito e che qualcuno voleva ucciderlo, quindi è uscito portandogli via il cellulare. Poi è salito sul sedile posteriore di un’auto in transito: la conducente, una ragazza, è scesa impaurita dalla vettura. Uscito dall’auto, è entrato in un’altra pizzeria, sempre gridando aiuto, e ne uscito subito dopo urtando violentemente contro una porta a vetri e danneggiandola. All’arrivo della pattuglia dei carabinieri si è scagliato contro di loro, costringendoli a chiedere l’intervento di un secondo equipaggio. I quattro militari intervenuti sono riusciti a immobilizzarlo a terra e poi ad ammanettarlo. A chiamare il 118 proprio i carabinieri, ma all’arrivo dei sanitari circa 10 minuti dopo la chiamata hanno trovato Magherini in arresto cardiaco e dopo 40 minuti di tentativi di rianimazione l’uomo è stato dichiarato morto.  Non escluso, sempre secondo quanto spiegato dai carabinieri, che l’uomo avesse fatto uso di sostanze stupefacenti. Sposato, padre di una bimba di 2 anni, da alcuni giorni si era separato dalla moglie e era andato a vivere con la madre. In base a quanto accertato dai carabinieri, fino a poco tempo fa era titolare di un negozio nel centro di Firenze. Ora il pm ha disposto l’autopsia sul corpo di Magherini, soprattutto dopo la dichiarazione di Bianca Ruta, studentessa di 26 anni, ha dichiarato a Repubblica di aver visto i militari picchiare l’uomo già a terra: “«La prima pattuglia non è riuscita a fermarlo, così sono arrivati altri due carabinieri e alla fine ci sono riusciti. Era su un fianco, ho visto chiaramente tre di loro che lo colpivano con alcuni calci in pancia. Non credo sia morto per questo, ma sono cose che non devono succedere. Andrò alla polizia a denunciare i fatti. Hanno fatto quello che dovevano, l’uomo era completamente fuori controllo e loro si sono limitati a tenerlo a terra. Nessuno ha alzato le mani»”.

Morte di Riccardo Magherini, la corte d’appello conferma le condanne per i carabinieri. Il tribunale di Firenze li ha riconosciuti colpevoli in «cooperazione colposa tra loro» di omicidio colposo. Confermata l’assoluzione per le due volontarie della Croce Rossa, scrive il 19 ottobre 2017 Marco Gasperetti su "Il Corriere della Sera". Tre carabinieri condannati, due volontarie della Croce Rossa assolte. La corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza di primo grado per la vicenda di Riccardo Magherini, l’ex calciatore deceduto a 40 anni durante un controllo di polizia il 3 marzo del 2014 in una stradina di Borgo San Frediano, centro storico di Firenze. I tre militari condannati sono Vincenzo Corni (8 mesi), Stefano Castellano e Agostino della Porta: 7 mesi ciascuno. Sono stati riconosciuti colpevoli in «cooperazione colposa tra loro» di omicidio colposo. Confermata l’assoluzione per Claudia Matta e Jannetta Mitrea, le due volontarie della Croce Rossa. «È ancora una pena bassa per la gravità dei fatti. Ma dal punto di vista civilistico tutti i motivi d’appello sono stati accolti, ivi compresa la restituzione degli atti al pm perché si proceda per l’abuso dei mezzi di contenzione», ha commentato Fabio Anselmo, legale della famiglia Magherini. Magherini morì gridando disperatamente e chiedendo aiuto. Era stato immobilizzato in preda a un delirio allucinatorio provocato dall’assunzione di cocaina e fuggiva convinto di essere inseguito da qualcuno. Quelle urla disperate mentre a pancia in giù e con le manette ai polsi diceva di non riuscire a respirare e sentiva che la morte era sempre più vicina e lo avrebbe sopraffatto, difficilmente potranno essere dimenticate. E non solo dal babbo, dalla mamma, dal fratello e dai tanti amici di Riccardo Magherini, l’ex calciatore quarantenne, padre di un bambino di due anni, morto nella notte del 3 marzo del 2014 in una stradina di Borgo San Frediano, centro storico di Firenze, dopo essere stato bloccato dai carabinieri, ma da milioni di persone che sul web e in tv hanno ascoltato quell’agonia terribile e assistito a quella morte annunciata. Dunque anche secondo i giudici di appello Magherini, poteva e doveva essere salvato. Forse sarebbe bastato applicare una circolare diffusa tra le forze dell’ordine che raccomanda di «sollevare da terra i fermati in stato di agitazione.

Riccardo Magherini, corte d’Appello di Firenze conferma condanne per carabinieri. Condannati quindi i militari Vincenzo Corni a 8 mesi, Stefano Castellano e Agostino della Porta a 7 mesi ciascuno. Confermata l'assoluzione delle due volontarie della Croce Rossa, Claudia Matta e Jannetta Mitrea, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 19 ottobre 2017. La corte d’Appello di Firenze ha confermato nella sostanza la sentenza di primo grado con cui furono condannati tre carabinieri per omicidio colposo per la morte di Riccardo Magherini, il 40enne deceduto in strada a Firenze durante un controllo la notte del 3 marzo 2014. Condannati quindi i carabinieri Vincenzo Corni a 8 mesi, Stefano Castellano e Agostino della Porta a 7 mesi ciascuno. Confermata l’assoluzione delle due volontarie della Croce Rossa, Claudia Matta e Jannetta Mitrea. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado il giudice Barbara Bilosi, che aveva concesso la sospensione della pena, aveva scritto che gli imputati erano responsabili, “in cooperazione colposa tra loro”, perché avevano concorso a determinare il suo decesso “per arresto cardiocircolatorio per intossicazione acuta da cocaina associata ad un meccanismo asfittico”. Il giudice nel dispositivo della sentenza spiegava che i tre carabinieri una volta giunti sul posto, “dopo averlo non senza difficoltà immobilizzato e ammanettato” avevano causato la morte di Magherini tenendolo “prono a terra”, in “situazione idonea a ridurre la dinamica respiratoria” per un tempo di almeno un quarto d’ora.

Firenze, caso Magherini: in appello condanne confermate e risarcimenti. Niente sconti per i tre carabinieri per la morte del quarantenne deceduto in strada a Firenze dopo essere stato fermato il 3 marzo 2014. Otto mesi per il militare Vincenzo Corni, 7 mesi ai suoi colleghi Stefano Castellano e Agostino della Porta, scrive Antonella Mollica su "Il Corriere di Firenze" il 20 ottobre 2017. Non solo nessuno sconto ai carabinieri coinvolti nel caso Magherini ma una condanna per omicidio colposo appesantita dai risarcimenti alla famiglia. Si è concluso così ieri in Corte d’Appello il processo di secondo grado per la morte dell’ex calciatore Riccardo Magherini avvenuta il 3 marzo 2014 a San Frediano dopo essere stato fermato dai carabinieri del radiomobile. È una corte tutta al femminile — Luisa Romagnoli, Anna Favi e Paola Masi — a scrivere la seconda sentenza sulla vicenda che tre anni e mezzo fa ha scosso Firenze. Confermate quindi le condanne a 8 mesi per Vincenzo Corni e a 7 per Stefano Castellano e Agostino della Porta. Confermata l’assoluzione per il quarto carabiniere Davide Ascenzi e per le volontarie Claudia Matta e Janeta Mitrea intervenute con l’ambulanza del 118. I giudici hanno poi disposto l’invio degli atti in Procura per valutare se sussista l’ipotesi di abuso di autorità (l’articolo 608 del codice penale che punisce il pubblico ufficiale che sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata di cui abbia la custodia).

I risarcimenti. Pesanti le provvisionali a favore della famiglia Magherini, 230 mila euro in totale: 50 mila euro alla mamma Clementina, 50 mila per il padre Guido, 100 mila per il figlio di Riccardo Brando, 30 mila per il fratello Andrea. Il giudice di primo grado Barbara Bilosi aveva invece stabilito che il danno dovesse essere quantificato dal giudice civile ma soprattutto che i militari avevano concorso a determinare la morte avvenuta «per arresto cardiocircolatorio e intossicazione acuta da cocaina associata a un meccanismo asfittico». Di tutt’altro avviso i giudici dell’Appello che hanno escluso «la compensazione per contributo causale della vittima alla determinazione dell’evento». «Questa è la nostra grande vittoria» esultano i legali della famiglia Magherini, gli avvocati Fabio Anselmo e Mattia Alfano e gli avvocati delle volontarie Massimiliano Manzo e Maccari. «Abbiamo pianto di gioia. Questo era il nostro obiettivo — dice Andrea mentre abbraccia il padre e gli avvocati — volevamo che si riconoscesse che Riccardo non è responsabile della sua morte. Finalmente avremo quel foglio che il babbo voleva tanto per Brando, il figlio di Riccardo».

Quella notte. La notte del 3 marzo 2014 Riccardo Magherini, 40 anni non ancora compiuti, in preda a un delirio scatenato da alcol e cocaina, credendo di essere inseguito e temendo di essere ucciso, fu bloccato dai carabinieri, ammanettato e immobilizzato a terra a faccia in giù. Per qualche minuto invocò aiuto poi restò immobile e silenzioso. Per capire quale ragionamento hanno fatto i giudici bisognerà aspettare tre mesi. «È una sentenza neutra che di fatto lascia le posizioni nello stesso modo in cui erano state sviluppate nel primo grado e che riequilibra il concorso di colpa. In verità mi aspettavo una posizione più netta, rimane la linea del primo grado di cui accolgo le lievi condanne ai tre carabinieri». Nel corso dell’udienza ci sono stati alcuni momenti di tensione in aula. Alla fine dell’arringa dell’avvocato Maresca Guido Magherini ha ironicamente applaudito. Poco prima che la corte entrasse in camera di consiglio — durata poco più di quattro ore — l’avvocato Anselmo ha chiesto scusa per quel gesto. Scuse prontamente rispedite al mittente dall’avvocato Maresca.

Processo Magherini: confermate condanne e assoluzioni, scrive giovedì il 19 ottobre 2017 "Nove Firenze". Modificate le disposizioni risarcitorie in favore delle parti civili. Confermate le condanne di primo grado ad 8 e 7 mesi per tre dei carabinieri coinvolti, confermata l'assoluzione per un quarto carabiniere e per le volontarie della Croce Rossa. Modifiche sul fronte dei risarcimenti per le parti civili.   In primo grado il 13 luglio 2016 furono condannati 3 carabinieri per omicidio colposo assolto un altro carabiniere ed anche due volontarie della Croce Rossa. Il decesso in San Frediano a Firenze nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 durante un fermo dei carabinieri. “La giustizia ha confermato la nostra estraneità ai fatti. Sono stati anni molto duri, durante i quali abbiamo anche perso un amico nel bel mezzo della bufera processuale e questa sentenza la dedichiamo a lui. Speriamo che finalmente sia finita, almeno per noi, ma non è un momento di gioia: perché non sarà mai finita per la Famiglia Magherini, alla quale ci sentiamo molto vicini. Nessuna giustizia potrà rendere loro Riccardo e il loro dolore non sarà dimenticato. Vogliamo ringraziare quanti ci sono stati vicini in questi lunghi anni e in particolare l’avvocato Massimiliano Manzo che con fiducia e tenacia ci ha assistiti senza risparmiarsi mai e Federico Rosati che prima come Presidente e poi come amico non ci ha lasciate mai sole andando ben oltre il senso del dovere con una vicinanza estrema ad entrambe.” queste le parole all’uscita del Tribunale delle due volontarie, Claudia Matta e Janeta Mitrea, ancora protagoniste dell’udienza di appello del processo per la morte di Riccardo Magherini. Il terzo volontario, Maurizio Perini, è invece tristemente venuto a mancare durante lo svolgimento del processo di primo grado per un grave incidente. Lorenzo Andreoni, Presidente del Comitato di Firenze della Croce Rossa: “Questa sentenza mette un punto alla dolorosa vicenda che ci ha visti coinvolti nostro malgrado per più di 3 anni. Ancora una volta mi sento di ringraziare tutto il mondo del volontariato, Croce Rossa, Anpas, e Misericordie che senza distinzione di divisa ci ha sempre dimostrato il proprio appoggio. Questo esito rende giustizia non solo ai nostri volontari, ma anche a chi tutti i giorni come noi dedica tempo ad aiutare gli altri, con la conferma che il proprio ruolo è tutelato dal rispetto delle regole. Il nostro pensiero va come sempre al nostro volontario e amico Maurizio e alla Famiglia Magherini, che ha sempre lottato per la verità e la giustizia. Ringrazio l'avvocato Manzo e i suoi collaboratori, per la passione e il lavoro svolto e i volontari del nostro Comitato che hanno dimostrato una grande coesione durante questa triste e controversa situazione”.

Cassazione, sul caso Magherini assolti i tre carabinieri. Il Pg aveva detto in aula: "Se lo avessero tenuto nella posizione eretta si sarebbe salvato". Per la Cassazione "il fatto non costituisce reato": annullata senza rinvio la sentenza d'appello che condannava i militari per omicidio colposo, scrive Laura Montanari il 15 novembre 2018 su "La Repubblica". La quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la morte di Riccardo Magherini, avvenuta il 3 marzo 2014, dopo l'arresto in una strada di San Frediano, a Firenze. Il collegio ha disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza d'appello perché "il fatto non costituisce reato".  In primo e secondo grado i tre carabinieri, che lo avevano immobilizzato e ammanettato mentre percorreva in preda a un delirio, sotto effetto della cocaina, erano stati condannati per omicidio colposo per non averlo sollevato e messo in posizione eretta quando aveva smesso di agitarsi e di invocare aiuto.  Magherini aveva urlato, affannato, poi si era calmato per un paio di minuti, il cuore aveva smesso di battere. I carabinieri che l'avevano ammanettato e chiamato un'ambulanza, non si erano resi conto che quella richiesta d'aiuto, "sto morendo", filmata dai cellulari dei residenti di Borgo San Frediano, non erano solo proteste per essere lasciato andare. Vincenzo Corni, Stefano Castellano e Agostino della Porta erano stati condannati rispettivamente a 8 mesi il primo e a 7 mesi gli altri due, sia dal tribunale che dalla corte d'appello di Firenze. La Cassazione ha ribaltato queste decisioni, annullando la sentenza d'appello senza rinvio. Nell'udienza di oggi il pg della Cassazione, Felicetta Marinelli aveva ribadito: "Se i carabinieri lo avessero messo in posizione eretta" e non tenuto prono "avrebbero permesso i soccorsi, e con elevata probabilità la morte non si sarebbe verificata". L'accusa sosteneva quindi un nesso di causa "tra condotta omissiva ed evento morte". "Il decesso di Magherini - aveva premesso il pg - è stato determinato dall'elevato tasso di cocaina, da asfissia e dallo stress", stress, ha ripetuto, "dovuto all'assunzione di cocaina e al tentativo di liberarsi dalla posizione prona in cui lo tenevano i carabinieri". "È pacifico - ha aggiunto - che i carabinieri erano ben consapevoli dell'alterazione psico-fisica e se l'avessero liberato dalla posizione prona quando aveva dato i primi segnali di calma e manifestato affanno", l'uomo "avrebbe potuto essere soccorso e con elevata probabilità di salvarsi". I carabinieri, ha proseguito il pg, "avevano una posizione di garanzia perché lo stavano arrestando e avevano l'obbligo di tutelarlo". Secondo la procura generale, che ha chiesto di rigettare anche il ricorso in tal senso presentato dai familiari di Magherini, si è trattato di un "reato chiaramente colposo" e non di "omicidio preterintenzionale": i colpi e i calci contestati dall'avvocato Fabio Anselmo, che rappresenta le parti civili, in ogni caso "non hanno avuto rilevanza nella morte". Opposta la tesi delle difese. "Riteniamo che i carabinieri non avessero elementi per capire quello che stava accadendo a Magherini a causa dello stupefacente. Magherini è morto per una serie di concause, tra cui anche la sofferenza per la posizione prona, ma era necessario bloccarlo, e i carabinieri non potevano capire che era il momento di metterlo a sedere", ha osservato l'avvocato Francesco Maresca, che difende due dei tre carabinieri. Dopo la sentenza i legali dei militari hanno espresso la loro soddisfazione. "In attesa di leggere i motivi - ha detto l'avvocato Eugenio Pini, difensore di Castellano - ritengo che giustizia sia stata fatta. Dopo aver affrontato numerosi casi analoghi, spero che questa sentenza possa tracciare una nuova linea giurisprudenziale". Dal canto suo l'avvocato Maresca ha commentato: “Abbiamo sempre creduto nella legittimità dell’intervento dei carabinieri imputati e siamo felici che la Suprema corte abbia fatto giustizia di tante contestazioni ingiustificate”.

Riccardo Magherini, Cassazione assolve i tre carabinieri accusati di omicidio colposo. La IV sezione penale si è espressa sulla sentenza della corte d’appello di Firenze del 19 ottobre dello scorso anno per la morte del quarantenne ex calciatore, in strada a Firenze, durante un controllo da parte dei militari nella notte del 3 marzo 2014 e ha stabilito che "il fatto non costituisce reato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 15 novembre 2018. La quarta sezione penale della Cassazione ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo per la morta di Riccardo Magherini, avvenuta il 3 marzo 2014 a Firenze. Il collegio ha disposto l’annullamento della sentenza d’appello perché “il fatto non costituisce reato”. Il sostituto pg della Cassazione Felicetta Marinelli, aveva chiesto di confermare la condanna per omicidio colposo nella sua requisitoria davanti alla IV sezione penale, chiamata a esprimersi sulla sentenza della corte d’appello di Firenze del 19 ottobre dello scorso anno per la morte del quarantenne ex calciatore, in strada a Firenze, durante un controllo la notte del 3 marzo 2014. Magherini sarebbero deceduto, secondo quanto accertato dalle sentenze di merito, in seguito allo stress respiratorio dovuto all’assunzione di cocaina e alla posizione prona in cui era stato tenuto. “Se i carabinieri lo avessero messo in posizione eretta” e non tenuto prono “avrebbero permesso i soccorsi, e con elevata probabilità la morte non si sarebbe verificata”: esiste quindi il nesso di causa “tra condotta omissiva ed evento morte” ha sottolineato la pubblica accusa. “Il decesso di Magherini – ha premesso il pg – è stato determinato dall’elevato tasso di cocaina, da asfissia e dallo stress”, stress, ha ripetuto, “dovuto all’assunzione di cocaina e al tentativo di liberarsi dalla posizione prona in cui lo tenevano i carabinieri. È pacifico – ha aggiunto – che i carabinieri erano ben consapevoli dell’alterazione psico-fisica e se l’avessero liberato dalla posizione prona quando aveva dato i primi segnali di calma e manifestato affanno”, l’uomo “avrebbe potuto essere soccorso e con elevata probabilità di salvarsi”. I carabinieri, ha anche evidenziato il pg, “avevano una posizione di garanzia perché lo stavano arrestando e avevano l’obbligo di tutelarlo”. Secondo la procura generale, che ha chiesto di rigettare anche il ricorso in tal senso presentato dai familiari di Magherini, si è trattato di un “reato chiaramente colposo” e non di “omicidio preterintenzionale”: i colpi e i calci contestati dall’avvocato Fabio Anselmo, che rappresenta le parti civili, in ogni caso “non hanno avuto rilevanza nella morte”. Per la procura generale vanno quindi rigettati i ricorsi della difesa dei carabinieri Vincenzo Corni condannato a 8 mesi, e Stefano Castellano e Agostino della Porta, condannati a 7 mesi ciascuno. E va rigettato anche il ricorso dei familiari di Magherini, rappresentati dall’avvocato Fabio Anselmo, che chiede l’omicidio preterintenzionale. In aula sono presenti parenti e amici di Magherini e Ilaria Cucchi. “Riteniamo che i carabinieri non avessero elementi per capire quello che stava accadendo a Magherini a causa dello stupefacente. Magherini è morto per una serie di concause, tra cui anche la sofferenza per la posizione prona, ma era necessario bloccarlo, e i carabinieri non potevano capire se era il momento di metterlo a sedere” ha detto l’avvocato Francesco Maresca, difensore di due dei tre carabinieri. Uno dei punti su cui il legale ha fondato il suo ricorso è che ai militari non possa essere imputata un’omissione perché non hanno le conoscenze mediche per riconoscere i segni di una crisi respiratoria. Erano imputati anche tre volontari della Croce Rossa e uno dei carabinieri intervenuti, Davide Ascenzi, tutti assolti sia in primo grado che nel processo d’appello. I militari bloccarono Magherini mentre, sotto l’effetto di cocaina e in preda ad allucinazioni, convinto di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo, invocava aiuto in Borgo San Frediano, nel cuore del suo quartiere. Magherini quella sera era uscito a cena in un ristorante, poi aveva iniziato a vagare per le strade del quartiere gridando che gli avevano rubato portafoglio e cellulare. Era quindi entrato in una pizzeria dove aveva continuato a dare in escandescenze. Tornato in strada, era stato bloccato dai carabinieri e ammanettato a terra, a pancia in giù e a torso nudo, per almeno un quarto d’ora. All’arrivo di un’ambulanza senza medico a bordo, l’ex calciatore fu trasportato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, dove alle 2.45 ne venne constatato il decesso. I militari, secondo quanto è stato ricostruito nel corso dei due processi, ammanettarono Magherini a pancia in giù e lo tennero così per almeno 15 minuti, in una posizione che gli impediva di respirare regolarmente. Per l’accusa, i carabinieri furono responsabili, “in cooperazione colposa tra loro”, della morte del quarantenne avvenuta “per arresto cardiocircolatorio per intossicazione acuta da cocaina associata a un meccanismo asfittico”. L’udienza si è conclusa intorno alle 15, la presidente, Patrizia Piccialli, ha congedato la corte annunciando “una lunga camera di consiglio”.

Polizia violenta?

Buffon accusa "Picchiato dalla polizia". Il portiere della Nazionale: "Sono stato aggredito da agenti in divisa dopo la partita di Firenze. Mi hanno tirato giù dall'auto. Poi le botte. Nessuno mi ha dato una spiegazione". A sentirlo raccontare, viene quasi da non crederci, ma Gigi Buffon non ha l'aria di chi ha voglia di scherzare, scrive il 14 giugno 2001 “La Repubblica”. Il portiere del Parma e della Nazionale spiega quello che gli è accaduto mercoledì sera dopo la finale di Coppa Italia e sembra incredulo pure lui: "Dopo la sconfitta con la Fiorentina mi è stato consigliato di incolonnarmi con la mia auto dietro i pullman che riportavano in Emilia i tifosi gialloblu. Giunti al piazzale del casello di Firenze Sud li ho superati ma sono stato fermato da una decina di poliziotti. Dopo essere stato tirato giù dalla macchina ho passato quindici secondi veramente infernali, nei quali ho preso anche dei calci e degli schiaffi. Non mi spiego il motivo per il quale sia successo tutto ciò e, d'altro canto, nessuno dei militari mi ha dato una spiegazione". Parla tutto d'un fiato, poi aggiunge: "Ho cercato di difendermi, poi ho sentito uno di loro che gridava, ma questo è Buffon, altri hanno però continuato a picchiarmi". Il portiere ripete che non riesce a spiegarsi cosa possa essere successo: "Mi hanno scambiato per un ultras all'inseguimento del pullman del Parma? Un ultras in Porsche? Davvero non capisco". Sin qui lo sfogo, poi Buffon però si ferma. Controlla gli aggettivi e dal suo vocabolario tira fuori il termine che gli sembra più appropriato: "E' stata una vaccata, anche loro se ne sono accorti. Fondamentalmente credo sia stato un po' eccessivo, anche se nulla di grave. Però credo che se avessi parlato subito dopo, i miei toni sarebbero stati diversi". Farà denunce? "No, dopo tanti casini che ho avuto, ho voglia di stare tranquillo". Il riferimento è alle polemiche sulla scritta "Boia chi molla" stampigliata sulla sua maglia, sulla scelta del numero 88, poi sostituito dal 77 dopo le proteste di esponenti della comunità ebraica (in entrambi i casi il portiere ha detto di essere stato all'oscuro dei significati politici delle due questioni) e al diploma di maturità falso che lo hanno portato al centro della cronaca non sportiva: "Ho avuto tanti casini che poi, addirittura quando non c' entro, mi buttano dentro. Questa volta credo di no". La chiusura è con battuta per sdrammatizzare: "Tutti tifosi giallorossi? Ma se erano quindici...mica potevano essere tutti della Roma....".

Il caso di Magherini mi ricorda tanto altri casi analoghi.

La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.

IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.

"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.

''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.

''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.

Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.

Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.

"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell' autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l' assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l' esito dell' autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell' uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell' autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un' emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."

Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.

LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.

Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.

Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.

NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.

Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.

Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.

Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.

A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.

A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.

Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.

Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.

Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.

A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.

SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA , E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.

Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.

Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.

Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.

Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

laria Cucchi querelata. E, purtroppo, poco sorprendentemente, a sporgere denuncia per diffamazione è stato il Coisp, il piccolo sindacato di polizia finito agli onori delle cronache già l'anno scorso, quando organizzò una manifestazione in solidarietà agli agenti di Ferrara che uccisero Federico Aldrovandi proprio sotto gli uffici della madre della vittima. Ora, il sindacato, se la prende con la sorella del giovane Stefano Cucchi, il geometra romano morto in circostanze poco chiare qualche giorno dopo l'arresto. Un mese fa, anche i tre agenti assolti in primo grado per la morte del ragazzo avevano deciso di querelare Ilaria per alcune sue dichiarazioni. Così che adesso la donna si trova a dover rispondere dalle accuse mossegli dalla stessa Procura da lei più volte criticata.  Interpellata riguardo la querela, comunque, la trentottenne non mostra segni di cedimento. "Lo considero un vero e proprio atto intimidatorio", ha infatti commentato al Fatto Quotidiano. "Se pensano che questo possa in qualche modo fermarmi nella mia battaglia di verità e per il rispetto dei diritti civili si sbagliano di grosso. Spero che la giustizia faccia il suo corso, ma che lo faccia in fretta. Credo di avere il diritto di chiederlo come cittadina e come tutti i cittadini”.

«Ebbene si! Sono sono sottoposta ad indagini dalla procura della Repubblica di Roma. Mi ha querelato il signor Maccari del sindacato della polizia di Stato COISP». Così in un post su Facebook Ilaria Cucchi. «Sono indagata per aver offeso l'onore della Polizia di Stato e di tutti i poliziotti che ne fanno parte - si legge -. Sono indagata per aver reclamato verità e giustizia per la morte di Federico, di Michele, di Giuseppe, di Dino e di tanti altri morti di Stato. Sono indagata per essermi ribellata alla mistificazione ed alle infamanti menzogne sulla morte di mio fratello. Io non mi fermerò, mai. Non avrò pace fino a quando non avrò ottenuto giustizia. Io voglio confessare tutto, ogni cosa. Queste morti offendono la Polizia, questo è sicuro. Offendono lo Stato. Questo è altrettanto sicuro. Offendono tutti». «Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Dino Budroni, Federico Perna, Gabriele Sandri e tanti tanti altri non dovevano morire. No. È colpa loro se è stato offeso lo Stato. Stefano Cucchi è morto per essere stato portato nel Tribunale di piazzale Clodio, a Roma e poi all'ospedale Pertini. Stefano Cucchi non doveva morire. La colpa è sua se la polizia si sente offesa. È colpa mia. Voglio essere processata per questo. Questi padri figli fratelli non dovevano morire. E siccome sono morti noi famigliari dovevamo stare zitti. Il dolore e le tremende sofferenze alle quali sono stati sottoposti non sono importanti. No. Loro non dovevano morire e se sono morti è colpa loro. Tutta colpa loro. E noi tutti, soprattutto, dovevamo e dobbiamo stare zitti. Zitti. E ringraziare» conclude amareggiata Ilaria Cucchi. «Sono stata denunciata dal Coisp, dal signor Franco Maccari che oltre me hanno denunciato anche Lucia Uva e Ilaria Cucchi. Non so ancora per Quale reato sono stata denunciata, domani il mio avvocato Fabio Anselmo si recherà in procura a Roma per ritirare il fascicolo a mio carico. Questa per me è la prima denuncia se dire la verità costituisce reato, io andrò avanti a commettere reati, tanti reati, continuerò a dire la verità che tutti conosciamo. In Italia funziona così chi ammazza i nostri cari rivestendo una divisa, negando spudoratamente anche d'avanti ai giudici, dopo aver fatto un giuramento continua a lavorare e chi dice la verità viene denunciato. Non mi fermerò continuerò a dire la verità, non sono spaventata, vogliono condannarmi per aver detto la verità?, io mi assumo le mie responsabilità, non ho nulla da temere chi ha qualcosa da temere e chi indossa una divisa sporca di sangue. La divisa è sacra rappresenta lo stato,chi ha ucciso non è degno di indossare una divisa, deve essere butto fuori dalle istituzioni». Così in una nota Domenica Ferrulli, figlia di Michele,l'uomo di 51 anni morto il 30 giugno 2011 a Milano durante un arresto. "Conosco da anni Lucia Uva, Ilaria Cucchi e Domenica Ferrulli: da quando i loro familiari sono rimasti vittime di violenze da parte di membri di apparati dello Stato. Come so e come posso ne sostengo le richieste di accertamento della verità e la domanda di giustizia. In tutto questo tempo ho avuto modo di conoscere quanto sia esemplare la loro coscienza di cittadine che, nonostante le mille delusioni e le frequenti umiliazioni patite, continuano a credere nello stato democratico e nelle sue istituzioni. Dopo tanti anni di attese frustrate, queste tre "donne coraggio" si rivolgono ancora con fiducia ostinata ai tribunali della Repubblica. Contro di loro, un sindacatino fellone ha l'improntitudine di promuovere un'azione giudiziaria, cercando uno straccio di notorietà nell'infangare la memoria di tre vittime dello Stato e dei loro familiari. È proprio questo simil-sindacato a "vilipendere" la dignità delle istituzioni dello Stato democratico e a macchiare la divisa e i valori dei quali dovrebbe essere simbolo". Così il senatore del Partito democratico Luigi Manconi, presidente della Commisisone Diritti Umani a Palazzo Madama.

Vergogna di Stato. Caso Uva, il pm è sotto inchiesta: "Aggressivo con l'unico testimone", scrive “La Repubblica”. L'operaio di Varese morì in ospedale dopo essere stato trattenuto per ore in caserma. A più di cinque anni di distanza il magistrato sente l'unico testimone. E il senatore Manconi,  presidente dell'associazione "A buon diritto" lo accusa: "Ha avuto un atteggiamento intimidatorio". Ora la vicenda è al vaglio del Csm. A cinque anni e mezzo dalla notte del 13 giugno 2008, quando Giuseppe Uva morì in ospedale a Varese dopo essere stato trattenuto per ore nella caserma dei carabinieri, il pubblico ministero Agostino Abate ha sentito per la prima volta l'unico testimone oculare: Alberto Biggiogero. Il video, pubblicato in esclusiva da Repubblica, mostra alcuni dei passaggi più carichi di tensione nell'esame del teste. Il confronto tra Abate e Biggiogero è durato più di quattro ore, con il pm che sembra finalizzato più a demolire la ricostruzione dell'unico testimone e a difendere sé stesso, ora soggetto a una doppia richiesta di azione disciplinare da ministero della Giustizia e Procura generale della Cassazione. La convocazione di Biggiogero in Procura, lo scorso 26 novembre 2013, arriva proprio dopo che i due autonomi procedimenti. Il tribunale di Varese, nella sentenza con cui aveva assolto il medico del pronto soccorso dall'accusa di omicidio colposo, aveva chiesto di indagare su quanto accaduto in caserma "perché - scriveva - tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri". Indagini che secondo la Procura generale della Cassazione non sono state mai compiute dal pm Abate, che nei giorni scorsi ha chiesto l'archiviazione per otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali in relazione alla morte di Uva. Ciò nonostante il gip varesino Giuseppe Battarino aveva configurato come sussistenti i reati di arresto abusivo e lesioni dolose in capo agli agenti, chiedendo al pm se c'erano anche altri reati. "Questo interrogatorio è stato fatto solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare", accusa il senatore Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A buon diritto', anche lui convocato in Procura per rendere conto delle sue dichiarazioni sui media in cui accusava il pm di indagini lacunose e parziali. Adesso il Csm si occuperà nuovamente del caso Uva. L'assemblea dovrà pronunciarsi su un altro esposto nei confronti del pm Abate. La denuncia riguarda l'iniziativa del pm che ha messo sotto indagine l'avvocato della famiglia Uva, Fabio Anselmo, per "poter acquisire informazioni sull'attività difensiva di quest'ultimo in favore dei propri assistiti". A presentarla sono state Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto a Ferrara nel 2005 durante un controllo di polizia, e Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, arrestato per droga e morto una settimana dopo in ospedale. La prima commissione del Csm aveva chiesto al plenum di archiviare l'esposto con la motivazione che non ci sono provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, visto che si tratta di "censure ad attività giurisdizionale". Ma grazie a un intervento di Giovanna Di Rosa, togata di Unicost, la proposta è stata stralciata e messa all'ordine del giorno del plenum.

Da Cucchi ad Aldrovandi: l’onore non ha divise, scrive Giulia D’Argenio su “OrticaLab”. Il marciume che il Coisp vorrebbe celare va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Accusano Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, Domenica Ferrulli, figlia di Michele, Lucia Uva, sorella di Giuseppe, di avere offeso l’onore della Polizia di Stato. Figlie e sorelle di uomini uccisi da uomini in divisa. La querela a carico delle tre donne è stata depositata dal signor Franco Maccari in nome e per conto del Coordinamento per l’Indipendenza Sindacale delle Forze di Polizia, il Coisp. Insieme a loro, querelato anche Leonardo Fiorentini, consigliere di circoscrizione ferrarese, colpevole di essersi schierato al fianco Patrizia Moretti Aldrovandi, mamma di Federico, all’epoca della farsa posta in essere da un manipolo di iscritti al medesimo sindacato. Nel mese di marzo del 2013, infatti, un gruppo di aderenti al Coisp organizzò un sit-in sotto la finestra dell’ufficio comunale dove lavora Patrizia Moretti, una madre colpevole di avere chiesto verità e giustizia per il figlio. Una verità scomoda, perché ha coperto di vergogna, come in tanti altri casi di morti di Stato accertate, gli organi di Polizia. Con le sue azioni provocatorie, il coordinamento sindacale non ha certo contribuito alla causa né riabilitato quei corpi di polizia nell’interesse dei quali dichiara di agire. Perché, come ha scritto Ilaria Cucchi in risposta alla notizia del fascicolo aperto, a suo carico come di altri e per i medesimi motivi, presso la Procura della Repubblica di Roma, è “colpa loro se è stato offeso lo Stato”. E se la verità processuale ha assolto gli uomini in divisa sotto accusa per la morte di Stefano Cucchi e di Stefano Brunetti, il cui nome non ricorre in questa grottesca vicenda, mentre sono state archiviate le indagini sul caso Uva, a riprova di quell’offesa restano le morti violente di Aldrovandi, Ferrulli e di Riccardo Rasman, omone il cui nome Maccari ha scelto di lasciare in pace. Sono i responsabili di quei fatti ad aver disonorato le divise che portavano, in quanto tutori dell’ordine, perché sono stati loro, volontariamente e deliberatamente, a sporcarle di sangue, sentendosi titolari di un potere di vita o di morte su chi avevano di fronte. Quelle divise rappresentano il fondamento stesso della legittimità dello Stato, volendo fare un po’ di teoria politica spicciola. Oltraggiandole con la loro condotta hanno portato uno smacco alle stesse istituzioni che erano chiamati a tutelare, riempiendo di vergogna i loro colleghi. Senza voler celebrare eroi, perché un lavoro è un lavoro e lo si sceglie, accettandone tutti i rischi e i pericoli che lo connotano, senza voler giustificare né cercare alibi, è pur vero che quelle stesse uniformi sono portate anche da uomini e donne non avvezzi a un utilizzo gratuito della violenza. Persone che fanno quello stesso lavoro con correttezza, credendo nei principi che sono chiamati a tutelare e che le loro divise dovrebbero rappresentare. Perché ci sono anche agenti di polizia che hanno provato vergogna di fronte alle immagini della Diaz e ai quali si sono drizzati i peli della barba ad apprendere delle morti di Stato, come giornalisticamente si usa chiamarle. Se il Coisp con questa nuova farsa pensa di fare l’interesse della Polizia di Stato o di qualsiasi altro corpo si sbaglia. Perché è innegabile la presenza di mele marce al loro interno e, tanto quanto i criminali, i violenti, i facinorosi che caricano durante le manifestazioni, senza alcun rispetto per le regole, questo marciume va individuato, perseguito e condannato. È questo l’unico vero riscatto per quelle uniformi oltraggiate e per chi le porta. Perché un agente di polizia non è certo immune dalla legge che dovrebbe far rispettare. Anzi. I tanti, troppi casi come quello di Cucchi, Aldrovandi, Ferrulli, Uva sono la prova di quanto urgente sia garantire il rispetto dell’elementare principio secondo il quale la “legge è uguale per tutti”, senza cedere a facili e inutili strumentalizzazioni, da nessuna parte. Il rispetto lo si guadagna sul campo. E ciò vale in ogni caso. Ostinarsi a coprire o negare simili vergogne è uno smacco per lo Stato stesso e per la sua legittimità.

MASSIMO MALLEGNI E MARCO TRAVAGLIO: UN ARRESTO E’ PER SEMPRE, ANCHE SE INGIUSTO.

Mallegni alla festa del Fatto, Travaglio non sale sul palco: "Colpito dalla legge Severino". Il sindaco, fatto arrestare ingiustamente da una vigilessa renziana grazie al fratello pm, è stato prosciolto. Ma al manettaro Travaglio ancora non basta, scrive Sergio Rame sabato 05/09/2015 su “Il Giornale”. Alla Festa del Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio non è salito su palco con Massimo Mallegni. È stato lo stesso sindaco della città della Versilia che da anni ospita la festa del quotidiano nel parco della Versiliana a raccontarlo durante il saluto istituzionale al pubblico. "Avrei gradito - ha spiegato - la presenza anche del direttore del vostro giornale, che non se l’è sentita di stare a fianco di uno che è stato colpito dalla legge Severino. Mi dispiace perchè è mancato il confronto. Magari ne avremo occasione più avanti". Eletto nel giugno scorso, Mallegni era stato sospeso dal suo incarico in virtù della legge Severino, ma la sospensione è stata poi "congelata" da un provvedimento del tribunale. Ma qual è la vera storia di Mallegni? La riassume molto bene Giampaolo Rossi sul suo blog:"Un sindaco (ottimo amministratore eletto per ben due volte dai suoi cittadini) portato via in manette dal Consiglio comunale, costretto a farsi sei mesi tra galera e arresti domiciliari, per cinquantuno capi d’accusa (dall’associazione a delinquere, alla corruzione) per i quali risultò del tutto innocente; accuse partite da una denuncia per mobbing fatta dal suo Comandante dei Vigili Urbani, Antonella Manzione. Il suo arresto (ed è questa la cosa più sconvolgente) fu richiesto al GIP ed ottenuto, dal fratello di lei magistrato (Domenico Manzione) che aveva condotto le indagini; arresto risultato persino illegittimo, come decretò la Cassazione". L’appello è in programma per il 10 settembre. La storia giudiziaria di Mallegni non getta fango solo sulla magistratura italiana, ma su tutto il Paese. E, anziché inorridirsi e salire sul palco a tuonare contro la malagiustizia, Travaglio ha fatto trionfare la solita ideologia che lo muove quando prende in mano una penna e si è rifiutato di farsi vedere al fianco di un sindaco che, non solo è stato democraticamente votato dai propri cittadini, ma che lo ospitata anche nella sua città. A spegnere il fuoco ci ha provato Cinzia Monteverde, amministratore delegato del Fatto Quotidiano"Non è vero che Travaglio non voleva stare sul palco con lui. La verità è che Travaglio è meglio che stia fuori dagli incontri istituzionali, perché di solito li rovina tutti""La scelta di Travaglio di non salire sul palco con me - ha poi replicato Mallegni su facebook - è roba da non credere, vista anche la mia scelta e dell’amministrazione comunale di fare la festa, finanziandola e puntando prima di tutto a pluralismo e al confronto. Purtroppo è mancato per una visione miope e poco lungimirante del direttore. Lui si diverte soltanto quando è solo e nessuno lo contraddice. Contento lui! D’altra parte ci vogliono le palle e non si acquistano in farmacia".

Il caso Mallegni: storia di una persecuzione senza fine, scrive Giampaolo Rossi su "Il Giornale. Del caso Mallegni parlammo in quest’articolo di un anno fa che v’invito a leggere, rileggere e rileggere ancora… anche più di tre volte. Perché la storia che lì è raccontata non è semplicemente un clamoroso errore giudiziario, definizione asettica con cui i media raccontano la distruzione di vite, famiglie e carriere professionali compiute da magistrati che non pagano mai. No, quello che successe a Massimo Mallegni fu qualcosa di più: fu il manifestarsi plateale e sfacciato di un’Italia feudale in cui il potere di pochi può stravolgere le regole della democrazia, della volontà popolare e dei diritti altrui. Un sindaco (ottimo amministratore eletto per ben due volte dai suoi cittadini) portato via in manette dal Consiglio comunale, costretto a farsi sei mesi tra galera e arresti domiciliari, per cinquantuno capi d’accusa (dall’associazione a delinquere, alla corruzione) per i quali risultò del tutto innocente; accuse partite da una denuncia per mobbing fatta dal suo Comandante dei Vigili Urbani, Antonella Manzione. Il suo arresto (ed è questa la cosa più sconvolgente) fu richiesto al GIP ed ottenuto, dal fratello di lei magistrato (Domenico Manzione) che aveva condotto le indagini; arresto risultato persino illegittimo, come decretò la Cassazione. Quindi, prendetevi tutto il tempo che volete ma leggetevi l’articolo in calce a questo che spiega anche altre chicche di questa Italia; solo così potrete capire l’assurdo di quello che sto ora per raccontarvi. Perché la storia non è finita qui… L’avete letto? Bene, ora ditemi, innanzitutto: come vi sentite? Che siate di destra o di sinistra, avete anche voi in bocca un retrogusto di indignazione e frustrazione? Avete anche voi l’idea di non vivere in un paese civile ma nella Corea del Nord di Kim Jong-un dove una casta autoritaria e i suoi famigli possono decidere la libertà (e quindi anche la vita) di uomini e donne? Vi ho detto che la storia non finiva qui. Tenetevi forte. Riabilitato dalla sua vicenda giudiziaria Massimo Mallegni è tornato a fare politica. Alle ultime amministrative, quelle del mese scorso, si è candidato nuovamente sindaco nella sua Pietrasanta e nuovamente ha vinto. La sera dei risultati, una folla di duemila cittadini l’ha accompagnato nella sede del Comune da dove quattro anni prima era stato portato via ingiustamente in manette e lì ha ricevuto la fascia tricolore dal sindaco uscente (di sinistra), un atto di riconoscimento che fa onore. Massimo Mallegni quella sera ha pianto di gioia. “Come ti senti Massimo?”, gli ho chiesto; “come uno che ritorna alla vita” mi ha risposto. Dal giorno dopo, col suo fare da imprenditore versiliese, ha cominciato a lavorare per comporre la Giunta, sbrigare pratiche e governare la “Piccola Atene” (com’è chiamata la perla d’arte e di artisti della Versilia). Una settimana fa un nuovo colpo di scena: il Prefetto di Lucca l’ha sospeso da sindaco per la Legge Severino. Com’è possibile? Presto detto: oltre ai cinquantuno reati da cui è stato assolto, ce n’era un cinquantaduesimo caduto in prescrizione; un abuso d’ufficio per “istigazione al rilascio di Passo Carrabile” (non ridete che è tutto tragicamente vero!). Chi conosce i riti giudiziari sa che funziona così: quando un castello di accuse è clamorosamente smontato in sede processuale, per non ammettere l’errore, ti appioppano un reato minore in prescrizione così che comunque il sospetto che qualcosa hai fatto possa rimanere. Ne parlammo in quest’altro articolo relativo ad un altro clamoroso caso di ingiustizia, quello di Mauro Rotelli. In teoria alla prescrizione si può ricorrere in appello ma tutti sanno che, chi esce da una persecuzione giudiziaria di anni, è distrutto psicologicamente ed economicamente e il livello di frustrazione è tale che difficilmente ricorrerà in appello pur di scappare da quel girone infernale. Invece Massimo Mallegni in appello c’è voluto andare. L’udienza era stata fissata al 30 giugno (quindici giorni dopo le elezioni) ma, Sim Sala Bim, la Procura generale di Firenze, l’ha spostata di dodici mesi (un anno!!!). È allora che entra in scena il Prefetto che, su questo rinvio, pensa bene di applicare la Legge Severino sospendendo Mallegni dall’incarico di sindaco. Si, avete capito bene:quella legge che non si applica a De Magistris e a De Luca (amministratori di sinistra condannati per reati gravi) si applica al sindaco di centrodestra di un piccolo comune toscano per un reato ridicolo prescritto. La decisione lascia allibiti perché comunque vada l’appello, Mallegni tornerebbe a fare il sindaco essendo il suo reato prescritto. Quindi perché continuare a perseguitare un uomo già ingiustamente perseguitato e calpestare la volontà dei cittadini che per la terza volta lo hanno scelto come sindaco? La cosa più stupefacente è che questo Stato che ha rimandato di un anno l’Appello, c’ha messo un giorno (28 ore) per leggersi le pratiche e sospendere il sindaco. Lo so cosa state pensando, voi maligni: che se Mallegni fosse stato di sinistra nella Toscana rossa, delle cooperative rosse, dei banchieri rossi e di qualche magistrato rosso, non sarebbe stato sospeso; e forse neppure mai perseguitato. Ma siete voi che pensate male. Rimane il problema fondamentale: c’è un pezzo di magistratura di questo Paese che sembra incompatibile con la democrazia. Infine, qualche giorno fa, di fronte all’imbarazzo per l’accaduto, l’udienza di appello di Mallegni è stata anticipata al 10 settembre prossimo (di ben nove mesi, incredibile vero?), appena si rientrerà dalle vacanze. In Italia la democrazia può aspettare, le ferie del magistrato, no.

MANZIONE. UN PREMIER PER AMICO.

Amicizie da premier. Dalle mie parti si dice: “Tieni amici e durmi”, ossia, con le giuste amicizie non ci sono ostacoli che tengano. Antonella Manzione, la storia dell'ex vigilessa che imbarazza Matteo Renzi, scrive “Libero Quotidiano”. Della vicenda di Antonella Manzione, l'ex comandante dei vigili urbani di Firenze, ve ne abbiamo dato conto un paio di giorni fa. ("Botte da orbi tra Matteo Renzi  e il segretario generale Bonaretti. Pomo della discordia: la famosa vigilessa fiorentina. Sarà vero?". Il tweet di Renato Brunetta arriva come una bomba. A quanto pare il premier deve aver perso la testa e secondo i rumors raccontati dal capogruppo di Forza Italia, tra le stanze di palazzo Chgi sarà andato in scena un acceso diverbio tra lo stesso Renzi e il segretario generale Bonaretti. La "vigilessa" a cui si riferisce Brunetta probabilmente è Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze e voluta da Matteo Renzi a palazzo Chigi a capo del Dipartimento legislativo. La nomina della Manzione poi sarebbe sfumata. Ma a quanto pare il premier sarebbe tornato alla carica e secondo quanto racconta Brunetta si sarebbe infuriato e non poco davanti ad un probabile "no".) La signora, che all'epoca di Matteo Renzi sindaco era anche direttore generale del Comune, ora è sul punto di diventare una delle donne più potenti dello Stivale. Il premier, infatti, la voleva a capo del Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, una nomina bocciata dalla Corte dei Conti per mancanza di requisiti. Così, ora, Renzi pensa a un'altra poltrona per la Manzione: la vorrebbe, si dice, Segretario generale di Palazzo Chigi. Per farle spazio, Matteo vorrebbe la testa dell'attuale Segretario, "reo" di non aver garantito la nomina della vigilessa. Qualche informazione in più sulla ex vigilessa, e sui motivi che la legano a Renzi, ce la offre Il Giornale. La Manzione ebbe un ruolo decisivo nell'arresto, avvenuto nel 2006, del sindaco di Marina di Pietrasanta, il gioiello della Versilia. Lui, Massimo Mallegni, fu eletto a 32 anni con il Pdl (è stato sindaco fino al 2010). Nel 2010, però, il brusco stop alla carriera politica, per l'arresto, appunto. In un'indagine viene accusato della bellezza di 51 reati. Si fa 39 giorni di carcere e altri 120 agli arresti domiciliari. Ad innescare l'indagine che portò all'arresto fu proprio un esposto firmato dalla comandante della polizia municipale di Pietrasanta, Antonella Mazione, appunto. L'esposto risale al 2002. Corre voce che tra i due non corresse buon sangue: lei era convinta di essere stata vittima di mobbing da parte del primo cittadino. Altro particolare importante: l'ordine d'arresto di Mallegni fu firmato da un magistrato di Lucca, Domenico Manzione, fratello della vigilessa. Poi, dopo anni, i processi si sono conclusi con l'assoluzione dell'ex sindaco: i fatti non sussistevano (s'indagava su un presunto comitato d'affari che avrebbe giocato sporco a Pietrasanta). Inoltre, la Cassazione ha giudicato illegittimo l'arresto, per il quale Mallegni dovrà essere risarcito dallo Stato. Dopo la vicenda, indebolito e al termine del mandato, il sindaco è tornato a fare l'albergatore. E i fratelli Manzione? Per loro è iniziata una brillante carriera. Lei, arrivata a Firenze alla corte di Renzi, fu anche contestata dal Pd perché ricopriva gli incarichi di comandante dei Vigili urbani e di direttore generale del Comune, incompatibili per legge. Oggi, come detto, è invece in quota per incarichi di rilievo a Palazzo Chigi. Lui, il fratello magistrato, è diventato sottosegretario del governo Letta, "in quota renziana", spiegò in un'intervista.

La vigilessa, il giudice, Renzi e quella vecchia inchiesta. Il premier insiste per avere a Palazzo Chigi il capo dei vigili di Firenze, la cui nomina è stata bocciata dalla Corte dei conti, scrive Marco Gasperetti su “Il Corriere della Sera”. Che un processo (finito due anni fa con una raffica di assoluzioni) e un pronunciamento della Corte dei conti diventassero un caso politico e un attacco al premier Matteo Renzi in pochi lo avrebbero pensato. E invece, dopo tante chiacchiere, qualche articolo sui fogli locali e soprattutto una pagina intera del Giornale dedicata alla vicenda, ecco «esplodere» a Firenze e in Versilia il «caso della vigilessa, del giudice e del sindaco». La vigilessa è il comandante della polizia municipale di Firenze, Antonella Manzione, già alla guida dei vigili di Pietrasanta, Verona, Livorno e Lucca e appena chiamata da Renzi a dirigere il Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, ma «bocciata» dalla Corte dei conti per mancanza di requisiti. Il giudice, ormai ex, è il fratello di Antonella, Domenico Manzione, già sostituto procuratore e oggi sottosegretario agli Interni (nominato da Letta è stato riconfermato da Renzi). Il sindaco, infine, è Massimo Mallegni, ex socialista, berlusconiano di ferro e dominatore per anni della politica di Pietrasanta, la capitale culturale della Versilia. Mallegni, che qualcuno si diverte a chiamare con ironico affetto il «Massimo della pena», è stato assolto insieme ad altri imputati due anni fa da accuse pesantissime (51 capi d’imputazione tra i quali corruzione, estorsione, truffa, associazione per delinquere) che gli sono costate nel 2006 39 giorni di galera, 120 di arresti domiciliari e la fine di una carriera politica brillante. Mallegni è stato poi condannato a 13 mesi per reati minori (in seguito caduti in prescrizione). Il primo esposto, che fece poi scattare altre inchieste, partì nel 2002 proprio da Antonella Manzione, allora comandante dei vigili urbani di Pietrasanta. E secondo il Giornale a decidere quattro anni dopo l’arresto del sindaco fu il fratello magistrato, Domenico, dunque una storia viziata da un presunto conflitto giuridico. A far tornare d’attualità il vecchio processo, la decisione della Corte dei conti di «bocciare» la nomina di Antonella Manzione. Tra l’altro il premier, da sempre estimatore delle sue capacità professionali, starebbe cercando di trovare il modo per portarla comunque a Palazzo Chigi. Così la Toscana della politica si divide. C’è chi parla di manovre di potere per fermare la crociata di Renzi contro la burocrazia ministeriale e i suoi «mandarini» (la nomina della Manzione farebbe paura a molti) e chi, invece, di persecuzioni giudiziarie per conquistare il potere. «Mi sento come il protagonista del film Truman Show - dice Mallegni - mi hanno affidato una parte e io quella sono obbligato a recitare. Se alzo la testa me la tagliano. Ecco perché non farò più politica in vita mia». Sorride, invece, Domenico Manzione. «Si è fatta solo una gran confusione - spiega -. Io non ho mai seguito il processo nato dopo le denunce di mia sorella, ma solo la maxi inchiesta sulla corruzione a Pietrasanta dove Mallegni era uno degli imputati. Nonostante questo, per evitare ogni possibile fraintendimento, sono stato affiancato dal procuratore di Lucca, che allora era Giuseppe Quattrocchi (poi procuratore a Firenze) che firmò con me tutti gli atti». Le richieste del pm per quel processo furono di 80 anni. E invece in primo grado arrivarono sostanziali assoluzioni. Non fu presentato appello. Per quale motivo? «Io non ero più il pm - risponde Manzione -. Imbarazzante il non appello? Sì, credo che sia proprio questa la parte più imbarazzante di tutta la vicenda».

La vigilessa, il giudice e il sindaco: la storia che imbarazza Renzi. Il premier vuole la Manzione a Palazzo Chigi. Ma lei provocò l'arresto ingiusto, grazie al fratello pm, dell'ex primo cittadino di Pietrasanta, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. La vigilessa si chiama Antonella Manzione, è stata il comandante dei vigili urbani di Firenze, oltre che direttore generale del Comune quando era sindaco Matteo Renzi. Ora potrebbe diventare una delle donne più potenti d'Italia. Il premier la voleva a capo del Dagl (il Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, luogo nevralgico per l'attività di governo) ma la Corte dei Conti ha bloccato la nomina per mancanza di requisiti. Renzi sta scatenando l'inferno per lei: dapprima ha cercato di modificare la legge 400, quella che regola il Dipartimento, ma la cosa non è riuscita; ora sembra che abbia chiesto la testa del Segretario generale di Palazzo Chigi, reo di non aver garantito la nomina della vigilessa, per sostituirlo proprio con lei. Ma perché tanta attenzione per la signora? Per capire chi è dobbiamo raccontare una storia molto italiana: quella della vigilessa, del sindaco e del magistrato. Della vigilessa abbiamo parlato. Il sindaco, invece, si chiama Massimo Mallegni ed è un albergatore toscano. Eletto a 32 anni nelle file di Forza Italia (allora il più giovane sindaco italiano) dal 2000 al 2010 ha guidato Pietrasanta, il gioiello della Versilia chiamata la «piccola Atene» per la quantità d'artisti italiani e stranieri che lì abitano e lavorano. La sua brillante carriera politica s'interrompe nel gennaio del 2006, quando viene arrestato per un'indagine che lo vede accusato di 51 reati, tra cui: corruzione, associazione a delinquere, truffa, abuso di ufficio, lesioni a pubblico ufficiale ed estorsione. Mallegni si fa 39 giorni di carcere e quasi 120 d'arresti domiciliari. Insieme a lui vengono arrestati suo padre, un assessore, tre dirigenti comunali, qualche imprenditore ed indagate altre 35 persone. A scatenare questa tempesta è un esposto del 2002 della comandante della polizia municipale di Pietrasanta, Antonella Manzione, appunto; tra i due vi era una vecchia ruggine generata dalla convinzione della donna di aver subito pressioni e minacce dal sindaco che si sarebbero trasformate in mobbing. Dopo l'esposto gli investigatori raccolgono informazioni su presunti abusi edilizi ed urbanistici in tre inchieste distinte (tra cui quella che porterà agli arresti) a Lucca, Firenze e Genova. L'ordine d'arresto del sindaco viene firmato da un magistrato di Lucca di nome Domenico Manzione, «casualmente» fratello della vigilessa. L'immagine di un sindaco che litiga con la vigilessa e che viene arrestato dal fratello magistrato di lei lascia la sensazione inquietante di un potere che non ha pudore. Contro il sindaco scende in campo anche il moralismo questurino di Travaglio che definisce «galeotto» un uomo messo in galera prima di essere giudicato. I processi si sono conclusi con l'assoluzione di Massimo Mallegni, «perché i fatti non sussistevano». Il presunto comitato d'affari che avrebbe inquinato la piccola Atene non è mai esistito, come l'azione di mobbing nei confronti della vigilessa. Di reale c'è solo il suo arresto che la Cassazione ha persino giudicato illegittimo (e per il quale ora lo Stato, cioè noi cittadini, dovrà risarcirlo). Dopo questi fatti Massimo Mallegni è tornato a fare l'albergatore, mentre per i fratelli Manzione è iniziata una sfolgorante carriera: una volta a Firenze alla corte di re Renzi la vigilessa è stata contestata persino dal Pd perché i gli incarichi di comandante dei Vigili urbani e direttore generale del Comune sono incompatibili per legge. Anche il fratello magistrato ha fatto carriera: è diventato sottosegretario all'Interno nel governo Letta, «in quota renziana», come lui stesso ha specificato in un'intervista, cioè «per indicazione derivante da Renzi basata su ragioni di conoscenza, di affetto, di amicizia e di stima personale»; ovvie ragioni che spiegano perché il suo amico affettuoso e riconoscente, una volta divenuto premier, lo ha riconfermato.

FIRENZE ED I BILANCI TRUCCATI.

Renzi, Corte dei conti accusa: a Firenze 4 anni di “gravi irregolarità” in bilancio. "Inosservanza dei principi contabili di attendibilità, veridicità e integrità del bilancio, anche violazioni in merito alla gestione dei flussi di cassa e alla loro verificabilità". Così i giudici contabili bollano la gestione dell'attuale premier da primo cittadino del capoluogo toscano. E il successore-delfino Nardella deve trovare 50 milioni di euro, scrive Davide Vecchi il 5 settembre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. E quattro. Il Comune di Firenze è costretto ancora una volta a ricevere i rilievi della Corte dei conti. Per il quarto anno consecutivo. L’intera gestione firmata Matteo Renzi. Ma questa volta ai giudici contabili non sono bastate le rassicurazioni di Palazzo Vecchio e non è stato sufficiente neanche l’intervento riparatore della giunta di Dario Nardella, che si è visto costretto a rimediare alla pesante eredità ricevuta. Per i giudici contabili rimangono “gravi irregolarità” che generano “oltre all’inosservanza dei principi contabili di attendibilità, veridicità e integrità del bilancio, anche violazioni in merito alla gestione dei flussi di cassa e alla loro verificabilità”. Per questo la Corte, il 31 luglio come già il 22 maggio, ha recapitato a Palazzo Vecchio un’ordinanza con cui invita l’ente “ad adottare entro 60 giorni i provvedimenti idonei a rimuovere le irregolarità e a ripristinare gli equilibri di bilancio”. L’erede di Renzi, il fidato Nardella, sapeva che con la poltrona di primo cittadino avrebbe ricevuto in consegna anche qualche guaio. Ma non di tale entità. La percezione reale l’ha avuta lo scorso dicembre quando ha saputo che anche da Roma l’amico Matteo avrebbe regalato altri guai. Con esattezza minori entrate dallo Stato per 22 milioni. Il 27 dicembre 2014, dopo aver faticosamente chiuso la discussione sulla Finanziaria, Nardella ha ammesso: “Sappiamo solo che c’è uno sbilancio di 50 milioni di euro, dobbiamo trovare 50 milioni”. Aggiungendo sconsolato: “Ci stiamo lavorando anche in questi giorni di ferie”. Non è servito. Non secondo i giudici contabili che a fine luglio hanno contestato alcuni punti al sindaco seppure prendendo atto che l’erede ha risolto qualche falla lasciata dal predecessore. Il primo riguarda “la gestione di cassa nel triennio 2011-2013” che “ha evidenziato l’impiego di fondi aventi specifica destinazione per spese di parte corrente, non ricostituiti al termine dell’esercizio”. In pratica, come tutti i Comuni, anche quello di Firenze ha delle “riserve” che devono essere usate per specifiche necessità. La legge prevede una sorta di deroga e quindi permette di utilizzarli per altre spese ma a condizione che poi quelle riserve vengano ricostituite. Renzi se n’è dimenticato. La cifra? 45.888.216 euro. Fondi che “potevano essere ricostituiti integralmente con gli incassi avvenuti nei primi mesi del 2014”. Ed elenca: “Somme correnti depositate nei conti correnti 5,5 milioni”, “trasferimenti ministeriali per il funzionamento degli uffici giudiziari per il 2011 e il 2012 per 28,6 milioni” e, infine, i “contributi erariali per 5,7 milioni”. Invece, bacchettano i giudici, li avete spesi in altro denotando “una sostanziale difficoltà nella gestione dei flussi di cassa” e mettendo a rischio “l’equilibrio e la stabilità finanziaria dell’ente”. Altro capitolo dolente: la “presenza consistente di residui attivi vetusti”. Si tratta di crediti che ogni ente spera di recuperare prima o poi: multe, tasse e così via. Crediti che trascorsi alcuni anni devono essere trasformati in inesigibili. I “residui attivi vetusti” di Palazzo Vecchio per la Corte sono troppi e troppi vecchi: risalgono a prima del 2009. Quindi vanno riconteggiati perché “la loro elevata incidenza percentuale comporta un potenziale rischio per la tenuta degli equilibri di bilancio negli esercizi successivi”. A Nardella non è rimasto che correre ai ripari. Ed eseguire: la Giunta l’8 maggio 2015 ha deliberato il “riaccertamento straordinario dei residui” e portato il “fondo crediti di dubbia esigibilità e difficile esazione” a 152 milioni di euro. Il fondo svalutazione crediti nel rendiconto di gestione 2014 era 13,7 milioni. Ma Firenze è una città ricca. Come spiega l’assessore al bilancio, Lorenzo Perra. “Noi siamo in grado di restituire debiti per 30 milioni l’anno, purtroppo siamo frenati dal rispetto del solito e fastidioso patto di Stabilità”. I rilievi della Corte dei conti? “Sono inviti a spiegare, correggere, migliorare e da quando siamo a Palazzo Vecchio noi lo stiamo facendo: abbiamo chiuso il bilancio con un avanzo di 30 milioni e non ravvedo grandi elementi problematici per il futuro”. Ma i giudici contabili sollevano dubbi. Come l’opposizione in aula. In particolare Tommaso Grassi che ritiene possa essere “colpa della corsa di Renzi a Palazzo Chigi”. Ma l’erede non sta sistemando le cose? “La Corte dice una cosa diversa: i fondi destinati a investimenti che sistematicamente a fine anno venivano utilizzati per pagare i fornitori (che invece pesano sulla spesa corrente, ndr) e non peggiorare il patto di stabilità, nel 2014 non sono stati sistemati. Così come, nonostante il riaccertamento straordinario dei crediti inesigibili effettuato a maggio, la magistratura contabile ritiene ancora troppo elevata la percentuale dei residui (attivi, ndr) e teme che questo possa falsare i conti del Comune”. Da Il Fatto Quotidiano del 5 settembre 2015.

Giudice firma la sua assoluzione, Renzi la promozione a capo della Corte dei Conti. Martino Colella, classe 1945, magistrato napoletano di lungo corso a un passo dalla pensione (che scatterà il 31 dicembre) giura: "Nessun collegamento tra le due vicende", scrive di Thomas Mackinson il 26 febbraio 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Il giudice firma la sua assoluzione in appello, Renzi la sua nomina a capo della Corte dei Conti. Sei giorni dopo la pubblicazione della sentenza che ha definitivamente assolto il Presidente del Consiglio per la vicenda dei portaborse assunti in Provincia il Governo, su proposta dello stesso Renzi e per decreto, ha ratificato la nomina del magistrato che presiedeva il collegio giudicante a Procuratore Generale della Corte dei Conti. Si tratta di Martino Colella, classe 1945, magistrato napoletano di lungo corso a un passo dalla pensione. La sua promozione è arrivata neanche una settimana dopo il deposito della sentenza della I Sezione centrale d’appello di Roma, avvenuto il 4 febbraio, che sollevava il premier da ogni responsabilità sulla vicenda degli incarichi dirigenziali conferiti senza concorso né laurea al personale di staff della sua segreteria che era costata a Renzi due condanne per danno erariale. Non è un dettaglio. Proprio Colella ha firmato, insieme a quattro magistrati, l’assoluzione che il 7 febbraio ha provocato l’esultanza del diretto interessato (“La verità è ristabilita”) e non poche perplessità nel mondo del diritto, giacché le motivazioni sono ricondotte al fatto che era un “non addetto ai lavori” e quindi poteva non percepire l’illegittimità degli atti che autorizzava. Singolare non è solo la pronuncia che, come rilevato da più parti, rischia di spalancare le porte a un sistema diffuso di elusione della responsabilità erariale, mandando assolti i tanti politici “non addetti ai lavori”. Il punto è che il giudice che presiedeva il collegio che a metà dicembre, in camera di consiglio, ha deciso il proscioglimento dell’imputato Renzi è lo stesso che un mese e mezzo dopo il presidente Renzi ha nominato PG della Corte, cioè capo di coloro che debbono indagare se sussistono ipotesi di danno erariale. La sentenza è stata depositata il 4 febbraio e la nomina è stata ratificata il 10, a margine del Cdm numero 49. “Su proposta del Presidente del Consiglio Matteo Renzi”, si legge nei documenti della riunione, vengono nominati un presidente aggiunto e il capo della Procura Generale della Corte dei Conti, con decorrenza a partire dal 25 marzo 2015. Il primo è Arturo Martucci di Scarfizzi. Il secondo è, appunto,Martino Colella. L’indicazione era stata avanzata il 13 gennaio dal Consiglio di presidenza della Corte dei Conti che ha deliberato all’unanimità e trasmesso i nominativi a Palazzo Chigi. L’interessato, contattato dal Fatto, si dice certo che le due vicende siano distinte. “La Presidenza del Consiglio riceve la delibera e la formalizza”, spiega Colella che rivendica un cv di prima grandezza sugli altri sei presidenti di sezione in corsa: “Sono stato il più giovane vincitore del concorso per l’Avvocatura di Stato, ho vinto quello d’ingresso alla Corte a soli 26 anni. Dopo il terremoto dell’Aquila ho ricostruito e riorganizzato la sezione, sono presidente d’appello da oltre due anni e nel 2014 ho redatto e sottoscritto 115 sentenze (una è quella che ha assolto Renzi, ndr). Renzi non l’ho mai visto né sentito”. Di più, Colella giura di non aver ricevuto affatto regali dall’attuale Governo, anzi: “L’incarico che mi danno, grazie a questo governo, non comporta alcun guadagno aggiuntivo perché il mio stipendio è già al tetto dei 240 mila euro lordi l’anno. Dovrò anzi restituirne 20mila. Sempre grazie a questo governo, poi, andrò in pensione il 31 dicembre prossimo rinunciando ai migliori anni della carriera”. Proprio così, l’altro aspetto curioso della vicenda è che il nuovo incarico durerà soltanto nove mesi e mezzo. Non è ancora partito, e già si parla del successore. Sia come sia, le domande restano tutte: tra 600 magistrati contabili, possibile che sia stato scelto proprio quello che ha presieduto il collegio che un mese e mezzo prima ha mandato assolto il premier? Potevano ignorarlo i consiglieri della Corte? Proviamo dall’altra parte: poteva non sapere Renzi che stava ratificando la nomina del suo giudice a Berlino? Proprio alla luce delle motivazioni della sentenza vergate dal collegio di Colella si direbbe che sì, tutto è possibile. Così come non si era accorto di aver firmato delle nomine illegittime di portaborse, perché in fondo non era un addetto ai lavori, è possibile che non si sia accorto di aver promosso il giudice che lo ha assolto. Renzi, presidente di Provincia e del Consiglio. Ma sempre a sua insaputa. Da Il Fatto Quotidiano del 26 febbraio 2015.

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO.

Nomina del Procuratore Generale, precisazione su articolo di stampa. Relativamente a quanto riportato in un articolo di stampa nel quale sono contenute alcune illazioni particolarmente gravi e prive di ogni fondamento nei confronti della Corte dei conti, l’Ufficio stampa precisa quanto segue.La nomina del Procuratore Generale della Corte dei conti è disposta dal Consiglio di presidenza – a seguito di un’apposita procedura concorsuale – e formalizzata con un Decreto del Presidente della Repubblica, controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Nello specifico, alla procedura concorsuale bandita dal Consiglio di presidenza il 17 dicembre 2014, hanno partecipato sette Presidenti di Sezione della Corte dei conti. All’esito delle audizioni personali degli interessati e valutati i fascicoli e i curricula dei singoli candidati, il Consiglio di presidenza, nell’adunanza del 13-14 gennaio 2015, ha nominato, all’unanimità, Procuratore Generale della Corte dei conti il Presidente di Sezione dott. Martino Colella, peraltro già primo nella graduatoria parziale elaborata sulla base dell’anzianità di servizio e della professionalità specifica, in considerazione dell’elevatissimo spessore professionale e dell’indiscusso prestigio dello stesso. Corte dei conti – Ufficio stampa.

LA REPLICA DELL’AUTORE

Riceviamo la nota e volentieri pubblichiamo. Rileviamo che la ricostruzione dell’articolo e della nota sono sostanzialmente identici nella definizione delle date e delle procedure che hanno portato il presidente Colella a capo della Procura Generale della Corte dal prossimo 25 di marzo. Proprio per fornire una ricostruzione esatta dei fatti e anche una spiegazione delle circostanze con cui è avvenuta la procedura abbiamo provveduto a contattare il presidente Collela dando ampio spazio alla sua posizione in merito. Aggiungiamo, per completezza, quello che la nota non dice. E cioé che a sei giorni dal deposito della sentenza, avvenuto il 4 febbraio, il Presidente del Consiglio ha formalizzato la delibera di nomina del magistrato che a metà dicembre ha presieduto il collegio che l’ha mandato assolto. T.M.

CENSURA A FIRENZE.

Renzi e la casa in affitto, censurate anche le bollette, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Passano i giorni e dall’entourage di Renzi continuano a non rispondere alle domande di Libero. Il principale consigliere del premier, Marco Carrai, sedicente intestatario del contratto di locazione dell’appartamento di via degli Alfani 8 (dove ha risieduto Renzi per 32 mesi tra il 2011 e il 2014) non ha accettato di rendere pubblico il documento e di spiegare per quanto tempo e a che prezzo abbia ospitato il Rottamatore. Tommaso Grassi, consigliere comunale di Sel, ha cercato di avere lumi, ma per ora inutilmente. Infatti il servizio entrate del Comune ha respinto la richiesta di accesso agli atti perché troppo generica e la società esterna che riscuote la tassa dei rifiuti e che ha in archivio i nomi degli inquilini delle case fiorentine ha risposto che non consegnerà i dati per motivi di privacy. Comunque in via degli Alfani 8 nessuno si ricorda di Marchino, 39 anni proprio oggi. Ufficialmente ha sempre risieduto nel paese dove è cresciuto, Greve in Chianti (Firenze). Il suo indirizzo è in via Salvator Allende, in una zona di moderne villette a schiera mescolate a palazzine popolari. Sul campanello ci sono i nomi del padre Giuseppe, quello della madre e quello di Marco, il cui appartamento è al piano terra. Il papà, titolare di un’azienda di materiali per l’edilizia, controlla il viavai dal terrazzo e ai cronisti risponde pacato: «Mio figlio vive tra qui e Firenze, dove abita a casa della fidanzata». La compagna si chiama Francesca C., ha 26 anni e nel capoluogo toscano ha intestati due locali commerciali e due appartamenti. Lei vive, presumibilmente con Carrai, in quello di via Spada, al primo piano. Praticamente casa e bottega, visto che con la madre Giuliana ha restituito splendore a una storica argenteria fiorentina nell’esclusiva via Tornabuoni. Il matrimonio dei due giovani è previsto per settembre. Grazie a Facebook ricaviamo qualche informazione interessante su Carrai, l’uomo che per due anni ha affittato la casa al premier e che grazie al legame con Renzi ha ottenuto importanti incarichi politici e d’amministratore. Carrai inserisce come luogo di residenza Gerusalemme. Si tratta in realtà di una residenza virtuale per sottolineare il legame strettissimo con Israele. Per esempio nelle società di consulenza Yourfuture e Cambridge management e nel fondo Wadi è socio dell’ebreo Jonathan Pacifici, romano trapiantato in Terra Santa. Pacifici si definisce sostenitore del partito conservatore Likud e anima un blog sulla Torah, il testo sacro dell’ebraismo. Carrai tra gli amici di Facebook, ma non solo lì, ha anche Michael Ledeen, prezioso collegamento con gli Usa, l’uomo che il tre volte premio Pulitzer Knut Royce definisce in suo libro «controverso conservatore americano». Grande fautore della guerra in Iraq, membro dell’American Enterprise institute insieme con l’ex direttore della Cia James Woolsey, autore del libro Fascismo universale, per Knut, «Ledeen è stato spesso accostato all’Intelligence italiana, ma lui ha sempre negato». Nei cosiddetti misteri d’Italia, dalla P2 al delitto Moro, è spesso affiorato il suo nome, senza prove. Ma, si sa, Marco Carrai è un uomo curioso e poliedrico e questo lo ha reso indispensabile per Renzi: collega galassie diverse e raccoglie denaro attraverso le fondazioni (Big Bang prima e Open poi), ma ha anche guidato la Florece multimedia, l’agenzia di comunicazione renziana ai tempi in cui il premier era a capo della Provincia. Ora questo piccolo Istituto Luce è sotto inchiesta presso la Corte dei conti per le sue spese milionarie. Marchino è stato pure amministratore delegato della Firenze parcheggi e oggi è presidente dell’aeroporto di Firenze (incarichi da oltre 42 mila e 80 mila euro l’anno). Posti in cui è stato fortemente voluto da Renzi. La polemica più accesa degli ultimi giorni riguarda l’appalto comunale affidato alla C&T Crossmedia controllata da Carrai per una video guida multimediale per Palazzo Vecchio. L’Associazione Museo dei ragazzi (Mdr), incaricata dall’assessore alla cultura Giuliano da Empoli (futuro socio della Crossmedia) per l’affidamento, il 25 ottobre 2011 (Carrai ospita Renzi da qualche mese) chiede un preventivo a tre società; l’8 novembre ad altre due, tra cui la Crossmedia. Dieci giorni dopo la sua offerta viene valutata come migliore: riduce «praticamente a zero il rischio d’impresa» scrivono i tecnici. Il tariffario per il noleggio oscilla tra 5 a 3 euro. Ma a servizio assegnato il prezzo più basso sparirà dall’offerta. Nel contratto viene ipotizzato anche un fatturato superiore ai 300 mila euro. La scrittura privata viene siglata tra il presidente del Mdr Matteò Spanò, ex dipendente di Florence Multimedia, e la società controllata dall’ex amministratore delegato di Florence, Carrai. Questo il suo presente. Ma molti anni fa, a 19 anni, l’allora insegnante di catechismo Marco Carrai, non sognava certo di diventare, quattro lustri dopo, il consigliere del Principe, nonostante la precoce passione politica. Nel 1994 decise di scendere in campo per sostenere Silvio Berlusconi. Il suo mentore a Greve in Chianti era il generale dell’ aviazione dell’esercito, protagonista della missione italiana in Libano, Umberto Taddei. L’alto ufficiale si candidò sindaco nella rossa Greve e Marchino lo sostenne. Ma dopo essere stato sconfitto, racimolando il 20 per cento dei voti, il generale radunò i suoi in un ristorante per annunciare il suo ritiro dalla vita politica attiva. Di fronte a pochi fedelissimi indicò Carrai come suo erede. Il giorno dopo lo incontrò in piazza e il ragazzo gli fece una sorpresa: «Mi mostrò la tessera dell’Ulivo. Era già passato con gli avversari» ricorda Taddei. «Mi infuriai e lo insultai davanti a tutti. Andò a piagnucolare da un vecchio democristiano che mi chiamò per rimproverarmi». Iniziò così l’irresistibile ascesa di Marco Carrai, l’uomo che pagava l’affitto al Rottamatore.

La radio anti-rottamatore perseguitata dai giudici. Il caso della fiorentina Radio Studio 54 querelata dal sindaco e punita dalle toghe, scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. Chi critica le malefatte del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, al meglio finisce condannato. È un assioma. Ma se ci fosse bisogno di un'ulteriore prova basta ripercorrere l'esperienza vissuta da Guido Gheri, «I' Gheri», come lo chiamano a Scandicci, alle porte di Firenze, fondatore, proprietario e speaker di punta della storica Radio Studio54, aperta nel 1975, un'oasi blu nel deserto rosso della Toscana. Ed è proprio questo il punto. «I' Gheri» sta sulle balle. E anche questo è un assioma. I suoi pensieri in libertà durante il programma Voce del Popolo ascoltato ogni mattina da quasi mezzo milione di persone vanno di traverso ai rossi politici locali. Soprattutto al sindaco di Firenze. Ecco perché la sinistra e i giudici di sinistra non la vogliono più tra i piedi. Radio Studio54 è l'unica radio in Toscana che non è di sinistra e che non vive, come le altre, di soldi pubblici. E così per mettergli il bavaglio si è ricorso prima ai sigilli e poi alle condanne penali. Nel 2012 vennero sequestrati gli impianti e interrotte le trasmissioni. E qualche giorno fa per Gheri e un suo collaboratore è arrivata una sentenza di condanna. Le accuse sono diffamazione e incitamento all'odio razziale per certe frasi pronunciate in diretta. Il giudice Marco Bouchard, manco a dirlo membro di Magistratura democratica, ha inflitto 9 mesi di condanna a Gheri e 6 mesi al suo «aiuto» Salvatore Buono. I due sono stati anche condannati a risarcire il Comune di Firenze con una multa di 5mila euro. Il tutto ascoltando solo due dei 18 testimoni che i legali di Gheri avevano iscritto a ruolo, tra i quali figuravano anche tanti extracomunitari amici e collaboratori della radio. La presunta istigazione all'odio razziale deriva dai commenti del Gheri sulla gestione del maxi-parcheggio a pagamento dell'ospedale Careggi di Firenze, da dove alcuni ascoltatori avevano segnalato atti vandalici e aggressioni da parte di extracomunitari e di zingari. Ovviamente venne tirato in causa anche il Comune di Firenze accusato di non risolvere quella grave situazione di ordine pubblico. Una critica che evidentemente colpì la delicata sensibilità del sindaco-segretario, ritenutosi offeso insieme alla sua amministrazione, e che decise per questo di querelare Gheri e Buono e di costituire il Comune di Firenze parte civile. «Ma quale razzismo? - si difende Gheri - sono l'unico che ha sempre avuto stranieri a lavorare nella mia radio. Quando parlavo di Careggi lo facevo perché ricevevo ogni giorno centinaia di messaggi di donne e madri impaurite per quello che accadeva da anni nei parcheggi dell'ospedale. Senza che il Comune muovesse un dito. La verità è che qui è stato messo in piedi un preciso disegno volto a rovinare me e la mia famiglia. Radio Studio54 è l'unica spina nel fianco che hanno per cui avvalendosi dei loro amici magistrati cercano di distruggermi. Un danno di immagine e di salute incalcolabile». In Toscana funziona così. Chi osa mettersi contro lo strapotere delle coop e dei poteri forti rischia pesante. Gheri per anni ha attaccato il sistema di sprechi regionale e provinciale nonché la giunta del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, il quale, indispettito per essere stato definito in un dossier «Renzino Spendaccino», lo ha querelato. «Altro che Cuba, qui è peggio, una cosa impressionante. Chi la pensa diversamente in Toscana prima o poi la paga. Loro hanno il potere di distruggerti». Il senatore fiorentino di Fratelli d'Italia e candidato a sindaco di Firenze, Achille Totaro, ha preannunciato che presenterà un'interrogazione parlamentare in merito. L'avvocato Paolo Florio, difensore di Gheri, ha parlato di «sentenza sorprendente, date le miti richieste della procura» che, per l'istigazione, proponeva al giudice solo una multa e non il carcere. Ma se parli male del sindaco Renzi...

INSABBIAMENTI E MASSONERIA. I DELITTI DEL MOSTRO DI FIRENZE.

Izzo, il killer Zodiac e l’uomo nero. Tutti i mostri del Mostro di Firenze. L’assassino del Circeo evoca Narducci, un ex militare americano rivela ad un giornalista: sono io, scrive Antonella Mollica il 30 maggio 2018 su "Il Corriere della Sera". Due mostri che rivendicano di essere il Mostro più inafferrabile della storia, quello a cui si dà la caccia da quarant’anni. C’è il mostro del Circeo che tira fuori dal cilindro la storia di una ragazza di 17 anni rapita sulle montagne venete nel lontano 1975 e poi uccisa durante un rito satanico alla presenza del medico rievocato più volte nelle vicende del Mostro di Firenze. E c’è un vecchio militare americano che confessa a un giornalista italiano la sua doppia identità e la sua lunga carriera da serial killer perennemente braccato: fino al 1974 negli Stati Uniti, dal ‘74 in poi come assassino che insanguinò le colline di Firenze uccidendo sette coppie di fidanzati con la Beretta calibro 22 mai ritrovata. Passano gli anni, passano i decenni, scompaiono uno ad uno protagonisti, comprimari, comparse e figuranti. Persino i resti di Pietro Pacciani non ci sono più, ingoiati da una fossa comune. Eppure con cadenza regolare, come un fiume carsico che affiora e poi scompare sotto terra, il Mostro per eccellenza, carico dei suoi mille misteri, ritorna sempre. Nei mesi scorsi Angelo Izzo, uno degli autori del massacro del Circeo — due ragazze seviziate per due giorni nel settembre 1975, una morì, l’altra riuscì a sopravvivere fingendosi morta nel bagagliaio dell’auto — dal buio dei suoi due ergastoli, ha iniziato a fare rivelazioni. Ha raccontato della scomparsa di Rossella Corazzin, 17 anni, di Pordenone, uscita di casa un pomeriggio d’estate del 1975 a Tai di Cadore per fare una passeggiata con una macchina fotografica e un libro e mai più ritrovata. «L’abbiamo rapita noi perché vergine, poi l’abbiamo portata in Umbria e l’abbiamo uccisa dopo un rito satanico», ha detto Izzo ai magistrati. Quel «noi» comprende Francesco Narducci, il medico di Perugia coinvolto nell’inchiesta sul Mostro, morto nel 1985 nel lago Trasimeno in circostanze mai chiarite. Narducci, racconta Izzo, all’epoca aveva una casa a Cortina (ma la famiglia Narducci smentisce di aver mai avuto una casa lì), Rossella sarebbe stata tenuta prigioniera, violentata e uccisa proprio nella villa sul Trasimeno di Narducci. Durante il rito satanico la ragazza, vestita di bianco, sarebbe stata legata a un tavolo, seviziata e violentata da dieci persone incappucciate. I pm di Perugia hanno ritenuto le dichiarazioni di Izzo non credibili ma la procura di Belluno che ha aperto un’inchiesta pochi giorni fa ha trasmesso altre carte ai colleghi umbri. L’ultimo capitolo che si aggiunge alla storia infinita arriva da oltreoceano. La notizia l’ha pubblicata ieri il Giornale: un ex ufficiale dell’esercito americano ha confessato al giornalista Francesco Amicone — che ha svolto un’inchiesta sul Mostro sulla rivista Tempi — di essere il Mostro di Firenze e di essere Zodiac, uno dei serial killer più ricercati d’America che iniziò a colpire nella California settentrionale alla fine del 1969. L’assassino si firmava con una croce celtica rubata dal logo dell’orologio Zodiac Sea Wolf e scriveva lettere ai giornali locali, allegando le prove dei suoi delitti e minacciando di uccidere ancora se non avessero dato spazio in prima pagina ai suoi indovinelli e ai suoi testi cifrati. Zodiac ha rivendicato 37 morti, 6 quelli accertati. Non lasciò mai tracce — se non un’impronta di scarpe numero 44.5 — e non venne mai identificato. I testimoni raccontano di un omone grande, robusto, alto 1.80, con un grosso stomaco e capelli scuri con la riga. L’ultima lettera di Zodiac è del 24 gennaio 1974. Da quel momento il killer americano sparisce nel nulla. Il 14 settembre a Borgo San Lorenzo avviene il primo delitto della serie del Mostro di Firenze. Vengono massacrati Stefania Pettini, 18 anni, segretaria d’azienda, e il fidanzato Pasquale Gentilcore, 19 anni, impiegato alla Fondiaria. Prima i colpi di pistola, poi 96 coltellate sulla ragazza, prima di infilarle un tralcio di vite nella vagina. È l’inizio di una sequenza che si interromperà solo nel 1985, anno della morte di Narducci. L’ex militare americano, veterano della guerra in Vietnam, vent’anni trascorsi nell’Esercito Usa, in quell’anno si sarebbe trasferito in Italia. In base a quanto raccontato dal militare al giornalista italiano potrebbe essere lui «il nero Ulisse» di cui parla l’ex postino di San Casciano Mario Vanni, uno dei compagni di merende di Pacciani condannato per concorso (con Pacciani che è morto da innocente) negli ultimi quattro delitti del Mostro. Nel luglio 2003, mentre Vanni è detenuto nel carcere di Pisa, l’amico Lorenzo Nesi va a fargli visita in cella e gli chiede chi è il Mostro: «È stato Ulisse che ha ammazzato tutta questa gente, è nero, è un americano». Dice che è un uomo grande e grosso, un omone che sta in America. «Non lo conoscevo. Ho saputo la storia dopo, che era stato lui ad ammazzare tutte e sedici le persone. Ha lasciato una lettera, ha lasciato la pistola, la prese il procuratore. Il procuratore che conta». Adesso le rivelazioni dell’ex militare americano, raccolte dal giornalista, sono finite sul tavolo del procuratore aggiunto Luca Turco che coordina l’ultimo atto dell’inchiesta sul Mostro, quella che vede indagati l’ex legionario Giampiero Vigilanti, 88 anni, e il suo ex medico che oggi ha 87 anni. L’inchiesta va avanti e probabilmente verrà richiesta un’altra proroga delle indagini. Con perizie balistiche mai eseguite, rilettura di vecchie carte e incroci di dati, date e dna.

Delitto del Circeo: Izzo sostiene un legame col Mostro di Firenze. Rossella Corazzin sarebbe stata violentata e uccisa nella villa sul Trasimeno di Francesco Narducci, indagato per i delitti seriali, scrive il 29 maggio 2018 "La Repubblica". Il caso mai risolto degli omicidi seriali fiorentini, torna improvvisamente sotto i riflettori. Da una parte per un presunto incrocio con il mostro del Circeo, dall'altra per nuove rivelazioni e il presunto collegamento con altri delitti seriali avvenuti negli Stato Uniti. Il giallo sulla scomparsa di Rossella Corazzin, la ragazza di 17 anni, di Pordenone sparita nel 1975 a Tai di Cadore (Belluno) potrebbe intrecciarsi con quello del mostro di Firenze. A unire le due vicende sarebbe la figura di Francesco Narducci, il medico morto nel 1985, legato ai misteri del mostro di Firenze. A chiamarlo in causa è ancora Angelo Izzo, secondo cui Rossella sarebbe stata tenuta prigioniera, violentata e uccisa nel settembre 1975 proprio nella villa sul Trasimeno di Narducci, che avrebbe partecipato al massacro. Izzo, il «mostro del Circeo», sta scontando due ergastoli ed è rinchiuso nel carcere di Velletri. La procura di Perugia aveva archiviato l'inchiesta. I pm avevano ritenuto le dichiarazioni di Izzo "non credibili". Gli accertamenti effettuati non avrebbero fatto emergere alcun elemento utile per proseguire nell'indagine. Però la procura di Belluno, che aveva aperto una sua inchiesta sulla scomparsa della ragazza, lo scorso 24 maggio aveva trasmesso nuove carte ai colleghi umbri. Sulla base delle dichiarazioni rese in due occasioni nel 2016 da Izzo all'allora procuratore di Belluno Francesco Saverio Pavone, Gianni Guido e Francesco Narducci, con Andrea Ghira e altri due giovani, si sarebbero avvicinati a Rossella a bordo di una Land Rover mentre stava passeggiando a Tai di Cadore. Sia Guido che Narducci all'epoca avevano una casa poco distante, a Cortina. Nella casa sul lago Trasimeno - è sempre il racconto di Izzo - venne inscenato un vero e proprio rito satanico: la ragazza - completamente vestita di bianco - sarebbe stata legata a un tavolo, seviziata e violentata da dieci persone incappucciate, tra le quali lo stesso Izzo. Quest'ultimo ha detto però di non aver preso parte all'assassinio. "Non ho visto l'omicidio - ha raccontato - ma sapevo che doveva essere soppressa". Izzo sostiene che uno degli incappucciati era proprio Francesco Narducci, trovato cadavere nell'ottobre del 1985 sul Trasimeno. Nella lunga e controversa indagine sulla sua morte non sono mai emersi riferimenti o collegamenti con Angelo Izzo o agli altri soggetti coinvolti nel massacro del Circeo. Lo ha appreso l'Ansa da fonti vicine all'inchiesta, archiviata per sempre nel marzo del 2016 dalla Cassazione che ha confermato il non luogo a procedere (per prescrizione) per alcuni familiari e funzionari pubblici che vennero indagati per presunti depistaggi. I giudici hanno escluso il coinvolgimento di Narducci nelle vicende del mostro di Firenze. Sulla stessa linea la famiglia che smentisce di aver mai avuto una casa a Cortina e il loro avvocato, Falcinelli sottolinea che "l'ipotesi di un coinvolgimento di Narducci è stata già vagliata e archiviata per manifesta infondatezza della notizia di reato". "Ricordo infine - ha detto ancora l'avvocato Falcinelli - che Francesco Narducci ha percorso una brillantissima carriera universitaria ed è stato autore di apprezzate pubblicazioni scientifiche che gli hanno consentito in età giovanile il conseguimento del ruolo di professore alla facoltà di medicina dell'Università degli studi di Perugia". E sempre oggi la storia del mostro ha visto aggiungersi un altro capitolo. Capitolo che questa volta porta addirittura negli Stati Uniti. Secondo quanto pubblicato dal quotidiano Il Giornale, un ex ufficiale dell'esercito Usa che ha vissuto in Toscana sarebbe il responsabile degli omicidi di almeno sette coppie di ragazzi uccise nelle campagne attorno a Firenze fra il 1974 e il 1985. Si tratterebbe dello stesso uomo, noto negli Stati Uniti con il nome di "Zodiac": uno dei serial killer più ricercati d'America. Tutti i documenti di questa ricostruzione, emersa da un lavoro d'inchiesta giornalistica, sono stati consegnati alcune settimane fa in procura a Firenze. Gl investigatori, che in questi anni hanno accolto e vagliato tutte le piste, parlano di un "collegamento complesso".

[L'inchiesta] "Il medico coinvolto nei delitti del mostro di Firenze partecipò ai riti sessuali sulla Corazzin". Il mostro del Circeo, Angelo Izzo, ha fornito un dettaglio che può riaprire le indagini sulla scomparsa della 17enne friulana. Ora chiama in causa Francesco Narducci e la sua casa sul Trasimeno. Proprio il lago dal quale fu ripescato il corpo senza vita del medico che fu coinvolto nell'inchiesta sui serial killer in Toscana, scrive Cristiano Sanna il 29 maggio 2018 su Tiscali. Gli occhi sgranati, l'eloquio torrenziale, la naturalezza nel parlare di episodi tra i più raccapriccianti della cronaca nera italiana. Angelo Izzo, il mostro del Circeo, rischia di far riaprire l'inchiesta sulla misteriosa scomparsa di Rossella Corazzin. Di cui da 43 anni non si sa nulla. E che secondo Izzo fu rapita, violentata in una sorta di rituale e infine uccisa dai suoi complici del massacro del Circeo: Andrea Ghira e Gianni Guido. Con loro al momento del rapimento ci sarebbero stati altri due ragazzi, non meglio identificati, e un terzo. Cioè il medico Francesco Narducci, già legato alle indagini sul mostro di Firenze e ripescato senza vita dal Lago Trasimeno nel 1985, poco dopo l'ultimo dei delitti di quella serie. Il ruolo di Narducci non fu mai chiarito del tutto: si disse che lui era tra i mandanti degli omicidi, con accanimento sui corpi, eseguiti poi da Pacciani, Lotti e Vanni, unici condannati per le otto uccisioni di coppie che seminarono il terrore nelle campagne fiorentine fra il 1968 e il 1985. Si disse ancora che facesse parte di quel "secondo livello" di personaggi dell'alta società, coinvolti in una sorta di setta satanica, che ordinavano gli omicidi, e che custodisse i feticci umani ricavati da ogni delitto. Cosa c'entrano la vicenda della scomparsa della 17enne friulana Corazzin con le indagini sul mostro di Firenze? Secondo Izzo, Francesco Narducci, figlio di una delle più altolocate famiglie perugine, avrebbe reso disponibile la sua villa sul lago Trasimeno per gli abusi compiuti da Ghira, Guido e altre sette persone. Ancora violenza sessuale e poi la morte, come accadde quello stesso anno, il 1975, nei due giorni in cui la banda del Circeo si accanì su Donatella Colasanti e Rosaria Lopez. La prima fu trovata in fin di vita, la seconda morì. I responsabili delle efferatezze furono condannati all'ergastolo, Ghira mentre era latitante sotto falsa identità all'estero. Ne furono poi trovati i resti, e anche su questo dettaglio restano dubbi. Se torna il particolare rivelato da Izzo già nel 2016 al procuratore di Belluno, Francesco Saverio Pavone, cioè che Rossella Corazzin fu rapita su una Land Rover (dettaglio riscontrato nella più recente testimonianza di una donna), sul collegamento fra banda del Circeo e delitti del mostro di Firenze, ovvero la figura di Narducci, le riserve sono massime. Già in precedenza la Procura di Perugia aveva chiesto l'archiviazione dell'indagine tra i cui elementi erano incluse le dichiarazioni di Angelo Izzo su Francesco Narducci. La stessa Procura aspetta che arrivino da quella di Belluno le carte che possono riaprire l'inchiesta sulla scomparsa di Rossella Corazzin. Pier Luca Narducci, fratello di Francesco (di cui l'autopsia mise in evidenza che prima di essere ripescato senza vita dal Trasimeno poteva verosimilmente essere stato strangolato) attraverso il suo legale ha sottolineato che "decisioni definitive di diverse autorità giudiziarie (Firenze e Perugia) hanno escluso qualsiasi coinvolgimento di Francesco Narducci nei tristi fatti del 'mostro di Firenze' ed è convinto che "verrà parimenti accertata la sua assoluta estraneità alla scomparsa e al presunto omicidio di Rossella Corazzin". La villa di proprietà dei Narducci in cui, secondo il mostro del Circeo, il gruppo di giovani simpatizzanti della destra e tutti provenienti da benestanti famiglie della Roma bene sequestrò e uccise "come in un rituale" Rossella Corazzin è stata venduta all'inizio degli anni Novanta. Secondo Pavone, Procuratore di Belluno, gli unici riscontri attendibili sulle parole di Izzo potrebbero venire da esami accurati di ex arredi della villa, in particolare il tavolo secondo cui, a detta di Izzo, si sarebbero consumati abusi sessuali e infine l'omicidio della Corazzin. Ma non si sa se esistano ancora, e dove si trovino attualmente. Stando ancora alle dichiarazioni di Izzo, alla fine del rituale sessuale e omicida i partecipanti si sarebbero praticati tagli sulle mani, unendole poi in una sorta di settaria fratellanza di sangue. Izzo ha detto di essere stato presente in quei momenti, di aver partecipato alla violenza carnale sulla Corazzin, ma non all'omicidio. Le indagini sulla morte di Narducci furono archiviate, ma il Gip confermò l'esito degli esami sul corpo del medico, stabilendo che era stato ucciso. Già nel 1985 si parlò di una telefonata in cui si alludeva alla morte di Narducci, e a quella dello stesso Pacciani, puniti come traditori di una sorta di setta occulta dedita ai rituali sessuali. Michele Giuttari, che svolse le indagini sul caso dei delitti di Firenze fino alla cattura di Pacciani, Vanni e Lotti, disse in seguito che il "secondo livello", quello dei mandanti, non fu mai individuato perché una serie di pressioni portarono alla conclusione delle indagini dopo la cattura dei "compagni di merende". Le parole di Angelo Izzo, il mostro del Circeo condannato all'ergastolo per i fatti del 1975, rimescolano episodi raccapriccianti ma per ora rimettono in moto accertamenti sul caso della Corazzin. Sui delitti del mostro di Firenze è gia in corso una nuova inchiesta che vede al centro l'ex legionario Giampiero Vigilanti. Uno che ha sempre sostenuto che Pacciani, Lotti e Vanni non c'entrassero niente con quei fatti di sangue.

Il mostro di Firenze e il serial killer Zodiac sono la stessa persona? Scrive Chiara Poli su "Mondofox.it" il 30 maggio 2018/05/30. Zodiac e il mostro di Firenze: due Paesi lontani, due serial killer mai davvero identificati, nonostante le condanne italiane. E adesso un giornalista ci svela una clamorosa confessione...Uno è fra i serial killer mai identificati più ricercati della storia moderna. L'altro è il nostro incubo nazionale, mai finito, nemmeno dopo la condanna di Pietro Pacciani. Il serial killer Zodiac, che terrorizzò la California alla fine degli anni '60, uccideva con armi da fuoco e coltelli, e colpiva principalmente coppie appartate. Proprio come il serial killer italiano più feroce e misterioso di sempre. Fu lo stesso Zodiac, celebre per le lettere anonime che inviava ai giornali, a darsi il soprannome. E, sebbene sia stato ufficialmente identificato come l'autore di 5 omicidi (su 7 aggressioni: due delle vittime fortunatamente sopravvissero, ma non ebbero modo di portare alla sua cattura), secondo alcuni investigatori della polizia avrebbe ucciso almeno 40 persone. Mai catturato, continuò a inviare i suoi messaggi ai media fino al 1974. E oggi, un ex militare americano di stanza in Italia avrebbe confessato di essere Zodiac. E anche il mostro di Firenze.

Il mostro, i compagni di merende e Ulisse. Il mostro di Firenze: così è stato ribattezzato dalla stampa l'autore degli otto duplici omicidi - avvenuti tra il 1968 e il 1985 - nelle campagne fiorentine. Una scia di sangue che sconvolse l’opinione pubblica e mobilitò una quantità di investigatori mai vista prima, arrivando a chiedere la consulenza dell'FBI e di altre agenzie straniere. Gli indizi portano la polizia sulle tracce di un contadino, Pietro Pacciani, protagonista di uno dei più lunghi e controversi processi della storia giudiziaria italiana. Fino al 1998, anno della morte dello stesso Pacciani, che si era sempre dichiarato innocente. Attivo fra il 1968 e il 1985, il mostro porta alle condanne di Pacciani (poi assolto, con l'assoluzione in seguito annullata) e dei tristemente noti compagni di merende: Mario Vanni (condannato all'ergastolo e poi rilasciato per motivi di salute prima della sua morte, nel 2009), Giancarlo Lotti (che testimoniò contro gli altri e fu condannato a 30 anni, per poi morire nel 2002) e Fernando Pucci (testimone oculare, morto lo scorso anno). Nel corso delle indagini, e in particolare dalle testimonianze degli uomini coinvolti, emerge insistentemente la misteriosa figura di Ulisse, uomo la cui identità è sconosciuta e che viene indicato come il possessore delle armi dei delitti (mai ricondotte agli imputati) e come l'esecutore materiale dei delitti. Ma le ricostruzioni sono confuse e le ipotesi degli inquirenti non riescono a colmare i vuoti.

Ulisse è Zodiac. Ma è anche il mostro? Ed è a questo punto che arriva la sconvolgente rivelazione: intervistato da un giornalista, che continua a mantenere segreta la sua identità, incalzato proprio dal giornalista - che gli si propone come biografo in conseguenza dei suoi sospetti sul fatto che Ulisse possa essere proprio Zodiac - l'uomo in qualche modo arriva a confermare la teoria del giornalista. Lo fa con affermazioni ambigue nel corso di molti incontri avvenuti nel 2017. E quando il giornalista gli mostra alcune pagine del libro di Robert Graysmith su Zodiac, ottenendo informazioni che confermerebbero inequivocabilmente i suoi sospetti, arriva la svolta. Sempre attraverso le pagine di un libro (Delitto degli Scopeti di Vieri Adriani, Francesco Cappelletti e Salvatore Maugeri), il giornalista scopre che Ulisse frequentava gli stessi locali in cui andavano abitualmente due vittime del mostro, Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvili. Arriva il colpo di scena: il giornalista è ormai certo che Ulisse, l'uomo che ha di fronte, sia Zodiac. Ma anche che Zodiac e il mostro di Firenze siano la stessa persona. L'uomo parla bene italiano, come l'Ulisse emerso durante i processi per il mostro. Date e luoghi coincidono, sia per i delitti in California che per quelli in Italia. E Ulisse minaccia - non troppo velatamente - il giornalista, quando gli sembra che stia esagerando. Quando l'uomo suggerisce a Ulisse di costituirsi, sia per i delitti di Zodiac che per quelli del mostro, Ulisse tira in ballo altre persone, di cui non fa i nomi. L'ipotesi, largamente accreditata, degli studiosi dei delitti del mostro che fossero coinvolte parecchie persone - come del resto dimostrarono i processi - viene confermata anche da lui. A questo punto, siamo di fronte all'ultimo incontro fra il giornalista e Ulisse, che sembra intenzionato davvero a costituirsi. Ma non se ne hanno più notizie dal 13 settembre scorso, data di quell'ultimo incontro. 

La soluzione di due grandi misteri. Se le teorie del giornalista e le parole di Ulisse dovessero essere confermate, non arriveremmo solo all'identificazione di due fra i serial killer più ricercati di tutti i tempi. Arriveremmo, probabilmente, anche a comprendere la vastità del caso del mostro, il numero di persone coinvolte e l'eventuale collegamento fra Italia e Stati Uniti relativo ai delitti, data la nazionalità americana del colpevole. La rivelazione del giornalista, il cui nome rimane ovviamente anonimo per ragioni di sicurezza, verrebbe confermata da alcuni documenti - fra cui una rivista che riporterebbe la soluzione agli indovinelli che Zodiac lanciava ai media e che, una volta risolti, conterrebbero il nome e il cognome dell'assassino (coincidenti con quelli di Ulisse). La portata delle indagini e il numero di persone coinvolte è cresciuta ancora. Forse non arriveremo mai a conoscere tutta la verità, ma sicuramente se l'ammissione di Ulisse e le scoperte del giornalista venissero ufficialmente confermate, avremmo almeno la soluzione al nome dietro a due grandi misteri.

Il Mostro di Firenze: esultanza Social per il Video di Telefono Giallo, scrive lunedì 19 febbraio 2018 su "Nove-Firenze" Antonio Lenoci — Giornalista. Nato nel 1979 a Firenze è stato speaker radiofonico a Radio Rosa Toscana. Ha collaborato con Testate online della Toscana. Corrispondente da Firenze per Radio Bruno, network radiofonico nazionale. Telefono Giallo - 1987 Corrado Augias e Donatella Raffai. Su YouTube compare la puntata del 6 ottobre 1987 che vede in studio i massimi esperti del caso. In poche ore centinaia di visualizzazioni per la trasmissione di Corrado Augias riproposta 30 anni dopo la messa in onda del 6 ottobre 1987. Così ha commentato qualcuno sui social "Finalmente! Aspettavo da 30 anni". Un caso che resta ancora aperto ed è ancora molto discusso in rete, tra link, immagini, documenti e perizie oltre alle numerose pubblicazioni uscite per confutare la vicenda giudiziaria che ha visto coinvolti i "Compagni di merende" e non solo. La vicenda del cosiddetto "Mostro di Firenze", o "l'omicida delle coppiette" tiene ancora alta l'attenzione a distanza di anni e nel 2017 l'ennesima svolta sul caso si è registrata sull'asse Prato - Vicchio, con la notizia di una nuova indagine volta a valutare altre persone ed altri aspetti. Il caso ha così saggiato anche l'era dei Social Network che non esistevano negli anni '80 quando si discuteva nei bar e nei circoli o successivamente quando con i primi pc e le net-community a parlare erano le chat ed i forum. Ma come mai tanto interesse per una puntata di un programma Rai di 30 anni fa? A risponderci è Giuseppe Di Bernardo, fumettista italiano ed autore di romanzi noir che spiega "Erano anni che la comunità dei "mostrologi" cercava questa puntata di Telefono Giallo, così quando è apparsa sul sito della Rai si è immediatamente scatenato l'entusiasmo degli appassionati. La trasmissione è del 1987 e, proprio in questo, sta il grande interesse, perché è coeva ai fatti e soprattutto, a mio parere, libera dalle contaminazioni del processo Pacciani, della vicenda dei compagni di merende e degli improbabili mandanti". Telefono Giallo condotto da Corrado Augias e Donatella Raffai ospita nel 1987 il Procuratore Pier Luigi Vigna, Sandro Federico, capo della Squadra Mobile di Firenze e della Squadra Anti-Mostro, l'avvocato Antonino Filastò ed altri esperti del caso tra cui psicologi, sessuologi e periti balistici. "Nella trasmissione - spiega Di Bernardo - sentiamo Pier Luigi Vigna sostenere con convinzione la tesi che vedeva il killer come un uomo molto alto, immagine che stride con quella di Pietro Pacciani. Poi c'è un'altra curiosità. Si fa riferimento ad una videocassetta recapitata agli inquirenti che conteneva una o più trasmissioni dell'epoca dedicate al Mostro e un elenco che sottolineava le imprecisioni, fino a indicarne con esattezza una, nota soltanto a una ristretta cerchia di inquirenti. Ma qual è questo dettaglio mai rivelato alla stampa? Potrebbe forse riguardare la discussa data dell'ultimo delitto? E infine, di particolare interesse è la dichiarazione del dottor Giorgio Abraham, che descrive il Mostro di Firenze, non come un lust murder che ha come unica modalità di soddisfazione sessuale quella di uccidere, ma di uno psicopatico che si è auto costruito un personaggio di tipo quasi letterario o cinematografico, che non uccide per il gusto di farlo, ma con un'altra precisa e misteriosa motivazione". Giuseppe Di Bernardo ha studiato a lungo i singoli omicidi ed il quadro accusatorio, non solo perché toscano ed appassionato di storia del crimine, ma perché sta lavorando ad una graphic novel che verrà pubblicata nel 2019 per le Edizioni Inkiostro e che, attraverso una storia di fantasia, propone un inedito quadro dei delitti del Mostro di Firenze aggiornato alle ultime indagini svolte nel filone d'inchiesta mai realmente interrotto.  Telefono Giallo, oltre a ricostruire gli omicidi con alcuni filmati, adottando quella docu-fiction ancora oggi sotto la lente della polemica per la spettacolarizzazione della cronaca nera, si caratterizzava per la partecipazione del pubblico invitato a telefonare per effettuare segnalazioni. Durante quella lunga notte arriva esplicito l'invito rivolto all'autore degli omicidi a chiamare in diretta per "firmare l'opera realizzata", attribuendo dunque al soggetto un profilo da artista. Un escamotage per "stanarlo" che non convince molto i presenti, ma che attira centinaia di telefonate tra le quali anche alcuni fiorentini che dichiarano di essersi trovati a tu per tu con il mostro e di averlo anche visto bene in volto, a San Miniato al Monte sopra al piazzale Michelangelo in una calda notte del 1985, tanto da aver poi partecipato alla creazione di un identikit molto simile a quello già realizzato nel 1983. Il Mostro non telefona, ma quel numero da poter chiamare esiste ancora, lo 06 8262 è infatti oggi la linea diretta di Chi l'ha Visto? il programma Rai che sarà condotto da Donatella Raffai e poi da Federica Sciarelli ed è ancora tra le trasmissioni più seguite della TV di Stato.

Il mostro di Firenze di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi - Ricerca Archivio Corriere della Sera. Gli otto duplici omicidi che terrorizzarono l’Italia rivissuti attraverso le pagine del Corriere della Sera. Tra il 1968 e il 1985 otto duplici omicidi avvenuti nei dintorni di Firenze sconvolgono l’Italia. I crimini ripetevano quasi tutti lo stesso rituale: coppie di amanti sorprese nell’intimità in luoghi isolati, uccise a colpi di pistola, poi l’assassino infieriva sul corpo della donna colpendolo con un coltello e mutilandolo. Molte le ipotesi avanzate: riti satanici, omicidi su commissione di natura esoterica, un gruppo di maniaci assassini, un serial killer mosso da delirio religioso. L’inchiesta della Procura di Firenze ha portato alla condanna nel 1994 del maggiore indiziato Pietro Pacciani e nel 1998 dei suoi «compagni di merende» Mario Vanni e Giancarlo Lotti. L’arma utilizzata in tutti i delitti, una Beretta calibro 22, non è mai stata ritrovata.

Thursday 22 August 1968. Un uomo e una donna assassinati a colpi di pistola a bordo di un'auto di F. P. Pag. 4

Monday 16 September 1974. La ragazza fugge terrorizzata ma il mostro la raggiunge Uccisa e straziata con 90 colpi Pag. 3

Monday 08 June 1981. Misterioso delitto, sabato, alle porte di Firenze: due giovani uccisi a colpi di pistola e di coltello Pag. 7

Tuesday 27 October 1981. Fra i «guardoni» dei dintorni di Firenze c'è chi conosce l'assassino dei fidanzati Pag. 8

Wednesday 23 June 1982. Le coppie assassinate a Firenze: il maniaco segue un itinerario di morte a forma di M di Vergani Leonardo Pag. 7

Monday 12 September 1983. L'omicida dei due tedeschi a Firenze avrebbe assassinato altre 10 persone di G. P. Pag. 5

Tuesday 31 July 1984. Altri due fidanzati trucidati a Firenze di Brunelli Vittorio Pag. 1

Thursday 02 August 1984. Tutto cominciò una sera d'agosto di 16 anni fa Pag. 6

Friday 27 September 1985. Il mostro di Firenze invia a un magistrato un macabro «reperto» dell'ultima vittima di Stella Gian Antonio Pag. 1

Wednesday 01 March 1989. Mostro di Firenze E' tutto da rifare di Peruzzi Giuseppe Pag. 7

Wednesday 13 November 1991. «Non sono il mostro» Pag. 17

Sunday 17 January 1993. " i testimoni accusano Pacciani " di Fallai Paolo Pag. 13

Wednesday 02 November 1994. " Pacciani ha ammazzato 14 volte " di Monti Vittorio Pag. 3

Thursday 03 November 1994. Pacciani: sono vittima del maligno di Monti Vittorio Pag. 13

Tuesday 06 February 1996. " Pacciani condannato senza prove " di Vittorini Ettore Pag. 5

Wednesday 14 February 1996. Pacciani libero: non abbiate paura di me di Vittorini Ettore Pag. 7

Wednesday 14 February 1996. " Cosi' il Vampa uccise i francesi " Pag. 6

Tuesday 20 February 1996. Vanni: con Pietro solo merende di Troiano Antonio Pag. 12

Monday 23 February 1998. Pacciani se ne va con tutti i suoi misteri di Buccini Goffredo Pag. 6

Tuesday 01 June 1999. Vanni, confermato l'ergastolo di Vittorini Ettore Pag. 18

Tuesday 02 April 2002. «Mostro» di Firenze, è morto Lotti Pag. 16

Monday 26 January 2004. SANGUE E MAGIA IL GIALLO DEL MOSTRO di Sarzanini Fiorenza Pag. 15

Wednesday 28 January 2004. Viaggi, denaro e messe nere Le due vite del medico ucciso di Sarzanini Fiorenza Pag. 18

Sunday 01 February 2004. San Casciano tra misteri e delitti «Noi e il fantasma del mostro» di Cazzullo Aldo Pag. 15

2008

Wednesday 21 May 2008. Mostro, assolto l'ex farmacista Calamandrei: «Chi mi risarcirà?» Pag. 1

Il primo delitto. Il 21 agosto 1968, i due amanti Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, appartati in una Giulietta accanto al cimitero di Signa, vengono uccisi con otto colpi di pistola a distanza ravvicinata. Unico testimone il figlio della Locci che dormiva sul sedile posteriore della Giulietta. Il marito di Barbara Locci, Stefano Mele, viene subito arrestato, prima nega poi accusa gli altri amanti della moglie e infine confessa. Verrà condannato a 16 anni di carcere.

Il secondo duplice assassinio. Il 14 settembre 1974, vicino a Borgo San Lorenzo, vengono ritrovati i corpi di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini. I due fidanzati vengono sorpresi dall’assassino seminudi sui sedili anteriori di una Fiat 127. Dopo aver freddato a colpi di pistola Pasquale, l’assassino si accanisce su Stefania pugnalandola violentemente e seviziandola. Sulla lapide che ricorda il punto dove è stata trovata la Fiat 127 della giovane coppia è scritto «trucidati».

Il mondo sommerso dei «guardoni». Il 7 giugno 1981 vicino a Mosciano di Scandicci vengono trovati i corpi di un’altra coppia: Giovanni Foggi e Carmela De Nuccio. Avevano trascorso la serata alla discoteca «Anastasia». La scena che si presenta agli inquirenti è atroce: l’uomo sembra dormire riverso nell’auto, lei, trascinata poco lontano, è stata colpita ripetutamente dall’assassino e in seguito orrendamente mutilata. Il sospettato principale del duplice omicidio è Vincenzo Spalletti, un noto guardone che la mattina successiva al delitto ha raccontato al bar che frequentava particolari che nessuno poteva conoscere, verrà arrestato e successivamente scagionato. Ma le indagini su Spalletti portano alla luce un mondo sommerso, guardoni attrezzati con occhiali a infrarossi, microfoni direzionali e telecamere notturne; è in questo periodo che nella provincia fiorentina cresce l’allarme e compaiono numerosi avvisi e volantini per tutelare le giovani coppie con indicazioni a non appartarsi.

Quattro mesi dopo. Ma a poco valgono gli avvertimenti e a soli 4 mesi di distanza dal precedente omicidio vengono ritrovati Stefano Baldi e Susanna Cambi che la notte del 22 ottobre 1981si erano appartati a Travalle di Calenzano vicino a Prato. Il corpo di Susanna viene rinvenuto a una decina di metri dalla Golf nera della coppia, martoriato e mutilato con una modalità ormai diventata prassi. S’inizia a parlare di “serial killer”, una novità inquietante per l’Italia.

Il ritorno del killer. Il killer torna a colpire e il 19 giugno 1982: Paolo Mainardi e Antonella Migliorini vengono sorpresi a bordo di una Seat a Baccaiano di Montespertoli. Paolo Mainardi dopo essere stato colpito da un proiettile, riesce a spostare la macchina che finisce in un fossato. Per i due giovani non c’è scampo ma la strada è trafficata e l’assassino non riesce a infierire sui corpi e se ne va senza i suoi macabri trofei. Grazie all’intuizione del maresciallo Fiori, in servizio anche a Signa durante gli omicidi del 1968, vengono comparati i bossoli dei delitti: e per la prima volta si stabilisce che è stata la stessa arma a sparare, mettendo così in relazione le uccisioni del 1968 con quelle del 1974, del 1981 e del 1982.

Uccisi per errore. A Giogoli il 9 settembre 1983 il killer assale un furgoncino Volkswagen. Solo dopo aver sparato 7 colpi mortali si accorge che i due non sono una coppietta appartata ma due ragazzi tedeschi in vacanza. Le vittime sono Uwe Jens Rush e Wilhelm Horst Meyer. Uwe con i suoi capelli biondi e lunghi, ha tratto in inganno l’assassino che non infierisce col coltello sui corpi e scappa dopo aver stracciato alcuni giornali pornografici.

La telefonata anonima. Il 29 luglio 1984, nei pressi di Vicchio, vengono trucidati i giovanissimi Pia Gilda Rontini e Claudio Stefanacci. I corpi vengono ritrovati grazie a una telefonata anonima alle quattro del mattino. Il mostro ha trascinato la giovane ancora in vita in un campo di erba medica mutilandola e accanendosi in particolare sul seno sinistro.

L’ultimo duplice assassinio. L’8 settembre 1985, nella radura della frazione Scopeti, nella campagna di San Casciano Val di Pesa, vengono massacrati Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot: è l’ultimo duplice delitto del «mostro» di Firenze. L’assassino invia una lettera al pm Silvia Della Monica con un brandello del seno della ragazza, nel frattempo un cercatore di funghi trova i corpi dei due ragazzi e avverte la squadra antimostro. Il corpo della donna viene ritrovato nella tenda e il corpo di Jean-Michel, che ferito ha tentato la fuga, nascosto poco lontano.

Pietro Pacciani. L’11 settembre del 1985 entra per la prima volta nelle indagini Pietro Pacciani, un contadino di Mercatale noto alle forze dell’ordine perché, nei primi anni Novanta, era stato condannato per la continua violenza sulle figlie e sulla moglie. Ad accusarlo è un vicino di casa, che scrive una lettera anonima ai magistrati. Il pm che si occupa del caso è Pier Luigi Vigna. Nel 1992 durante una perquisizione nella casa di Pacciani, oltre a oggetti che secondo il capo della Squadra anti mostro (nata nei primi anni ‘80 con il compito di coordinare in tutto il territorio le indagini di polizia e carabinieri, pattugliamenti e accertamenti) Ruggero Perugini appartenevano alle vittime, nell’orto viene trovato un proiettile calibro 22, del tipo utilizzato per gli omicidi. In una immagine tratta da un filmato del Tg1, uno scheletro dipinto sul fondo di un cassetto all’interno del locale sotterraneo individuato, perquisito e sequestrato nelle campagne di San Casciano dagli investigatori della squadra mobile di Firenze impegnati nell’ inchiesta sul «mostro».

La condanna. Il 1° novembre 1994 Pacciani viene condannato all’ergastolo per sette degli otto duplici omicidi. Il 13 febbraio 1996 la sentenza di Appello capovolge il verdetto, ma il giorno stesso dell’assoluzione gli inquirenti annunciano di aver trovato nuovi testimoni, tra cui Giancarlo Lotti che accusa Mario Vanni di essere stato complice di Pacciani. Lotti, detto «Katanga», si autoaccusa dell’omicidio dei due ragazzi tedeschi e, testimone chiave di alcuni delitti, diventa il grande accusatore di Pacciani e Mario Vanni. Verrà condannato a 30 anni di carcere. Vanni, arrestato in concomitanza con l’assoluzione di Pacciani, venne condannato a scontare l’ergastolo per quattro dei duplici omicidi, con sentenza resa definitiva nel 2000. Nel frattempo, il 22 febbraio 1998, prima di essere sottoposto a un nuovo processo di appello, Pietro Pacciani viene trovato morto in casa sua e sono in molti a pensare che possa essere stato ucciso, per mettere definitivamente a tacere il sospettato numero uno. Mario Vanni viene trasferito agli arresti domiciliari a san Casciano Val di Pesa. Vanni, l’ex postino di San Casciano Val di Pesa, condannato all’ergastolo per concorso in quattro duplici delitti del mostro di Firenze, e’ morto a 86 anni all’ospedale fiorentino di Ponte a Niccheri.

Le ossa del «mostro». Dopo 16 anni di sepoltura, ad agosto del 2014, i suoi resti - mai reclamati dai familiari - sono stati chiesti senza successo da alcuni ricercatori di un centro studi italiano di livello universitario che avrebbero voluto studiare le ossa del «mostro». Il 1 marzo 2017, a San Casciano, muore Fernando Pucci, ultimo dei «compagni di merende» con Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti, definito «teste alfa» nel codice che si dettero gli inquirenti. Con la sua testimonianza sul duplice omicidio di Scopeti (1985) confermò il racconto di Lotti, il «pentito» che aiutò gli inquirenti.

Mostro di Firenze, ripartono le indagini: il killer vicino ad ambienti investigativi?, scrive il 15 Gennaio 2018 Simona Pletto su "Libero Quotidiano". Tutto da rifare. Le nuove tecnologie in mano alla scienza per la rivalutazione dei tempi di maturazione di larve e uova fotografate all' epoca sui cadaveri dell'ultimo duplice omicidio, rimescolano le carte sul caso del "mostro di Firenze", una delle inchieste più complesse e lunghe della storia italiana, il primo caso nazionale di omicidi seriali. Al centro dell'attenzione, un killer che dal 1968 al 1985 ha seminato morte e terrore tra le coppiette in cerca di intimità nelle campagne toscane e che, per rimbalzo, ha creato una psicosi da mostro. Otto i delitti attribuiti al maniaco, oltre duecento i nominativi di indagati su cui si è scavato, decine di scrittori e giornalisti in cerca di verità, squadre di inquirenti, FBI inclusa, create ad hoc per seguire le tracce del criminale seriale, aprendo piste ogni volta diverse, fino a ipotizzare che dietro a quei delitti vi fosse una setta satanica e mandanti di secondo o terzo livello. Ipotesi mai riscontrata. Quello che è certo oggi, dopo numerosi fascicoli aperti in diverse procure, è che per quegli efferati crimini finirono in carcere a vita perché identificati come gli autori di quattro duplici omicidi, i cosiddetti "compagni di merende": Mario Vanni e Giancarlo Lotti (unico reo confesso e accusatore dei presunti complici), mentre il terzo, Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale, è stato condannato in primo grado a più ergastoli e poi assolto in Appello. È morto nel 1998 prima di essere sottoposto ad un nuovo processo. L' inchiesta mai chiusa, aveva un unico denominatore: il modus operandi del killer. I delitti avvenuti nelle medesime circostanze. Luoghi appartati e notti di novilunio, quasi sempre d' estate, nel fine settimana o in giorni prefestivi. È sempre stata usata la stessa arma, una pistola Beretta calibro 22 Long Rifle, in commercio dal 1959 e mai trovata tranne nel duplice omicidio del 1985, in cui le vittime erano in una tenda da campeggio (dopo l'ordine partito in Procura a Firenze, di inviare auto civetta di finti fidanzati), tutte le altre coppie erano all' interno di autoveicoli. La scorsa estate la Procura ha riaperto il caso del mostro, ed ha iscritto nel registro degli indagati l'ex legionario 87enne Giampiero Vigilanti, originario di Vicchio e residente a Prato, insieme al suo ex medico personale Francesco Caccamo, nato in Tunisia 86 anni fa, anch' egli migrato da Vicchio a Firenze a fine anni '90, ora chiamato in causa proprio dall' ex legionario durante le indagini dei Ros. Per la Procura i due sarebbero coinvolti in concorso negli otto duplici omicidi. Perché due nuovi indagati? Alcuni omicidi delle coppiette sono avvenuti in luoghi in cui Vigilanti viveva. Anche Caccamo sarebbe vissuto in Mugello. Vigilanti conobbe Pacciani, che lo cita nel suo memoriale, e viveva a Calenzano quando il 22 ottobre dell'81 furono uccisi Stefano Baldi e Susanna Cambi. Non solo: guidava un'auto rossa che spesso salta fuori negli atti del processo, secondo le voci dei testimoni e dei "compagni di merende". I sospetti -Oltre a maneggiare armi, Vigilanti poteva conoscere i luoghi in cui il 14 settembre '74 morirono Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini a Borgo San Lorenzo, o a Vicchio dove vennero brutalmente uccisi anche Claudio Stefanacci e Pia Rontini. Ma lui, raggiunto nella sua casa di via dell'Anile a Prato, si dichiara estraneo alla serie di delitti. «Io con quegli omicidi non c' entro». Ripete mostrandosi sereno. «Sono anni che ogni tanto mi vengono a prendere i carabinieri per interrogarmi. Ma non ho fatto nulla». Vigilanti fu perquisito anche nel 1994 dopo una lite con un vicino e fu trovato in possesso di 176 proiettili calibro 22 marca Winchester, gli stessi utilizzati per i delitti seriali, ma anche quella volta fu scagionato. A sollevare sospetti, una denuncia di furto presentata da Vigilanti nel 2013 relativa a quattro pistole da lui regolarmente detenute, tra cui una Beretta calibro 22. «Quelle pistole me le hanno rubate e ho fatto denuncia, ma i magistrati le avevano già viste». In Procura a Firenze l'ex legionario si è avvalso della facoltà di non rispondere. «Aspettiamo fiduciosi l'archiviazione». Commenta il suo legale Diego Capano. Si conosce poco o nulla dell'altro indagato, il medico e odontotecnico che operava in via Scandicci 11 a Firenze. A dare un forte impulso all' inchiesta è stato anche l'autore-scrittore Paolo Cochi, che nel suo libro Mostro di Firenze - Al di là di ogni ragionevole dubbio, ha messo in discussione le dichiarazioni di Lotti, unico accusatore dei "compagni di merende". «Il libro è un lunghissimo lavoro di inchiesta e di ricerca - confida Cochi - , svolto sugli atti di indagine e sui documenti processuali. Evidenzia che non vi furono elementi di prova a sostegno di alcune condanne. Nessun fattore scientifico, tanto meno di attendibilità testimoniale». Lotti dichiarò di essere stato presente, a Scopeti, all' ultimo delitto dei due fidanzati Jean-Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot, avvenuto per mano di Pacciani e Vanni, con indiscutibile certezza - disse - domenica 8 ottobre 1985. La scoperta - Questa la data riportata su tutti i giornali, fedeli alla valutazione fatta all' epoca dal medico legale Mauro Maurri. Al suo fianco c'era il giovane braccio destro Giovanni Marello, medico legale e docente all' Università di Firenze, esecutore dal 1974 all' 84 delle autopsie sui corpi delle vittime del mostro e anche sul cadavere di Pacciani, la cui morte sollevò dubbi sui farmaci sospetti somministrati. «Pacciani è morto per cause naturali, per insufficienza cardiaca». Rivela il professor Marello. E sui cadaveri dei fidanzati francesi uccisi confida: «Purtroppo all' epoca in Italia non avevamo gli strumenti per affrontare analisi scientifiche all' altezza di un serial killer. Oggi, dalla visione delle foto, si può affermare che le larve trovate sui cadaveri dei ragazzi francesi, anticipano la data della morte al sabato e non alla domenica». Così la pensano altri cinque esperti sottoposti al test fotografico delle larve. E sempre Marello: «Per me l'autore poteva essere anche una persona sola che si avvicinava all' auto di notte, puntava la lampada sulle vittime abbagliandole e sparando a mezzo metro di distanza prima all' uomo poi alla donna che veniva trascinata fuori dall'auto per compiere le escissioni al pube e poi al seno sinistro. Nel 1974 iniziò a tratteggiare le parti intime col coltello, poi in un crescendo di violenza ha iniziato le escissioni anatomiche. Fra le tante cose strane ci sono anche alcuni verbali delle autopsie scritti da noi medici che non sono più reperibili all' Istituto di medicina legale». Un pezzetto di seno venne inviato in una lettera lunedì 10 settembre 1985 all' allora unico magistrato donna Silvia della Monica, che poco dopo lasciò le indagini. Il mostro voleva far trovare i due cadaveri prima che gli inquirenti li scoprissero e per questo nascose la donna in tenda e il ragazzo tra le foglie del bosco. I familiari - «Io l'avevo detto che prima o poi l'avrebbe fatto», dice Silvia Della Monica, divenuta senatrice e da pochi mesi in forza alla Corte d' Appello di Roma. Un caso di veggenza o il magistrato aveva capito che il maniaco era vicino agli ambienti investigativi? Ad ogni modo l'identikit tracciato all' epoca non aveva nulla a che fare con Pacciani e compagni di merende, tre amici guardoni incapaci di mettere in scacco gli inquirenti. Raggiungiamo in Francia i parenti di Jean-Michel Kraveichvili. «So che hanno riaperto l'inchiesta e che ci sono due indagati - dice Salvatore Maugeri, portavoce delle sorelle Kraveichvili -. Sarebbe ora che si iniziasse a fare le indagini come andrebbero fatte. Pacciani e compagni? Erano innocenti e noi aspettiamo da decenni che venga scoperto il vero colpevole». Tra gli avvocati che hanno avuto a cuore il caso, c' è il difensore di Mario Vanni, Nino Filastò. «Per la verità occorrerebbe basarsi su dati scientifici. E fino ad oggi, a parte le larve, mi pare non ve ne siano». Eppure non è mai troppo tardi per far luce su un giallo che ha sconvolto l'Italia.

Mostro di Firenze, il giallo continua. Dai sequestri effettuati in casa dell'ex legionario di Prato Giampiero Vigilanti emergono altri indizi che lo coinvolgerebbero negli 8 duplici omicidi, scrive Stefano Brogioni il 12 aprile 2018 su "La Nazione". Quel giornale, finito nella sua collezione di articoli sul Mostro, venne acquistato il giorno successivo al delitto di Vicchio. Ma la stampa ancora non sapeva che la settima coppia era già stata uccisa. Quel numero de “La Città” del 30 luglio del 1984, sequestrato nella perquisizione del 16 settembre del 1985 a casa della mamma di Giampiero Vigilanti, a Vicchio, diventa un altro tassello del mosaico dell’inchiesta che vede indagato l’ex legionario di Prato per gli otto duplici omicidi che da quel settembre si fermarono. Vigilanti compra e conserva il giornale del 30 luglio. Ma quella mattina, nessun quotidiano parlava ancora di Pia Rontini e Claudio Stefanacci, uccisi alla Boschetta di Vicchio tra le 22 e le 24, secondo il medico legale, di domenica 29. Al momento in cui le edizioni erano state chiuse in tipografia, l’ultimo orrendo omicidio era stato fatto, ma non ancora scoperto. Perché l’ex legionario di Prato tiene proprio quel giornale? Non certo per quella sua ‘passione’ per il noir con cui si giustificò all’epoca, visto che quel giorno, del mostro delle coppiette che aveva ammazzato di nuovo nessuno ancora sapeva. I cadaveri erano stati rinvenuti intorno alle 4. Sarà un’edizione straordinaria de La Nazione, uscita la sera del 30 luglio, ad informare del delitto a caratteri cubitali, con il titolo «IL MOSTRO E’ TORNATO». Ma se i cadaveri fossero stati trovati prima (vennero uditi dei colpi poco prima delle dieci) e la notizia fosse giunta in tempo in redazione, i cronisti dell’epoca avrebbero potuto inserire almeno una ‘ultim’ora’. Cercava quella sul giornale? E poi, quella notte, raccontano gli atti dell’indagine sugli otto duplici omicidi ancora aperta, fu pure costellata di strane telefonate e segnalazioni. Quasi come se il mostro avesse fretta di far arrivare gli inquirenti alla Boschetta. Ma i giornali rinvenuti nella perquisizione eseguita dal maresciallo dei carabinieri del nucleo operativo e radiomobile di Prato, Antonio Amore, contengono altri dettagli a carico dell’ultimo degli indagati. Forse addirittura più «forti». Sempre a casa della mamma di Vigilanti, che abitava a Padule, ci sono le pagine de La Nazione datate 16 e 17 settembre 1974. Sono i giornali in cui si parla del massacro di Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore a Sagginale. Anche questo non è un particolare da poco, anzi: per molti anni, infatti, quello del 1974 era un duplice omicidio «semplice», che solo più tardi – e cioè nel 1982, dopo Baccaiano – sarà collegato al 1968 tramite la pistola calibro 22 e agli altri omicidi. Eppure, Vigilanti, già nel 1974 ha avuto cura di mettere da parte e conservare, per almeno undici anni, quei ritagli, in quella collezione che si farà sempre più ricca. E variegata. Ne La Nazione del 14 luglio 1984, ritrovata anch’essa a casa della madre, c’è un taglio a metà pagina in cui si parla di ‘Un maniaco sessuale terrorizza l’Inghilterra’ e nel giornale del 27 maggio 1984 del “Giallo a Piombino: scompare un marittimo. Un delitto sessuale?”. In quel settembre  1985, a casa di Vigilanti, a Prato, oltre alla pistola High Standard calibro 22 (quella di cui verrà denunciato il furto, assieme ad altre armi acquistate più di recente, nel 2013) ci sono anche gli articoli sulla strage «nera» del rapido 904 del 23 dicembre 1984 (i giornalisti de La Nazione, in quell’occasione, mandarono in stampa il giornale che uscì eccezionalmente il giorno di Natale) ma anche le edizioni straordinarie del 26 e 27 gennaio 1984 per l’arresto di Giovanni Mele e Piero Mucciarini. Quel giorno i magistrati erano convinti di aver chiuso il cerchio. Sbagliavano, perché il mostro ucciderà ancora, mesi dopo a Vicchio e si fermerà solo dopo Scopeti. La collezione Vigilanti conteneva anche La Nazione del 5 agosto 1984: si parlava di identikit e avvistamenti. E di una telefonata anonima di una persona che a una centralinista del ‘Bingo’ riferì di aver cose da dire su Vicchio, ma di dover restare nell’ombra perché la notte del duplice omicidio «era con una donna sposata». Riattaccherà e non chiamerà più.

Mostro di Firenze, ecco le carte choc: così la polizia indagava su Fiesoli. La lista del 1986: sospetti anche sul «Profeta», scrive Stefano Brogioni il 6 gennaio 2018 su "la Nazione". All'assistente dell’allora capo della Sam, la squadra antimostro nata all’indomani dell’ultimo delitto, quello degli Scopeti del settembre 1985, servirono tre fogli formato A4, per redigere quella lista che i magistrati della procura Luigi Vigna, Francesco Fleury e Paolo Canessa, avevano commissionato. E così, quella mattina del 28 febbraio del 1986, nelle pagine del rapporto della Squadra costituita appositamente per far uscire Firenze dall’incubo, cominciò un lavoro dattilografico che in realtà conteneva mesi e mesi di accertamenti, appostamenti, segnalazioni anche anonime. Oggi, quel documento top secret, siamo in grado di mostrarvelo. Perché a distanza di anni, con le indagini sui duplici omicidi ancora in corso, quella lista è stata analizzata ancora una volta. E contiene ancora sinistre coincidenze. Sono 38 i nomi di quella lista datata 1986. Alcuni di loro, subirono robuste perquisizioni, dopo l’uccisione dei francesi Nadine e Michel. Rodolfo Fiesoli è tra questi: posizione numero tre dell’elenco. Un mostro, perché è stato appena definitivamente condannato a 14 anni per le violenze sessuali perpetrate ai giovani ospiti della comunità mugellana da lui fondata, che per qualcuno era anche “il” mostro. Il Forteto. Vicchio. Lo stesso paese in cui avvenne il delitto del 1984, in cui il mostro fece la sua vittima più giovane, Pia Rontini, 18 anni appena, trucidata e straziata assieme al suo fidanzato Claudio Stefanacci. Si erano appartati ad amoreggiare nella Panda di lui. Tra la Sieve e un angolo dei terreni della comunità degli abusi. Ma Vicchio è pure il paese di Giampiero Vigilanti, numero 38 del medesimo elenco battuto a macchina negli uffici della questura di via Zara è ancora non uscito di scena da questi torbidi fatti a trent’anni e passa di distanza: con lui, in quella inchiesta ostinatamente aperta dal procuratore aggiunto Luca Turco (e dal suo predecessore Paolo Canessa), c’è indagato un medico, quel Francesco Caccamo tirato in ballo dallo stesso Vigilanti, il legionario nero che per qualche mese ha parlato fitto con gli inquirenti, prima di venie a sua volta indagato per i delitti. Ma chi ha tirato in ballo l’ex legionario di Prato? Certamente Pietro Pacciani, pure lui vicchiese (in Mugello si macchiò del primo efferato omicidio del 1951, quello del rivale in amore Severino Bonini) e - ma qui si entra nei dettagli di un fascicolo ancora coperto dal segreto istruttorio - pure di certi retroscena sul duplice omicidio del 1984 (la Rontini sarebbe stata in qualche modo «scelta»), quando qualcuno si accanì pure sul corpo della vittima, asportando i cosiddetti ‘feticci’. Tornando a Fiesoli, che dall’antivigilia di Natale è rinchiuso a Sollicciano, è probabile che il vivo interessamento di allora della Sam (il fondatore del Forteto venne anche perquisito, così come Vigilanti e Pacciani), fosse dettato anche dai reati di natura sessuale per cui aveva, in quel 1986, già collezionato una condanna definitiva. Ma va pur detto che il suo nome, relativamente ai delitti delle coppiette, non è mai completamente uscito di scena. Michele Giuttari, l’investigatore che guidò il Gides (Gruppo investigativo delitti seriali) a cui si deve la pista dei compagni di merende e pure l’ipotesi, al momento giudiziariamente arenata, dei mandanti, ne andò a riferire anche alla commissione regionale d’inchiesta, ricordando pure una strana indagine di Perugia. Chi minacciava con telefonate anonime una donna, dicendo «ti facciamo fare la fine di Narducci» (il medico perugino trovato morto nel lago Trasimeno), usava una scheda telefonica con cui veniva chiamata anche una comunità del Mugello che accoglieva i minori su disposizione del tribunale. Il Forteto.

Mostro di Firenze, la testimonianza: "Mi tamponò la stessa auto del killer". Il racconto del cantante Riccardo Azzurri 32 anni dopo. «Allora non fui creduto», scrive Stefano Brogioni il 26 agosto gennaio 2017 su "la Nazione". Nella notte di sabato 7 settembre 1985, agli Scopeti, una Fiat 500 che sopraggiungeva nella direzione opposta, urtò la sua Volvo e si dileguò. Nessuno, fino ad oggi, ha mai preso in considerazione quella testimonianza che il cantante Riccardo Azzurri offrì agli investigatori, forse perché si collocava in una sera diversa rispetto a quella in cui è stato collocato ufficialmente il delitto, cioè domenica otto. Oggi, però, alla luce dei due nuovi iscritti sul registro degli indagati e in virtù di una possibile diversa rilettura della scia di duplici omicidi che hanno insanguinato Firenze, tra il 1968 e quel settembre del 1985, le parole dell’artista fiorentino potrebbero assumere un rilievo diverso. «Sarebbe bastato prendere il colore della vernice rimasta sulla mia carrozzeria», dice il cantante che a distanza di 32 anni ricorda ancora perfettamente quell’episodio. «Era tra mezzanotte e mezzo e un quarto all’una – racconta per l’ennesima volta –. Stavo tornando da un concerto a Roccastrada, mi ero esibito per primo e decisi di rientrare a Firenze perché altrimenti, se avessi aspettato la fine dell’evento e cenato con gli altri, sarei tornato troppo tardi. Però a quell’epoca non c’erano i navigatori ed io, che avevo una Volvo 244 Gle modello America, sbagliai strada». Per arrivare a Firenze, seguendo le indicazioni, si ritrovò così agli Scopeti. All’improvviso sbucò quella macchina, che invadeva l’altra corsia. «La urtai, o meglio, fui urtato e mi gettai sul lato opposto, su un muro». Si fermò, Azzurri, scese a controllare, convinto che nello scontro l’altro conducente potesse essersi fatto male, ma la macchina si era dileguata. «Non c’era anima viva, solo un silenzio spettrale. Chi c’era a bordo? Se dicessi che ho visto chi c’era sarei un bugiardo. Ma era una 500». Il lunedì mattina, la Volvo venne presa in carico dal carrozziere ed in quel frangente il cantante apprese anche del delitto in cui persero la vita i due francesi, Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili: il Mostro aveva ucciso agli Scopeti, a pochi metri di distanza da cui aveva avuto l’incidente con il «pirata». Non sapremo mai, a questo punto, chi ci fosse alla guida di quella 500. Però, come hanno ricostruito le indagini, in quell’anno aveva quel modello di auto Pietro Pacciani e, dalle indagini «in proprio» effettuato dal legale dei francesi, l’avvocato Vieri Adriani, risulta pure che l’ex legionario, Giampiero Vigilanti, nel settembre del 1985 avesse in famiglia una 500. Oggi, la testimonianza di Azzurri è stata di nuovo trasmessa in Procura. E resta il giallo della data.

CLAMOROSA SVOLTA NEI DELITTI DEL “MOSTRO DI FIRENZE”: GLI INQUIRENTI TORCHIANO UN EX LEGIONARIO, L'87ENNE GIAMPIERO VIGILANTI, CHE CONOSCEVA I “COMPAGNI DI MERENDE” E FREQUENTAVA IL DOTTOR FRANCESCO NARDUCCI, SOSPETTATO DI ESSERE UNO DEI MANDANTI - E’ LA CACCIA AL FAMOSO “SECONDO LIVELLO”..., scrive il 06.08.2017 Gian Pietro Fiore per “Giallo”. Si, mi trovavo con Francesco Narducci quando venni fermato dai carabinieri. Eravamo in auto a fare un giro... Ero molto agitato, e vero, perchè non sai mai quello che devi aspettarti quando vieni fermato a un posto di blocco. Quella sera ero molto preoccupato, si. Ma solo il giorno dopo appresi che proprio quella sera avevano ammazzato quei due...”. Questa incredibile ammissione a Giallo di Giampiero Vigilanti, ex legionario di 87 anni recentemente indagato per i deli i del Mostro di Firenze, potrebbe aprire un nuovo, importantissimo capitolo nel caso più misterioso degli ultimi cinquant’anni. Ora vi spiegheremo perchè. Come ricorderete, i delitti del Mostro di Firenze, otto coppie uccise a colpi di pistola, sono avvenuti tutti nelle campagne intorno alla città a partire dal 1968 e fino al 1985. Dopo lunghe e complicate indagini, furono arrestati i famosi “compagni di merende” Pietro Pacciani, Mario Vanni e Giancarlo Lotti. Vanni e Lotti furono condannati, mentre Pacciani morì per uno strano infarto poco prima che si celebrasse un nuovo processo contro di lui. Ma gli inquirenti e gli esperti che si sono occupati del caso hanno sempre pensato che i tre amici fossero solo gli esecutori materiali dei delitti. Dietro di loro, per chi ha indagato, ci sono alcuni misteriosi mandanti, il cosiddetto “secondo livello”. Una sorta di cupola, fatta di ricchi professionisti insospettabili, che commissionava gli omicidi probabilmente per compiere riti: come ricorderete, ad alcune delle donne uccise, infatti, vennero asportati il pube e il seno sinistro. Ma se gli esecutori materiali sono stati individuati, chi sono i mandanti? Gli inquirenti non hanno mai smesso di lavorare per rispondere anche a questo interrogativo, un giallo nel giallo, per ora irrisolto. Ed è proprio per questo che la testimonianza di questo nuovo indagato, Giampiero Vigilanti, potrebbe essere di grande importanza. L’uomo, infatti, è sotto torchio da alcuni anni: secondo gli inquirenti è implicato nel caso. Conosceva Pacciani, abitava a Vicchio, vicino a lui, e agli inquirenti sta raccontando di sapere molte cose. Ora, con noi di Giallo, come avete letto, ha ammesso di essere stato un amico anche di Francesco Narducci. Di più: di essere stato proprio in sua compagnia la sera del 22 ottobre del 1981, qualche ora prima che venissero uccisi Stefano Baldi, 26 anni, e Susanna Cambi, commessa di 24 anni, la quarta coppia vittima del Mostro di Firenze. Ma chi è Francesco Narducci e perché il fatto che lui e Vigilanti si conoscessero è così interessante? Vediamolo. Francesco Narducci era un medico gastroenterologo e professore universitario di Perugia. L’uomo, 36 anni, scomparve l’8 ottobre del 1985 nel lago Trasimeno e venne trovato morto in circostanze mai chiarite. Una strana coincidenza la data della sua morte: esattamente un mese prima, l’8 settembre del 1985, vennero uccisi nella campagna di San Casciano Val di Pesa, in frazione Scopeti, i fidanzati francesi Jean-Michel Kraveichvili, musicista venticinquenne, e la trentaseienne Nadine Mauriot. L’ultima coppia vittima del Mostro. Da quel giorno, infatti, il Mostro non uccise mai più. La morte del medico aprì nuovi scenari: all’inizio fu catalogata come incidente o suicidio. Ma gli inquirenti vollero vederci chiaro e decisero di riesumarlo. Si scoprì, così, che era stato strangolato. L’inchiesta per omicidio fu avviata dall’allora sostituto procuratore di Perugia, Giuliano Mignini. Per la sua morte fu accusato il farmacista di San Casciano, morto diversi anni fa, Francesco Calamandrei: l’uomo, però, venne assolto. L’ipotesi della Procura è che il giovane medico sia stato ucciso perché sapeva troppe cose sulle morti delle coppie di danzati e forse avesse intenzione di rivelarle ai magistrati. Data la sua appartenenza a una famiglia altolocata di Perugia, potrebbe aver fatto parte addirittura del gruppo di mandanti degli omicidi del Mostro. Finora era solo un’ipotesi: ma adesso, con la dichiarazione di Vigilanti a Giallo, potrebbe esserci il primo vero collegamento tra gli esecutori materiali dei delitti del Mostro e il famigerato “secondo livello” dei mandanti. Torniamo dunque ora a Giampiero Vigilanti, che da tempo e sotto torchio: gli inquirenti sono convinti che abbia avuto un ruolo importante nella macabra storia dei sedici delitti. Noi di Giallo lo incontriamo in bicicletta davanti a casa sua, in via dell’Anile, a Prato, mentre sta tornando dal colloquio con il suo avvocato, Diego Capano. Vigilanti ci accoglie con un sorriso e ci racconta: «Sono di ritorno dallo studio del mio avvocato e posso dirvi che a oggi ancora nessuno mi ha notificato qualcosa: non mi risulta di essere indagato. E da tempo pero che mi interrogano e che vengono a casa mia per capire se io c’entro qualcosa con i delitti del Mostro di Firenze. Ma io non ho ucciso nessuno, sia ben chiaro...». Gia il 16 settembre del 1985, otto giorni dopo l’ultimo omicidio del Mostro, i carabinieri si recarono presso l’abitazione dell’ex legionario per una perquisizione “in quanto il predetto, da accertamenti svolti, poteva identificarsi nel noto Mostro di Firenze” , come e scritto nel verbale. Gli investigatori nel corso della perquisizione trovarono a casa di Vigilanti numerosi ritagli di giornale che parlavano dei delitti dei fidanzati e delle prostitute uccise in quegli anni. Nel 1994, a seguito di una lite con un vicino, la casa di Vigilanti venne nuovamente perquisita e in quell’occasione i carabinieri trovarono e sequestrarono 176 proiettili Winchester serie H del 1981, non più in produzione, gli stessi usati dal Mostro di Firenze. A Giallo Giampiero Vigilanti racconta: «Si, avevo quattro pistole, regolarmente detenute, ma a settembre dello scorso anno me le hanno rubate. Ma se dico che me le hanno rubate, ora non mi crede nessuno. La denuncia non l’ho fatta perchè speravo di poterle recuperare. Solo per questa ragione non sono andato subito in Questura. E successo tutto in una mattina di settembre del 2016. Io ero uscito con il cane e mia moglie si era allontanata lasciando la porta aperta...». Vigilanti per anni e stato nella legione straniera e non fa mistero della sua ferocia e della sua dimestichezza con le armi: «Quando ero soldato, ho ucciso centinaia di persone. Ma era la guerra. Mi pagavano per farlo». Ci racconta poi che negli ultimi due anni e stato interrogato spesso dal procuratore Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta, e dai carabinieri: «Mi venivano a prendere verso le otto del mattino, mi portavano nella caserma e verso le 17 mi riaccompagnavano a casa. Sono entrati diverse volte nella mia casa e hanno anche portato via alcune mie fotografie e alcuni documenti». Pare che tra le foto sequestrate a Vigilanti ce ne fosse una che lo ritraeva su un mucchio di cadaveri in Indocina, mentre stringeva tra le mani due teste mozzate. Ci parla poi di Pacciani: «Si, io conoscevo il Pacciani: a lui una volta ho anche spaccato la testa con una bastonata. Ma tranne che in quell’occasione, non ci ho avuto nulla a che fare, cosi come con il Vanni e il Lotti». Vigilanti tira in ballo anche un’altra persona, che pare sia come lui un personaggio chiave della nuova indagine, un dottore, anche lui sotto la lente degli inquirenti da qualche tempo: «I carabinieri mi hanno chiesto con insistenza del dottor Francesco Caccamo, che e stato per lungo tempo il mio medico curante. Lui, siciliano di origine e sposato con una donna arabo- francese, abitava nel Mugello. Visitava anche Pacciani e gli altri, ma di certo non sapeva mica chi fossero quelle persone. Sospettano di me per il fatto che in quegli anni dei delitti io spesso passavo da casa sua e mi fermavo a parlare con lui. Ma in quella zona ci abitavano sia mia sorella che mia madre, che andavo spesso a visitare. Gli inquirenti lo tenevano d’occhio da tempo e per questo ora da me vogliono sapere perchè lo incontravo...». Ecco, poi, che gli chiediamo dei suoi rapporti con Francesco Narducci, il medico perugino. «Narducci? Non lo conosco». Risponde di getto. Ma poi, incalzato, ammette: «Mi sembra che l’ho incontrato una o due volte. Non e che mi ricordo bene». Gli chiediamo allora se ricorda di quella notte, quella del 22 ottobre 1981 in cui vennero uccisi i fidanzati Stefano Baldi e Susanna Cambi. Come vi abbiamo già detto, quella notte Vigilanti venne fermato dai carabinieri mentre era alla guida di uno spider rosso, su cui viaggiava anche Narducci. I militari annotarono che il conducente aveva “uno stato di agitazione psicomotoria inusuale”: «Eh. Insomma, si. Io e Narducci eravamo insieme. Ci hanno fermato i carabinieri per un controllo. Io ero spaventato quando ci hanno fermato. Ero spaventato perchè non avevo fatto nulla e ti puoi trovare in una situazione... Non ricordo bene quando ci hanno fermato. Potevano essere le 20...». Non e cosi. Vigilanti venne fermato circa alle 22 del 22 ottobre e quindi un’ora prima che Susanna e Stefano venissero uccisi. Proprio Susanna prima di morire si era confidata con una amica e anche con sua madre. A loro aveva detto di aver paura perchè: «C’e un uomo alto con un’Alfa Rossa, capelli rossicci, che mi segue continuamente». Stefano era un operaio tessile, proprio il nuovo lavoro che aveva trovato Vigilanti. Continua: «Io mi trovo in questa situazione perchè mi hanno visto con questo Narducci. Lui l’ho conosciuto a Vicchio, dove avevano ammazzato una donna che era anche una parente di mia madre, se ricordo bene una cugina. Andavamo in auto insieme, come quella sera. Non facevamo nulla di particolare. Si stava insieme, prima facevamo merende e poi si girava. Dell’omicidio io l’ho saputo il giorno dopo. Dove sono stati uccisi, non e una zona di passaggio a piedi. Si passa solo in auto, normalmente per la strada che da Vicchio porta a Dicomano, poi c’è una strada molto stretta. E da quelle parti che il dottor Caccamo aveva la casa. Con Narducci si andava insieme da qualche donna, ma non quella sera che stavamo solo girando. Dopo quella notte, pero, non l’ho più voluto incontrare. Ho girato al largo da quella persona. A me non interessava di quella gente li. Andai via da quelle zone e non ci ritornai più come prima». Come avete letto, i rapporti tra Vigilanti e Narducci erano stretti: giravano insieme per le campagne fiorentine. Ma perche? Da quali donne andavano? Perchè dopo la notte del quarto duplice delitto Vigilanti non volle più vederlo? Perchè ebbero cosi paura, quella notte? E soprattutto: che cosa ci faceva un medico di Perugia nelle campagne del Mostro di Firenze? Stranamente, Vigilanti conosceva anche il farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, che, come abbiamo visto, fu accusato e poi assolto proprio per la morte di Narducci: «Si che lo conoscevo», ci dice. «Venivano tutti al Mugello. Giravano tutti da quelle parti. Conosco tanta gente...». Prima di salutarci il Vigilanti tiene a dirci: «Io credo di essermi trovato al momento sbagliato nel posto sbagliato. Anche quando hanno ammazzato i due francesi ero da quelle parti. Ma forse ero andato a trovare mia madre che abitava proprio in zona. Non ricordo». Quindi Vigilanti era un’altra volta nella zona di un delitto del Mostro. Dice infine: «E possibile che qualcuno commissionasse tutti i delitti. Io non so di più. Non temo che mi arrestano perchè ho 87 anni e a questa eta non possono farmi più nulla, me lo ha detto anche il giudice che mi ha più volte sentito. Vorrei collaborare ma non posso inventarmi nulla». Prima di congedarci, conclude preoccupato: «Forse ora che e venuto fuori tutto questo ho un po’ paura. Il fatto che vai a parlare con un giudice o con i carabinieri non e che la prendano bene, un certo tipo di persone. Ma io sono molto svelto. Se qualcuno vuole farmi del male sono il primo a colpire, tanto sara legittima difesa. Un po’ di preoccupazione ce l’ho, ma io non ho fatto nessun nome agli inquirenti. Sono loro che mi hanno chiesto di alcune persone. Io a oggi non ho detto nulla...». Le indagini della Procura di Firenze in tutti questi anni sono sempre andate avanti, anche dopo le condanne definitive di Vanni e Lotti. Gli inquirenti, che cercano ancora la pistola Beretta calibro 22, ora si apprestano a effettuare nuove analisi tecnico-scientifiche su tutti i reperti conservati e prelevati sulle varie scene del crimine. Verranno analizzati un fazzoletto intriso di sangue, un capello e dei guanti da chirurgo, trovati da un cane vicino al luogo dell’ultimo delitto, in località Scopeti. Sono state disposte anche perizie balistiche mai fatte prima. Non e escluso che da queste nuove analisi possano emergere importanti risultati e nuove tracce biologiche riconducibili al Mostro. Non e nemmeno escluso che queste nuove ammissioni di Vigilanti possano portare ora gli inquirenti verso il misterioso “secondo livello”...

Mostro di Firenze, Vigilanti: "Ho ucciso in guerra ma non sono io quello che cercano". La vicenda giudiziaria dei delitti che insanguinarono la Toscana: l'intervista integrale all'uomo indagato nel "cold case" fiorentino, scrive Claudio Capanni il 26 luglio 2017 su "La Nazione". Mostro di Firenze, il nuovo indagato: "Picchiai Pacciani, ma con l'inchiesta non c'entro". Senta, ma lei lo sapeva di essere il mostro? «Così dice il giornale». Quindi è lei il Mostro di Firenze? (Fa una pausa. Prende fiato). «No. È che mi cercano sempre, da sempre. Ma poi non trovano mai nulla». Cappellino da baseball, voce gentile. Mani militaresche. Sull’avambraccio destro: il guerriero tatuato ai tempi della Legione Straniera in cui si arruolò nel 1952, per uscirne 9 anni dopo. Giampiero Vigilanti è un ex legionario, ha 86 anni e se ne sta ritto sul cancellino del suo buen retiro, la villetta di via Anile, nel cuore del Cantiere: un ritaglio di periferia di Prato, strozzato tra la ferrovia e il fiume Bisenzio dove abita da 30 anni. Da 24 ore è sospettato di aver avuto un ruolo negli omicidi del Mostro di Firenze.

I carabinieri sono venuti qui?

«Non in questi giorni, ma negli ultimi 10 anni avrò visto il pm Canessa (pubblico ministero che indaga ancora sui delitti del Mostro ndr) decine di volte. È venuto a interrogarmi anche qui, a casa. Ora è in servizio a Pistoia, ma quando era a Firenze i militari sono venuti a prendermi per interrogarmi quasi ogni settimana, mi portavano nella caserma di Borgo Ognissanti».

Quando l’ultima volta?

«L’anno scorso. Ma non hanno mai trovato nulla».

Forse sono stati insospettiti dal suo amore per le armi...

«Ho quattro pistole regolarmente detenute. Anzi le avevo».

Come le aveva? Dove sono finite?

«Mi sono state rubate lo scorso settembre dai ladri. Sono entrati in casa mia tra le 4 e le 5 di mattina mentre ero fuori a portare a passeggio il cane».

Una coincidenza strana...

«Eppure è così».

Ha idea di chi possa essere stato?

«Una persona che conosce molto bene casa mia. Non ho fatto subito la denuncia perché pensavo di riuscire a recuperarle, ma non le ho più trovate».

Di che pistole si trattava?

«Due americane, di cui una risalente alla guerra in Indocina, una pistola turca e una francese».

Erano armi compatibili con i famigerati 176 proiettili Winchester calibro 22 serie H che i carabinieri le avevano trovato in casa nel 1994?

«No, non c’entravano nulla».

E perché teneva in casa quei proiettili?

«Ho sempre avuto armi e proiettili in casa, tutti regolarmente detenuti come già dimostrato».

Ma lei conosceva bene Pietro Pacciani?

«Sì. Nel 1948 gli detti anche una bastonata sulla testa».

Perché?

«Abitavamo a Vicchio. Una volta finita la guerra, a suo padre toccò il lavoro che il mio aveva perso andando al fronte. Al ritorno ne nacque una lite. Gli ruppi la testa con un bastone, ma non sporse mai denuncia».

Conosceva Salvatore Vinci (fratello di Francesco, inizialmente inquisito come Mostro e poi prosciolto ndr)?

«Sì, eravamo vicini di casa a Vaiano, ma non ci parlavo. Lo conoscevo di vista. Mi sembrava violento».

Poi non ha più visto nemmeno Pacciani?

«Sì, lo vidi quando tornai in Italia dopo il 1961, lui doveva scontare 14 anni di prigione per il delitto dell’amante della sua fidanzata. Sapeva di aver sbagliato».

Perché si arruolò nella Legione proprio l’anno di quel delitto?

«Passai la frontiera con la Francia per guadagnarmi da vivere, lo avevo già fatto a 16 anni. La polizia francese mi disse: scegli, o torni a casa o ti arruoli. Ho combattuto 8 anni in Vietnam. Ho lavorato anche a Marsiglia dove ho aperto un locale tipo nightclub».

E poi?

«Andò male, c’erano contrasti con due arabi che ci ricattavano e fummo costretti a farli fuori».

Quanti Vietminh ha ucciso durante la guerra di Indocina?

«Non li contavamo, ma credo centinaia. Almeno 300 o 500...».

Il legionario indagato per i delitti del Mostro e il giallo delle pistole. Nel 2013 sparirono quattro armi da casa di Giampiero Vigilanti: a processo per il furto misterioso, scrive Stefano Brogioni il 4 dicembre 2017 su "la Nazione". Restano un mistero, le quattro pistole di Giampiero Vigilanti, l’ex legionario di Prato indagato per i delitti del mostro di Firenze nell’ultima tranche di un’inchiesta ancora ostinatamente aperta dalla procura fiorentina. E per questo il processo a suo carico in corso a Prato (è accusato di non aver custodito armi e munizioni come previsto dalla legge, considerato che gli furono prese, secondo la sua denuncia, durante un furto in casa), non si chiude con un’oblazione, ma va avanti. E con il procedimento, si allunga anche quell’enigmatico alone intorno a questa figura e al suo mondo. Su quelle quattro pistole, le nuove indagini hanno battuto molto. «Mi sono state rubate»: questa la versione che ha ripetuto Vigilanti al pm Paolo Canessa, il magistrato che ha legato la sua carriera agli otto duplici omicidi e che negli ultimi mesi ha messo sotto torchio l’87enne, alla ricerca di nuove verità. Per gli inquirenti, questo furto, che Vigilanti colloca nel 2013 – cioè nello stesso anno in cui l’avvocato Vieri Adriani, legale dei famigliari dei francesi uccisi nel 1985 agli Scopeti – è molto strano. Strano perché avvenuto a ridosso del suo «nuovo» coinvolgimento nelle indagini (Vigilanti era già stato perquisito pochi giorni dopo l’ultimo duplice omicidio), e strano perché non è da tutti avventurarsi nella casa al «Cantiere» di Prato dove l’ex combattente vive con la moglie e i suoi ricordi del passato da guerrigliero. L’omessa custodia è un reato ‘da poco’, visto che può essere risolto con una ‘banale’ oblazione. Ma in questo caso no: trattandosi di un personaggio come l’ex legionario, per di più formalmente indagato in un’altra delicatissima indagine come quella attualmente nelle mani del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, il tribunale pratese ha respinto il tentativo di «chiudere» del legale di Vigilanti, avvocato Diego Capano, e, accogliendo l’opposizione del pm, ha fissato una nuova udienza, a marzo. A proposito delle armi di Vigilanti, l’avvocato Vieri Adriani ha recentemente presentato un nuovo esposto in procura. Prende in esame una fotografia pubblicata su un quotidiano nel settembre del 1998, sette mesi dopo la morte di Pacciani. Sono i tempi in cui Vigilanti è salito alla ribalta delle cronache per la clamorosa notizia dell’eredità dello zio d’America, una «fake news» che potrebbe essere stata inventata per celare qualcos’altro visto che ai carabinieri del Ros, questa storia non risulterà. Ma i giornalisti, dopo la comparsata in tv da Enrico Ruggeri lo cercano, lui non si nasconde e anzi, si mette in posa davanti al fotografo con in mano una pistola piuttosto rara, una «High Standard» che, secondo Vieri Adriani, spara proiettili Winchester serie H. Quelli balistici, non sono aspetti secondari dell’ultima inchiesta. La procura di Firenze, prima di arrivare al dunque tra archiviazione o richiesta di rinvio a giudizio, ha dato tutto in mano a un esperto: ha chiesto accertamenti minuziosi, anche per stabilire, alla luce delle nuove tecnologie, se le traiettorie degli spari lascino pensare che abbia sparato sempre lo stesso soggetto o sempre una sola pistola: la Beretta calibro 22.

Mostro di Firenze: il mistero della Beretta calibro 22, scrive lunedì 09 aprile 2018 su "Nove-Firenze" Antonio Lenoci — Giornalista. Nato nel 1979 a Firenze è stato speaker radiofonico a Radio Rosa Toscana. Ha collaborato con Testate online della Toscana. Corrispondente da Firenze per Radio Bruno, network radiofonico nazionale. Nell'estate 2017 la grande novità dopo anni di silenzio: nell'indagine entrano altri nomi. Non sono nomi nuovi, uno di questi era già stato attenzionato tra gli anni '80 e '90.  Nelle ultime ore, a seguito di questo nuovo filone, aperto dopo l'avvicendamento tra lo storico pm ed il nuovo magistrato inquirente sarebbero emerse interessanti valutazioni sull'arma. Rischia di venire meno dunque quella che fin dall'inizio sembrava essere l'elemento certo, assente, ma certo. Su Radio Fiesole con Benedetta Rossi ed Alessio Nonfanti ne parlano il regista, documentarista e scrittore Paolo Cochi, l'autore e disegnatore Giuseppe Di Bernardo ed il promoter Beretta Graziano Giorgi. Le notizie sul caso certificate dalla Procura sono state ben poche nell'intero corso delle indagini, molte di più sono state e continuano ad essere le indiscrezioni e le valutazioni su singoli elementi. Il Mostro di Firenze, appellativo con il quale è identificato l'autore di 16 omicidi commessi tra gli anni '60 ed '80 nell'area fiorentina, è da sempre identificato nell'uso di una Beretta Calibro 22 cercata per anni non solo in Italia attraverso perquisizioni e registri, spuntata a fasi alterne in depositi giudiziari e località varie salvo smentita dei periti. Risulta ad oggi mai trovata. Oggi si prospetta l'ipotesi che quella pistola potrebbe non essere una Beretta, ma un'altra arma sempre Calibro 22, oppure potrebbe essere la stessa arma modificata. Gli ospiti di Radio Fiesole, invitando a riflettere tornando con la mente alle settimane immediatamente successive agli ultimi omicidi, sottolineano solo alcune delle innumerevoli incongruenze che hanno caratterizzato la ricerca della verità. Persino la datazione degli omicidi, oggi, può essere messa in discussione e lo spiega Cochi, autore di "Mostro di Firenze. Al di là di ogni ragionevole dubbio", regista di un noto documentario e di un profilo youtube considerato una enciclopedia sul caso. Cochi ha ripercorso gli atti i contributi fotografici dell'epoca, offrendo un quadro della vicenda che ha portato molti a rileggere l'intera vicenda con uno sguardo critico nel quale sembra essere mancata quella "visione a 360 gradi" che marchia oggi positivamente il suo lavoro di inchiesta. Giuseppe Di Bernardo, che ha studiato i duplici omicidi in preparazione alla realizzazione di un romanzo grafico o graphic novel ispirata ai delitti del Mostro, ha sviluppato una teoria che confessa averlo fatto vacillare alla luce degli aggiornamenti dell'estate 2017, quando la fantasia rischiava di entrare nel mondo reale. Per Di Bernardo, che durante la trasmissione offre numerose "coincidenze" legate al Mostro, sono molto importanti ambientazioni e personaggi, amicizie, frequentazioni e storie personali, che dovrebbero essere osservate in base a quelle che erano anche le consuetudini dell'epoca. L'esperto Beretta, Giorgi, intervenendo sul caso specifico dei proiettili e dell'arma si sofferma sulla tesi della Beretta Calibro 22 modificata attraverso il cambio della canna, che ai fini delle risultanze balistiche contribuisce a 'segnare' l'ogiva imprimendole quelle striature caratteristiche necessarie al confronto. Un’operazione facile da compiere? Secondo l'esperto sì, specie per un appassionato di armi, soprattutto su un'arma che all'epoca era comune nel tiro a segno. Negli anni '80 il cerchio sembra stringersi, nei delitti del Mostro rientra anche un duplice omicidio del 1968, tra identikit, esperti internazionali e squadre speciali. L'elemento di contatto è quella pistola. Il profilo del killer viene analizzato, così come tutti i reperti collegati al caso, dai proiettili ai reperti rinvenuti nei luoghi, comprese anche lettere, francobolli, e tutti gli elementi che avrebbero potuto contenere tracce utili. Allora o nel futuro, quando le indagini avrebbero potuto contare sulle nuove tecnologie. Sul caso l'interesse non diminuisce, crescono anche le ipotesi ed entrano nella storia congetture che si scontreranno con le aule di giustizia, dove si procede contro tre persone in particolare. Si tratta di un caso ancora irrisolto sul quale le indagini non sono mai state chiuse. Ancora oggi, primavera del 2018, la richiesta dei familiari delle vittime è arrivare ad una svolta non solo giornalistica, e sarebbe l'ennesima, ma anche tecnica: chiudere quel fascicolo, diventato ad oggi un romanzo, con la verità.

Mostro di Firenze, fenomenologia di un'inchiesta mostruosa. Quel che resta della questione, giuridicamente ferma al 2000 con due condanne definitive, gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni, scrive il 28 luglio 2017 Maurizio Tortorella su Panorama. Ci mancava soltanto il legionario ottantasettenne e presunto mitomane. L’inchiesta senza fine sul Mostro di Firenze, ormai, è irrimediabilmente diventata un mostro d’inchiesta. L’indagine sui 16 omicidi che dal 1968 al 1985 hanno terrorizzato le campagne fiorentine e sconvolto l’Italia non finisce mai di stupire. Adesso la procura di Firenze ha ri-messo sotto la lente un vecchio personaggio, che aveva già sfiorato due volte: Giampiero Vigilanti, pratese, un passato nella Legione straniera di cui gli sono rimasti i classici virili tatuaggi sul braccio destro. Nel settembre 1985, proprio all’epoca dell’ultimo duplice omicidio, gli perquisirono la casa grazie a un’accusa anonima. Poi, nel 1994, la polizia tornò da lui e gli trovò 176 proiettili calibro 22, compatibili con quelli usati dal Mostro. Ne uscì pulito tutte e due le volte. Oggi il punto pare riguardare la scomparsa di quattro pistole, tra le quali una Beretta calibro 22, il cui furto Vigilanti giura di avere regolarmente denunziato nel 2013: "Ci andavo a sparare al poligono e i magistrati le avevano anche viste" sostiene. Le cronache degli ultimi giorni, ingenerosamente, si sono tutte concentrate su una sua comparsata in tv, nel 2005, quando aveva raccontato di un’evanescente eredità americana e della sua dura prigionia in Viet-Nam, alla Rambo. Si legge addirittura di una pista che legherebbe i 16 poveri morti alla "strategia della tensione" neofascista. Sembra un po’ tanto. Si vedrà. Certo è che quel che resta dell’inchiesta sui delitti del Mostro, giuridicamente ferma al 2000 con le due condanne definitive di Mario Vanni e di Giancarlo Lotti (rispettivamente all’ergastolo e a 26 anni di reclusione), gira a vuoto e da allora ha provocato solo danni. Tra una perquisizione e l’altra, era emerso il nome di Jean-Claude Falbriard, un pittore francese ospite della villa fino al 1997: vi avrebbe lasciato quadri inquietanti, con donne mutilate, e una pistola. A quel punto, Falbriaid era stato ricercato per mari e per monti, e i mass media l’avevano indicato come "il tassello mancante". Invece sarebbe bastato poco per evitargli la gogna: nei 17 anni degli omicidi non era mai entrato in Italia. Rintracciato, interrogato, era stato indagato per… porto abusivo d’arma. Poi era stato prosciolto, ma i giornali l’avevano trasformato in “supertestimone". Infine era sparito nel nulla. Nell’ottobre 2001, nel bosco fiorentino di San Casciano, la procura aveva annunciato di avere individuato la "stanza segreta", un capanno dove sarebbero stati consumati i riti satanici del Mostro. Nella «cripta", in realtà, gli agenti avevano trovano più che altro uno spettacolo da Halloween: pipistrelli di plastica, scheletri di cartone, candeline. Gli inquirenti, però, non s’erano arresi: le scritte sui muri della cripta (era stato disposto addirittura di staccare l’intero blocco d’intonaco) erano state confrontate con una frase apparsa sopra un muro del centro di Firenze: "Pacciani è innocente, arrestate…". Purtroppo il resto della scritta era stato cancellato. Insomma, un altro buco nell’acqua. A lanciare l’improbabile "pista satanica", in quel lontano 2001, era stata Gabriella Pasquali Carlizzi, assistente sociale nelle carceri, scrittrice e autrice di siti internet. Carlizzi aveva rivelato di essere stata presa molto sul serio dagli inquirenti, tanto da essere stata interrogata "una novantina di volte". Va detto che in rete restano tracce di suoi dialoghi anche con la Madonna di Fatima, e delle sue suggestive soluzioni per ogni mistero che abbia avvelenato la storia d’Italia. Va aggiunto che nel 2000 Carlizzi ha anche subito una condanna (in primo grado) a due anni di reclusione per calunnia nei confronti dello scrittore Alberto Bevilacqua, un’altra vittima di questa storiaccia infinita: nel 1995 la donna aveva più volte, caparbiamente accusato l’autore della Califfa di essere il vero Mostro. Altri inquirenti si sono invece affezionati alla tesi del "secondo livello" e sospettano l’esistenza di mandanti: medici maniaci, che avrebbero pagato gli assassini per procurarsi macabri feticci sessuali da usare per il loro piacere o per messe nere. Un’indagine era decollata nel gennaio 2004, contro Francesco Calamandrei, farmacista di San Casciano Val di Pesa. S’ipotizzava un suo legame con il medico perugino Francesco Narducci, il cui cadavere nel 1985 era stato trovato nel lago Trasimeno ed era finito al centro di un altro mistero. Narducci era stato coinvolto nella storia del Mostro come presunto «conservatore» dei feticci, mentre s’ipotizzava che Calamandrei fosse tra i mandanti dei delitti. Il processo, durante il quale il figlio del farmacista era morto per un’overdose, è finito con un’assoluzione piena nel maggio 2008. Anche Calamandrei è morto, di crepacuore, nel 2012. Nel 2004, infine, era finito nei guai Mario Spezi, il migliore dei giornalisti “mostrologhi” fiorentini, e collaboratore anche di Panorama. Buffo, era stato proprio Spezi a fare i primi collegamenti tra i delitti del Mostro: senza di lui, forse, l’inchiesta sarebbe arrivata molto dopo, o forse mai. Il giornalista s’era trasformato nel più duro critico dell’inchiesta. Era convinto che le piste sataniche e sui medici mandanti fossero folklore: credeva nell’omicida seriale e solitario. Spezi era stato intercettato, perquisito e indagato per favoreggiamento. A casa sua gli agenti avevano sequestrato di tutto, perfino una "piramide tronca in pietra a base esagonale, occultata dietro la porta della sala da pranzo". Dicevano fosse simile a un oggetto rinvenuto anni prima, sulla scena di un delitto del Mostro, e che rimandasse a un rito satanico. "Ma stava dietro la porta perché è un comune fermaporta", rideva Spezi. Nel 2006 la procura di Perugia l’aveva arrestato per depistaggio e per concorso nell’omicidio del medico Narducci. Era rimasto in prigione 23 giorni, prima che la Cassazione lo liberasse e lo assolvesse in pieno. È morto anche lui, un anno fa, di cancro.

Si parla di insabbiamenti? Mostro di Firenze, perquisiti gli inquirenti. Tutto è partito da un'accusa di «insabbiamento» risultata infondata, scrive Antonella Mollica su “Il Giornale”. Indagini che si intrecciano e magistrati che si dividono. Sullo sfondo la solita vicenda infinita del Mostro di Firenze con i suoi mille misteri e le pochissime certezze che sembrano frantumarsi ogni volta che un nuovo tassello si aggiunge al mosaico: una doppia perquisizione, effettuata nella Procura di Perugia e negli uffici del Gides, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l’ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull’indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il pm Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell’ufficio del pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell’inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio. L’inchiesta della Procura di Firenze è solo l’ultima tappa di una vicenda che parte da lontano: dalla registrazione di una conversazione avvenuta nel 2002 tra Michele Giuttari, capo del Gides, e il pm Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta sul Mostro. Canessa di quella registrazione non ha mai saputo nulla fino a quando il pm Mignini non ha inviato un esposto a Genova contro il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. In quell’esposto si puntava il dito contro Nannucci, accusandolo di voler rallentare le indagini sul Mostro. A sostegno dell’accusa si riportava una frase attribuita a Canessa («quello non è un uomo libero») riferita a Nannucci. Il Tribunale di Genova, su richiesta della stessa procura, ha archiviato il procedimento contro Nannucci: nessun tentativo di insabbiamento. «Tutte le accuse contro Nannucci - hanno scritto il procuratore capo di Genova Giancarlo Pellegrino e il sostituto Francesco Pinto - partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti». La Procura di Genova, nell’archiviare la posizione di Nannucci, affidò una perizia sulla cassetta: la conclusione fu che quella frase non era stata pronunciata da Canessa. Per questo Giuttari e due suoi collaboratori che effettuarono la trascrizione di quella conversazione sono finiti sotto inchiesta per falso. Ma la storia non è finita così: Giuttari è passato all’attacco e ha denunciato alla Procura di Torino i pm Canessa e Pinto e lo stesso perito di Genova: «Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta». In tutto questo vortice di denunce e controdenunce si inserisce l’inchiesta che ha portato alle perquisizioni: il 19 maggio scorso il perito era stato convocato dal pm Giuliano Mignini. Una procedura quantomeno insolita questa su cui la Procura di Firenze ora vuol vedere chiaro.

I pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari sono stati condannati dal tribunale di Firenze rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze, scrive “Il Corriere della Sera”. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sull'omicidio di Meredith Kercher: la vicenda della studentessa inglese non ha comunque niente a che fare con il processo che si è chiuso ora. Michele Giuttari è stato a capo del Gides (gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto con le procure fiorentina e perugina le indagini sul mostro di Firenze. L'abuso d'ufficio per il quale sono stati condannati riguarda una serie di indagini svolte su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per, secondo l'accusa, condizionare le loro attività riguardo l'inchiesta perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che sarebbe collegata alle vicende del mostro di Firenze. Il pm fiorentino titolare delle indagini, Luca Turco, aveva chiesto condanne a 10 mesi per Mignini e a due anni e mezzo per Giuttari. Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero svolto indagini illecite - con intercettazioni o con l'apertura di fascicoli - su alcuni funzionari di polizia (come l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e l'ex direttore dell'ufficio relazione esterne Roberto Sgalla) e giornalisti (come Vincenzo Tessandori, Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro) con intento punitivo o per condizionarli nel loro lavoro, perché avrebbero tenuto atteggiamenti critici riguardo il comportamento di Giuttari con la stampa o riguardo l'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. Mignini e Giuttari sono stati invece assolti «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari), relativa ad accertamenti paralleli a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari per falso, in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa. All'epoca Giuttari era a capo del Gides, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta sul mostro di Firenze. «Sono sconcertato» commenta il pm perugino Mignini. A chi gli chiedeva se la sentenza possa gettare un'ombra sul lavoro svolto sul caso Meredith, Mignini ha risposto ricordando che a Perugia «ci sono stati giudici che hanno giudicato sul caso Meredith. La sentenza di oggi, invece, riguarda me». Il difensore di Mignini, Mauro Ronco, spiega che «Giuttari e Mignini sono stati assolti dalla parte principale del processo e, di fatto, questo smentisce tutto l'impianto accusatorio». A chi gli chiedeva se l'interdizione dai pubblici uffici - come pena accessoria - possa avere effetti sulla professione di Mignini, Ronco ha ricordato che «ovviamente, la pena è sospesa per la condizionale e questo vale anche per l'interdizione».

Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith.

Giuttari, già capo del gruppo investigativo delitti seriali, che lavorò fianco a fianco con la procura fiorentina e quella perugina è sempre in tv a parlare dei delitti eccellenti.

Nel proseguo la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto scrittore Michele Giuttari, scrive “Umbria 24”. La Corte ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d’ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d’Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c’è un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini. L’abuso di ufficio per il quale erano stati condannati riguarda una serie di indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell’ordine svolte, secondo l’accusa, per condizionarli, perché avevano tenuto atteggiamenti critici riguardo l’inchiesta sulla morte di Narducci. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher. Giuttari, andato in pensione dalla polizia, adesso svolge l’attività di avvocato-investigativo ed è uno scrittore di gialli. Le reazioni «È una decisione obbligata. Fin all’inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima». Lo ha detto il pm Giuliano Mignini commentando la sentenza d’appello che ha annullato la condanna del magistrato in primo grado e ha ordinato il trasferimento degli atti da Firenze a Torino. Mignini, rispondendo ai giornalisti, ha poi confermato che il reato (abuso d’ufficio) potrebbe cadere in prescrizione. Con lui è imputato il poliziotto-scrittore Michele Giuttari. Anche per lui c’è stato l’annullamento della condanna di primo grado e la dichiarazione di incompetenza territoriale. «Da investigatore ho un’amarezza – ha detto Giuttari – Questa attività svolta da Firenze bloccò l’indagine perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che si riteneva collegata al mostro di Firenze. Vennero sequestrati gli atti di quell’indagine, di fatto bloccandola». A Perugia, il pubblico ministero Giuliano Mignini aspetta le motivazioni con cui il gup Paolo Micheli prosciolse tutti i familiari di Narducci, colpevoli secondo il pm di aver architettato un colossale depistaggio sulla morte del medico perugino.

Quella strana condanna del Pm Giuliano Mignini, scrive Adriano Lorenzoni su Terni in rete. Di fatto bloccate le indagini perugine sui mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Nel gennaio del 2010 il Pubblico Ministero di Perugia, Giuliano Mignini e l'ex capo della squadra mobile di Firenze, Michele Giuttari, sono stati condannati dal Tribunale di Firenze con l'accusa di abuso d'ufficio in una inchiesta relativa al filone di indagini perugine collegate a quelle relative ai "mandanti" dei delitti del mostro di Firenze. Secondo la tesi accusatoria Mignini e Giuttari avrebbero intercettato e indagato illecitamente giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per condizionarne la loro attività. Un procedimento anomalo visto che il PM Mignini era stato regolarmente autorizzato dal GIP di Perugia ad avvalersi del mezzo delle intercettazioni per le sue indagini, atti che aveva il dovere di compiere. Un procedimento anomalo perché a condurre le indagini contro Mignini e Giuttari è stata quella stessa Procura della quale il Pm di Perugia, ne aveva indagato il capo, Ubaldo Nannucci. Non a caso il dottor Mignini ha eccepito la incompetenza funzionale di quella Procura a svolgere le indagini ed ha sollevato eccezioni di nullità della sentenza. Sarà la corte d'appello di Firenze il prossimo 22 novembre a decidere sulla questione. Tutto nasce da una registrazione effettuata da Michele Giuttari di un suo colloquio con il sostituto procuratore di Firenze, Paolo Canessa nel quale Canessa afferma che il suo capo non era un uomo libero e confessa di essere stato bloccato da quest'ultimo, cioè dall'allora Procuratore Ubaldo Nannucci in merito alle richieste dello stesso Giuttari relative all'inchiesta sui delitti del mostro di Firenze. Giuttari trasmette la registrazione a Mignini il quale la gira alla Procura di Genova competente ad indagare sui magistrati di Firenze. Il Procuratore Nannucci verrà inquisito per aver rallentato, anzi ostacolato le indagini sul mostro di Firenze. Genova archivierà subito. E' ancora Giuttari a lamentarsi con Mignini per il comportamento del questore di Firenze, De Donno il quale, come disposto dal Ministero dell'interno, avrebbe dovuto provvedere all'istallazione della sala intercettazioni del G.I.DE.S , (gruppo investigativo delitti seriali) dove si erano sistemati Giuttari e i suoi uomini, cosa che non fa. Mignini lo incrimina e manda il fascicolo a Firenze. Viene da chiedersi : dov'è l'abuso d'ufficio? Viene anche da chiedersi il perché di tanto apparente disinteresse nei riguardi delle indagini condotte da Michele Giuttari, laddove non vengono ostacolate. " Non bisogna farle le indagini sui mandanti, perché sono solo illazioni " , una inutile perdita di tempo , si sente dire Giuttari. Sorprendente. Finchè si indagano i compagni di merende, va tutto bene. Va bene Pacciani, va bene Lotti , va bene Vanni. Quando si alza il tiro cominciano a sorgere i problemi. Michele Giuttari viene addirittura sollevato dall'incarico e trasferito. Al PM Mignini viene perquisito l'ufficio e gli vengono sequestrati atti di una indagine in corso, quella sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, atti sui quali aveva eccepito il segreto, inutilmente. Anche in questo caso viene da chiedersi perché tanta paura ( a Firenze e a Perugia ) dell'inchiesta sulla morte di Francesco Narducci? Secondo il PM perugino , Francesco Narducci era collegato , in qualche modo, con le vicende del mostro di Firenze. Giancarlo Lotti, uno dei compagni di merende, sostenne che ad un dottore venivano consegnate le parti di corpo femminile amputate, in cambio di denaro. Delitti, quindi, su commissione. Di un dottore. Un dottore, non un farmacista, Francesco Calamandrei, di San Casciano val di Pesa. Tra l'altro , nell'inchiesta è emerso che Calamandrei e Narducci si conoscevano. Narducci morirà in circostanze niente affatto chiare il 13 ottobre del 1985. Annegato nelle acque del lago Trasimeno. Un mese dopo l'ultimo omicidio commesso dal mostro di Firenze. Suicidio si sostenne all'epoca. Una verità assai poco credibile. Tanto che il Gip Marina De Robertis ha archiviato con formula dubitativa l'ipotesi dell'omicidio a determinati indagati ( il giornalista Mario Spezi, il farmacista di San Casciano , Calamandrei e altri ) e ha dichiarato prescritti ma esistenti i reati commessi all'epoca in materia di occultamento e sottrazione di cadavere e di falsificazione di numerosi documenti pubblici. Inoltre, dall'aprile scorso, si attende di conoscere le motivazioni con le quali, a vario titolo, anche con formule dubitative, il Gup, Paolo Micheli, ha assolto una ventina di persone ( anche il padre e il fratello di Narducci ) dalle accuse di falso, associazione per delinquere, omissione di atti di ufficio e occultamento di cadavere. Avverso questa decisione del Gup, Il PM Mignini proporrà , verosimilmente, appello e ricorso non appena verranno depositate le motivazioni che avrebbero dovuto essere depositate il 20 luglio scorso. Gli stessi Mignini e Giuttari sono stati , invece, assolti perché i fatti non sussistono ( e la Procura di Firenze non si è appellata ) dall'accusa di abuso di ufficio ( e Mignini anche dal favoreggiamento nei confronti di Giuttari ) relativamente ad accertamenti cosiddetti paralleli a quelli della Procura di Genova che stava indagando l'ex capo della mobile di Firenze per falso, per via di quella registrazione del colloquio con il sostituto Canessa ( di cui abbiamo parlato precedentemente ) registrazione che , secondo l'accusa, era stata manomessa. Inchiesta, questa, che ha poi portato alla perquisizione dell'ufficio del PM di Perugia e al sequestro di numerosi atti di indagine. Inutile aggiungere che il procedimento a carico di Giuttari e di due poliziotti si è concluso un una sentenza di non luogo a procedere per assoluta insussistenza del fatto, emessa dal GUP genovese Roberto Fenizia. Una condanna " anomala " quella di Giuliano Mignini che, non ha però subito conseguenze disciplinari di alcun tipo. Il procedimento disciplinare è infatti sospeso sino alla definizione del procedimento penale dal quale dipende. e il PM. Mignini ha potuto continuare a svolgere le sue funzioni , anche in processi importantissimi e di rilievo internazionale , come quello relativo alla morte della studentessa inglese, Meredith Kercher.

«La massoneria perugina sapeva che Francesco Narducci, il medico annegato nel lago Trasimeno nell'ottobre 1985, era coinvolto nei delitti del "Mostro di Firenze", ma decise di non far trapelare nulla per evitare che fossero coinvolti tutti». Una nuova testimonianza nell' inchiesta sui mandanti degli omicidi compiuti in Toscana tra il 1968 e il 1985 svela intrecci finora insospettabili, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. E delinea nuove responsabilità di chi avrebbe tentato di nascondere la verità. Sono centinaia i verbali raccolti negli ultimi due anni dai pubblici ministeri umbri e fiorentini che stanno cercando di identificare i componenti della congrega che avrebbe armato la mano dei «compagni di merende». Ma anche di individuare chi provocò la morte del medico perugino. Gli accertamenti svolti sinora portano infatti a escludere che Narducci sia stato vittima di un incidente mentre era in barca, come si era pensato fino a due anni fa. «È stato ucciso - ribadiscono gli inquirenti - e la sua morte è certamente legata agli assassinii delle coppiette». È stato Ferdinando Benedetti, uno storico che ha compiuto un'indagine personale sulla vicenda, a rivelare il ruolo della massoneria, alla quale lui stesso apparterrebbe. E le sue dichiarazioni sono state poi confermate da altre persone che frequentavano la famiglia Narducci. «Il padre del medico - ha raccontato Benedetti - faceva parte della loggia Bellucci e insieme al consuocero si rivolse al Gran Maestro per evitare che fosse effettuata l'autopsia sul cadavere del figlio. So che Francesco Narducci aveva preso in affitto una casa vicino Firenze, nella zona dove sono avvenuti i delitti. Era entrato a far parte di un'associazione segreta denominata "la setta della rosa rossa". Al momento dell'iniziazione era al livello più basso, ma dopo un po' di tempo aveva raggiunto il ruolo di "custode". Già nel 1987 si disse che poteva essere uno dei "mostri" e la massoneria si attivò per sapere la verità. Tra il 1986 e il 1987 ci furono riunioni tra logge diverse e si decise di compiere alcune indagini. Alla fine la loggia accertò che era coinvolto, ma si decise di non far trapelare nulla perché altrimenti c'era il rischio che venissero coinvolti tutti». Tra i testimoni ascoltati dai magistrati c'è anche Augusto De Megni, nonno del bimbo rapito nel 1990, per anni al vertice del Grande Oriente d' Italia. «So che Narducci andava a Firenze - ha confermato - e che frequentava giri poco raccomandabili». Secondo le indagini compiute sinora il dottore potrebbe essere stato il «custode» dei reperti genitali asportati alle vittime. E adesso si sta verificando se possa esserci un nesso tra la sua morte e la spedizione di un lembo di seno di Naudine Mauriot al pubblico ministero Silvia Della Monica. L'omicidio della francese e del suo compagno Jean-Michel Kraveichvili avvenne l'8 settembre agli Scopeti. Recentemente si è scoperto che la coppia era in Toscana per partecipare a pratiche esoteriche e che sarebbe poi rimasta vittima di un rito satanico. Un mese dopo il delitto scomparve il dottor Narducci. Era in ospedale a Perugia e dopo aver ricevuto una telefonata andò via sconvolto. Di lui non si seppe più nulla fino al 13 ottobre, quando il suo cadavere affiorò a circa duecento metri dalla riva. Alcuni testimoni dell' epoca hanno raccontato che aveva numerosi ecchimosi, ma la famiglia si oppose allo svolgimento dell'autopsia. Soltanto due anni fa si è scoperto che i rilievi del medico legale furono effettuati sul corpo di una persona alta almeno cinque centimetri più del dottore. Un'evidente sostituzione sulla quale dovranno adesso fornire spiegazioni alcuni familiari di Narducci e il questore dell' epoca Francesco Trio, tutti indagati per occultamento di cadavere. «Dalle lettere anonime che attribuivano un ruolo a Narducci e ai suoi amici di Firenze come mandanti dei delitti - ha dichiarato ieri Michele Giuttari, capo della squadra investigativa -, siamo passati alle testimonianze dirette. Tanti sapevano e ora hanno parlato».

L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive il Prof. Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti.  (Io speriamo che non mi suicido).

Il Mostro di Firenze: quella piovra che si insinua nello stato, continua il Prof. Paolo Franceschetti. Una strage di stato mai chiamata come tale.

Premessa. Ho deciso di scrivere questo articolo dopo la vicenda del perito nella vicenda Moby Prince, sfuggito per miracolo alla morte; qualche giorno fa l’uomo, dopo essere stato narcotizzato da 4 persone incappucciate è stato poi messo in un auto a cui hanno dato fuoco. Si è salvato per un pelo, essendosi risvegliato in tempo dal narcotico. L’incidente è identico a molti altri capitati a testimoni di processi importanti della storia d’Italia. Non tutti però sanno che gli stessi identici incidenti sono capitati a molti dei testimoni nella vicenda del mostro di Firenze. Nella vicenda del mostro di Firenze è stato scritto tanto. E i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette. La vicenda del mostro, in effetti, per anni è stata considerata come un giallo in cui occorreva trovare il serial killer. In realtà la vicenda può essere guardata da una prospettiva assolutamente diversa, cioè quella tipica di tutte le stragi di stato italiane: l’ostinato occultamento delle prove affinché non si giunga alla verità, grazie al coinvolgimento della massoneria e dei servizi segreti; l’inefficienza degli apparati statali nel reprimere queste situazioni; l’impreparazione culturale quando si tratta di affrontare questioni che esulano da un nomale omicidio o rapina in banca e si toccano temi esoterici. Ripercorriamo quindi le tappe della vicenda per poi trarre le nostre conclusioni. Con la dovuta avvertenza che il nostro articolo non è volto a individuare nuove piste; non vogliamo discutere se Pacciani fosse o no colpevole, se il mostro fosse uno solo o fosse un gruppo organizzato, se dietro ai delitti del mostro ci sia la Rosa Rossa, come si è ipotizzato, o altre sette sataniche. Vogliamo analizzare la cosa dal punto di vista prettamente giuridico, evidenziando alcuni dati che nessuno finora ha abbastanza trattato.

Il processo Pacciani. Dal 1968 al 1985 vengono uccise otto coppie di giovani nelle campagne di Firenze. In 4 di questi duplici omicidi vengono prelevate delle parti di cadavere, seni e pube in particolare. Ricordiamoci questo particolare del pube, perché lo riprenderemo in seguito. La vera e propria caccia al mostro comincia dopo il terzo omicidio, quando si capisce che dietro ad essi c’è la stessa mano. Dopo errori giudiziari, e vicende varie, si arriva all’incriminazione di Pietro Pacciani nel 1994. Appare chiaro che Pacciani è colpevole, o perlomeno che è gravemente coinvolto in questi omicidi. Gli indizi infatti sono gravi, precisi e concordanti: in particolare lo inchiodano il ritrovamento di un bossolo di pistola nel suo giardino, inequivocabilmente proveniente dalla pistola del mostro (una beretta calibro 22); l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani; e soprattutto un portasapone e un blocco da disegno, di marca tedesca, che verrà riconosciuto come appartenente alla coppia tedesca uccisa dal mostro. C’era poi un biglietto trovato in casa sua, con scritto “coppia” e un numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Le intercettazioni telefoniche ed ambientali poi fecero il resto, mostrando che Pacciani mentiva, celando agli investigatori diverse cose importanti. Eppure il processo fa acqua da tutte le parti. Tante cose, troppe, non quadrano in quel processo. Non quadra il movente, perché Pacciani – benché violento e benché in passato avesse già ucciso, per giunta con modalità che a tratti ricordano quelle di alcuni delitti - non sembra il ritratto del serial killer. Non quadrano alcuni particolari (ad esempio le perizie stabiliranno che l’uomo che ha sparato doveva essere alto almeno un metro e ottanta, mentre Pacciani è alto molto meno. Inoltre durante il processo alcuni dei suoi amici mentono palesemente per coprirlo, sembrando quasi colludere con lui. Perché mentono? In primo grado Pacciani verrà condannato. In secondo grado verrà assolto. L’impianto accusatorio, in effetti, era abbastanza fragile. Però proprio il giorno prima della sentenza di secondo grado, la procura di Firenze riesce a trovare nuovi testimoni (quattro) che inchiodano Pacciani e soprattutto riescono a spiegare il motivo di alcune incongruenze. Due di questi testimoni sono infatti complici di Pacciani e, autoaccusandosi, svelano che in realtà quei delitti erano commessi in gruppo. Ma la Corte di appello di Firenze decide di non sentire questi testimoni, e assolve Pacciani. La sentenza verrà annullata dalla Cassazione, ma nel frattempo Pacciani muore in circostanze poco chiare. Apparentemente muore di infarto, ma Giuttari, il commissario che segue le indagini per la procura di Firenze, sospetta un omicidio.

Il caso Narducci. Nel 2002 l’indagine sul mostro si riapre, ma a Perugia. Per capire come e perché si riapre però dobbiamo fare un passo indietro. Il 13 ottobre del 1985 viene trovato nel lago Trasimeno il corpo di un giovane medico perugino, Francesco Narducci. Il caso viene archiviato come un suicidio, anche se la moglie non crede a questa versione dei fatti. E sono in molti a non crederlo. Anzi, da subito alcuni giornali ipotizzano un coinvolgimento del Narducci nei fatti di Firenze. Nel 2002 la procura di Perugia, intercettando per caso alcune telefonate, sospetta che il medico Perugino sia stato assassinato e fa riesumare il cadavere. Il cadavere riesumato ha abiti diversi rispetto a quelli indossati dal cadavere nel 1985. Altri, numerosi e gravi indizi, nonché le testimonianze della gente che quel giorno era presente al ritrovamento, portano a ritenere che il cadavere ripescato allora non fosse quello di Narducci, e che solo in un secondo tempo sia stata riposta la salma del vero Narducci al posto giusto. Indagando sul caso, il PM di Perugia, Mignini, scopre che il giorno del ritrovamento le procedure per la tumulazione furono irregolari; che quel giorno sul molo convogliarono diverse autorità, tutte iscritte alla massoneria, come del resto era iscritto alla massoneria il padre del medico morto e il medico stesso. E si scopre che il Narducci era probabilmente coinvolto negli omicidi del mostro di Firenze. Anzi, forse era proprio lui che, in alcune occasioni, asportò le parti di cadavere. Le indagini portano ad ipotizzare una pluralità di mandanti coinvolti negli omicidi del mostro, che commissionavano questi omicidi per poi utilizzare le parti di cadavere per alcuni riti satanici. In particolare, il Lotti confessa che questi omicidi venivano pagati da un medico. E con un accertamento sulle finanza di Pacciani verranno trovati capitali per centinaia di milioni, di provenienza assolutamente inspiegabile. Vengono mandati 4 avvisi di garanzia a 4 persone, tra cui il farmacista di San Casciano Calamandrei, un medico e un avvocato, che sarebbero i mandanti dei delitti del mostro di Firenze. Mentre per occultamento di cadavere, sviamento di indagini e altri reati minori (che inevitabilmente andranno in prescrizione) vengono rinviate a giudizio il padre di Ugo Narducci, e i fratelli di Francesco; il questore di Perugia Francesco Trio, il colonnello dei carabinieri Di Carlo, l’ispettore Napoleoni, l’avvocato Fabio Dean e molti altri, quasi tutti iscritti alla stessa loggia massonica, la Bellucci di Perugia, e alcuni di essi, compreso il padre di Narducci, collegati addirittura alla P2. Appartengono alla P2 Narducci, il questore Trio, mentre l’avvocato Fabio Dean è il figlio dell’avvocato Dean, uno dei legali di Gelli.

Depistaggi e coperture eccellenti. In questa vicenda sono presenti ancora una volta i servizi segreti e i loro depistaggi, nonché tutte le mosse tipiche che vengono attuate quando occorre depistare. In pratica l’indagine conosce una prima fase, che arriva fino al processo di appello di Pacciani, in cui essa scorre senza problematiche particolari, tranne ovviamente quella tipica di ogni indagine, e cioè l’individuazione dei colpevoli. Ma appena si apre la pista dei mandanti si scatena un vero inferno. Anzitutto lo screditamento degli inquirenti, che vengono derisi, sminuiti; vengono continuamente sottolineati gli errori fatti da costoro (come se fosse semplice condurre un indagine del genere senza commetterne); la procura fiorentina viene spesso presentata dai giornali come una procura che vuole a tutti i costi incastrare degli innocenti; Giuttari viene presentato come uno che vuole farsi pubblicità; un pazzo che crede alla folle pista satanista; quando il commissario è vicino alla verità lo si isola, oppure si cerca di trasferirlo con una meritata promozione (che però metterebbe in crisi tutta l’inchiesta). Più volte giornali e televisioni annunceranno scoop fantastici tesi a demolire il lavoro di anni della procura di Firenze, e di Perugia. Alcuni giornalisti che ipotizzano il collegamento massoneria – delitti del mostro – sette sataniche vengono querelati anche se le querele verranno poi ritirate. Vengono fatte indagini parallele e non ufficiali di cui non vengono informati gli inquirenti. Il PM Mignini scopre che dopo l’ultimo delitto del mostro la polizia di Perugia aveva indagato su Narducci e sul mostro, e ciò risulta dai prospetti di lavoro, datati 10 settembre 1985. Ma di queste indagini non viene avvisata la procura di Firenze. Ma in compenso anche i carabinieri, per non essere da meno, fanno le loro indagini parallele di cui non informano gli inquirenti. Alcuni carabinieri confidano che anni prima avevano fatto un’irruzione nell’appartamento fiorentino del Narducci per trovare le parti di cadavere che il Narduci teneva nell’appartamento, ma che erano stati “preceduti”. Anche di questi fatti la procura di Firenze non viene informata. Queste indagini parallele erano coordinate a Perugia dall’ispettore Napoleoni, che pare agisse addirittura all’insaputa del suo diretto superiore Speroni (così scrive Licciardi nel suo libro). Su Narducci c’era un fascicolo da tempo, ma il fascicolo venne smarrito, e ritrovato dopo anni privo di varie parti. Così come scomparvero misteriosamente molti reperti che erano stato acquisiti durante le indagini, come la famosa pietra a forma di piramide trovata sulla scena di uno dei delitti. Non manca poi – stando alla ricostruzione di Giuttari nel suo libro - anche il procuratore capo di Firenze, Nannucci (che è sempre stato contrario all’indagine sui mandanti) che avvisa un indagato, il giornalista Mario Spezi, dell’imminente indagine; questo fatto verrà segnalato alla procura di Genova che però archivierà la posizione del procuratore. Infine, ci sono gli immancabili depistaggi dei servizi segreti deviati. Il Sisde aveva già dai tempi del terzo delitto preparato un dossier che ipotizzava che non fosse coinvolto un solo serial Killer, ma i componenti di una setta satanica che agivano in gruppo, e ciò appariva evidente da alcuni particolari della scena del delitto. Ma questo dossier – che porta la data del 1980 - non viene mai consegnato agli inquirenti di Firenze. Il dossier era firmato da Francesco Bruno, consulente del Sisde. In totale, sono tre gli studi commissionati dal Sisde che si persero misteriosamente per strada e non arrivarono mai sulle scrivanie degli inquirenti fiorentini. Guarda caso proprio quei dossier che ricostruivano la pista dei mandanti plurimi e delle messe nere. Ma qualche anno dopo Francesco Bruno, intervistato, sosterrà che a suo parere il serial Killer è un mostro isolato, ancora in libertà.

Morti sospette. Ci sono poi le solite morti sospette tipiche di tutte le grosse vicende giudiziarie italiane. Una vera strage, in realtà. O meglio, una strage nella strage. La prima morte sospetta è quella del medico Perugino trovato morto nel lago Trasimeno. Poi la morte di Pacciani per la quale la procura di Firenze apre un fascicolo per omicidio. E poi la solita mattanza di testimoni. Elisabetta Ciabiani, una ragazza di venti anni che aveva lavorato nell’albergo dove Narducci e la sua loggia massonica si riunivano e che aveva rivelato al suo psicologo, Maurizio Antonello (fondatore dell’Associazione per la ricerca e l’informazione delle sette) il nome di alcuni mandanti del mostro e aveva rivelato il coinvolgimento della Rosa Rossa nei delitti: Elisabetta verrà trovata uccisa a colpi di coltello, compresa una coltellata al pube, ma il caso venne archiviato come suicidio. Mentre lo psicologo Maurizio Antonello verrà trovato “suicidato”, impiccato al parapetto della sua casa di campagna. Renato Malatesta, marito di Antonietta Sperduto, l’amante di Pacciani, che viene trovato impiccato, ma con i piedi che toccano per terra; uno degli innumerevoli casi di suicidi in ginocchio, che non fanno certo l’onore delle nostre forze di polizia subito pronte ad archiviare il caso come suicidio nonostante l’evidenza dei fatti. Francesco Vinci e Angelo Vargiu, sospettati di essere tra i compagni di merende di Pacciani (il primo è anche amante di Milva Malatesta) trovati morti carbonizzati nell’auto. Anna Milva Mattei, anche lei bruciata in auto. Claudio Pitocchi, morto per un incidente di moto, che sbanda ed esce di strada all’improvviso, senza cause apparenti. Anche questa è una modalità che troviamo in tutte le vicende italiane in cui sono coinvolti servizi segreti e massoneria: Ustica, soprattutto, e poi nel caso Clementina Forleo, di cui ci siamo già occupati. Milva Malatesta e il suo figlio Mirko, anche loro trovati carbonizzati nell’auto; una fine curiosamente simile a quella che volevano far fare al perito del Moby Prince poche settimane fa. La stessa tecnica. Così come la tecnica dei suicidi in ginocchio è identica a quella dei morti di Ustica e di tutte le altre stragi che hanno insanguinato l’Italia. Tecniche identiche, che fanno ipotizzare una firma unica: quella dei servizi segreti deviati. Rolf Reineke, che aveva visto una delle coppiette uccise poche ore prima della loro morte, che muore di infarto nel 1983. Domenico, un fruttivendolo di Prato che scompare nel nulla nell’agosto del 1994 e venne considerato un caso di lupara bianca. E poi ce ne sono tanti altri. C’è il caso di tre prostitute, una suicidatasi, e due accoltellate, che avevano avuto rapporti a vario titolo con i compagni di merende, e chissà quanti alltri di cui si non si saprà mai nulla. Un discorso a parte va fatto per Luciano Petrini. Consulente informatico, nel 1996 avvicinò una persona (anche lei testimone al processo) Gabriella Pasquali Carlizzi, dandogli alcune informazioni sul mostro e mostrando di sapere molto su questa vicenda; ma il 9 maggio fu ucciso nel suo bagno, colpito ripetutamente con un porta asciugamani a cui tolsero la guarnizione per renderla più tagliente. Nella casa non compaiono segni di scasso o effrazione. Conclusioni: omicidio gay. Nessuno prende in considerazione altre piste. Nessuno prende in considerazione – soprattutto - l’ipotesi più evidente: Petrini aveva svolto consulenza nel caso Ustica, sul suicidio del colonnello dell’aereonautica Mario Ferraro, quel Mario Ferraro che venne trovato impiccato al portasciugamani del bagno. Ma il fatto che sia stato ucciso – guarda caso – proprio con un portasciugamani, non induce a sospettare di nulla. Omicidio gay!?!?

Conclusioni. La verità sul mostro di Firenze non si saprà mai. Non si sapranno mai i nomi dei mandanti, perlomeno non di tutti. In realtà, in questa vicenda molte cose sono chiare, molto più chiare di quanto non sembri a prima vista. Leggendo attentamente i fatti e i documenti è possibile farsi un’idea della vicenda, e delle motivazioni che spingono alcune delle persone coinvolte. Ma non è mio intendimento fare ipotesi, smontare tesi o costruirle. Non mi interessa poi così tanto capire se Pacciani era il vero mostro o fu solo incastrato. Se Narducci era il mostro, o se erano altri. Se Pietro Toni, il procuratore che chiese l’assoluzione di Pacciani e definì“aria fritta” l’ipotesi dei mandanti sia in mala fede oppure se gli sia sfuggito un “leggerissimo” particolare: che una simile mattanza di testimoni e di occultamenti presuppone un’organizzazione dietro tutto questo. E che a fronte dei depistaggi, delle sparizioni di fascicoli, dei tentativi di insabbiamento, l’ipotesi del mandante isolato diventa fantascientifica, perché in tal caso si impone di presupporre che tutti gli investigatori che si sono occupati delle vicende del mostro siano impazziti o si siano messi d’accordo per fregare Pacciani e gli altri e che tutti i testimoni siano morti per delle coincidenze. Atteniamoci quindi ad un dato di fatto. Quando in un indagine importante compare il binomio massoneria – servizi segreti, questo binomio indica che sono coinvolti dei mandanti eccellenti, al di là di ogni immaginazione. Ancora una volta la massoneria deviata riesce a mostrare tutta la sua forza, riuscendo a tacitare ogni tipo di delitti, purché siano coinvolte persone a loro legate. Non solo colpi di stato, stragi e altro, ma addirittura delitti come quelli del Mostro di Firenze. Il che porta a concludere che anche i morti legati alla vicenda Mostro di Firenze, che non sono solo le sedici vittime ufficiali, ma anche tutte le altre (i testimoni soppressi brutalmente e gli omicidi non individuati ufficialmente) possono essere considerati una strage di stato. L’ennesima strage compiuta con la connivenza di pezzi dello stato, resa possibile sia dalle complicità ad alto livello, sia dall’ignoranza degli organi investigativi, dalla loro impreparazione riguardo al modus operandi e alla struttura delle logge massoniche deviate e in particolare delle sette sataniche. Ancora una volta viene in evidenza poi la totale inutilità delle norme giuridiche e processuali. Finché un PM che avvisa un indagato commetterà un reato minimo; finché l’occultamento di prove o di un fascicolo agli inquirenti, subirà un pena minima, destinata tra l’altro ad andare in prescrizione; finché l’operato dei servizi segreti rimarrà sempre impunito in nome del cosiddetto segreto di stato; finché il tempo massimo per le indagini preliminari, anche in reati così complessi, continueranno ad essere due anni; finché avremo questo sistema, insomma, la macchina giudiziaria sarà sempre paralizzata nel perseguimento di questo tipo di delitti, cioè i delitti che vedono coinvolti, a vario titolo, i colletti bianchi nel coprirsi a vicenda i reati da ciascuno di loro commessi. Finisco questo articolo riportando le parole di un mio amico di infanzia, ufficiale dei carabinieri di un paese della Toscana. Mi ha detto: “Certo Paolo che dietro ai delitti del mostro di Firenze ci sono alcune sette sataniche legate a logge deviate della massoneria. I fatti di Perugia parlano chiaro. Noi spesso sappiamo chi sono e cosa fanno certi personaggi. Ma abbiamo l’ordine di non indagare. Vedi… Un tempo, se toccavi il tasto mafia – politica e indagavi su questo filone, o scrivevi un pezzo di giornale, morivi. Oggi la politica ha capito che è inutile uccidere per questo, perché i magistrati si possono trasferire, i reati vanno in prescrizione… insomma ci sono altri mezzi per insabbiare un’inchiesta. Ma il tasto delle sette sataniche, e dei coinvolgimenti eccellenti in queste sette, non si può toccare, altrimenti si muore. Pensa che ogni anno, in Italia, spariscono migliaia di bambini. Oltre ai dati ufficiali della polizia di stato, ce ne sono molti altri, Rom, immigrati clandestini, ecc. che non compaiono nelle statistiche. E questi bambini finiscono nel circuito delle sette sataniche, che sono collegate spesso al circuito dei sadici e pedofili, che pagano cifre astronomiche per video ove i bambini muoiono veramente”. E mi ha anche detto i nomi di alcune persone coinvolte, tra l’altro chiaramente ricavabili dal fatto di essere proprietarie dei luoghi in cui si svolgevano questi riti. Questo mio amico non sapeva, all’epoca, che ero coinvolto anche io in vicende che riguardavano la massoneria deviata e raccontò queste cose con tranquillità, davanti alla mia fidanzata dell’epoca, mentre eravamo seduti in un bar. Tempo dopo, quando lo venne a sapere, e gli feci delle domande, negò di avermi mai dato quelle informazioni. Ma, lo ripeto, quello che importa non sono i nomi. Non è se Tizio o Caio sia coinvolto, e in che cosa sia coinvolto. Anche perché il singolo nome talvolta può essere il frutto di un errore, di un tentativo di screditare qualcuno. E francamente a me non è questo che fa paura. Ciò che fa paura è la vastità delle connivenze; il fatto che per delitti di questa gravità ed efferatezza ci possano essere coperture eccellenti e che la macchina della giustizia sia paralizzata. Il fatto che gli organi investigativi siano impreparati quando si affrontano vicende che sfiorano l’esoterismo e i servizi segreti deviati. Eppure la vicenda del Mostro di Firenze dovrebbe interessare tutti, non solo gli amanti dei gialli, dell’horror e dell’esoterismo. 18 vittime ufficiali che potevano essere nostri amici, nostri partner, o potevamo essere noi; decine di vittime nella mattanza dei testimoni e delle persone coinvolte; centinaia di famiglie inconsapevoli coinvolte nella vicenda, che escono distrutte, alcune perché vittime del mostro, altre perché sospettate di essere familiari di un mostro. Il vero mostro in questa vicenda, non è solo chi ha ucciso ma anche tutte le persone che hanno coperto la verità, che in virtù dei loro legami con la massoneria deviata o con pezzi deviati dello stato hanno coperto, colluso, e taciuto. Il vero mostro è la massoneria deviata, che come una piovra si è insinuata in tutti i punti vitali dello stato. Il mostro di Firenze è solo uno dei suoi tentacoli.

Bibliografia. Se molti in questi anni hanno cercato di nascondere la verità, è anche vero che, come dice un detto famoso, la verità non si può nascondere per sempre. Per chi vuole cercarla e capire segnaliamo due testi. Michele Giuttari, Il mostro anatomia di un indagine, BUR. Una cosa che mi colpisce leggendo il libro di Giuttari è che quando parla dei depistaggi e degli occultamenti vari non nomina mai la massoneria. Parla di un “partito avverso”. Anche se, leggendo, non è difficile intuire cosa sia questo partito avverso, non si capisce se la cosa sia voluta o casuale. Questi legami vengono descritti meglio nel libro: Luca Cardinalini, Pietro Licciardi, La strana morte del dottor Narducci, ed. Deriveapprodi. L'idea del titolo non è nostra, ma di Piero Licciardi; è lui che definisce il Mostro di Firenze “una piovra che si insinua nello Stato".

LEONARDO DOMINICI. GOGNA E MALAGIUSTIZIA.

Ora ho capito che la gogna e la malagiustizia sono pericolose. Intervista all'ex sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, di Andrea Marcenaro su “Panorama”. Mica era proprio una novità, se n’erano viste di peggio. Di molto peggio. Solo che il Corriere della sera, questa volta, aveva pubblicato la lettera in prima pagina. Leonardo Domenici, sindaco di Firenze fino al 2009 e al momento europarlamentare Pd, era stato cortese ma fermo. E il Corriere dell’8 novembre 2013 aveva scelto di titolarne la missiva con parole orfane per una volta di bambagia: «Quei pm che stritolano anche chi non è indagato». I pm che stritolano? Epperò... Un breve riassunto s’impone: 18 novembre 2008, scattano le perquisizioni della Procura di Firenze contro la giunta Domenici. Accusa di corruzione a due assessori: avrebbero favorito la società Fondiaria della famiglia Ligresti su una questione di terreni. Il sindaco è sottoposto ad attacco mediatico violentissimo, la procura diffonde ai giornali la voce di «incendi» incombenti. Spuntano le immancabili intercettazioni. Quelle con la voce di Domenici, spara forte L’Espresso, «testimoniano di un male che va oltre la corruzione addebitata ai due assessori». Si tratta di un verminaio, mette in guardia. L’8 dicembre, per protesta, il sindaco s’incatena sotto la sede del grande gruppo editoriale a Roma: non era nemmeno indagato. Per la stampa si trattò di un trascurabile dettaglio. Passarono più di cinque anni, di botte, di si dice, di onori inzaccherati. Marzo 2013, la sentenza: assoluzione piena di tutti gli imputati dall’accusa di corruzione. Le motivazioni della stessa diventeranno pubbliche nel novembre 2013: smontano l’accusa, la fanno a pezzi, la ridicolizzano. Vi siete inventati un processo che non c’era, cari pm, dicono i giudici.

««L’Espresso» le ha chiesto scusa, onorevole Domenici?»

«Anzi, ha protestato perché avevo protestato.»

«Come?»

«Rispondendo alla mia lettera con un’altra: di che si lamenta, questo Domenici? È forse colpa dell’Espresso se i processi sono troppo lunghi? Mica potevamo aspettare le sentenze, noi facevamo cronaca. O avremmo dovuto rinunciare al sacro diritto-dovere di informare?»

«E lei?»

«Ho cliccato questo tweet: «Giustamente, il Corriere della Sera ha dato all’Espresso quel diritto di replica che L’Espresso non ha concesso a me».»

«Anche i pm hanno reagito con veemenza. Leggo: «Le valutazioni del Tribunale di Firenze sono frutto di una lettura fuorviata e di un esame parziale, superficiale e atomistico del materiale probatorio e delle intercettazioni».

«Mica male, no? Da parte di chi predica costantemente che le sentenze vanno rispettate.»

«La sua risposta è stata: «Se si assiste a un attacco di sapore berlusconiano nei confronti della sentenza di un collegio di tre giudici, allora vuol dire che c’è il rischio di creare un problema alla credibilità del funzionamento della magistratura».»

«Esattamente.»

«Posso dirle che la risposta è deludente?»

«In che senso?»

«Nel senso che per voi, a sinistra, il riflesso è condizionato. L’attacco a una toga è sempre bene definirlo di «sapore berlusconiano».»

«Capisco quello che vuol dire.»

«Mai di sapore zagrebelskiano, o travagliesco, o rodotiano, come parrebbe piuttosto in questo caso, sempre berlusconiano.»

«Parlando di pm, un’attribuzione così mi sembrava più pungente.»

«Forse, ma troppo facile. Così più facile da suonare non vera. Non negherà che l’aggressione continua a Berlusconi mossa dalla magistratura abbia impedito che il dibattito sulla riforma della giustizia potesse prendere corpo».

«Non voglio dire se sia nato prima l’uovo o la gallina. Fatto sta che oggi, per quanto mi riguarda, la questione è maturata.»

«Cioè?»

«Bisogna affrontare una seria riforma della giustizia e separare le carriere dei magistrati.»

«Il suo schieramento la pensa come lei?»

«Credo di essere ancora minoranza, il muro contro muro tra berlusconiani e antiberlusconiani è ancora in piedi. Ma non c’è dubbio che il ridimensionamento di Berlusconi renda più agevole una chance di confronto riformatore. E un punto centrale è questo: il contenimento del ruolo del pm.»

«Ha considerato che, dopo vent’anni di venerazione dei pm, il popolo di sinistra è egemonizzato non dal Pd, ma dalle posizioni dei Travaglio, dei Santoro e dei Lerner?»

«Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che noi, e quando dico noi intendo anch’io, abbiamo commesso grandi errori su questo fronte. Vent’anni fa non pensavo le cose che penso ora. Ma credo che a sinistra si possa discutere meglio adesso che qualche anno addietro. Certo, azzarderei se dicessi che le cose che oggi io penso siano patrimonio comune al popolo di sinistra. Abbiamo delegato molto la magistratura, sul principio di legalità. E la politica ha rinunciato a troppo. Continuare su questa strada sarebbe la fine della politica.»

«Basta col controllo preventivo di legalità affidato alle procure?»

«Basta. E basta con l’esorbitanza dei pm.»

«Lei ha molto patito per il mai abbastanza denunciato circuito mediatico-giudiziario.»

«La questione è cruciale. E non ho risposte facili. Se non questa: la tutela di chi deve fare informazione deve essere affiancata da nuovi strumenti di tutela e di garanzia dell’informato.»

«Ma voi siete bloccati.»

«Cosa intende?»

«Sul vostro elettorato influisce più «La Repubblica» del segretario del partito.»

«Dieci anni fa le avrei detto di sì, oggi, ni.»

«Per parlare di alcune questioni, a sinistra, la precondizione è una: che non ci sia più Berlusconi.»

«Non esattamente. Certo, la situazione sarebbe facilitata. La magmaticità del Pd, se le correnti non s’imporranno su tutto, potrebbe favorire una discussione più libera.»

«Teme che qualcuno possa farle pagare le sue nuove posizioni?»

«Alcuni amici mi hanno fatto balenare quest’eventualità, non voglio nemmeno pensarci.»

«C’è una frase magica che a sinistra potreste pronunciare.»

«Quale?»

«Berlusconi o non Berlusconi, i problemi veri vanno risolti.»

«Sono d’accordo. Personalmente ci sto provando, e non da solo.»

«Non la pronuncerete mai.»

«Chissà.»

«Lo volete fuori dai piedi.»

«Un po’ fuori magari sì.»

PIOVONO SCANDALI.

Firenze contro il resto del mondo, scrive  di Giuliano Da Empoli su “Il Sole 42ore”. Ci sono due tipi di provincialismo. Il primo è quello classico: il ripiegamento ombelicale di chi non conosce il mondo, e se ne interessa fino a un certo punto. È una patologia ancora molto diffusa, ma in netto declino, con l'easy-jet set che saltella da una parte all'altra del pianeta al costo di una cena al ristorante e i media elettronici che fanno rimbalzare le immagini del mondo fin dentro le nostre tasche debordanti di tablet e di cellulari. C'è chi si arrabatta a spiegare che, in realtà, la sovraesposizione alle cose del mondo genera assuefazione e indifferenza, ma la tendenza di fondo è sotto gli occhi di tutti: il provincialismo geografico è in ritirata. Quello che è in crescita, invece, è un altro genere di provincialismo. T.S. Eliot lo chiamava il provincialismo storico. È la mentalità chiusa di chi vive solo nel presente ignorando il passato. Rispetto ai nostri padri e ai nostri nonni siamo assai più inseriti nella dimensione mondiale. Al contrario di loro, però, siamo dei provinciali storici. Non ricordiamo più ciò che ci ha preceduto e tendiamo ad accogliere ogni cosa come se fosse una novità mai vista prima sulla faccia del pianeta. Più di ogni altro luogo a me noto, Firenze è l'epicentro di questi smottamenti: la città collocata sulla faglia tettonica che separa, sul piano geografico, la provincia dal mondo e, su quello temporale, il presente dalla storia. Provo a spiegarmi meglio. Da una parte, Firenze è la più piccola città globale del mondo: i milioni di turisti che la attraversano ogni anno, le decine di università americane e internazionali che la abitano, la più grande azienda cittadina nelle mani di General Electric, la moda, il vino, eccetera. Dall'altra, Firenze è pur sempre una città provinciale di 370mila abitanti, con i suoi notabili à la Balzac, le chiacchiere da bar sport e le beghe da Consiglio comunale. Al contrario di Venezia, che ha accettato di immolarsi sull'altare del turismo globale, in cambio di una rendita certa per i suoi gondolieri, Firenze si ostina a restare viva: una città vera che mette i suoi abitanti al primo posto, anche a costo di tirare qualche ceffone alla sterminata comunità dei fan globali. Si perpetua così una tensione che attraversa la vita della città da oltre un secolo. Da quando i grandi dibattiti sul riassetto urbanistico di Firenze si svolgevano sul Times di Londra, oltre che sul La Nazione. Ancor oggi è così: una polemica sulla ripavimentazione di una piazza o la qualità di un restauro può appassionare per settimane i commentatori del Guardian e della Zeit, ma poi le decisioni le prendono quattro consiglieri comunali con l'occhio alle preferenze degli ascoltatori di Lady Radio. E forse è giusto che sia così. La vera partita di Firenze, in ogni caso, si gioca sull'altra linea di frattura: quella del provincialismo storico. Ed è una partita che non è cruciale solo per la città, ma per l'Italia – e forse per l'Europa – nel suo insieme. Qual è il nostro rapporto con il glorioso passato che abbiamo alle spalle? Dobbiamo rassegnarci a essere i custodi di un museo che gli altri, quelli che vivono nei luoghi nei quali si produce davvero – le Silicon Valley e le Shanghai del mondo – verranno a visitare di tanto in tanto per trascorrere qualche pomeriggio di sole al riparo dal tumulto dell'oggi? Oppure dobbiamo far nostra l'annosa polemica dei futuristi che ci invitavano a rinunciare alla pastasciutta – «agli italiani non giova», dicevano – e a radere al suolo i monumenti del passato per sostituirli con autostrade sfavillanti? Nel Discorso di Firenze, Giovanni Papini scriveva già: «Perché Firenze smetta di essere un museo a uso dei forestieri e diventi un tumultuoso blocco d'ingegni d'avanguardia è necessario che i fiorentini rinneghino loro stessi. È necessario calpestare quel che abbiamo esaltato; ridere degli elogi dei falsi amici oltremontani e rinunciare a quella che ci sembra una gloriosa eredità e invece è il peso morto che ci rovina l'anima». È il sogno della tabula rasa, l'invidia un po' ridicola che proviamo nei confronti dei luoghi meno oppressi dalla storia e meno carichi di testimonianze della nostra irrilevanza. Eppure, la strada non può essere quella di girare le spalle al passato. Ha ragione, invece, il filosofo Boris Groys quando ricorda che l'unico modo di produrre qualcosa di realmente nuovo è di confrontarlo con il museo. Solo la memoria del passato consente di cogliere la reale portata del cambiamento. E in questo confronto produttivo con l'eredità della storia – che non genera souvenir di plastica Made in China, ma innovazione – sta il sentiero stretto che siamo chiamati a percorrere. Diventare il luogo nel quale i produttori, gli artisti e i creativi vengono a creare qualcosa di autenticamente nuovo, confrontandosi con il passato: non un parco a tema, né un asettico laboratorio di trend e di mode, ma l'incubatore di un vero cambiamento, nell'arte, nella cultura, nel modo di vivere la città e l'ambiente. Sia pure con qualche errore e contraddizione, Firenze ci sta provando. Ecco perché vale la pena tenerla d'occhio.

L'inchiesta che fa tremare Firenze. Lo scandalo escort si allarga, scrive Maria Vittoria Giannotti su “L’Unità”. Dalla denuncia della furibonda signora, presa in carico dagli investigatori della polizia postale, è nata l’inchiesta che in questi giorni sta facendo tremare Firenze. Perché quello che gli inquirenti hanno scoperto, in due anni di intercettazioni e appostamenti, è un colossale giro di escort. Tra le protagoniste di questa storia ci sono bellissime ragazze straniere, pronte a concedere i loro favori in cambio di «regalini», ma figurano anche insospettabili e avvenenti fiorentine, altrettanto disponibili a partecipare a incontri a luci rosse e altrettanto desiderose di arrotondare. Quelli che ancora mancano all’appello, però, sono i nomi dei clienti. Di certo si sa solo che nelle camere dei due alberghi in riva all’Arno finiti nel mirino della Procura e nelle piscine di ville di campagna, teatro di festini a base di sesso, sfilavano professionisti noti e meno noti, ma anche giornalisti e imprenditori, avvocati e politici locali. Le pagine degli atti di polizia giudiziaria dell’inchiesta, che conta 14 indagati per favoreggiamento della prostituzione, brulicano di omissis. E sono proprio quegli spazi bianchi a scatenare la fantasia cittadina, dando vita a un quotidiano aggiornamento di telefonate e pettegolezzi. C’è chi giura che tra i frequentatori più assidui delle alcove ci fossero soprattutto esponenti del centrodestra. C’è chi invece è convinto che, presto, spunterà anche il nome di qualcuno del centrosinistra. Ma per il momento sono solo chiacchiere da bar. Per ora, l’unico politico sfiorato, anche se indirettamente, dalle indagini è Massimo Mattei, l’assessore comunale Pd della giunta Renzi, costretto qualche giorno fa a ritirarsi dalla scena politica cittadina per un problema di salute.

La 42enne Adriana, ex modella, una delle escort al centro dell’inchiesta, - la più gettonata per inciso - per circa un anno ha vissuto gratis ed esercitato la «professione» nella casa di un consorzio di cooperative sociali che si occupa di assistenza agli anziani: dal 2007 al 2012 il consorzio (Borro) era stato presieduto dall’ex assessore. La donna aveva lavorato negli anni precedenti per il consorzio prima di rientrare in patria. Quando poi è tornata a Firenze, in un periodo di difficoltà economica, ha chiesto aiuto agli ex datori di lavoro ottenendo l'assegnazione di un alloggio gratuito. «Non sapevamo che lavoro facesse» spiegano dal Borro. «Nessuno di noi poteva neppur sospettare che lei potesse fare un altro tipo di lavoro; diversamente, pur senza dare alcun giudizio morale, l'uso dell'appartamento le sarebbe stato negato» scrive in una lettera, l'ex assessore del Comune di Firenze, Massimo Mattei, che aggiunge: «La ragazza la conoscevo bene. Era mia amica da circa dieci anni. Di detta amicizia erano a conoscenza tutti, collaboratori, amici e familiari cui, in varie occasioni, era stata presentata». Nelle carte c'è anche un’intercettazione, in cui Adriana racconta a un amico di aver «consumato il rapporto sessuale in una stanza conferenze (probabilmente del Comune)» dove sono «stati sorpresi da una donna delle pulizie». Insieme a lei, un funzionario comunale dell’ufficio mobilità. Ma quello sessuale non è l’unico filone dell’inchiesta. Gli investigatori stanno lavorando anche su un giro di evasione fiscale ai danni del Comune di Firenze, realizzato da hotel che non versavano la tassa di soggiorno. Nelle intercettazioni, alcuni albergatori indagati, spiegano il sistema escogitato: registrare bambini al posto di ospiti adulti.

Politici ed escort, da Firenze alla Sicilia: ecco la vera P2 della Casta, scrive “Libero Quotidiano”. Politici e prostitute. Eccola, la vera P2 italiana. In due giorni, esplodono due scandali analoghi in città lontane centinaia di chilometri. A Firenze, il sexgate che coinvolge un assessore del sindaco Matteo Renzi e una escort da lui assunta (con tanto di alloggio garantito). In Sicilia, a Palermo, l'operazione della Guardia di Finanza che ha portato all'arresto di 17 persone tra ex assessori della Regione e manager che pilotavano appalti pubblici e pagavano con fondi destinati ai giovani disoccupati dell'isola - oltre al danno, la beffa - servizi e beni decisamente "extra" per gli amici politici: viaggi e piacevoli intrattenimenti con escort. Potere e sesso, malattia per la verità vecchiotta della Casta italica. Tra festini e amorazzi vari, ci sono passati in tanti e di ogni colore. Negli ultimi mesi, i pm si sono concentrati, per esempio, sulle spese allegre di varie regioni, nel pieno della bufera dei vari Fiorito-gate e Regionopoli. Prima ancora, però, a far rumore fu il caso dell'ex governatore della Regione Lazio, il democratico Piero Marrazzo, costretto a dimettersi nel 2009 perché ricattato da alcuni carabinieri che l'avevano colto nell'appartamento del trans Natalie in via Gradoli, con tanto di video segreto, dove il governatore era solito recarsi con l'auto blu di ordinanza. Dettaglio questo "irrilevante" secondo la Cassazione, secondo cui Marrazzo è stato solo una vittima di ricatto. Prima di lui, nel luglio 2007, il deputato Udc Cosimo Mele fu protagonista di una nottata a base di alcol e droga con due prostitute n una suite dell'Hotel Flora di via Veneto a Roma. Una delle due ragazze fu ricoverata per un malore, l'onorevole si dimise. Niente paura: il 10 giugno scorso è stato eletto sindaco nella sua Carovigno.  Nel calderone ci finisce a furor di magistratura anche Silvio Berlusconi, che tra Bari e Arcore deve fronteggiare almeno due grandi inchieste sulle sue frequentazioni (senza contare i procedimenti correlati, come il Ruby Bis a Milano). Piccolo particolare, in questo caso il processo all'eventuale vizio è diventato ben presto anche processo politico. Peggio è andata a Dominique Strauss-Kahn, il possibile candidato socialista all'Eliseo, in Francia, azzoppato da uno scandalo sessuale a New York con tanto di processo-gogna risoltosi in un nulla di fatto. Ma nel frattempo il treno per la presidenza era passato da un pezzo.

Il sexy gate fiorentino fa tremare la politica, scrive Chiara Giannini su “Libero Quotidiano”. Quattordici  indagati per favoreggiamento della prostituzione, 142 escort segnalate, oltre 400 clienti che figurano nei fascicoli che la procura fiorentina ha aperto. E il bello è che tra i frequentatori più assidui delle prostitute vi sarebbero nomi eccellenti, anche politici locali, funzionari comunali, gioiellieri, osservatori sportivi, ristoratori, titolari di palestre. Ad aggiungersi allo scandalo nello scandalo ora i contatti che una escort avrebbe avuto con l’ex assessore della giunta Renzi, Massimo Mattei (Pd), dimessosi nei giorni scorsi «per motivi di salute». Da quanto si apprende, Adriana, la rumena di 42 anni definita “l’Ape Regina”, la preferita tra le escort reperibili sul sito escortforum.it, nel 2011 ha abitato per diversi mesi in un appartamento in zona Gavinana, nelle vicinanze di viale Europa, lo stesso in cui, tempo prima, avrebbe vissuto proprio l’assessore Mattei, che lo avrebbe preso per allontanarsi dal traffico cittadino, essendo in zona tranquilla. L’abitazione è infatti a disposizione della cooperativa sociale “Il Borro”, che si occupa di assistenza domiciliare agli anziani (e il cui slogan, ironia della sorte, è «Amore per le persone») e in cui Adriana, nel periodo compreso tra il 2001 e il 2009, periodo in cui Mattei era presidente della coop (e la conosceva), aveva lavorato. Mattei in una lettera diffusa ieri attraverso il suo legale, precisa: «Era mia amica da dieci anni, era dipendente della cooperativa e di altre mie aziende in varie riprese e in vari periodi. Ha lavorato con profitto e responsabilità. Risulteranno certamente contatti telefonici, eravamo amici, tutto qua. Di detta amicizia erano a conoscenza tutti».  Cosa certa è che l’Ape Regina riceveva i clienti proprio in quell’appartamento. «Non voglio giudicare nessuno - spiega il consigliere regionale del Pdl Giovanni Donzelli - perché hanno sempre accusato Berlusconi per il Ruby gate e ho sempre detto che nel privato ognuno fa ciò che vuole, ma ciò che sta accadendo a Firenze è cosa grossa, non pensavamo si arrivasse a questi livelli».  Pensare che l’inchiesta è  partita seguendo la segnalazione (come si legge nella relazione di inizio indagine) di una moglie di un imprenditore fiorentino, gelosa, che si è sfogata in questura per il viavai del marito all’hotel Mediterraneo. Gli atti delle procura sono chiari. Tra gli indagati vi sono i fratelli Marco e Simone Taddei, proprietari del Mediterraneo e di Villa Fiesole, i due hotel in questione, Franco Bellini e Matteo Balatresi, che avrebbero procacciato i clienti alle escort, Lorenzo Mazzetti, Paolo Fantacci, Massimo Merciai, Boris Baldini, Andrea Cioni, Alessandro Ferrari, tutti accusati sia di favoreggiamento della prostituzione che di procacciare i clienti e/o concordare i prezzi delle prestazioni e tutti coinvolti a vario titolo nell’inchiesta e, in qualche modo, legati ai due hotel o ai siti incriminati.  Il contatto con le prostitute avveniva attraverso i siti escortforum.it (o .net o.pw). e escortplius.com ai quali fanno riferimento prostitute indipendenti (il primo) o che passano attraverso le agenzie di mediazione www.your-dreamed-girls.com  e www.russian-sexy.com   (o www.Liza-escort.Spb.ru). La proprietaria del server su cui era allocato il sito www.escortforum.it  è la Phoenix informatica con sede a Gavardo (Brescia) di cui è amministratore uno degli indagati, Alessandro Ferrari. Il monitoraggio del sito da parte della polizia giudiziaria ha fatto rilevare tra le escort la presenza di una ragazza di 17 anni, per cui, adesso, si indaga anche per sfruttamento della prostituzione minorile. E da fonti certe si apprende che l’inchiesta è destinata ad allargarsi. Le escort, a quanto pare, d’estate operavano anche in Versilia, in alcune ville. Seguivano i clienti in vacanza, verso Forte dei Marmi.

Assessori, escort e coop: i segreti hard di Firenze. "Non stupitevi, qui così fan tutti". Pettegolezzi e intercettazioni, viaggio nella città investita dallo scandalo. Una studentessa racconta: "Te lo insegnano quando arrivi da matricola, se ti servono soldi, un modo è quello. Poi una si regola come crede", scrive Concita De Gregorio su “La Repubblica”. Non c’è chi non conosca uno che conosce uno che gli ha detto che. Fra Borgo Allegri e via delle Belle donne non c’è chi non sappia di sicuro che anche la Maria Grazia, sì quella del negozio di intimo, te l’avevo detto che l’altro giorno è entrata da Gucci e si è comprata tre borse senza nemmeno chiedere quant’è? Me l'ha raccontato la commessa che è un’amica di mia sorella. Non c’è uno che non sia sicurissimo che da Franchino, l’orologiaio bianco di capelli pettinato da paggio attempato, non sia passata anche la Mara, che è la segretaria del consigliere comunale tale e certo che lui lo sapeva, eccome se lo sapeva, hai voglia. Lo sapeva per esperienza diretta, diciamo, che a certe ore si chiudono le porte delle stanze, in Comune, e a volte non si chiudono nemmeno e non mi far dire altro che qui si va in galera. «Io comunque non lo capisco cosa volete sapere, cosa cercate, se vi scandalizzate per davvero o fate finta», dice Cristiana T. che prepara la tesi in Lettere su Niccolò Soldanieri e vive in via Guelfa, a due passi dalla Facoltà. «Lo sappiamo benissimo tutti, te lo insegnano appena arrivi da matricola, che se c’è una difficoltà a pagare l’affitto o se ti servono i soldi per un viaggio un modo è quello, e si sa da chi andare a bussare. Poi una si regola come crede. Una mia compagna di corso l’hanno interrogata per via di questa storia. Mi ha detto guarda Cristiana io non sono una puttana e lo sai. L’avrò fatto tre volte e quello che mi ha fatto schifo non è stato quella mezz’ora ma sentirli parlare al telefono dopo, con le mogli o con gli amici, ci credi?». Le mogli, gli amici. Sentirli parlare. C’è una moglie offesa, al principio di questa storia che arroventa Firenze alle porte di luglio. Ma non è lei la protagonista, e non è nemmeno Adriana “la regina”, Poljna la bambina, non sono la barista l’infermiera l’avvocato e l’assessore, Franchino l’orefice che vende Rolex e mi paghi quando puoi, i fratelli tenutari dell’albergo di lusso dove alla reception ti prendono il documento ma non ti registrano, lo sa tutta la città. Protagonista è Firenze, dirlo sarebbe stucchevole se non fosse letteralmente, materialmente così. La città intera recita la parte principale della “Bella vita”, il titolo in fondo triste che gli inquirenti hanno dato al fascicolo di quattromila pagine dopo mesi di intercettazioni e di indagini, di interrogatori, di appostamenti. La “bella vita” che si dipana dal Lungarno del Tempio all’Impruneta, che passa la mattina da Palazzo Vecchio il pomeriggio sonnecchia al bar dei Viali e si prepara, nelle botteghe del centro, per l’aperitivo a piazzale Michelangelo. Quando le macchine dotate di permesso per la zona blu passano a prendere i clienti e li portano dalle ragazze del catalogo Escortforum, reclutate con un sms e assegnate con un messaggino di ritorno: alla tale ora, nel tal posto, Miriam ti aspetta. Nella stanza con le losanghe verdi e azzurre dell’hotel Mediterraneo, ascensore laterale, quello in fondo a sinistra, quello con la moquette macchiata d’olio che come fa un quattro stelle ad avere un ascensore così, e la donna delle pulizie che la domenica alle otto di mattina passa l’aspirapolvere in corridoio ed entra in stanza senza bussare. «Oh, scusi. Non pensavo». Qui di solito alle otto di mattina i clienti in stanza non ci sono. Poi i comprimari, certo. Il professore universitario che ti accoglie in biblioteca e ti racconta che Nicolò Machiavelli aveva la Riccia, favorita fra le cortigiane, e che Filippo Lippi era un frate e aveva avuto Filippino da una monaca per cui “siamo nel solco della tradizione” va così da che mondo è mondo, una volta le delazioni si mettevano anonime nei “tamburi”, cassette di pizzini a tema quasi sempre sessuale, nel 500 c’erano le tamburazioni oggi la moglie tradita fa la denuncia in procura. Dov’è la differenza? Ai tempi dell’indagine sul Mostro i faldoni erano pieni di testimonianze sui centinaia di guardoni appostati ogni sera alle Cascine, e le coppie che andavano lì a fare l’amore certo che lo sapevano, andavano lì a farsi guardare — assicura il prof con grande scioltezza sul finale, di certo consuetudine accademica. E poi certo che all’Adriana gli avevano dato una casa, povera ragazza, ci mancherebbe altro che alla cortigiana di palazzo non venisse assegnato un alloggio consono. L’ospitalità è una virtù. Ora il problema è l’insaputa, perché anche Massimo Mattei, assessore del Pd alla mobi-lità, giunta Renzi, non sapeva — garantisce — che la sua amica Adriana (“una mia amica da anni”), romena, attualmente disoccupata, in anni remoti dipendente della cooperativa il Borro di cui l’assessore è stato negli stessi anni presidente, non sapeva insomma che Adriana facesse “quel tipo di mestiere”. Lo ignorava, non era un’amicizia abbastanza solida per questo tipo di confidenze perciò le ha assegnato un alloggio a titolo gratuito come si fa con le persone in difficoltà, non tutte certo che altrimenti sai che fila ci sarebbe al Borro ma con alcune sì, e Adriana era fra queste. Poi è stato colto completamente di sorpresa — dice — quando un dipendente comunale suo collaboratore è stato trovato dalla donna delle pulizie in un ufficio pubblico proprio con Adriana, e non facevano fotocopie. Può succedere, ci si distrae. Uno può non accorgersi. Mattei si è dimesso, comunque, per motivi — reali — di salute. Più tranquille adesso sua moglie e sua figlia, leggerissimamente più tranquillo il sindaco nonostante il leggendario sarcasmo fiorentino di quelli che «a Renzi gli mancavano solo Frisullo e una decina di escort per fare Berlusconi». Non dicono escort, in effetti. A Firenze non si dice così. «Non mi fa schifo cosa fanno ma come parlano, cosa dicono», raccontava la studentessa. Come si nominano le cose. «Quando ci si vede si fa a scambio di figurine», «a quella gli piace così tanto che ci dovrebbe pagare lei a noi», «ho la nausea delle puttane, ho l’albergo pieno». Il fidanzato dell’infermiera («fatti pagare meglio »), l’avvocato che non ha tempo («una cosa in macchina, mezz’ora, con la bimba di ieri »), la “bimba” che mezz’ora ci va perché «mi devo comprare le catene da neve». A Firenze nevica poco, sarà stato per andare a Cortina. Come parlano al telefono i fratelli Taddei, titolari dell’hotel Mediterraneo terminale fiorentino del sito slovacco Escortforum. Cosa dice l’orologiaio Franchino, per gli amici al telefono «il capo puttaniere», alle ragazze quando le chiama. Come le tratta, come le recluta. Con quali parole e con che tono spiega alla barista, alla benzinaia, alla ragazza dell’uscio accanto cosa deve fare e come. Con una lingua dove la passera, che del resto in città dà il nome a una piazza antica sede di bordelli, è il termine più alto: pura poesia. Dalle migliaia di pagine di intercettazioni esce l’affresco di una città sotterranea e invisibile alle fiumane di turisti che la percorrono con le bandiere del capocarovana levate, una città postribolo amorale e bacchettona insieme, scandalizzata con la mano sulla bocca a fare oh, nel fresco delle corti, e impegnata al piano di sopra a cambiare lenzuola per il prossimo avventore. In vendita, alla fine. Cinquecento euro la cena, la stanza con ragazza e la macchina per andare all’Impruneta, più o meno quanto una gita di due giorni con visita agli Uffizi. «Ma poi che c’entrano la bellezza, la città d’arte, Michelangelo — dice un procuratore di calcio anche lui sentito nell’inchiesta — tutti lì a riempirsi la bocca con Boccaccio, bravi. Fate pure filosofia. Ma io giro il mondo e una cosa la so: non è Firenze, guardatevi intorno a casa vostra. È la regola. Dove vai vai, è così».

ONESTA’ FISCALE.

Firenze, arrestato per concussione il direttore dell'Agenzia delle Entrate. Nunzio Garagozzo è finito in carcere insieme al commercialista Silvio Mencucci dalla Guardia di Finanza, scrive Franca Selvatici su “Repubblica”. Il direttore provinciale della Agenzia delle Entrate di Firenze Nunzio Garagozzo e il commercialista Silvio Mencucci sono stati arrestati e portati in carcere dalla Guardia di Finanza. Sono accusati di due episodi di concussione e uno di induzione alla corruzione. L'inchiesta è coordinata dal pm Paolo Barlucchi che ha chiesto e ottenuto le due misure cautelari in carcere dal gip Tommaso Picazio. Secondo le accuse, il commercialista era l'intermediario del direttore provinciale della Agenzia delle Entrate e per suo conto prendeva contatto con i professionisti di alcuni contribuenti, chiedendo soldi per arrivare con gli atti di adesione al di sotto della soglia penale. Le indagini, condotte dal Gruppo tutela spesa pubblica del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sono partite in novembre e si fondano anche su numerose intercettazioni. Secondo quanto risulta, gli episodi sotto accusa si collocano nell'ambito delle procedure di adesione, che sono diffusissime, perché in quasi ogni accertamento fiscale il contribuente presenta istanza di adesione, cercando di limitare i danni. Il dottor Mencucci è stato anni fa dipendente della Agenzia delle Entrate e sembra che in una conversazione intercettata si vantasse di essere riuscito, anni fa, a sfuggire agli arresti nell'ambito di un'inchiesta coordinata dal pm Michele Polvani, scomparso prematuramente, che mandò in galera una ventina di persone. Secondo le accuse i soldi in pratica venivano versati per limitare le sanzioni e i rischi penali a chi veniva contestata un'evasione fiscale. In un'occasione la cifra chiesta a un imprenditore sarebbe stata di 10 mila euro. In un'altra occasione i soldi sarebbero serviti a far definire al di sotto della soglia di rilevanza penale, con atto di adesione, l'imposta evasa grazie a una dichiarazione infedele. In un'altra occasione la richiesta sarebbe caduta nel vuoto, mentre un terzo episodio riguarderebbe una richiesta di denaro per abbattere la sanzione. Agli atti dell'indagine ci sono intercettazioni sia ambientali sia telefoniche. In una di queste, Mencucci si vanterebbe di essere sfuggito all'arresto, in passato, durante un'inchiesta che lo sfiorò quando lavorava per l'agenzia delle entrate. Nunzio Garagozzo in serata "è stato immediatamente sospeso dal servizio ed è stato avviato il relativo procedimento disciplinare che potrebbe concludersi con il licenziamento". Lo rende noto la direzione regionale della Toscana dell'Agenzia delle Entrate, che "ha offerto la massima collaborazione all'Autorità giudiziaria. L'Amministrazione ha già assunto tutti i provvedimenti contemplati dalla disciplina legale e contrattuale per tutelare se stessa e la dignità dei propri dipendenti che operano onestamente e scrupolosamente". "In questo momento - commenta il direttore regionale della Toscana Pierluigi Merletti - la priorità è accertare la verità dei fatti e tutelare in tal modo la serenità dei nostri funzionari che operano ogni giorno con onestà e impegno. L'Agenzia delle Entrate condanna con fermezza qualsiasi comportamento disonesto e da anni orienta i propri sistemi di controllo interno nell'individuazione e prevenzione di ogni possibile abuso”.

MAFIOPOLI.

Quella lettera tenuta segreta. In una lettera del 2003 finora segreta l'atto d'accusa del pm Chelazzi. Sul tg5 del 18 ottobre 2012 si parla di Gabriele Chelazzi. Dieci anni fa il PM di Firenze Gabriele Chelazzi aveva scoperto tutto su sui cedimenti e ricatti della mafia ai tempi del governo di centro sinistra guidato da Ciampi e delle bombe di Cosa nostra del 1992/1993, le mosse del ministro Conso, le manovre del Presidente Scalfaro. Poche ore prima di morire stroncato da un infarto a 59 anni nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2003 Chelazzi scrisse una lettera finora tenuta nascosta.

Un atto di accusa gravissimo. «Da oltre 2 anni - denuncia Chelazzi - mi trovo a lavorare da solo su una vicenda che ha a che fare con “qualcosa”come sette fatti di strage compiuti dalla più pericolosa organizzazione criminale europea.»

Giornalista: «com’è spuntata fuori questa lettera?»

On. Amedeo Laboccetta, membro PDL Commissione Antimafia: «Mah, nelle scorse settimane ho scritto una lettera al Procuratore capo di Firenze Quattrocchi che mi ha informato che questo documento esisteva ma che era agli atti già della Commissione antimafia, questa lettera esiste ma è segreta. Nella lettera indirizzata all’allora Procuratore capo di Firenze Iannucci il Pm accusa i magistrati assegnatari insieme a lui del procedimento di usare il loro ruolo solo per sbirciare a piacimento negli atti, insomma per controllarlo. Ora si chiede che intervenga il Presidente della commissione antimafia Pisanu. Invito Pisanu a a darne pubblicità, non può rimanere segreta, è una denuncia, anche perché è scritta da un uomo addolorato, amareggiato. Due giorni prima di scrivere la lettera e di morire, Chelazzi apprese che era stata organizzata una riunione di magistrati per valutare il suo lavoro, l’ultimo atto per delegittimarlo. Io credo che quest’uomo sia morto per il dolore. Gli italiani devono sapere il lavoro che ha fatto Chelazzi, che è stato un grande magistrato.»

«Il Vice Procuratore Nazionale Antimafia Gabriele Chelazzi poco prima di morire scrisse una lettera lo abbiamo sempre saputo tutti - dice Giovanna Maggiani Chelli, Presidente associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili - Negli anni spesso abbiamo chiesto il contenuto della lettera, oggi sappiamo che è stata segretata e che è stata conservata nei cassetti della Commissione Antimafia, lo ha detto il TG5 delle 20 del 18 ottobre 2012. Perché è stata secretata? Da chi? Gabriele Chelazzi lavorava alle indagini relative ai passaggi da 41 a carcere normale prima di morire, questo non è un segreto, lo dicono chiaramente gli atti archiviati nel 2002 relativi al fascicolo così detto “Inzerillo”, dove stanno verbali come quello del Prof. Conso che ebbe a dire al Magistrato Chelazzi, “Guardi che io sono per il 41 bis”. Siamo sconcertati davanti ai “segreti”, davanti alla classifica segreto, non ci sono segreti sulle stragi si dice, da anni ce lo ripetono. Però, se fra “segreto di stato” e segretare un documento c’è differenza, infatti il “segreto di Stato” è posto sugli argomenti e sull’argomento stragi non c’è, segretare una lettera come quella di Chelazzi non vuol forse dire mettere il segreto sulle stragi del 1993? Perché se Chelazzi ha scritto una lettera tanto drammatica come il TG5 ieri sera ci ha lasciato intravvedere, una ragione ci deve essere stata, e in quel momento Gabriele Chelazzi indagava sulla trattativa Stato-mafia. Ne abbiamo il diritto: vogliamo a questo punto conoscere il contenuto della lettera del magistrato Gabriele Chelazzi finita in Commissione Antimafia, abbiamo sempre detestato le Commissioni per le stragi del 1993 e non a torto pare. Siamo i parenti dei morti di via dei Georgofili, riteniamo vergognoso che il contenuto della lettera di Gabriele Chelazzi non sia a nostra conoscenza, ma di persone delle quali non abbiamo nessuna fiducia, visto che conservano nei cassetti documenti “secretati” che potrebbero far più luce sulla morte dei nostri figli. Quanto meno capire leggendo quella lettera, le probabili divergenze in Procura a Firenze, mentre noi aspettavamo verità e giustizia e non ci sentivamo affatto di aver dato “un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi” come leggiamo stamani nei quotidiani; frase quella scritta dal giudice Chelazzi che ci fa riflettere e pensare che forse eravamo nei suoi pensieri nel momento più duro della sua vita.»

Stragi del '93, così fermarono l'anti-Ingroia, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La solitudine del magistrato. Raccontata in una lettera drammatica scritta poche ore prima di morire. Gabriele Chelazzi, magistrato dell'antimafia fiorentina distaccato sul fronte delle stragi, si sente abbandonato dai colleghi e così il 16 aprile 2003 racconta tutta la sua amarezza al capo dell'ufficio Ubaldo Nannucci. Quella notte viene stroncato da un infarto. Ora quel documento, ritrovato dall'onorevole Amedeo Laboccetta, diventa pubblico. Come un testamento che costringe a riflettere; dietro le quinte di indagini sotto i riflettori dei media si consumano incomprensioni, scontri, l'emarginazione di professionalità impegnate sulla prima linea della lotta alla criminalità.«Come le ho segnalato - spiega Chelazzi - è con estremo disagio che da circa due anni mi trovo a lavorare da solo su una vicenda come quella in questione»: una vicenda, ricorda il magistrato, che «ha a che fare con sette stragi».Le bombe, terrificanti, degli Uffizi, di Milano, e di Roma, le bombe del '93, le bombe piazzate dai mafiosi per costringere lo Stato al dialogo, a una sorta di patto scellerato. Dieci morti, decine di feriti, un danno incalcolabile al nostro patrimonio artistico. Per quelle carneficine viene processato e condannato all'ergastolo un gruppo di mafiosi, a cominciare da Totò Riina. Il capo di Cosa nostra ha fatto avere alle istituzioni il famoso papello con tutta una serie di richieste. Chelazzi deve perlustrare proprio quel terreno scivolosissimo, la cosiddetta zona grigia, a cavallo delle istituzioni. Dà la caccia ai mandanti, sempre evocati e mai messi a fuoco. Una ricerca in qualche modo decisiva per la tenuta della democrazia. Ma il pm scopre di «lavorare da solo (con tutti i rischi del caso, da quello di sbagliare a quello di esporre la pelle a eventualità non propriamente gratificanti)».Insomma, Chelazzi si ritrova senza i supporti necessari, anzi senza nemmeno l'aiuto minimo da parte dei colleghi. E' deluso e disilluso. E descrive il suo stato d'animo a Nannucci: «A proposito dello scetticismo non nego che ripetutamente mi è parso di cogliervi addirittura un retropensiero secondo il quale il mio impegno in questo lavoro al contempo dipenderebbe da un mio capriccioso accanimento e da un mandato altrettanto capriccioso conferitomi dalle ambizioni di terzi». Non è così, perché Chelazzi ha imboccato la pista della trattativa fra Stato e mafia. Ma ci sono indagini che non catturano l'opinione pubblica, forse perché si muovono su sentieri non ortodossi: Chelazzi guarda a destra - a Dell'Utri, a Berlusconi, a tutta la presunta misteriologia legata alla nascita della Fininvest - ma nello stesso tempo apre altri fronti, a 360 gradi, senza indossare il paraocchi del conformismo giudiziario e intuisce manovre insospettabili che poi porteranno verso i «padri della patri»: i Conso, i Mancino e i tecnici del governo Ciampi. In qualche modo, e senza volerne fare a posteriori una bandiera, Chelazzi è alternativo a Ingroia. Il 16 aprile la lettera è pronta. Chelazzi non fa nemmeno in tempo a spedirla perché muore la notte successiva a 59 anni. Il testo viene ritrovato sul suo tavolo e consegnato a Nannucci nei giorni seguenti. È un documento storico che fotografa quel che può accadere in un ufficio importante. E come un'indagine delicatissima possa finire sul binario morto dell'indifferenza. Ora quelle carte riemergono grazie all'impegno di Laboccetta che le ha cercate prima alla procura di Firenze poi alla Commissione antimafia. «Lo hanno abbandonato al suo destino - racconta Laboccetta - e proprio mentre squarciava il velo di una trattativa inconfessabile che solo oggi comprendiamo». Ora, a nove anni dal suo sacrificio.

Ma già dal 2003 Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” scriveva sull’emarginazione subita da Chelazzi. L'ultimo atto dell'inchiesta sulle stragi di mafia del 1993 condotta dal pm Gabriele Chelazzi è stata una lettera, indirizzata al procuratore di Firenze. Una missiva che il magistrato della Direzione nazionale antimafia ha scritto poche ore prima di morire, colpito da un infarto nella notte tra il 16 e il 17 aprile scorsi, e non ha fatto in tempo a spedire. Chi s'è occupato di mettere ordine tra le sue carte l'ha trovata sul tavolo e l'ha fatta recapitare al destinatario, il dottor Ubaldo Nannucci, capo della Procura fiorentina. A lui Chelazzi aveva deciso di rivelare la propria amarezza per la sensazione di solitudine che provava lavorando a quell'indagine delicata e complicata. Il procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna aveva «applicato» Chelazzi all'ufficio di Firenze, titolare dell'indagine sui «mandanti a volto coperto» delle bombe scoppiate a Firenze, Milano e Roma tra la primavera e l'estate del 1993: dieci morti e decine di feriti per i quali un gruppo di mafiosi, da Riina in giù, è stato condannato all'ergastolo. Secondo la giustizia italiana sono gli esecutori materiali di quelle stragi, ma il lavoro degli inquirenti continua nel tentativo di smascherare eventuali ispiratori di quegli attentati «esterni» a Cosa Nostra. A tirare le fila dell'inchiesta era proprio Chelazzi, che prima di morire ha messo nero su bianco il disappunto per quella che riteneva un'insufficiente attenzione da parte della Procura di Firenze a ciò che stava emergendo all'indagine, un supporto inadeguato rispetto a quello che secondo lui meritavano gli accertamenti in corso. I termini di legge per l'inchiesta stanno per scadere (bisognerà chiudere entro i primi di giugno), e nel registro degli indagati compare solo il nome dell'ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, già condannato in primo grado a otto anni di carcere per concorso in associazione mafiosa. Ora su di lui pende l'ipotesi più grave di concorso in strage. Alcuni pentiti, tra i quali Giovanni Brusca, hanno infatti rivelato i contatti dell' ex parlamentare con Cosa Nostra - in particolare la famiglia Graviano di Brancaccio - proprio nel 1993, quando la mafia tentò di far ammorbidire le leggi contro i boss varate dopo le stragi del 1992. Le bombe dell'anno successivo sono state più volte definite «bombe del dialogo», per indurre la controparte a trattare con Cosa Nostra e rivedere certe norme, a cominciare dall'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario che sancisce il «carcere duro» per gli uomini delle cosche. Inzerillo è stato interrogato nei giorni scorsi dal procuratore aggiunto di Firenze Fleury e dai pm Nicolosi e Crimi, i titolari dell'inchiesta divenuti «eredi» di Chelazzi. In alcune interviste il super-procuratore antimafia Vigna ha anticipato l'idea di «una talpa..., un canale di fuoriuscita di notizie riservate» dallo Stato verso la mafia, nel periodo in cui si decise di prorogare il «41 bis». Di questo si occupava Chelazzi, che ha compiuto accertamenti al ministero della Giustizia spulciando carte e ascoltando testimoni. E si occupava dell'eventuale «trattativa» tra rappresentanti delle istituzioni e rappresentati di Cosa Nostra in quel periodo, sulla falsariga di ciò che si è ipotizzato per l'anno precedente, a cavallo delle stragi del '92. Allora, hanno raccontato alcuni collaboratori giustizia, Totò Riina redasse un «papello» (pezzo di carta) con le proprie richieste per interrompere gli attentati; nel '93, con Riina in carcere, ci avrebbe provato qualcun altro. Nell'ipotesi dell' accusa l'ex senatore Inzerillo sarebbe coinvolto in questa operazione di dialogo a distanza tra mafia e Stato. Per verificare questa e altre possibilità Chelazzi ha interrogato diverse persone, e aveva in programma di interrogarne ancora. Pochi giorni prima di morire, insieme al pm Nicolosi, ascoltò come testimone il prefetto Mario Mori, già comandante del Ros dei carabinieri e oggi direttore del Sisde. Gli ha chiesto dei suoi rapporti e dei suoi ripetuti incontri nel 1993 con il giornalista Giovanni Pepi, condirettore del Giornale di Sicilia. Pepi fu indicato da Riina, durante una pubblica dichiarazione fatta dieci anni fa nel corso di un processo, come l'unico giornalista al quale avrebbe potuto concedere un'intervista. Niente di strano secondo Pepi che già allora chiarì il senso della frase del boss. Ma, come ha rivelato ancora Vigna nelle interviste, Chelazzi aveva intenzione di approfondire il senso di quella frase di Riina. Da Pepi non ha fatto in tempo ad andare, mentre da Mori il magistrato dell'Antimafia ha avuto la spiegazione di un normale rapporto d'amicizia. «Conosco Pepi da almeno dieci anni - ha detto il direttore del Sisde -, mi è stato presentato come persona dabbene, abbiamo avuto e abbiamo normali frequentazioni tra amici. In ogni caso non ho mai condotto "trattative" con chicchessia». Pepi si mostra stupito di essere stato chiamato in causa, spiega che tutto si poteva verificare dieci anni fa ed è a disposizione per chiarire qualunque cosa ancora oggi. Anche la vicenda raccontata dal pentito Angelo Siino, che in un verbale ha detto di averlo visto «intrattenersi cordialmente» con il «geometra di Cosa Nostra» Giuseppe Lipari - l'ex-insospettabile che gestiva i beni di Riina e Provenzano, il quale ha tentato di collaborare con la giustizia ma è stato «respinto» dalla procura di Palermo - al matrimonio della figlia di Lipari. Tutto risale a quando Lipari non era ancora stato scoperto come mafioso e - ricorda oggi Pepi - «sua figlia era una collaboratrice del Giornale di Sicilia. Sono andato al suo matrimonio, salutai lei, ma non ho mai conosciuto suo padre». Visti i tempi stretti per concludere l'indagine, è possibile che Chelazzi volesse chiedere uno «stralcio» per chiudere l'inchiesta su Inzerillo e proseguire gli accertamenti «contro ignoti». Perché c' era da appurare, ad esempio, il movente della fallita strage dell'ottobre ' 93 allo stadio Olimpico di Roma rivelata da alcuni pentiti. Un attentato nel quale dovevano morire molti carabinieri, si disse, e l'ipotesi è che fosse la risposta ordinata dall'ala dura di Cosa Nostra per il fallimento della presunta «trattativa» con lo Stato. Supposizioni e teorie suffragate da qualche indizio ma difficili da verificare; indagini delicate che potevano apparire fumose a chi non le «viveva» dall'interno. Forse questo temeva Gabriele Chelazzi, quando decise di scrivere quella lettera nella quale traspaiono il disappunto e la solitudine di un magistrato che credeva nel suo lavoro, morto prima di poterlo concludere.

Il compianto Vigna difensore del Ros, con buona pace del compianto Gabriele Chelazzi scrive Sonia Alfano sul suo Blog. Leggendo le motivazioni della sentenza con cui i giudici di Milano hanno condannato per traffico internazionale di droga il Generale Giampaolo Ganzer, comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei Carabinieri, viene spontaneo chiedersi in che Paese viviamo e se usciremo mai dalla palude nella quale hanno cercato (e cercano!) di farci affogare. Secondo i giudici dell’ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale “non ha minimamente esitato a dar corso a operazioni antidroga basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge, ripromettendosi dalle stesse risultati d’immagine straordinari per se stesso e per il suo reparto”. Il comandante del Ros inoltre “’ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. Secondo i giudici Ganzer ha una “preoccupante personalità” e sarebbe capace di “commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”. In un Paese normale Ganzer avrebbe dato le dimissioni e si sarebbe ritirato a vita privata in un eremo, ben lontano da quella società civile che si aspetterebbe, almeno dai vertici delle forze dell’ordine, onestà e sicurezza. Ci aspettavamo la difesa d’ufficio degli esponenti del PdL, che ormai non provano il benchè minimo imbarazzo nel benedire i loro amici, specialmente se si tratta di acclarati delinquenti e malfattori. Quello che invece non ci aspettavamo di certo sono le incredibili dichiarazioni di un ex magistrato come Pier Luigi Vigna, che che dal 1997 al 2005 è stato addirittura Procuratore nazionale antimafia. Vigna, prendendo pubblicamente le difese di Ganzer, ha sottolineato “la sua correttezza estrema in tutti gli episodi”, e ha ricordato che da pm seguì con lui “il primo caso di immissione di droga in Italia da parte di agenti infiltrati”. L’ex procuratore ha poi spiegato che Ganzer è, per lui, “un collega leale che in vent’anni ha sempre dimostrato alta professionalità e un atteggiamento ineccepibile”. Così facendo, non solo l’ex magistrato ha tentato di delegittimare i magistrati milanesi e perfino di screditare una sentenza di condanna. Ha fatto di peggio, ha preso moralmente le distanze dall’indimenticato pubblico ministero Gabriele Chelazzi, che sul Ros e su quanto fatto da quel reparto nella trattativa tra Stato e Cosa nostra ha indagato, nell’isolamento tipico di chi vuole combattere il marcio, negli ultimi giorni della sua vita.

Per chiarire ulteriormente quanto scritto dai giudici milanesi pubblico l’articolo uscito sul sito web di Repubblica il 27 dicembre 2010:

Il generale Giampaolo Ganzer “non si è fatto scrupolo di accordarsi” con “pericolosissimi trafficanti”. Lo scrivono i giudici di Milano nelle motivazioni della condanna a 14 anni per il comandante del Ros nel processo per presunte irregolarità nelle operazioni antidroga. “Il generale Gianpaolo Ganzer non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità. Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge”, scrivono i giudici del Tribunale, spiegando perché il 12 luglio scorso condannarono il capo del Ros dei carabinieri per traffico internazionale di droga in riferimento a operazioni sotto copertura. Secondo i giudici dell’ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale ”non ha minimamente esitato (…) a dar corso” a operazioni antidroga ”basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge, ripromettendosi dalle stesse risultati d’immagine straordinari per se stesso e per il suo reparto”. Il comandante dei Ros inoltre ”ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. I giudici oltre a Ganzer, avevano condannato altre 13 persone – a pene variabili dai 18 anni in giù – tra cui anche il generale Mauro Obinu e altri ex sottufficiali dell’Arma. L’accusa aveva chiesto per Ganzer 27 anni di carcere, ma i giudici lo avevano assolto dall’accusa contestata dalla Procura di associazione per delinquere e lo avevano condannato per episodi singoli di traffico internazionale di stupefacenti. Preoccupante personalità. Il generale Giampaolo Ganzer ha una "preoccupante personalità" capace ”di commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”, spiegano ancora i giudici. Nel motivare la mancata concessione a Ganzer delle attenuanti generiche, il collegio scrive che le stesse attenuanti non possono essere riconosciute ”non solo per l’estrema gravità dei fatti, avendo consentito che numerosi trafficanti (…) fossero messi in condizioni di vendere la droga in Italia con la collaborazione dei militari e intascarne i proventi, con la garanzia dell’assoluta impunità, ma anche per la preoccupante personalità dell’imputato, capace di commettere anche gravissimi reati”. Nei panni di un distratto burocrate. Colpisce, si legge ancora nelle motivazioni, “nel comportamento processuale di Ganzer (…) che abbia preso le distanze da tutte le persone che, con il suo incoraggiamento, avevano commesso i fatti in contestazione”. Il generale, secondo i giudici, si è trincerato “sempre dietro la non conoscenza e la mancata (e sleale) informazione da parte dei suoi sottoposti”. Così, si legge ancora, per “sfuggire alle gravissime responsabilità” ha “preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti”. Non c’è reato di associazione. Non si ravvisa, secondo i giudici, il reato di associazione per delinquere: “Non si ravvisa negli imputati l’intento di partecipare in modo stabile e permanente ad un programma comprendente la realizzazione di una serie indeterminata di reati, ma soltanto l’intenzione di eseguire alcune operazioni” che, tra le altre cose, avrebbero consentito loro di dare “lustro, davanti ai propri superiori e all’opinione pubblica, al corpo di appartenenza”, scrivono i giudici per i quali “l’esistenza di reiterate deviazioni nell’ambito del Ros, ad opera di appartenenti al suddetto Raggruppamento” non è “sufficiente ad integrare” il reato associativo “in mancanza di un vincolo stabile tra gli imputati e della creazione da parte degli stessi di una seppur minima struttura finalizzata al raggiungimento di fini illeciti e criminosi”. Il fatto che, spiegano i giudici, “si siano utilizzate le strutture dell’Arma dei Carabinieri realizza certamente un gravissimo abuso dei poteri e una gravissima violazione dei doveri che incombevano sugli imputati (…), ma non consente in alcun modo di identificare la struttura di un lecito servizio (ossia la struttura stessa del Ros, ndr) nella struttura dell’associazione”. Non vi è stata, si legge ancora,”neanche una suddivisione dei ruoli tra gli imputati, diversa da quella esistente nell’ambito militare e in qualche modo funzionale alla commissione dei delitti di cui trattasi, e pertanto neppure sotto questo aspetto può dirsi che gli imputati abbiano costituito una autonoma struttura funzionale all’attuazione di un programma criminoso”. Ganzer: “Non commento le sentenze”. ”Non commento le sentenze, sono un uomo delle istituzioni e lo sono sempre stato. Il mio unico commento è quello fatto in sede processuale, con i motivi d’appello”, ha detto comandante del Reparto operativo dei carabinieri, rispondendo a chi gli chiedeva un commento sulle motivazioni della sentenza dei giudici di Milano.

FIRENZE MASSONE. LA FIRENZE CHE NON TI ASPETTI.

È come 30 anni fa, forse anche peggio, scrive Daniele Martini per il Fatto Quotidiano, riportato da “Altra Città”.  Allora, primavera 1981, la bufera arrivò improvvisa e si abbatté sulle logge con la pubblicazione sui giornali degli elenchi P2. Oggi il nuovo uragano è nell’aria, annunciato da una sequela di prodromi, mille segnali di un diluvio che si preannuncia altrettanto sconvolgente per la massoneria: il bubbone della P3, le cricche, il coordinatore Pdl Denis Verdini e i fidi facili della banca, l’immarcescibile faccendiere di mille affari sporchi Flavio Carboni, le tangenti, lo stillicidio di intercettazioni, gli appalti pilotati. Trent’anni fa i fratelli massoni, quelli che con la P2 c’entravano poco o niente, di fronte all’imprevedibilità dell’evento non poterono far altro che aprire l’ombrello per ripararsi alla meglio, sperando che la buriana passasse, consapevoli che niente sarebbe stato più come prima. Oggi, invece, per non restare travolti provano a prevenire il disastro, tentando di salvare dalle prevedibili macerie quella che si ostinano a considerare l’idea pulita di massoneria. Grande Oriente: 22 mila iscritti Non è un’impresa facile né indolore, anzi. A causa della P3 è scoppiata la più aspra guerra massonica d’Italia. Un conflitto di cui all’esterno non trapela nulla di ufficiale, ovviamente, ma che è in pieno svolgimento. Un corpo a corpo in cui i 22 mila massoni del Grande Oriente d’Italia si scannano come fratelli coltelli, e il cui esito, come si dice in questi casi, appare tutt’altro che scontato. La guerra si combatte soprattutto in Toscana, la patria della massoneria italiana, in particolare a Siena, culla delle logge, e nelle campagne circostanti. In città si guerreggia intorno a piazza Salimbeni e alla sede del Monte dei Paschi, in vista delle elezioni per il sindaco in calendario nella primavera dell’anno prossimo. Piazza del Campo a Siena. Nelle campagne, invece, il teatro dello scontro è Ampugnano, frazione del comune di Sovicille, dove un pezzo della Siena che conta, dal Monte al comune, vorrebbe trasformare un aeroporto in miniatura in una grande struttura internazionale, come Pisa e Firenze. Un progetto molto contestato a livello locale. Lo scontro coinvolge in pieno il Gran Maestro, Gustavo Raffi, e i partiti, il Pd e il Pdl. Raffi è legato a Siena da mille fili, a cominciare dalle consulenze e dagli incarichi professionali ottenuti con il suo studio legale di Ravenna dal Monte dei Paschi fin dai tempi in cui direttore generale era Vincenzo De Bustis, ex banchiere di riferimento di Massimo D’Alema, indicato come uno degli esponenti più alti in grado della massoneria, gruppo degli Illuminati. Ad appena un anno di distanza dalla sua incerta rielezione, Raffi è oggetto di attacchi feroci e, cosa quasi inaudita in quell’ambiente, perfino pubblici. Gli antagonisti chiedono senza perifrasi le sue dimissioni dando voce allo scontento perfino sulla più democratica delle piazze, Internet, per esempio sul sito grandeoriente-democratico.com , coordinato da Gioele Magaldi, giornalista del confindustriale Sole 24 Ore. Gli contestano di tutto a Raffi: un rapporto personalistico con le istituzioni e il potere, a cominciare da quello bancario del Monte, poi le strizzate d’occhio a una parte del Pd nonostante meno di un quarto dei fratelli sia orientato a sinistra, ma soprattutto non gli perdonano la vischiosa contiguità con la cricca P3 e la deficitaria gestione finanziaria del Grande Oriente causata in particolare da una serie di operazioni immobiliari per l’acquisto di sedi lussuose e di prestigio attraverso la società Urbs. È uno snodo importante della massoneria italiana questa Urbs. Responsabile è il fiorentino Enzo Viani, una sorta di tesoriere del Grande Oriente, ex dipendente del Monte dei Paschi in pensione, un conservatore di ferro, ma disinvolto, tanto da essere fan dell’ex comunista Graziano Cioni contro il cattolico Matteo Renzi alle primarie Pd per il sindaco di Firenze. Viani a suo tempo fu nominato presidente dell’aeroporto di Ampugnano dallo stesso Pd senese e dal Monte dei Paschi guidato da Giuseppe Mussari, un avvocato che da qualche mese è anche presidente dei banchieri italiani (Abi). Entrambi, Viani e Mussari, sono stati raggiunti da un avviso di garanzia con altre 14 persone proprio per la faccenda dei progetti di ampliamento dell’aeroporto di Ampugnano. Il Pd e il Pdl, avversari senza quartiere sulla carta, in Toscana grazie proprio al collante massonico in diversi casi appaiono più vicini che lontani, dando quasi l’impressione di recitare un gioco delle parti. Il Pd, in particolare, si avvicina al tema delle logge con approcci assai diversi. Qualche settimana fa, in un’intervista a Sette del Corriere della Sera, il presidente Pd della Regione, Enrico Rossi, rispondendo a una domanda sulla doppia affiliazione Pd-massoneria è stato lapidario: “Appartengo alla nobile razza di chi considera l’iscrizione alla massoneria prima di tutto volgare”. Ma Luigi Berlinguer, ex rettore dell’Università di Siena, ex ministro della Scuola con il centrosinistra, presidente della commissione dei garanti Pd, da sempre considerato all’interno del suo partito molto attento verso la massoneria, anche se lui querela chi osa parlare di affiliazione, non si è dichiarato contrario alla doppia iscrizione in due interviste, ad Affari Italiani e all’Unità, arrivando in un caso ad equiparare la massoneria all’Opus Dei. Il figlio di Berlinguer, Aldo, era consigliere d’amministrazione dell’aeroporto senese quando presidente era Viani. Ampugnano centro del mondo Molti dei personaggi della guerra massonica, di Siena e Ampugnano compaiono da protagonisti in tutte e tre le vicende. Per esempio il candidato sindaco del Pd, il deputato Franco Ceccuzzi, quando era segretario provinciale del partito volle proprio il massone Viani come presidente dello scalo senese. E ora la massoneria si appresta a restituirgli il favore nella corsa per il comune nella quale dovrà vedersela con Pierluigi Piccini, ex sindaco, ex Ds ed ora coordinatore toscano dell’Api di Francesco Rutelli. Ceccuzzi può contare sull’appoggio del giornale locale, Il Corriere di Siena, guidato da Stefano Bisi, che è anche il presidente del Collegio regionale toscano dei massoni del Grande Oriente. Il direttore editoriale del Corriere è Rocco Girlanda, deputato Pdl umbro, grande amico di Denis Verdini, come risulta da molte intercettazioni. Entrambi, manco a dirlo, sono estimatori convinti del Gran Maestro Raffi. Di più: come si sussurra in Toscana, sono stati i suoi grandi elettori.

Cimeli, documenti storici, oggetti usati per i rituali rivelano una storia "segreta" che in Italia nacque proprio a Firenze nel 1731 grazie alla "Loggia degli Inglesi", racconta Paolo Russo su “La Repubblica”. Anche la massoneria avrà un luogo della memoria: il Musma, Museo di simbologia massonica, il primo in Italia. In via dell’Orto al numero 7 infatti, Cristiano Franceschini, ha organizzato un percorso su tre piani di oltre diecimila fra documenti storici, libri, timbri, foto, periodici, schede d’iscrizione e oggetti usati nei rituali dell’associazione. Un sito a suo modo storico quello di via dell’Orto, perché nel 1731, nella vicina via Maggio (ma il luogo non è stato ancora identificato con precisione), un gruppo di anglobeceri fondava la prima loggia italiana, detta appunto «la loggia degli Inglesi». «In famiglia siamo massoni da quattro generazioni, e in più la mania della collezione me la porto dietro da sempre: gran parte dei materiali li ho raccolti nei miei viaggi» spiega Franceschini. Il nucleo principale della cui raccolta viene da Inghilterra, Scozia, Irlanda, Francia, Cuba, Cile, Sud Africa, Italia (fra i tanti anche Garibaldi, Nigra, Cavour, i fratelli Bandiera e D’Annunzio, furono affiliati), Messico (Pancho Villa e Zapata), e soprattutto dal Nord America, «dove la Massoneria ha sempre avuto grande fortuna e un modus operandi molto più aperto che da noi, anche se, nel sud, arrivarono al paradosso di avere logge segregate: quelle Descrizione: http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gifper i bianchi e quelle per gli afroamericani». Ed ecco allora che fra le curiosità spunta la scheda d’iscrizione di John Wayne, che a sorpresa si scopre stimato fratello di sangue di molte tribù di nativi, la cui domanda fu accolta dalla loggia 56 di Phoenix nel 1970. Anno del suo unico Oscar per Il Grinta. E non è il solo mito americano di cui parla la raccolta, che privilegia il periodo che va dalla nascita della massoneria, i primi decenni del 1700, al 1970 circa: da George Washington al toscano Filippo Mazzei, che collaborò alla scrittura della costituzione americana, da David Crockett a Jim Bowie e Buffalo Bill, passando per Samuel Colt, inventore della pistola a tamburo, i generali Custer e Grant, fino a Kit Carson, agente indiano e guida, fra i primissimi bianchi a schierarsi dalla parte dei nativi americani.

“4 mila massoni in 744 logge [...] con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. [...] molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali…” Da non credere! Invece a “confessare” è l’ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli, che di queste cose se ne intende. Avranno qualcosa da commentare Matteo Renzi ed Enrico Rossi? O anche questo articolo passerà sotto silenzio mentre i massoni rimarranno attivi nelle stanze delle amministrazioni fiorentine e toscane? Chiede Alberto Statera su “La Repubblica” e su “L’Altra Città”. “Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera”, recita ironico il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo un po’ risorgimentale, ex segretario locale del defunto Partito repubblicano di Ugo La Malfa, quando gli si chiede di commentare l’improvvisa fiammata antimassonica di parte del Partito Democratico. E l’Opus Dei? E Comunione e Liberazione? E tutti i mariuoli, clericali o non, ormai in circolazione per ogni dove? E tutti i seri problemi del paese che il Pd tende spesso a rimuovere imboccando improbabili vie di fuga? Il Gran Maestro se lo chiede, ma la delibera assunta dalla Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer, proveniente da una vecchia famiglia massonica il cui capostipite Mario, padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari, in fondo non gli dispiace: “Al di là della temporanea sospensione dei fratelli pd iscritti – dice – c’è un percorso serio per capire la questione e non infliggere una censura dogmatica; è un percorso laborioso, ma simile a quello già tracciato saggiamente dal lodo di Valerio Zanone e Giovanni Bachelet”. Ma non gli va giù che i problemi interni di un partito in cui si è rivelata difficile la convivenza tra l’anima cattolica ex democristiana con quella laica ex repubblicana, ex socialista ed ex comunista, tirino inopinatamente in ballo “una delle più importanti agenzie produttrici di etica che abbia creato dal suo seno la storia dell’occidente, come il professor Paolo Prodi ha efficacemente definito la massoneria”. Un fatto è certo, i massoni del Partito democratico, che dovranno ora rivelarsi, sono a bizzeffe, come garantisce l’ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli. Col Gran Maestro recalcitrante, che giura di non aver mai chiesto di mostrare la tessera di partito ai suoi fratelli (“Se no verrei messo fuori dal consesso della massoneria mondiale”) tentiamo un computo, che ci porta a un totale di oltre 4 mila su quasi 21 mila iscritti in 744 logge, il 50 per cento dei quali concentrati in Toscana, Calabria, Piemonte, Sicilia, Lazio e Lombardia, con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. Di questi almeno 4 mila diessini, molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali, come in passato il Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, che è stato vicesindaco socialista di Livorno. Adesso dovranno rivelarsi ed è facile prevedere che non sarà un’operazione indolore. Ma Gustavo Raffi pensa che potrebbe venirne persino un bene, cioè “la fine di questa leggenda della segretezza, frutto avvelenato delle gesta del materassaio di Arezzo, che non ha ragione di persistere. Ma come si fa – si accalora – a confondere il Grande Oriente, scuola di etica e di classe dirigente, con i mariuoli che infestano il paese anche in false massonerie? Il fascismo, perseguitandola, costrinse la massoneria al segreto, ma oggi siamo un’istituzione trasparente tornata nella storia. Lo dimostrano le decine di nostri convegni culturali con partecipanti del calibro di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Umberto Galimberti, Giuseppe Mussari, Ignazio Marino, Paolo Prodi, Gian Mario Cazzaniga e tanti, filosofi, storici, accademici di reputazione e scienza preclare. Il Pd si accorge adesso che la sinistra è figlia anche della massoneria? Fanno fede i nomi dei fuorusciti a Parigi durante il fascismo, le Brigate partigiane in Spagna e la Costituente, dove su 75 membri 8 erano massoni, da Cipriano Facchinetti ad Arturo Labriola, Meuccio Ruini… “. Gran Maestro – lo interrompiamo – per favore, non torniamo a Garibaldi e Bakunin e ai generi massoni di Marx, il fatto è che in un passato più recente le vicende della massoneria ufficiale non sempre sono apparse commendevoli. Tra l’altro, nel governo e nella attuale maggioranza di destra si dice ci sia la più alta concentrazione di massoni (e di Opus Dei) mai vista, come ha rilevato l’ex presidente Francesco Cossiga, che se ne intende. A parte Berlusconi, Cicchitto, che erano nella P2, e al consulente di Gianni Letta, quel Luigi Bisignani che ne era il reclutatore, ce ne sarebbero molti altri, a cominciare da Denis Verdini, che però ha smentito. Per non dire dei Lavori Pubblici, culla della Cricca degli appalti, considerato il ministero col maggior numero di dirigenti massoni. Il Gran Maestro non sfugge: “Io le posso dire in tutta coscienza che, tolti quelli che giocavano a nascondino col materassaio di Arezzo e che con noi non hanno nulla a che fare, abbiamo fatto un’attenta analisi dei nomi emersi come appartenenti alla Cricca e delle intercettazioni telefoniche pubblicate sui giornali. Abbiamo trovato solo un nome nelle nostre liste e l’abbiamo sospeso immediatamente. Se ne emergeranno altri, stia certo subiranno la stessa sorte”. Inutile insistere per ottenere il nome, il Gran Maestro garantisce di non ricordarlo, ma promette di ricercarlo, perché dice di sognare una massoneria supertrasparente come quella americana, cui i fratelli sono fieri di appartenere, dove le logge sono indicate al centro delle città con grandi cartelli stradali, “come già abbiamo fatto a Ravenna mettendo la targa sulla nostra sede, perché se ti nascondi finisci alla gogna”. Ma nulla autorizza la componente cattolica del Pd a confondere la massoneria storica con pseudomassonerie affaristiche, “se no è come se io dicessi non che un partito è degenerato, ma che tutti i partiti sono degenerati, mentre, pur se disastrati, continuano ad essere il cardine della democrazia. Mai dirò che i partiti inquinano la massoneria, ribaltando l’affermazione di quel parlamentare del Pd, il quale ha osato dire che la massoneria inquina il suo partito”. Se la teoria del senatore di Magliano Sabina Lucio D’Ubaldo prendesse piede nel Pd, il Gran Maestro vi scorgerebbe un arretramento clericale e culturale quasi a due secoli fa, all’enciclica “Mirari Vos” di Gregorio XVI che condannò la separazione tra Stato e Chiesa e qualunque libertà di coscienza. Chissà se la delibera dei garanti pd guidati da un Berlinguer frenerà ora le iscrizioni al partito, notoriamente non in splendida salute, o al Grande Oriente d’Italia, che conta 1600 “bussanti” all’anno, più di un terzo dei quali respinti in attesa di “passaggi all’Oriente Eterno” di anziani fratelli.

A Firenze succede questo, ma anche altro.

COSE DA PAZZI. IN CHE MANI SIAMO MESSI.

Simone Innocenti su “Il Corriere fiorentino” racconta che in un afoso pomeriggio delle scorse settimane un avvocato fiorentino ha imboccato via Borgognissanti, sede del Comando provinciale dei carabinieri. Lo ha fatto per andare a sporgere una querela contro una persona. Una persona che, dice lui, conosce da svariati anni. La storia della vittima, in due parole, è questa: lui rincasa dall’ufficio, parcheggia la macchina nei pressi della sua abitazione e va a letto. Poi si sveglia per tornare al lavoro e, immancabilmente, nota dei graffi sulla carrozzeria del mezzo. Non capisce chi sia l’autore di quei danneggiamenti e non riesce proprio a farsene una ragione. All’inizio pensa che sia una specie di avvertimento da parte di qualcuno perché quando fai l’avvocato ti capita di incontrare di tutto nella tua vita lavorativa. Ma non riesce ad arrivare a nessuna conclusione anche perché lui è affetto da un handicap: qualcuno si diverte ad accanirsi sul suo mezzo parcheggiato nel posto per invalidi. Proprio per questo motivo, con uno stratagemma, riesce a immortalare il presunto autore di almeno un danneggiamento. E quando lo riconosce, trasecola: a danneggiare la sua auto è infatti una persona che ha conosciuto per lavoro. Non è un collega, ma un magistrato che adesso è in pensione. I carabinieri restano allibiti ma l’uomo tira fuori le prove del presunto danneggiamento. Per la Cassazione, però, quelle prove non sono considerate tali. Dopo aver informato il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi, si decide di passare all’azione. Lo stratagemma dei carabinieri è piuttosto semplice, anche se è roba che si vede nei film. Gli investigatori «piazzano» in strada un furgone. Entrano dentro la «balena» — perché è così che nelle caserme viene chiamato familiarmente il mezzo — e fanno quello che si fa in questi casi: aspettano, pazientemente. Non è una sorpresa quando l’uomo — nella zona di Campo di Marte — si avvicina al mezzo parcheggiato e lo graffia con un oggetto. Stavolta però la scena viene ripresa dai carabinieri. E che subito dopo aver girato tutto quello che c’era da girare, escono dal mezzo e fermano per strada il magistrato in pensione. All’uomo, che in passato ha lavorato anche in Corte d’Appello, gli investigatori prendono l’oggetto usato per graffiare il mezzo. E poi lo denunciano a piede libero: è accusato di essere l’autore del danneggiamento. Adesso i carabinieri, coordinati dalla magistratura, stanno cercando di capire quali siano gli eventuali motivi che abbiano portato il magistrato — conosciuto per il rigore del suo lavoro, la delicatezza dei casi di cui si è occupato e la conoscenza del diritto — a danneggiare l’auto e stanno anche cercando di capire se sia stato lui, nel corso del tempo, a colpire il mezzo dell’uomo. Nel settembre del 2011 un sostituto procuratore generale di Genova — all’epoca ancora in servizio — fu denunciato dalla polizia. In via Ippolito d’Aste 8, dove abitava, in pieno centro, un cittadino fu trascinato in una guerra condominiale da un vicino di casa che lo accusava di avergli «incollato» la porta dell’appartamento. Un crescendo di dispetti e scaramucce finito in tribunale. Anche in quel caso il vicino di casa per scoprire chi gli mettesse la colla nella serratura della porta aveva installato due telecamere. Nei frame portati agli investigatori appariva un uomo che si toglieva la giacca, copriva la telecamera e metteva della colla sulla serratura. In quelle immagini c’era proprio il vicino di casa: un magistrato che però ha sempre negato la vicenda.

MALAMMINISTRAZIONE.

Renzi: le spese in Provincia, il fascicolo sui 20 milioni di spese della Provincia, il conto da 20mila euro e le aziende di famiglia. L'impiegato sfida il sindaco, scrive Antonio Larizza su “Il Sole 24 ore”. Nella sua corsa per le primarie del Pd, Matteo Renzi ha un avversario in più. Si tratta di Alessandro Maiorano, un dipendente del Comune di Firenze che lo scorso 8 ottobre 2012 ha presentato un esposto alla Guardia di Finanza per chiedere di indagare sull'attività pubblica e privata del sindaco di Firenze. I militari del «Gruppo tutela spesa pubblica – Sezione accertamento danni erariali» hanno ascoltato Maiorano per più di tre ore, dalle 9,30 alle 12,35. Agli atti risulta una sua presenza «per motivi di giustizia» presso gli uffici della Gdf anche il 23 ottobre, questa volta dalle 9,20 alle 9,50. Nel testo sottoscritto davanti al Colonnello Cuzzocrea e al Maggiore Piccin della Gdf di Firenze, il dipendente del comune diretto da Renzi – che si è presentato all'appuntamento imbracciando un malloppo di copie di fatture pagate dalla Provincia di Firenze tra il 2005 e il 2008, per un valore complessivo di oltre 20 milioni di euro – chiede di far chiarezza su «molti aspetti del sindaco di Firenze Renzi»: dalle «100 assunzioni a chiamata» alle «spese inerenti alla presentazioni del suo libro Stil Novo», all'attività delle società possedute dalla famiglia Renzi. Interpellato dal ilsole24ore.com, il ministero del Tesoro conferma l'esistenza del procedimento, specificando che «il fascicolo è seguito, ratione materiae, dalla Guardia di finanza per il tramite della Segreteria del vice capo di gabinetto finanze». «Renzi dichiara che in banca possiede 22mila – si legge nell'esposto – però incassa tre milioni con la Chil Srl ribattezzata Eventi 6 Srl». Maiorano non va oltre, ma lascia intendere che le disponibilità finanziarie del sindaco di Firenze potrebbero essere di tutt'altra natura e che nulla avrebbero a che fare con quelle di un comune cittadino, come invece la dichiarazione rilasciata in tv dall'ex capo scout vorrebbe lasciar intendere. Qualche ulteriore dato si può trovare sfogliando i bilanci depositati delle Eventi 6 Srl. La Eventi 6 srl è una società che nel 2011 ha fatturato 4 milioni di euro e che si occupa di marketing e promozione, con sede a Rignano Sull'Arno (Fi). Al 31 dicembre 2011, l'80% della proprietà risulta in mano alla famiglia di Matteo Renzi: le sorelle Matilde e Benedetta possiedono, in parti uguali, il 72% delle quote. La madre di Matteo, Laura Bovoli, controlla l'8%. Il restante 20% è in mano a Conticini Alessandro: l'unico socio a non essere parente del sindaco. Il legame con la famiglia Renzi, e in particolare con Matteo, è evidenziato anche dal fatto che, nel 2010, la Eventi 6 srl ha acquisito la Chil promozioni srl: la società aperta negli anni ‘80 da Tiziano Renzi, il padre di Matteo, ex dirigente Dc, che ne è stato amministratore. Come si può leggere nel curriculum che il candidato alla segreteria del Pd ha pubblicato sul sito matteorenzi.it, in gioventù Matteo Renzi ha lavorato alla Chil, «come dirigente», occupandosi di «servizi marketing». Ad oggi Matteo è «un dirigente in aspettativa della società di famiglia» (la fonte in questo caso è la biografia di Renzi pubblicata su Wikipedia, che al momento nessuno ha ritenuto di dover correggere). Matteo non sarà ricco come il comico Beppe Grillo, con il quale ha voluto polemizzare sbandierando in tv il saldo da 20mila euro del suo conto corrente. Ma di certo, a guardare i bilanci della società di famiglia, la sua solidità finanziaria non è minacciata. Del resto, per lui, la sorte ha sempre girato nel verso giusto: come quando, nel 1994, partecipando come concorrente a La ruota della fortuna, vinse 48 milioni di lire. Una cifra che farebbe gola a molti, ma che è ben diversa da quelle che il Presidente della Provincia prima e il sindaco di Firenze poi si sarebbe trovato a gestire durante la sua attività politica. Somme per le quali adesso è finito nel mirino. Nell'esposto presentato da Maiorano tornano in primo piano nomi di società già note perché considerate vicine alle attività economiche della famiglia Renzi: dalla DotMedia alla Web e Press. E si chiede di fare chiarezza sulla Florence Multimedia, promossa dallo stesso Renzi quando era a Presidente della Provincia di Firenze: quest'ultima, tra il 2006 e il 2009, ha ricevuto incarichi dall'ente locale per 9 milioni di euro. Sotto i riflettori ci sono anche quei «20 milioni di spese di "rappresentanza", cene, alberghi, viaggi e altro» che secondo quanto si legge nell'esposto presentato alla Gdf, Renzi avrebbe speso tra il 2004 e il 2009. E che Maiorano ha documentato raccogliendo gli atti ufficiali (per la maggior parte già pubblici e scaricabili dai siti degli enti locali – guarda le spese 2005, 2006, 2007, 2008 - clicca sugli anni per vedere i documenti). Si tratta di spese eseguite ed approvate in piena trasparenza, per le quali al momento a Renzi non viene contestato alcun reato. Ma che - visti i tempi e il sentimento di antipolitica sempre più dilagante tra l'opinione pubblica - rischiano di rappresentare un ostacolo in più nella corsa alle primarie del "rottamatore" del Pd.

Dopo l’attenzione del Tesoro e della Corte dei Conti i magistrati fiorentini indagano sulle spese della Provincia, allora presieduta dall’attuale sindaco. Il sistema Renzi: amici, famiglia, potere. E un fascicolo sull'uso dei fondi pubblici. Viaggio nel mondo del Rottamatore e nella macchina da guerra delle relazioni del boy scout di Rignano sull’Arno, scrive Marco Lillo su Il Fatto Quotidiano del 6 ottobre 2012. Adesso. È lo slogan non proprio originale della campagna di Matteo Renzi per conquistare lo scettro di candidato a premier. Ma proprio “adesso” la Procura di Firenze ha aperto un’inchiesta per verificare cosa c’è di vero nelle denunce sugli sperperi di Matteo Renzi all’epoca in cui era presidente della Provincia e aveva creato un carrozzone, la Florence Multimedia, che ha speso 9,2 milioni di euro dal 2006 al 2009 pagando fatture – come ha scoperto il Fatto – a un’impresa privata di Matteo Spanò, già manager della stessa Florence e amico di Renzi. Questa mattina la Guardia di Finanza (per l’esattezza il nucleo di polizia tributaria di Firenze, Gruppo tutela spesa pubblica, sezione accertamento danni erariali) ha ascoltato per due ore e mezzo – su delega del procuratore capo Giuseppe Quattrocchi, alla presenza del tenente colonnello Domenico Cuzzocrea - Alessandro Maiorano, il dipendente comunale che ha presentato esposti contro Renzi e la sua gestione. Si è parlato delle spese della provincia e delle fatture di cui ha parlato Luigi Lusi nei confronti della Web and Press, società che era di Patrizio Donnini, soggetto – come ha scoperto Il Fatto – in rapporti di affari con un socio delle sorelle e della mamma di Matteo Renzi. Majorano ha consegnato molte fatture dal 2004 al 2009 della Provincia e di Florence Multimedia. In Procura precisano che l’inchiesta è per ora senza indagati né titoli di reato. Anche il ministero dell’Economia e la Corte dei conti stanno verificando l’operato della Provincia e della Florence Multimedia. A prescindere dall’esito delle indagini, quello che emerge dall’inchiesta autonoma che il Fatto ha condotto sugli atti delle camere di commercio è un intreccio tra le attività pubbliche del sindaco e dei suoi amici con quelle private degli amici di Renzi e della sua famiglia. Sul sito internet della società della famiglia Renzi, la Eventi 6 Srl, che si occupa di diffusione di giornali e comunicazione, spicca un logo, quello della società che ha curato il sito (“powered by Dotmedia”) e che realizza larga parte del suo fatturato annuo grazie al Comune e alle sue partecipate. La Eventi 6 dei Renzi, ha organizzato la campagna per Renzi sindaco del 2009 all’insegna dello slogan “Firenze prima di tutto”, e la DotMedia ha curato molte campagne di comunicazione che danno lustro all’immagine del Comune e di Renzi e che portano contemporaneamente soldi a questa società legata alla sua famiglia; si va dalla Notte tricolore, alla centrale del latte Mukki, all’acqua pubblica. Fatturazioni di società che lievitano in dodici mesi - Nel 2008 Dotmedia fatturava 9 mila euro, nel 2009 con Renzi sindaco si sale a 137 mila euro. Grazie all’interrogazione di due consiglieri comunali di opposizione, Tommaso Grassi di Sel e Ornella De Zordo, si è scoperto che ha incassato 232 mila euro dal comune e dintorni. Nel 2012 DotMedia ha fatturato 17 mila euro al comune che si aggiungono ai 215 mila euro fatturati dal 2009 alle quattro partecipate del Comune: Firenze Parcheggi, Mukki, Publiacqua e Ataf. II Fatto ha scoperto che Dot Media ha un legame societario con la Eventi 6. La società dei Renzi (amministrata da Matilde Renzi, 28 anni, che ne controlla come l’altra sorella maggiore di Matteo, Benedetta il 36 per cento mentre la mamma, Laura, ne detiene solo l’8 per cento) si chiamava Chil e nasce nel 1993. Matteo in un vecchio curriculum ne è stato fondatore e socio fino al 2004. Si occupa di strillonaggio e ispezioni nelle edicole per i giornali ma anche di eventi e ideazione di campagne. Il suo fatturato è ragguardevole: si va dai 7,2 milioni del 2007, ai 6,8 milioni del 2008 quando trasferisce la sua sede a Genova e passa di mano. La famiglia Renzi però continua ad operare grazie alla Eventi 6, creata nel 2007 che ha comprato nell’ottobre 2010 l’azienda dalla Chil, facendo decollare il giro di affari fino ai 3 milioni e 967 mila euro del 2011. Nella Eventi 6 c’è Alessandro Conticini, bolognese di 36 anni ma residente in Etiopia dove lavora come direttore dell’Unicef. Conticini è allo stesso tempo socio della Eventi 6 dei Renzi con una quota del 20 per cento ed è presente anche nella DotMedia con identica quota. Nel capitale della Eventi 6 è l’unico a non essere parente del sindaco. Conticini è diventato socio anche della DotMedia solo dal 10 febbraio 2011 ed è interessante vedere chi lo ha fatto entrare. A cedergli le quote è stato Patrizio Donnini. Tra gli altri soci spicca il nome di Matteo Spanò, ex direttore della Florence Multimedia, con il 20 per cento e Davide Bacarella. Sono nomi importanti. Nell’inchiesta sul tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, erano emerse due fatture riferibili, secondo Lusi, alle spese sostenute da Renzi per le primarie a sindaco di Firenze che portavano impresso il nome della Web&Press Srl di Patrizio Donnini. Allora Renzi minacciò querele perché quella società nulla aveva a che fare con lui. il Fatto ora ha scoperto però che la Web&Press e la Dot Media erano partecipate entrambe da Donnini e che nella Dot Media sono soci anche Matteo Spanò e persino un socio della Eventi 6, controllata per il restante 80 per cento dalle sorelle Matilde e Benedetta Renzi e dalla mamma di Renzi, Laura Bovoli. Conticini è socio della famiglia Renzi da un lato e di Spanò dall’altro. Mentre non ci dovrebbero essere lagami con la Quality press di Donnini, anche se proprio Donnini è stato delegato a rappresentare Conticini nell’ultima assemblea della Dot Media. A rendere ancora più inquietante il fatto che Dot Media tragga gran parte del suo fatturato dal comune di Renzi e dalle sue partecipate c’è un secondo dato: la partecipazione di Matteo Spanò al suo azionariato. Spanò nel 2006 era direttore di Florence Multimedia, ma era anche imprenditore in proprio con la Arteventi, che ha sede a Pontassieve, dove Spanò ha eletto il suo domicilio, e dove vive anche il suo amico Matteo Renzi con moglie e figli. Arteventi ha emesso fatture nel 2006 per Florence Multimedia, come risulta dal bilancio dove figura tra i fornitori da pagare per più di 7 mila euro. Spanò è uno scout come Renzi, di più, è un leader dell’Agesci in Toscana e a livello nazionale. L’amico Matteo si è ricordato di lui nominandolo presidente dell’associazione Museo dei ragazzi, che si occupa di molte campagne costose: dalla notte bianca, alla festa tricolore. Il Comune paga all’associazione un contributo annuo di 600.000 euro e Spanò pensa bene di spenderli gratificando l. Il consigliere comunale di Sel Tommaso Grassi denuncia da tempo l’assurdità di questa situazione: “un esempio della gestione Spanò è la Notte tricolore del 16 marzo 2011, quando come presidente dell’associazione Museo dei ragazzi Spanò organizzò l’evento in nome e per conto del Comune di Renzi, affidando il lavoro di comunicazione alla DotMedia”, di proprietà di Spanò e di Conticini, cioé del socio dei familiari di Renzi. Spanò, in qualità di presidente dell’Associazione Museo dei Ragazzi, ha dichiarato che la società Dot Media, partecipata da lui, non ha ricevuto compensi.

In Italia la sinistra predica bene e razzola male. Renzi a Firenze ed a Brindisi Consales (di area Bersani).

Il primo cittadino ha ricevuto l'avviso di garanzia: sequestrati documenti e un computer. Al centro dell'inchiesta le manifestazioni cittadine affidate a una società di cui lui stesso era socio fino a prima dell'elezione di un anno fa, scrive Mary Tota su “Il Fatto Quotidiano”. Tutto ciò che ha da dire, l’ha scritto nella sua memoria difensiva che ora il suo avvocato Massimo Manfreda consegnerà agli inquirenti. Mimmo Consales, sindaco di Brindisi da poco meno di un anno, è indagato. Il reato ipotizzato dai pm Savina Toscani e Giuseppe De Nozza è di abuso d’ufficio. A finire nel mirino della procura di Brindisi sono le delibere con le quali si è provveduto alla proroga del servizio di call center e rassegna stampa affidati alla società News sas, e quelle relative all’affidamento all’associazione Motumus, delle manifestazioni estive e natalizie del Comune. Questa mattina, gli agenti della Digos dopo la prima ispezione del 30 gennaio, hanno sequestrato alcuni atti e il computer del sindaco Consales, notificandogli contestualmente l’informazione di garanzia. L’inchiesta riguarda, come detto, due società. La prima è la Motumus, dedita all’organizzazione di eventi culturali. A luglio scorso Consales decise di affidare all’associazione la gestione dell’estate brindisina. Costo dell’operazione: 212mila euro. L’affidamento, però, non avvenne tramite gara perché, disse al tempo il sindaco, la stagione estiva era già cominciata. Non si poteva perdere tempo. Lo scorso 7 febbraio gli agenti della Digos hanno provveduto alla perquisizione delle abitazioni di Maurizio Ciccolella e Salvatore Vetrugno, responsabili della Motumus e raggiunti entrambi dall’informazione di garanzia. Durante la perquisizione sono stati sequestrati diversi computer e atti che ora sono al vaglio degli inquirenti. Parallelamente a questo, i magistrati stanno setacciando anche le carte relative alla News Sas. La società da quindici anni è responsabile della comunicazione pubblica dell’Ente. Due sindaci e due commissari di governo che si sono alternati alla guida del Comune di Brindisi, avevano accordato l’affidamento del servizio di rassegna stampa alla società, come specificato anche nella memoria difensiva dell’attuale sindaco. Dov’è il problema? Che la News sas apparteneva proprio a Consales. Le sue quote le ha cedute ad Alessio Vincitorio e Simona Venuto, solo al momento dell’elezione, avvenuta nella primavera del 2012. Non è tutto. Il punto è anche un altro. Ovvero che nonostante il sindaco si fosse impegnato a non continuare il rapporto con la News sas, di fatto poi ha prorogato il contratto con la stessa per due volte. La prima per cinque mesi, la seconda volta per tre. Anche in questo caso, dunque, ad essere contestata è l’assenza di una gara pubblica nell’affidamento dell’incarico. Le due vicende hanno un comune denominatore. Ovvero Vetrugno che oltre ad essere responsabile della Motumus è anche dipendente della News. Ma se questo fattore abbia una rilevanza o meno lo decideranno gli inquirenti. Mentre l’avvocato Manfreda preferisce non rilasciare alcuna dichiarazione e concentrarsi sulla memoria difensiva del suo assistito, il sindaco Consales si lascia andare un po’ di più. “Non rifarei la delibera sull’estate brindisina e rinuncerei all’affidamento della rassegna stampa alla News sas” ammette. E a chi gli chiede di dimettersi, risponde che un sindaco con un avviso di garanzia potrebbe andar via, ma se non lo fa è “per amore di questa città. Brindisi merita di meglio che un altro commissario”. Intanto il caso è diventato anche politico. Il vicesindaco Paola Baldassarre (per meglio dire ex vicesindaco visto il divorzio firmato tra la Consales e l’Udc) ha ritirato la sua firma dalle delibere finite sotto inchiesta. Per alcuni un modo per prendere le distanze da quanto deciso dal primo cittadino. Per altri una pugnalata alle spalle che arriva tardi.

Il mito della buona amministrazione rossa in Toscana si è offuscato da tempo, da quando alla fine degli anni Novanta cominciarono a cadere i primi fortilizi (Grosseto, Arezzo, Montecatini) sotto i colpi di un elettorato insoddisfatto.

La rete clientelare stesa da sessant’anni su tutta la regione dal sistema di potere comunista e post non è insomma più sufficiente a scongiurare la fuga delle parti più dinamiche di una società in movimento e anche di quell’elettorato non strettamente ideologizzato che ha cominciato a pensare in proprio disubbidendo agli ordini del partito-padrone. Sta accadendo, dunque, quello che accade al crepuscolo di tutti i regimi, e il segnale di Prato, dove la sinistra è stata mandata a casa dopo 63 anni ininterrotti di governo, è una campana suonata per tutti. Questo dal punto di vista strettamente politico. Ma a incrinare definitivamente la leggenda della superiorità etica e amministrativa della sinistra toscana sono arrivate alcune devastanti inchieste giudiziarie che hanno colpito il Pd proprio a Firenze, cioè nell’ultima capitale italiana del vecchio mondo comunista. Un anno fa quella di Castello, che dimezzò di fatto la giunta Domenici bloccando l’unico asse possibile di espansione urbanistica della città, quello a nord-ovest, e impedendo ai Della Valle di costruire il nuovo stadio con annesso il museo del calcio, e oggi quella significativamente denominata "Mani sulla città", che vede per protagonisti l’ex capogruppo del Pd a Palazzo Vecchio (finito in carcere) e l’ex presidente della commissione urbanistica, anch’egli ovviamente del Pd.

Renzi contro Domenici. Il neosindaco Renzi ha preso immediatamente le distanze: "Questi rubavano per sé – ha detto al Corriere della Sera – facevano cose inaudite", dando così un giudizio politico e morale senza appello nei confronti di una parte degli amministratori dello stesso colore politico che lo hanno preceduto. Forse qualche sentore lo aveva avuto, il nuovo sindaco, visto che si è tenuto per sé l’assessorato all’urbanistica, ha cambiato tutti i dirigenti del settore e ha chiamato come consulente l’ex sindaco di Genova Pericu. Ora ha bloccato a tempo indefinito tutte le costruzioni, temendo che dietro a ogni licenza ci sia un possibile guaio giudiziario. L’ex sindaco Domenici, invece, ha fatto il Ponzio Pilato, negando che durante la sua amministrazione a Firenze si sia verificata quella "corrosione dell’etica pubblica" denunciata dai magistrati. "Ma quale Cupola – ha detto – chi ha sbagliato deve pagare e basta".

L’autocritica - Nel Pd fiorentino è scattata, come di prammatica in questi casi, una "severa autocritica". "Abbiamo avuto scarsa attenzione sul principio della trasparenza. Va tracciata una riga per riportare coerenza tra valori etici e comportamenti. Ma non si può non criticare gli altri livelli del partito, che finora hanno solo usato toni diplomatici, lasciandoci di fatto soli". È una sintesi del documento del gruppo consiliare del Pd, partorito ieri dopo una riunione durata tre ore. Non c’è, fra i firmatari, il consigliere eletto nella lista Renzi e poi passato al Pd indagato per un presunto falso su una dichiarazione di inizio attività in scadenza: si parla di sospensione o dimissione dal ruolo che ora ricopre, quello di vicepresidente del consiglio in Palazzo Vecchio. Il documento del gruppo consiliare cita persino Lenin: «Che fare?».

Stop ai conflitti d’interesse - Il primo dovere è, per il gruppo del Pd, "superare il distacco che, nel tempo, si è venuto a creare tra i cittadini e la politica, rimettendo, con forza, al centro della sua azione la coerenza fra i valori etici dichiarati e i comportamenti posti in essere". In sostanza, non dovranno ripetersi circostanze o situazioni in cui si possano intravedere più o meno latenti forme di conflitto d’interessi o, comunque, zone d’ombra che si caratterizzano per l’opacità dei rapporti. E poi: "L’impressione che si ritrae, forse condizionata anche dalla complessa fase di costituzione ed organizzazione del nuovo partito, è quella di un movimento che non ha corrisposto pienamente ai dichiarati valori dell’etica politica e del necessario rigore".

Anche il Comune indaga - Palazzo Vecchio ha aperto un’indagine interna per verificare tutti gli atti urbanistici coinvolti nell’inchiesta sui cantieri a Firenze e anche quelle varianti già approvate ancora in itinere, in modo che anche su di esse ci sia chiarezza fin da subito. È la decisione condivisa sia da maggioranza e opposizione emersa durante la seduta della commissione urbanistica che ha deciso di demandare alla presidente Titta Meucci (Pd) e al vice presidente Giovanni Galli (PdL) l’elaborazione di un documento sulle modalità con cui sarà eseguita l’indagine interna. Questo documento verrà portato nella prossima seduta di commissione e messo in votazione.

"Il Giornale". Parentopoli a Firenze: il sindaco Renzi brucia 12 milioni per assumere amici. Il sindaco Pd processato alla Corte dei conti: in Provincia diede impieghi senza titoli, ora è nella bufera per uno staff stile Obama, scrive Gian Marco Chiocci su "Il Giornale".

Renziopoli. Spese facili, folli, fantasmagoriche. Gli inciampi di «parentopoli» non danno certo lustro al sindaco di Firenze, Matteo Renzi, incarnazione del nuovo che avanza in casa Pd. La procura della corte dei conti della Toscana ha mandato sotto processo il «piccolo Obama fiorentino» (il copyright del soprannome del primo cittadino è dell’esponente pdl locale Giovanni Donzelli) e la sua ex giunta provinciale per l’assunzione di una ventina di «esterni» che non avrebbero avuto i titoli per occupare le ambite poltrone. I giudici hanno calcolato un danno erariale di oltre due milioni di euro. Situazione analoga al Comune di Firenze dove gli sprechi dell’amministrazione rossa, secondo uno studio dei consiglieri comunali del centrodestra, lieviterebbero a 10 milioni di euro con le assunzioni mirate negli uffici d’interesse del sindaco e della sua giunta: nell’elenco stilato dal consigliere comunale Donzelli figurano due ex assessori, l’ex portavoce di Lapo Pistelli (avversario politico alle primarie di Renzi), la figlia del direttore del Corriere fiorentino, una candidata del Pd non eletta, una giovane dirigente del partito, amici di famiglia, ex scout etc. Poi c’è il Tar che ha da poco revocato l’assunzione nel corpo dei vigili urbani della figlia di un direttore generale che, coincidenza, è stato capo dei vigili urbani ed è attualmente il responsabile di una società partecipata.

Ma andiamo per gradi. E cominciamo dai posti assegnati in Provincia. Stando alle accuse dei magistrati contabili sarebbero state fatte una ventina di assunzioni con modalità non proprio cristalline con un danno erariale di 2 milioni e 155mila euro. Alcuni dei fortunati vincitori dell’impiego pubblico non avrebbero avuto i titoli, altri sarebbero sprovvisti della laurea, altri ancora sarebbero andati a occupare posti già occupati. Le persone assunte a tempo determinato entrarono a far parte dello staff personale di Renzi e delle segreterie particolari dei componenti della giunta, ed è per questo che una trentina di persone sono finite «a giudizio», a cominciare da Renzi e dall’ex assessore Andrea Barducci, già vice di Renzi, attuale presidente dell’amministrazione provinciale fiorentina. La «parentopoli gigliata» è sollevata ovviamente dal Pdl ma anche dalla sinistra. Per dire. Andrea Calò, capogruppo di Rifondazione comunista, rispetto all’avvio del «processo» presso la Corte dei conti, è arrivato addirittura a sollecitare l’istituzione di una apposita commissione d’inchiesta per fare luce «sulla corretta finalizzazione dell’uso delle risorse pubbliche sulle politiche del personale». Achille Totaro, senatore Pdl, ancora si chiede se era proprio necessario, nel 2004, buttare 2 milioni di euro dopo aver sperperato milioni «per iniziative, allegri banchetti, eventi e uno staff degno del suo livello». A difesa di Renzi parla il suo avvocato, Alberto Bianchi, che al Giornale rivendica la correttezza dell’operato di quella giunta a cui la legge, spiega, consentiva l’assunzione degli uffici a supporto dell’azione politica del presidente e degli assessori, e dunque, «vi è stata un’applicazione corretta delle norme che regolano la materia».

Passando dalla Provincia al Comune, il risultato non cambia. Renzi s’è ritrovato a fare i conti col medesimo problema. Solo che qui, a dar retta all’interrogazione del solito Donzelli, i milioni sperperati sarebbero dieci spalmati in cinque anni per coprire ben quaranta assunzioni, ufficio stampa escluso. A detta del consigliere comunale Pdl, più che sui curriculum e sulle competenze specifiche, la scelta sarebbe stata fatta basandosi sull’«intuito personale» di Renzi o di chi gli sta vicino. Con i quaranta nuovi assunti «esterni» per cinque anni, si legge in un’interpellanza al sindaco, «si sfiorano i 10 milioni di euro l’anno, cifra che viene altamente superata se consideriamo che in questo conteggio sono esclusi i premi di produzione e gli straordinari». Tutto ciò, conclude Donzelli insieme al collega Sabatini, «senza dimenticare che il Comune conta 5.250 dipendenti interni, con capacità e competenze specifiche, ergo, 10 milioni di euro è una cifra da Superenalotto, uno schiaffo alla crisi, alle tasche dei fiorentini e ai 5250 dipendenti interni del Comune di Firenze». Settantotto persone solo per lo staff del sindaco portano gli esponenti del Pdl a ironizzare sulla considerazione che il primo cittadino avrebbe di sé: «Davvero crede di essere come Obama e di doversi creare uno staff da presidente degli Stati Uniti...». Il Comune ha risposto a tono ricordando che il numero degli impiegati è lo stesso dell’entourage del predecessore di Renzi a Palazzo Vecchio. «Bugia - ridacchia Donzelli - l’ex sindaco Leonardo Domenici aveva attinto quasi tutto il personale dal Comune, Renzi in grandissima parte da fuori!».

MALAGIUSTIZIA 

 

Tutta la stampa nazionale ne ha parlato. E' stato condannato a 15 anni di reclusione, tre dei quali condonati, Sebastiano Puliga, il giudice fallimentare del tribunale di Firenze. Era accusato di corruzione, peculato, abuso d'ufficio, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta. Il giudice è stato inoltre interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e condannato al risarcimento dei danni delle parti civili. Il tribunale di Genova ha estinto il rapporto di lavoro del magistrato. Gli altri imputati, una trentina di persone tra avvocati, ingegneri, commercialisti e architetti, sono stati condannati a pene che vanno da un minimo di 3 anni e 2 mesi a un massimo di 9 anni e 9 mesi. Secondo l'accusa Sebastiano Puliga e gli altri imputati facevano parte di un comitato d'affari che ruotava attorno al tribunale fallimentare di Firenze per pilotare l'affidamento di curatele e perizie. Puliga, all'epoca dei fatti contestati, era giudice della sezione fallimentare del tribunale di Firenze e il suo coinvolgimento nelle indagini sui fallimenti, avviate nel 2002 dalla magistratura fiorentina, aveva comportato il trasferimento dell'inchiesta a Genova.

Fallimentopoli. Puliga a giudizio per corruzione. Inchiesta di - FRANCA SELVATICI su La Repubblica 30 maggio 2007 — pagina 1   sezione: FIRENZE

Il giudice Sebastiano Puliga, già in servizio alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze, e i professionisti che, secondo le accuse, avevano costituito con lui una sorta di comitato d'affari che lucrava sulle procedure fallimentari, sono stati rinviati a giudizio ieri dal giudice dell' udienza preliminare di Genova Elena Daloiso. Sono accusati, a vario titolo, di concussione, corruzione, peculato, concorso in bancarotta. Si è chiusa così, con il rinvio a giudizio di 30 dei 36 indagati, l'inchiesta sul più grave scandalo scoperto a Firenze negli ultimi anni. Il processo si aprirà l'8 novembre a Genova, sede competente per giudicare i reati contestati ai magistrati in servizio in Toscana. Sebastiano Puliga, 53 anni, è un giudice brillante. Le voci sul suo conto si erano sempre dissolte, sin quando non divennero dense e pesanti nell' estate del 2002, durante la tempestosa procedura fallimentare della Fiorentina. Il 17 ottobre 2002, dopo essere stato ascoltato dalla polizia, un commercialista che era stato suo amico, Gianni Zanella, si sparò nel suo ufficio in via Lorenzo il Magnifico. Il suicidio fu il detonatore dell'inchiesta, che si sviluppò nelle ore successive con 19 perquisizioni: al giudice Puliga, alla sua compagna, la commercialista Lucia Figini, alla ex moglie di Zanella, Lucia Giannone, anche lei commercialista, e ad altri noti professionisti fiorentini che, secondo le accuse, erano gli interlocutori privilegiati del giudice, coloro a cui venivano assegnati i fallimenti più ricchi e più interessanti. Per quasi 4 anni il pm di Genova Massimo Terrile e la squadra mobile di Firenze hanno studiato le numerose procedure fallimentari o i concordati seguiti dal giudice Puliga e dai suoi professionisti di fiducia. Ne è venuto fuori un quadro impressionante di intrecci e di favori, di indebiti guadagni sui compensi ai professionisti, di incarichi sollecitati o concordati alla compagna del giudice, di prestazioni gratuite e di regali, se non di tangenti vere e proprie, come i 500 milioni di lire che l' imprenditore Piero Sestini ha confessato di aver versato per rendere sopportabili gli effetti del fallimento della sua ditta di autotrasporti. Un quadro di illeciti talmente esteso che a fine indagine è stato tradotto in 200 capi di imputazione, e che ha fatto dire al pm Terrile, nella sua dura requisitoria, che non si riusciva più a distinguere fra la funzione pubblica e la funzione amicale. In uno dei fallimenti, quello di una ditta di sanitari, un lavabo, un wc, un bidet e altre apparecchiature ed accessori furono prelevati dal magazzino e trasportati nella casa che il giudice e la sua compagna stavano ristrutturando a Rosano. Il giudice Daloiso ha rinviato a giudizio quasi tutti gli imputati, salvo cinque che sono stati ammessi al patteggiamento e un sesto che è uscito per prescrizione. Al processo si fronteggeranno buona parte degli avvocati del foro fiorentino e non solo, fra cui il professor Tullio Padovani, difensore di Puliga, e Gianluca Gambogi e Vieri Fabiani, che assistono Lucia Figini. Il tribunale fallimentare, cioè gli ex colleghi di Puliga, hanno deciso di far partecipare al processo, come parti civili assistite dagli avvocati Lapo Gramigni, Roberto Inches e Mario Taddeucci Sassolini, i curatori dei fallimenti che, secondo le accuse, erano stati pilotati e talora saccheggiati, in danno dei creditori, dal giudice Puliga e dai suoi collaboratori. In vista degli eventuali ingenti risarcimenti, il giudice Daloiso ha disposto nei mesi scorsi il sequestro preventivo dei beni di sedici imputati, per quasi tre milioni di euro.

Firenze, giudice malato ma fa l'attore a teatro. «Galeotte» sono state le locandine, scrive Maria Teresa Conti su "Il Giornale". Le locandine di uno spettacolo benefico, la rappresentazione in un teatro di periferia della commedia «La fortuna di perdere», pièce sui pericoli delle vincite plurimiliardarie, affisse anche al tribunale di Firenze. Già, perché proprio lì, tra le austere aule in cui ogni giorno va in scena la giustizia, l’autore e interprete della commedia, Bruno Maresca, 59 anni, napoletano, è una celebrità: non tanto, o almeno non solo, come attore e drammaturgo, ma soprattutto come magistrato di punta. «Galeotte», si diceva, quelle locandine. E la passione per il teatro. Già, perché si dà il caso che il dottor Maresca da tre mesi, per l’amministrazione della giustizia, sia in malattia, convalescente dopo un delicato intervento chirurgico al cuore. E così la domanda è nata spontanea: malato per fare il giudice ma non per fare l’attore? Una bufera. Tanto più che Maresca, a Firenze, non è un giudice qualunque ma un magistrato piuttosto conosciuto. A sollevare il caso, che imbarazza non poco i vertici delle toghe, il Corriere fiorentino. Il presidente del Tribunale di Firenze, Enrico Ognibene, ha annunciato che molto probabilmente non finirà qui: «Se accerteremo un comportamento dissonante dalle regole – ha dichiarato – il caso potrebbe essere segnalato a chi è titolare di decidere sull’eventuale azione disciplinare».

Non è il solo scandalo che ha coinvolto il Palazzo di Giustizia.

Duri anni di udienze dopo un’inchiesta lunghissima, che ha coinvolto giudici e commercialisti, avvocati, architetti (in tutto 30) di Firenze, scrive "Il Secolo XIX".

La vicenda Puliga, il magistrato sotto processo - Sebastiano Puliga, della sezione civile del tribunale toscano, la stessa che seguì la vicenda del crac della Fiorentina di Cecchi Gori - fece scalpore perché coinvolse la sezione fallimentare del tribunale civile di Firenze. Nei guai finirono anche alcuni commercialisti per vicende corruttive. Poi il rinvio a giudizio e il lungo processo.

Le accuse nei confronti dei 30 imputati vanno dalla corruzione alla concussione, dal peculato al falso, all’abuso d’ufficio e concorso in bancarotta. Il magistrato Puliga, all’epoca dei fatti contestati, era giudice della sezione fallimentare del tribunale di Firenze e proprio il suo coinvolgimento nelle indagini sui fallimenti, avviate nel 2002 dalla magistratura fiorentina, aveva comportato il trasferimento dell’inchiesta a Genova.

PARLIAMO DI AREZZO

BANCOPOLI.

Caso Banca Etruria. Il crac di Arezzo: potere e segreti. Le metamorfosi della città dell’oro dove il Pd ha il vestito della Dc e la banca riflette la crisi d’identità, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 21 dicembre 2015. La pioggerellina sottile e dorata dello sponsor Banca Etruria bagnava tutto. Il Volley Arezzo. Il baseball. Il Lions hockey club. Il Vasari rugby. L’unione ciclistica aretina. Il circuito tennistico Vallate aretine. Il Golf Casentino. Poi i corsi di atletica leggera, la Società ginnastica Petrarca, il Giro ciclistico della Toscana. Perfino la squadra di calcio femminile. E come a Siena il Monte dei paschi ha sempre foraggiato il Palio, poteva astenersi Banca Etruria dal sostenere la Giostra del Saracino? Dice Rossano Soldini che il paragone fra le due città toscane è improprio. Siena dipendeva totalmente dal Monte dei paschi. Così invece non è qui. Ma la botta è stata tremenda. «La banca era un organo vitale di Arezzo. E ora non si è diffusa la paura. Lo sa le telefonate di amici, anche influenti in città, che mi chiedono se fanno bene a tenere lì i soldi? Questo atterrisce…». Le parole di Soldini fanno correre un brivido lungo la schiena. Lui è fra gli aretini più in vista. Ha un’azienda di scarpe con 200 dipendenti e ha visto la bestia dall’interno. È stato nel consiglio di amministrazione ai tempi del blitz da cui, dice, è partita la valanga. Cambiò tutto un giorno di maggio del 2009. Il consiglio si riunì e sfiduciò il presidente Elio Faralli, 87 anni, confermato solo un mese prima: otto a sette, con il voto decisivo di un consigliere che aveva affidamenti monstre dalla stessa banca e poi fece crac. E arrivò Giuseppe Fornasari, una vecchia volpe democristiana sottosegretario con Andreotti. «Si raccontò», ricorda Soldini, «che la banca passava dalla massoneria all’Opus Dei. Erano fesserie. La verità è che aveva già perso identità locale. Troppi consiglieri non erano di Arezzo e i finanziamenti andavano ad aziende di fuori». Fesserie? Può darsi. Ma il travaso bianco ai vertici è un fatto, e non si è fermato lì. Bianco, Fornasari. Bianco, il vicepresidente Pier Luigi Boschi, padre del ministro delle riforme Maria Elena Boschi ed espressione della bianca Coldiretti. E bianco pure il cattolico Lorenzo Rosi, presidente dopo Fornasari. Quanto ai finanziamenti dati fuori, era storia già vecchia. Fino agli anni Ottanta l’identificazione fra banca e città era totale. Da ogni punto di vista. Alla filiale di Castiglion Fibocchi c’era il conto «Primavera» sul quale affluivano i soldi della loggia P2 di Licio Gelli. «Un aretino illustre», l’ha definito senza infingimenti il sindaco Alessandro Ghinelli quando qualche giorno fa è morto. Un decesso che ha chiuso un’epoca inquietante, con qualche sollievo ipocrita. Quelli che contano hanno riempito di telegrammi la famiglia ma hanno disertato la camera ardente. Con le sole eccezioni dell’ex patron dell’Arezzo Calcio Piero Mancini e di Antonio Moretti, imparentato con i Lebole dell’azienda tessile che il Venerabile fece comprare all’Eni. Soprattutto, la popolare era la banca dell’oro, nota per il «prestito d’uso». Anziché i soldi, prestava alle imprese l’oro mettendole al riparo dai saliscendi delle quotazioni. C’erano un tempo più di duemila aziende, con trentacinquemila addetti. Un numero impressionante, pari al 10 per cento di tutti gli abitanti della provincia. «La crisi ci ha massacrato. Siamo rimasti in 1.200, con 13 mila addetti. E anche il rapporto con l’Etruria è cambiato: tante altre banche oggi fanno il prestito d’uso...», confessa la presidente degli orafi toscani di Confindustria Giordana Giordini. Ma la crisi ha massacrato anche il tessile e il mobile, con altri riflessi pesanti, al di là delle malversazioni, su una banca sempre meno aretina. Anche perché, dopo il 1988, in seguito alla fusione con la popolare dell’Alto Lazio, il baricentro si era spostato inevitabilmente più a Sud. Soldini colloca il momento della svolta «intorno al 2005 o al 2006». Anni cruciali. Gli anni della fine della giunta di centrodestra di Luigi Lucherini e dell’arrivo di Giuseppe Fanfani: nipote di Amintore Fanfani, «cavallo di razza» della Dc, pittore per diletto come lo zio. E democristiano a quattro ruote motrici. Consigliere comunale, quindi alla Provincia, segretario provinciale del partito e parlamentare margheritino. Perfino presidente di una Usl, lui che di mestiere fa l’avvocato. Poi sindaco. Nel 2006 vuole tornare alla Camera ma viene trombato. Siccome però si è candidato anche al Comune dove il sindaco di centrodestra Luigi Lucherini è stato spazzato via da un’accusa di abuso d’ufficio, eccolo primo cittadino. Quattro anni dopo il suo partito, nel frattempo diventato Pd, gli propone un posto al Csm. Ma lui rifiuta, sostenendo che è «un dovere istituzionale» restare lì. Nel 2014 però cambia idea: quando passa di nuovo il treno del Csm molla Arezzo e ci salta sopra. Professando: «È l’incarico più importante della mia vita». La ciliegina su una torta condita da una dichiarazione di fedeltà a Renzi. Amintore Fanfani ad Arezzo fece passare l’Autostrada del Sole, nientemeno. Del nipote, invece, gli aretini più maligni rammentano un tuffo nella fontana della stazione quando l’Italia vinse i Mondiali di calcio del 2006. Nonché una piazza intitolata allo zio. Oltre ai manager di Banca Etruria patrocinati dallo studio legale Fanfani. Tutto qui? La prova che il suo decennio non è stato indimenticabile si è avuta sei mesi fa, quando Ghinelli, figlio di un ex segretario missino, ha stracciato alle comunali il renzianissimo e cattolico Matteo Bracciali. Una sconfitta bruciante per un Pd che qui ha vestito integralmente i panni della vecchia Dc. Insieme forse agli antichi vizi. Così non poteva mancare, come il capogruppo di Fratelli d’Italia in Comune Francesco Macrì, chi attribuisce la responsabilità del crac a quei «sistemi di potere contigui alla politica». Ha ragione? Chissà. Certo questo è un film già visto tante volte, con attori forse soltanto un po’ più giovani…

AREZZO E LA MASSONERIA.

“Tanto per far capire a chi non sa, ad Arezzo le logge massoniche sono 6 di cui la loggia Agorà la più grande conta 1294 fratelli e la più piccola la Benedetto Cairoli circa 119 per un totale di aderenti alla massoneria aretina di circa 2400 fratelli”. (Dal sito Arezzonotizie). “Se ad ogni massone si aggiungono amici e parenti si può capire l'influenza che tale associazione possa avere, pari e superiore, per numero, ad un medio partito, ma per potere pari ai due più grandi partiti messi assieme, eh si!”.

Il Rompiballe e la massoneria aretina...Ad Arezzo non si muove foglia che la massoneria non voglia. Non può che essere questa la premessa ad un discorso ragionato sul potere forte (e tentacolare) della nostra città, scrive Gianni Brunacci. Da queste parti (ma non siamo i soli; tolta Perugia, la tradizionale capitale massonica, in Italia esistono altre piazze molto “condizionate”) la politica amministrativa e gli stessi cittadini devono fare i conti con squadre e compassi più o meno occulti. Tanto questo è vero che, si vocifera, l’attuale Sindaco Fanfani sembra essere il primo della città a non essere iscritto ad alcuna loggia. Effettivamente ci risulta che Giuseppe Fanfani non faccia parte delle liste segrete (che poi tanto segrete non sono), ma a suo tempo, in periodo preelettorale amministrativo, ebbe anche lui modo di rispondere ad una nostra domanda sulla questione e lo fece in questi termini: “Non sono iscritto alla massoneria, ma non ho certo preclusioni aprioristiche verso chi lo è, ben vengano anche i voti massoni…”. Per parlare di massoneria nello spazio di un articolo, non si può certo approfondire la trattazione del fenomeno, per cui rimandiamo il lettore curioso ad uno degli innumerevoli manuali scritti sulla materia. Quello che a noi interessa, nella fattispecie, è sottolineare la caratteristica meno “democratica” che caratterizza la massoneria. Stiamo parlando, questo è indispensabile ricordarlo, di associazioni sostanzialmente segrete. Visto dall’esterno, il problema sta tutto lì. Ci hanno insegnato, fin da piccoli, a diffidare di chi opera nella segretezza: i servizi segreti, le sette segrete, le segrete cose, e le segrete prigioni, non hanno mai ispirato simpatia ad alcuno. Sapere che l’associazione segreta di tipo massonico è composta (per lo più, ma non sempre) da persone influenti nel loro settore lavorativo o ambito territoriale, non contribuisce a tranquillizzare i cittadini. E’ noto che ad Arezzo i principali centri di potere, per intenderci quelli dove si gestiscono il denaro e le notizie che la città produce, sono per lo più influenzati dalla massoneria. Ecco svelato perché, quindi, abbiamo concepito la prima frase di questo articolo. Gestendo i centri di potere si gestisce la comunità (più o meno ristretta) nella quale questo potere è esercitato. Siccome la massoneria ha fama di essere politicamente trasversale, ecco che non è nemmeno così semplice comprenderne l’azione. Una certezza possiamo averla, però, ed è il fatto che le logge sono molto interessate a mantenere la propria influenza sui centri di potere; addirittura si può dire che lo siano fino agli umani limiti… Questo fatto, indubitabile, ci suggerisce che da questa “gestione” non può che derivare un sostanzioso profitto economico. Il vulnus democratico, a nostro parere, risiede soprattutto nel fatto che un potere occulto (si fa per dire…) viva (bene) al di sopra di quello teorico, che noi, poveri cittadini ignari e non iscritti ad alcuna loggia, continuiamo a ritenere che sia quello vero, determinato di volta in volta dal voto democratico. Proviamo ad immaginare due frecce di metallo poste parallelamente l’una sopra l’altra: quella inferiore sarà verniciata di verde e rappresenterà la direzione politico-democratica in essere, quella superiore sarà invece nera e rappresenterà la direzione gradita alla massoneria. Qualora le due frecce siano orientate nella stessa direzione, la vita cittadina procederà senza scossoni, ma non appena la freccia verde (quella la cui direzione iniziale è determinata dal voto democratico dei cittadini) oserà prendere un senso diverso rispetto a quella nera, questa attiverà la propria potentissima calamita e indirizzerà la freccia verde nella “giusta” direzione. Qualche lettore si chiederà quale possa essere la potentissima calamita di cui scrivo, ed io mi limiterò a chiamarla “denaro”. La generosità massonica è nota in città, infatti alle logge basterà mettere a disposizione della cittadinanza un po’ di soldi e la direzione della freccia verde diverrà obbligata. “C’è bisogno di questo? Ecco qua, i soldi li mettiamo noi; occorre portare a termine questo progetto per il bene dei cittadini? I nostri soldi sono a disposizione”.In questo modo non solo la massoneria terrà sotto controllo la città, ma ne riceverà anche una serie infinita di scappellamenti e ringraziamenti vari. Qualcuno penserà, dopo aver letto queste righe, che quello che scriviamo sono soltanto delle banalità poco efficaci, qualcosa che tutti sanno già da tempo. Ci sembra di sentirli, i lettori più “scafati”, mentre sono lì, con il sorriso obliquo, che sussurrano un “Cosa pensi di dirci, Brunacci, qualcosa di nuovo? Sappiamo benissimo come stanno le cose…”. Bene, credo che sia comunque utile scriverle, certe cose, perché fino ad oggi, in questa omertosa città, nessuno l’ha fatto; e poi c’è gente ingenua, che pensa ancora di poter cambiare la direzione delle frecce attraverso il voto democratico…

LA MAFIA AD AREZZO.

La mafia ad Arezzo, pare, non interessi a nessono, fa semplicemente comodo a molti, scrive Gianni Palagonia su “Notizie Genova”. Qualche giorno addietro, ho rilasciato una intervista a RAI3 Toscana, dove rivelo per la prima volta che la città dove è ambientato NELLE MANI DI NESSUNO è Arezzo. Ritenendo che le mie gravissime affermazioni avrebbero avuto eco sui mass-media locali, ho chiesto ad un mio collega che vive ad Arezzo, di  informarmi in merito. Lui, che conosce bene il territorio e la testa di chi gestisce il potere locale, mi aveva gia’ preannunciato quello che sarebbe accaduto. Niente. Mi ha detto che non sarebbe accaduto niente e così e’ stato. Aveva ragione. Nessuno ha gridato allo scandalo. Niente di niente, se non la solita indifferenza. Nessuno si è indignato, nessuno ha commentato, nessuno si è lamentato, i vertici della Questura non hanno smentito, nessuno ha denunciato, nessuno si è incazzato. Niente, niente di niente. Wow! Pure nel Burundi avrebbero fatto casino, ad Arezzo no! Perché? Che sia sfuggita la notizia? NO!  E la società pulita in che posizione si colloca in questo silenzio tombale? Ma … lo sanno che l’indifferenza ammazza più di una pallottola?. Ed i giovani? Quelli di vari gruppi di destra o sinistra che mettono i gazebo nelle vie del centro per manifestare con tanto di megafono contro il governo, dove sono? Che fanno? Ah, è vero. La riforma della Gelmini. In quel caso si fanno le fiaccolate e poi tutti a cena. Ma quando c’è da scendere in piazza e chiedere conto a chi  amministra la loro città, dove sono le varie associazioni di sinistra o di destra?  Ma la cosa che più mi lascia sgomento è l’indifferenza di Confcommercio e Confindustria che dovrebbero essere i primi a drizzare le antenne. Forse hanno paura di scontentare qualcuno se si facessero sentire? Mi sconfortano anche associazioni antimafia come Libera, ovviamente non parlo dei politici. Figurarsi. Chi mi conosce sa qual’e’ la mia considerazione nei loro confronti, anzi, credo di averlo ben esternato a pag. 47 del mio libro. . Ma … mi chiedo! Come possono ignorare?. E, poi, nota dolente, voglio dedicare un piccolo spazio ai giornali. Come può un giornalista far finta di niente ad una notizia “bomba” come quella che ho dato? A nessuno interessa che  47 mafiosi frequentavano assiduamente Arezzo ed uno di questi (quelli accertati sono anche altri) ha riciclato 7 miliardi di oro in una azienda orafa? A nessuno importa questa cosa? Forse vale il detto che “pecunia non olet”. Oppure che l’importante e’ far girare l’economia, senza pensare da dove arrivano i soldi? Forse qualcuno ha paura di non potersi più permettere il Porche o di poter acquistare la copertina per coprire il cagnolino da far esibire alla propria moglie nella passeggiata serale per il corso? Chissa! Il mio amico collega poliziotto aretino, tra il serio ed il faceto, mi ha letto telefonicamente quali erano le notizie più importanti di cui si è parlato nei giorni successivi alla mia intervista sui giornali locali, il Corriere di Arezzo  e Il Nuovo Corriere Aretino. Ecco, alcuni titoli “ stop al mercato del sesso” “ una cisterna finita fuori strada” “le grandi manovre della sinistra” “posacenere tascabili nel rispetto dell’ambiente e decoro ” “ cambio di circolazione”  ”la crisi non azzoppa la giostra” “Qualità dell’aria” “mille firme contro Berlusconi-iniziativa del PD” “ al mercato per incontrare il sindaco” ecc. ecc. Ma, tra tutto ciò, c’è anche un bel titolo. Il GICO della Guardia di Finanza sequestra appartamenti di un clan camorristico campano a Foiano della Chiana. ...continua

Personalmente non mi stupisco, io so bene cosa c’è ad Arezzo e provincia e, purtroppo, non è la prima volta che vengono sequestrate le case dei clan ad Arezzo. Una bellissima città NELLE MANI DI NESSUNO, come molte alte realtà della nostra Italia.. Ma la notizia più buffa di tutte, lasciatemelo dire, è quella data dalla locale Questura: “Ospiti degli hotel ai raggi X. La polizia li controlla in un attimo”. Ecco, così come ai tempi in cui ci lavoravo io, nulla è cambiato. Apparire sui giornali è preminente sulla buona creanza di tenere la bocca chiusa. Era così essenziale far sapere a ladri, truffatori, terroristi e mafiosi che il grande fratello ci dirà in tempo reale che “la mala carne” ha preso alloggio in uno degli alberghi di città? Non era meglio tacere questa notizia per dare alle forze dell’ordine il vantaggio di indagare su quella presenza scomoda?  Vedo che dai tempi in cui ci lavoravo io, nulla è cambiato, purtroppo. Stessi concetti, stesse mancanze, stesse superficialità delle istituzioni al potere. Ma la colpa non è solo delle istituzioni. I cittadini avrebbero il diritto dovere di far sentire la loro voce. Invece. Nulla. Niente di niente. La città continua a girarsi dall’altra parte “non vedo, non sento, non parlo”. Questo detto, non so perché, mi ricorda tanto qualcosa. Forse si chiama omertà?  Ma si…alla fine li capisco. Perché devono crearsi un problema che può squilibrare le tranquille serate delle vasche al corso Italia tra vetrine luccicanti dove spendere soldi. Perche” rovinarsi la cena a base di ocio e bistecca toscana (cantando brindisino tralallalalala) nel ristorante alla moda. Perchè perdersi l’aperitivo delle 19.00 nel bar dove si arriva con le macchine prese in leasing, esibendo ai convenuti scarpe e vestiti nuovi. Perchè chiedersi da dove arriva la cocaina che gira in città. D'altronde cosa importa sapere chi è il titolare di questo o quel locale o come ha fatto i soldi. E’ bello, si mangia bene, fa tendenza e da posti di lavoro. E se i dipendenti vengono pagati con il sangue dei morti a chi importa. I giornali locali per conto delle lobby che controllano la città continueranno a scrivere quello che il padrone comanda e quinsi: “ la ripresa economica è alle porte” ecc.ecc. Poi, se è vero o falso che importa. C’è stato un periodo in cui ero dispiaciuto di come avevo dipinto la città nel mio libro. Così tanto dispiaciuto che volevo cancellare delle pagine. Dopo questa intervista e l’assoluta indifferenza della città, sono certo di una cosa. Quello che ho scritto è perfetto. Purtroppo la gente semplice non è abituata a capire e percepire i cambiamenti degenerativi della società. Ma ci sono persone che vengono pagate dalla Stato per fiutare, analizzare e mettere mano ai cambiamenti, ponendovi dei rimedi. Mi dispiace solo per la povera gente, quelli onesti e puri, quelli senza Porche e scarpe da 500 euro. A loro dico: mi dispiace. Se un giorno avrete da lamentarvi, vi dico che la colpa dei vostri mali è di tutti quelli che hanno mal gestito la cosa pubblica. Mi dispiace per i ragazzi che cresceranno. A loro dico. Quando sarete grandi chiedete con forza spiegazioni ai vostri genitori. Se un giorno vi rendete conto che la notte non potete girare sicuri per le strade la colpa è di chi oggi, con il loro silenzio e la loro disattenzione, vi ha lasciati in balia delle onde.

PARLIAMO DI GROSSETO

GROSSETO ED IL CAPORALATO.

Il caporalato nei vigneti toscani. E la vendemmia diventa low cost. Ore 4, Grosseto: un centinaio di stranieri aspettano di essere ingaggiati. Nessun contratto, la paga è di 6 euro l’ora. «Vogliamo solo lavorare». Il viticoltore: «La raccolta l’ho data in appalto ad un albanese», scrivono Majlend Bramo e Jacopo Storni su “Il Corriere della Sera”. Cominciano ad arrivare alle 4 di mattina. Dieci, venti, trenta. In pochi minuti oltre cento. Arrivano a piedi o in bicicletta. Uomini e donne in cerca di lavoro. Romeni, bulgari, moldavi, bengalesi, albanesi, nel cuore della notte al distributore Esso sull’Aurelia. È qui che trovano i «caporali», pronti a smistare la manodopera nelle aziende agricole tra Siena e Grosseto. È la vendemmia low cost, tra i vigneti del Chianti e della Maremma. Cinquanta euro per una giornata di otto ore, che spesso diventano dieci. Sei euro l’ora, a volte meno, senza contratto, senza assicurazione, senza vestiti adeguati, senza niente. E alcuni dei nostri vini nascono dalle loro mani. Arrivano con lo zaino in spalla. Attendono quello che chiamano «padrone». «Vogliamo lavorare» ripetono. Sembra di essere a un centro per l’impiego. Clandestino però. A un chilometro appena dalle mura di Grosseto. Accanto al distributore c’è un bar, aperto 24 ore su 24, dove lavoratori e «caporali» prendono l’ultimo caffè, prima di partire alla volta dei vigneti. C’è un albergo, ci sono alcune case in costruzione. Tutti sanno ciò che cercano quegli uomini e quelle donne, ogni mattina, in questa area di servizio. Lo smistamento dei lavoratori ha inizio intorno alle 5: dieci da una parte, dieci da un’altra, quindici da un’altra ancora. I caporali gesticolano in mezzo alla folla, indirizzano gli aspiranti lavoratori verso i pulmini — circa una ventina — pronti a partire. È un meccanismo collaudato. I lavoratori parlano poco, qualcuno si inginocchia, si mette in disparte e prega. Vogliono solo vendere il loro lavoro. C’è silenzio. Gli sguardi sono severi. Chiediamo informazioni, ci fingiamo lavoratori in cerca di un impiego. Restano impassibili quattro donne romene, sedute sul ciglio della strada. Arriva un bengalese, sbuca dai campi all’improvviso. «Cinquanta euro» dice quando chiediamo il «salario». Cinquanta euro per otto ore, magari dieci. «Contratto? No, tutto a nero», dice lui. Poi aggiunge: «Lavoriamo nei campi, nei vigneti, spesso intorno a Siena». Intercettiamo un altro lavoratore. Risposte simili: «Contratto? Se lavori venti giorni, a volte te ne segnano due». E le aziende? «Italiane, tutte italiane», dice un ragazzo in attesa di essere reclutato. C’è chi spera, chi s’illude: «Se lavoro ancora un altro mese, il padrone mi ha promesso l’assunzione». Dicono che il padrone sia un signore albanese. «Chiedi a lui, il padrone è quello là», bisbigliano in tanti. «Vedi quell’uomo dentro al bar con la maglia bianca? Vai da lui, lui sa tutto». Alle 5,30, i pullmini sono già pieni. Motori accesi pronti a partire. Gli ultimi accordi, le ultime raccomandazioni. Poi si parte, nel buio della notte, verso i vigneti della Toscana. Vanno veloci le vetture dei lavoratori. Toccano punte di 160 chilometri orari lungo la superstrada Grosseto-Siena, superano le auto con sorpassi azzardati, è difficile stargli dietro. Seguiamo due vetture, percorrono la stessa strada fino a Poggibonsi, fermandosi soltanto una volta alla stazione di servizio prima di Siena. La prima vettura devia verso San Gimignano. Nel frattempo albeggia. La seconda auto prosegue verso l’empolese. Si ferma a Gambassi Terme, Chianti fiorentino. Il proprietario terriero, un signore toscano, li aspetta lungo la strada col trattore acceso, poi indica ai lavoratori i vigneti su cui cogliere l’uva. Sono le 7 quando i braccianti entrano in vigna. Nessun cartellino di riconoscimento, ai piedi le scarpe da ginnastica. Il proprietario dei vigneti lavora insieme a loro. Lo intercettiamo. Il suo terreno, ci spiega, viene coltivato da questi immigrati attraverso un contratto d’appalto con un’azienda gestita da un albanese. «È tutto in regola», dice l’uomo, che aggiunge: «Nei documenti del contratto, l’azienda albanese mi ha fornito e i nomi e i cognomi dei quattro lavoratori addetti ai miei vigneti». Peccato però, confessa pochi minuti dopo, che «non sempre arrivano le stesse persone a lavorare sui miei campi». E qualche volta, ne arriva pure qualcuno in più. Molti non segnati nel contratto di appalto e molti, come ripetono i lavoratori incontrati a Grosseto, in nero, senza assicurazione, a 6 euro l’ora. «Con questa crisi — ripete il viticoltore — è già un miracolo se riusciamo a sopravvivere». Poi aggiunge: «Mi farò carico di controllare la reale identità e provenienza di questi lavoratori». Nel frattempo, il business continua, nel Chianti ma non solo. È il business dei «caporali», quelli della Toscana, quelli che reclutano manodopera in nero e la smistano, a notte fonda, in tutta la regione. Pochi, pochissimi, i controlli delle forze dell’ordine. E il guadagno va avanti: quello dei caporali, quasi sempre stranieri, e quello delle aziende agricole, italiane, indirettamente complici.

GROSSETO E LA MASSONERIA.

Grosseto La fascia tricolore parla della massoneria e dei suoi grembiuli. Il tema della massoneria è molto sentito a Grosseto e in Maremma. Per questo Paolo Pisani su “Massa Comune” ha voluto avvicinare il sindaco di Grosseto Emilio Bonifazi, per conoscere le sue idee ed avere un suo giudizio sulla massoneria. Ecco, dunque, quello che potremmo definire il ‘Bonifazi pensiero’. Signor sindaco, lei conosce la massoneria? “Oltre ad aver avuto modo di leggere spesso ‘Hiram’ ( la rivista ufficiale del Goi ndr), da anni mi sono avvicinato più per curiosità che per pregiudizio, a questo argomento. Verso la fine degli anni ‘80, quando ero consigliere comunale a Massa Marittima, venne presentato un ordine del giorno con cui si chiedeva a tutti i componenti il consiglio, di dichiarare la loro eventuale appartenenza a questa istituzione. Come cattolico, volli allora comprendere la posizione della chiesa contemporanea, nei confronti di questo antico sodalizio. Dalle dichiarazioni della Congregazione della Fede, che era allora presieduta dall’ attuale Pontefice, presi atto che, pur affermando una diversa visione del mondo, il giudizio non era negativo si auspicava la possibilità di un dialogo”. Ritiene che la Massoneria, forse anche per una certa sua riservatezza, subisca ancora oggi una sorta di persecuzione? “In questo momento, più che di persecuzione, parlerei di pregiudizio. Per quanto mi riguarda, ritengo però che tali pregiudizi, grazie ad una serie di pubbliche iniziative, aperte a tutti, che la massoneria attraverso anche le sue logge promuove nei vari comuni italiani, siano abbastanza superati. A Grosseto ad esempio, la Loggia Pacciardi, non manca periodicamente, insieme all’Antica Società Storica Maremmana, di organizzare incontri ed appuntamenti molto interessanti”. Della non accettazione delle donne in massoneria, che cosa ne pensa? “Ritengo che sia in qualche modo una scelta, storicamente comune anche a vari club. Nel tempo, questa esclusione è andata a scemare e sparire, ma ritengo e naturalmente lo dico come profano, che nel caso della massoneria, le ragioni, possano essere in qualche modo legate anche agli aspetti simbolici ed esoterici che porta avanti. Del resto, persino nell’ambiente a me più vicino, quello della chiesa cattolica, la presenza femminile è relegata a compiti limitati e ben distinti”. Che un massone invece faccia politica, che cosa ne pensa? “Penso che sia un dovere, prima ancora che un diritto, che ciascun essere umano, che fa parte di un ‘consorzio sociale’, partecipi e si impegni per la cosa pubblica. Del resto, fare politica, significa in senso lato, occuparsi del bene pubblico, cosa che si fa anche, prendendo parte alla vita associativa. Spesso erroneamente, si sente dire ‘io sono apolitico’, ma è una dichiarazione impropria, perché di fatto, nessuno lo è. Si può essere apartitici, ma con la politica ci misuriamo tutti quanti e in un modo o in un altro vi partecipiamo”. Secondo lei, un massone che entra in politica dovrebbe dichiararlo prima? “La cosa è secondo me, un fatto di singola coscienza. Essendo associazioni ed istituzioni riconosciute , pubbliche e non vietate dalle leggi dello Stato, il dichiararlo, rientra nel libro arbitrio del singolo soggetto”. Lei che è un cattolico, come vede i rapporti tra chiesa e massoneria? Pensa che influisca su certe incomprensioni, un certo retaggio risorgimentale? “Motivazioni storiche a parte, che possono sicuramente avere avuto il loro peso e la loro influenza, io credo che la massoneria, abbia una visione del mondo e dell’essere supremo, dai massoni appellato ‘Grande Architetto dell’Universo’, di tipo teosofico. La Chiesa cattolica invece, persegue una visione ‘teologica’, con un credo incarnato nel Cristo, figlio di un Dio unico. Essere dunque cattolico e contemporaneamente massone, mi appare come una evidente contraddizione”. La massoneria, parliamo di quella regolare, secondo lei ha avuto in Italia, delle responsabilità politiche? “Credo che certi fenomeni, più che alla massoneria regolare, abbiano avuto come attori, singoli soggetti di gruppi spuri e deviati. E’ quanto peraltro venne appurato, nel corso delle indagini, dalla commissione Anselmi che, a suo tempo, indagò sulla P2. Non possiamo neppure dimenticare che, personaggi insigni che hanno ricoperto cariche di primo piano in Italia, erano massoni”. Tra i suoi colleghi amministratori, del passato e del presente, ci sono stati e ci sono dei massoni dichiarati? “Certamente. Non faccio nomi, nel rispetto della riservatezza, ma ce ne sono stati e molti di loro, non hanno celato di far parte della massoneria”. Lei, se invitato, accetterebbe di farne parte? “Non ne farei parte, per la ragione già accennata, della mia identità cristiana e per il fatto conseguente di non riconoscermi, nella visione ‘teosofica’, tipica di un massone. Farne parte, sarebbe per me una contraddizione”. Dal momento che la massoneria dichiara nei suoi dettati, di lavorare al bene ed al progresso dell’umanità, lei ritiene che esprimere pareri e fornire suggerimenti e proposte, sarebbe un ruolo che le compete? “Come ogni associazione, sebbene la definizione che i massoni danno della massoneria, la rappresenti in maniera diversa, su argomenti di interesse generale, fornire contributi, sarebbe un modo positivo e legittimo per aiutare le pubbliche amministrazioni e i loro rappresentanti”. Secondo lei, in questa istituzione, c’è qualcosa di superato, di anacronistico? L’uso dei grembiuli, delle fasce, dei guanti, secondo lei sono orpelli? “La Chiesa stessa, lo vedo da cattolico, ha i suoi simboli, i suoi paramenti sacri, a cui do una valenza di sostanza, di essenzialità e non coreografica. I vari riti, seguono azioni e simbologie che li caratterizzano e li rendono unici e suggestivi. Ho assistito di recente alla cerimonia di vestizione di alcuni nuovi confratelli della Misericordia, con la consegna della ‘cappa’ e della ‘buffa’. Un momento pregnante, che ha teso a dare alla cerimonia, un alone di emozione e di coinvolgimento”. Una domanda ‘tendenziosa’. Che cosa farebbe, se come primo cittadino, si imbattesse durante una cerimonia ufficiale, in qualcuno che la saluta con i tre massonici baci sulle guance? “Sorriderei, starei al suo saluto, subendo profanamente (si dice così vero?), il triplice bacio fraterno”.

LA MAFIA A GROSSETO.

Una diagnosi non grave, ma il paziente va comunque tenuto sotto osservazione. È questo il dato che emerge dall’ultimo rapporto sulla criminalità organizzata in Toscana sulla situazione grossetana, divulgato dalla Fondazione Caponnetto a Scansano. «La provincia di Grosseto è messa meglio rispetto ad altre in Italia«, spiega sul “Tirreno” Salvatore Calleri, presidente della Fondazione insieme a Elisabetta Baldi Caponnetto, moglie di Nino. «La mafia è presente sul territorio ma non in modo elevato; in modo, possiamo dire, “normale”. Non ci sono, insomma, comportamenti visibilmente mafiosi». Ci sono però campanelli d’allarme. «Lo sono il consumo di stupefacenti da parte dei giovani - spiega Calleri - visto che il traffico di stupefacenti è appannaggio della mafia. Lo è la crisi economica, che può favorire il ricorso all’usura. L’ultimo rapporto della Direzione nazionale antimafia poi segnala gruppi camorristici in Toscana nel settore del riciclaggio di denaro e questo significa una presenza spalmata ovunque». La Fondazione Caponnetto invita a controllare le strutture turistiche e le ditte edili. E punta il dito su un fatto recente che ha scosso Follonica. «L’incendio doloso del camion a Follonica a metà aprile nel cantiere del teatro mi preoccupa molto - spiega Calleri - perché un camion che brucia in modo doloso può essere un segno preciso. Nel settore dei camion operano gruppi casalesi e catanesi; c’è solo da sperare che non siano arrivati qua». Più preoccupante è la situazione nell’alto Lazio, «ed è questa vicinanza - spiega Calleri - che dovrebbe preoccupare. Per il resto in Toscana preoccupano soprattutto le zone di Massa Carrara, la Lucchesia, il Livornese e l’Aretino. La Dia sta inoltre monitorando i grandi appalti, compreso quello per la costruzione dell’autostrada in Maremma». Quali sono i campanelli d’allarme per un imprenditore? «Quando si ha a che fare con un nuovo soggetto - spiega Calleri - bisogna chiedersi chi sono, che lavoro fanno, chi frequentano e da dove prendono i soldi». E se si sospetta qualcosa? «Fare subito una segnalazione anonima alla Dia. Devo ammettere che qui a Grosseto c’è la fortuna di avere una Prefettura attenta».  

PARLIAMO DI LIVORNO

LIVORNO ALLA FAME.

L'autunno caldo del lavoro che scompare. E Livorno diventa il simbolo della crisi italiana. Mentre in Parlamento si discute di Jobs Act, nel Paese chiudono gli stabilimenti e il conflitto sociale aumenta. E la città toscana, un tempo cuore della sinistra, si scontra con il drammatico arretramento dell'industria: "Negli anni '90 la città era una fabbrica. Ora è un deserto", scrive Marco Damilano L'Espresso. Manifestazione operai Trw di Livorno a Roma La grande ciminiera dell'Eni brilla nel buio, gli operai la vedono dirimpetto, dallo stabilimento in dismissione, un avamposto nel deserto che avanza, via Enriquez è la frontiera che divide la grande fabbrica agonizzante dalla prossima che sta per entrare in pericolo. E un vecchio pino marittimo, stremato, piegato da bandiere rosse e striscioni, dalla sconfitta. Livorno delle baracchine e dei Fossi, Livorno di Giorgio Caproni «d'aria e di barche odorava», ma da qui è lontana, il mare non si vede, neppure si sente. «Siamo a Fort Alamo», dice l'operaio anziano Franco Rossi davanti ai cancelli. Tute, felpe, cappellini, sedie di plastica. Sono le sei di sera quando i 413 lavoratori della Trw ricevono la lettera con cui la direzione del personale comunica che non saranno pagati i turni di notte, incollata sulla bacheca, sopra un comunicato in cui pochi mesi fa «la formidabile azienda Trw» vantava «il grande successo», «gli importanti risultati raggiunti». «Hanno portato un pullman carico di direttori da tutta Europa, ci presentavano come un modello», raccontano gli operai. Ora, invece, si chiude. Fine della Trw, la fabbrica simbolo della Livorno industriale dal 1936, quando si chiamava Spica, Società pompe iniezione Cassani, ribattezzata la Spiga. E chiusura di un'epoca nella città dei portuali e dell'industria di Stato. Nell'Italia dell'autunno caldo, dei 160 tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo, da Taranto a Genova a Piombino, degli operai della ThyssenKrupp di Terni senza stipendio che finiscono sulle prime pagine perché picchiati dalla polizia e per l'incapacità del ministro Angelino Alfano, Livorno è un laboratorio in cui si sperimenta come il lavoro abbandoni una città. E come crisi economica, crisi sociale e crisi politica si stiano drammaticamente intrecciando. «Una crisi che va oltre le dinamiche congiunturali e assume tratti strutturali con forti riflessi per il mercato del lavoro e, più in generale, per la tenuta sociale», si legge nell'ultimo rapporto della regione Toscana. E dire che per il Censis Livorno era una delle città più vitali d'Italia, con il centro di robotica sul porto e l'indonesiano Bachtiar Karim che produce olio da palma e biodiesel. Invece è un vulcano pronto a esplodere. Anche nella mirabolante epoca della stazione Leopolda, il treno Renzi che qui non si è mai fermato. Livorno città fredda. Di cattivo umore. Saracinesche abbassate, 314 negozi hanno chiuso per sempre dall'inizio del 2014. Gente per strada nelle ore del lavoro, il tasso di disoccupazione è il 16,1 (rispetto al 7,9 toscano), quello giovanile è del 58,8 tra i giovani sotto i 24 anni e del 26,9 tra i trentenni. Striscioni in città. Fino a qualche settimana fa il visitatore era accolto dalla scritta d'epoca sulle mura Msi fuorilegge, mai cancellata, il biglietto da visita dei livornesi. Da qualche giorno sono cominciati ad apparire strani graffiti, mai visti nel resto d’Italia: Renzi il Gattopardo", "Renzi uguale Dc uguale mafia", "No Jobs Act. Gli stencil, i calchi con il volto del premier e la didascalia “Il mostro di Firenze”. Sugli ex cantieri Orlando, sulla cinta muraria che divide il porto dal centro storico, nel cuore del quartiere Venezia dove c’è lo scheletro del teatro San Marco, in cui il 21 gennaio 1921 - a malapena c'erano il rullino e il gettone, figuriamoci l'iPhone - nacque il Pci, «per rompere le catene di un duro servaggio», recita la lapide, davanti a una lacera bandiera rossa. A mezz'asta. Per giorni la città è stata invasa dall'immondizia, sulla facciata del municipio ci sono i segni dell'ultimo lancio di uova, in piazza c'è lo striscione «Nogarin sei peggio di Renzi». I lavoratori della Cooplat, la cooperativa che raccoglie i rifiuti, invadono il primo piano, vogliono parlare con il sindaco: «Dobbiamo metterci le scarpe buone per vederlo?». Qualcuno prova ad assaltare la macchina del primo cittadino. Filippo Nogarin, sindaco da cinque mesi, è l'uomo del Movimento 5 Stelle che ha mandato all'opposizione la sinistra da sempre al potere nelle sue diverse reincarnazioni, dal Pci al Pd. «Il caso non esiste, lo dico da uomo di scienza. Non è un caso che tocchi a me gestire questa situazione», dice. «C'è una congiura delle polveri contro di me? Forse sì». Si è messo alla testa degli operai e si scaglia contro gli spazzini, «dobbiamo intervenire sul servizio, ci sono indici di assenteismo intollerabili», prova a cavalcare il caos. Ostenta un'invidiabile serenità, si fa fotografare mentre si tuffa in slip nella piscina comunale Camalich ristrutturata, identico al Vittorio Gassman sul trampolino della scena finale di "C'eravamo tanto amati" di Ettore Scola, pronto a lanciarsi nella modernità. O nel delirio. Livorno è l'esempio di come il lavoro si ritiri da un territorio. Come la città di Flint del film di Micheal Moore sulla crisi della General Motors in Michigan, più graduale ma più drammatica, o, se si preferisce, come la Bulgaria o la Romania dopo la caduta del Muro, quando crolla un sistema economico e non è pronta una classe dirigente di ricambio. C'era una volta Livorno, la città più comunista e più americana d'Italia, «di gente poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante», scriveva Pier Paolo Pasolini. La città del grande patto che reggeva la Repubblica tra sindacati, imprese, partiti, governo. Il Pci era il padre-padrone, i sindacati trattavano, la Dc mediava, l'Iri portava le commesse. Il simbolo di quell'epoca di felicità privata e di debito pubblico era il Cantiere, passato dai fratelli Orlando all'Ansaldo e alla Fincantieri, oggi al gruppo Azimut Benelli del deputato di Scelta civica Paolo Vitelli che ha messo in mobilità 49 lavoratori. Un sistema già finito negli anni Ottanta, ma la città era sopravvissuta grazie a un'ondata di liquidità e di benessere, generata dagli ammortizzatori sociali dell'epoca, molto generosi, gli investimenti immobiliari e la rendita del risparmio. Un neo-capitalismo di massa, un laissez faire al cacciucco, specchio di quello nazionale, arricchitevi, fate circolare i soldi. Tutto gestito dal centrosinistra discendente del Pci. I primi segnali di crisi arrivano alla metà degli anni Duemila, prima della recessione. Il passaggio brusco dalle industrie di Stato alle multinazionali straniere senza volto. Dalla politica nazionale, con i suoi riti, il gioco delle compensazioni tra i poteri locali, il partito e il sindacato, alla lettera di licenziamento che arriva direttamente nella cassetta della posta, chissà se è questa che chiamano disintermediazione. «La Trw è il punto di arrivo di una parabola di quasi ottant'anni, niente racconta meglio l'evoluzione della nostra industria», spiega Mauro Zucchelli che sul quotidiano della città "Il Tirreno" racconta l'avanzata della crisi. L'ex Spica viene acquistata dall'Alfa Romeo di Stato, poi dalla Fiat, negli anni '90 viene ceduta a due multinazionali che la dividono in due, la Delphi e la Trw. Fanno componentistica d’auto, sistemi di guida, la scatola sterzante. La Delphi chiude nel 2006, un anno prima dello tsunami finanziario che travolge l'America e poi l'Europa, la Trw lotta per sopravvivere. Il 25 per cento degli occupati livornesi lavora in una multinazionale, all'industria pubblica oltre all'Eni, resta la Wass, gruppo Finmeccanica, Sistemi Avanzati Subacquei, fabbrica siluri e controsiluri. Lo Stato arretra e vende agli stranieri. L'incubo per l'ultima generazione di operai livornesi non è la Cina ma la Polonia, che sembra l'Italia del boom economico, la Livorno degli anni Cinquanta, più concreto ora che la Trw è stata comprata dalla tedesca Zf. Perfino le Moto Fides, che portano nel nome lo stemma di Livorno, sono in mano ai tedeschi della Pierburg. «Negli anni '90 Livorno era una fabbrica, ora è un deserto. Non chiudi noi, chiudi una città», dice Stefano Sodano, operaio della Trw iscritto alla Fiom. «Le multinazionali vengono, dissanguano il territorio, prendono quello che vogliono e se ne vanno. Dovrebbero essere obbligate a presentare piani industriali con incentivi su costi energia e rifiuti. L'articolo 18 non c'entra nulla. A Livorno la prospettiva dell'abolizione non serve ad attrarre investimenti, né la sua esistenza ha difeso il nostro posto di lavoro». Il 16 settembre ha chiuso la Mtm, la maxi-fabbrica delle auto Gpl che aveva assunto 900 lavoratori grazie agli incentivi statali. Già si prepara la crisi futura, ampiamente annunciata, il grande stabilimento dell’Eni dirimpettaio della Trw, 1200 lavoratori, 470 nella raffineria. L'ente fa circolare la voce di una possibile cessione, si fa avanti il compratore, il finanziere anglo-americano Gary Klesch che già ha provato a rilevare la Lucchini di Piombino e l'Alcoa di Portovesme. A smentire ci pensa Nogarin, con un comunicato, dopo un incontro con Klesch. «È venuto da me a protestare perché viene messo in discredito», dice il sindaco. «Io sono sconcertato da come si pensi di sgretolare e mettere in vendita l'Eni di Mattei. Il mio cuore batte per l'impresa pubblica nazionale». E il sito “SenzaSoste”, voce critica e lucida, annuncia il prossimo fronte, l'impatto sulla città del crollo del Monte dei Paschi: «Decenni di politica in discrezione, in segreto, ci lasciano senza strumenti per prendere decisioni». Sulla Trw sta salendo la tensione. C’erano anche gli operai di Livorno al ministero dello Sviluppo economico il giorno degli incidenti di piazza con la polizia che caricava i lavoratori di Terni. «Siamo preoccupati per l'atteggiamento irresponsabile dell'azienda che ha ottenuto dai lavoratori e dal territorio ogni risposta e che ora valuta di chiudere in tempi rapidi», ammette l'assessore al Lavoro della regione Toscana Gianfranco Simoncini. La regione ha chiesto al governo per Livorno il riconoscimento di area complessa di crisi: «Il porto ha avuto difficoltà, l'Eni ci preoccupa, l'industria fa fatica, in una zona che ha una storia produttiva completamente diversa dal resto della Toscana. Serve una risposta complessiva». In città c'è stata l'irruzione in corteo all’assemblea di Confindustria e l'occupazione della sede, il trattenimento forzato del direttore dello stabilimento, altre azioni si annunciano in vista di uno sciopero cittadino annunciato per il 15 novembre. È venuta la leader della Cgil Susanna Camusso, accolta senza entusiasmi. Molto affollata l'assemblea ai cancelli con il capo della Fiom Maurizio Landini che ha citato lo slogan del suo maestro Claudio Sabattini: «Restare in piedi un minuto più dell’avversario». Mentre l’altra sponda, la Livorno della politica, si consuma nelle sue divisioni. Il vecchio Pd ex Pci-Ds non si è ancora ripreso dalla storica sconfitta elettorale. Il nuovo Pd di Renzi non è mai nato, chissà se ha voglia di farlo. E i veleni scorrono indisturbati nei canali dove passava l'Annina di Giorgio Caproni: «Per una bicicletta azzurra/Livorno come sussurra!». A Livorno si sussurra che Nogarin stia cercando l’accordo con il gruppo perdente del Pd guidato dall’ex candidato sindaco Marco Ruggeri. «Faranno l’accordo per nominare il nuovo presidente dell'autorità portuale», si dice, la poltronissima ora occupata da Giuliano Gallanti. Nogarin ha già lanciato segnali di continuità con il passato: il capo di gabinetto Massimiliano Lami, è lo stesso delle giunte di centro-sinistra, il nuovo dirigente generale del Comune è Sandra Maltinti che fu arrestata (e poi prosciolta) all’Elba. A Livorno si sussurra molto sull’ex sindaco Alessandro Cosimi, personalità forse troppo ingombrante per una covata di dirigenti senza carisma, trasformato dopo il voto nel capro espiatorio. È tornato alla professione, medico anatomopatologo, sarebbe l'uomo giusto per fare l'autopsia al cadavere del Pd livornese. Nelle ultime elezioni provinciali, con i sindaci e i consiglieri comunali che votavano per se stessi, il Pd ha fatto l’accordo con Forza Italia, presidente della Provincia è stato nominato il sindaco di Rosignano Alessandro Franchi, segretario del partito sarà il sindaco di Colle Salvetti Lorenzo Bacci, renziano doc, nella nuova provincia c'è un solo consigliere di Livorno città. Organigrammi manovrati da Firenze, da Stefano Bruzzesi, il nuovo uomo forte del partito toscano, il responsabile enti locali del Pd che ha stretto l'accordo con Denis Verdini sulla nuova legge elettorale toscana, ieri era con Lamberto Dini, oggi con Renzi. I livornesi sospettano che da Firenze sia partito l’ordine di spazzare via quel che resta del Partitone rosso che a Livorno prese vita. Emarginare le figure forti come Cosimi, spezzare l’antica Ditta senza costruire una classe dirigente alternativa. Puntare sul vuoto. Dismettere il Partito, come se fosse una vecchia fabbrica. È questa la strategia di Renzi il Gattopardo delle scritte sui muri? In città si sussurra, ed è l'ultima folata di vento, che proprio da qui, in vista delle elezioni regionali, prenderà corpo una nuova separazione. Sarebbe la seconda scissione di Livorno e, come diceva il vecchio barbone, la storia si ripete in farsa. Ma non è commedia la fine del lavoro, la luce che si spegne negli stabilimenti. A Livorno come in Italia.

LIVORNO LA ROSSA? SI', MA DI RABBIA E DI VERGOGNA. ECCO I VOLTAGABBANA.

Ballottaggio amministrative 2014, perchè Livorno non poteva morire democristiana, scrive Emiliano Liuzzi suIl Fatto Quotidiano”. Accidenti se Livorno fu comunista, prima del 1921 e dopo la guerra. Forse la più rossa delle città italiane e non è un paradosso che oggi abbia vinto il partito dei Cinque Stelle. E guai a confondere Livorno con Bologna: Bologna è stata per tanti anni l’intreccio di più poteri, la Chiesa, la Massoneria e il Partito, appunto. A Livorno no, ha contato solo il Partito. E hanno contato le genti di Livorno, il sottoproletariato che andava dall’orafo e si faceva fare la catena con la falce e martello. Fatti così. Gente di mare e di forti passioni. Come le libecciate d’inverno. Nessun obiettivo di spiegare cosa è successo, ma due episodi sì, vanno raccontati. Era il 1960. Nella Livorno comunista, c’erano due fronti contrapposti: quello di una parte dei cittadini esasperati e quello della Folgore che nel nome e nell’insegna, nella baldanza militaresca, evocava un potere antipopolare, ma soprattutto fascista. La caserma della Folgore spezza a metà la città, ma ha sempre vissuto una vita propria recintata dal filo spinato. Una banale scazzottata per questione di donne fra alcuni parà e un gruppo di ragazzotti degenerò in una battaglia per la leggerezza degli ufficiali che mandarono in libera uscita la truppa. Raccontava Aldo Santini, grande inviato dell’Europeo: “Quando vedemmo avanzare sull’Aurelia un reparto perfettamente inquadrato, con gli scarponi da lancio, intuimmo come sarebbe finita. Male. Non avevamo i telefonini per mettere in guardia la polizia. D’altronde, il questore era già in campana. Il reparto marciò compatto fino in piazza Grande, accolto da fischi e sfottò. Qui, a un ordine, i parà si slacciarono i cinturoni e si aprirono a macchia di leopardo scatenandosi in un’azione di commando. Vetrine infrante, filobus danneggiati, persone travolte. La reazione popolare non si fece attendere. Dalla loro sede sciamarono i portuali che lavoravano ancora a forza di braccia e parevano armadi a quattro ante. Quando i parà giunsero in piazza Cavallotti, dalle finestre presero a piovere conche, vasi di terracotta, bottiglie, pentoloni pieni d’acqua. Fu una battaglia”. A Roma temettero una sommossa, una rivolta della città contro l’ordine costituito. Finì con una pace firmata in Comune. Da allora i parà portano il basco amaranto, colore della città. Ma continuano a ignorarsi coi livornesi. L’episodio la dice lunga su cosa sia Livorno. Capace di metabolizzare l’insofferenza e poi esploderla in rabbia, anche fisica. Città generosa, fino all’estremo. Siamo nel 1976, e racconto un altro episodio. Tutti i giornalisti del Telegrafo e i tipografi ricevono dalla sera alla mattina una lettera di licenziamento. Attilio Monti, il petroliere nero o “Cavalier artiglio”, come lo chiamavano, chiuse il giornale. Aveva già la Nazione e il Telegrafo era d’impaccio ai suoi piani. Così lo chiuse. I giornalisti la mattina stessa si costituirono in cooperativa, ma poteva non bastare. Fu il sindaco comunista a requisire, con un atto storico, il giornale. Lo requisì. E fu una rivoluzione. Il Telegrafo che fino al giorno prima vendeva 30.000 copie passò alle 60.000. E accadde perché i livornesi si schierarono a difesa del loro giornale. I portuali, prima di montare di notte, passavano dalla tipografia a prendere le copie che avrebbero venduto sulle banchine. Violenta, generosa. E comunista. Cosa è rimasto di allora? Quasi tutto. Sono i partiti e i sindaci che sono cambiati attorno alla città. Ma Livorno è la stessa. Un messaggio l’ha lanciato e chiaro: non stiamo con Renzi. Siamo nati comunisti e non moriremo democristiani.

Elezioni. Livorno, la rivolta dei trinariciuti, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano. Non è dato sapere quanto abbia faticato il pisano Enrico Letta per non ridere mentre distillava la pensosa dichiarazione: “La sconfitta del Pd a Livorno merita una riflessione profonda perché del tutto inattesa”. Forse aveva in mente la sconfitta di un renziano livornese, soddisfazione doppia. Ma la colorita chiave della rivalità con i pisani impallidisce di fronte alla catastrofe simbolica che si abbatte non su Livorno ma sulla casta post-comunista. La città simbolo della sinistra italiana festeggia la liberazione da un sistema che anche Il Tirreno, custode delle tradizioni politiche locali, ha accusato di “consociativismo, autoreferenzialità e immobilismo”. È la storia stessa di Livorno a chiedere ai boss del Pd locale come abbiano potuto ridursi così. Non solo per quel monumento della memoria che è il congresso di fondazione del Pci, il 21 gennaio 1921, con Amadeo Bordiga, Antonio Gramsci e Umberto Terracini che guidano la scissione dal Psi (Palmiro Togliatti ancora pedalava nelle retrovie). Livorno è stata anche una piccola capitale del fascismo, a dispetto di una forte e radicata comunità ebraica e di un’altrettanto fiorente presenza massonica. Era la patria dei Ciano, che negli anni del regime portarono alla città soldi e raccomandazioni, e costruirono la celebre terrazza Mascagni, che però fino alla Liberazione si chiamò terrazza Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, genero del Duce e ministro degli Esteri. Martoriata dai bombardamenti “alleati” (illogici come i bombardamenti alleati di cui si lamenta oggi lo sconfitto Marco Ruggeri), nel 1944, poche settimane dopo la fucilazione di Galeazzo Ciano ordinata non dai partigiani ma dal suocero, Livorno fu affidata dal Cln a un intellettuale comunista ventottenne , Furio Diaz, poi celebre come storico. Fu l’inizio di una serie ininterrotta: fino a domenica, per 70 anni Livorno ha avuto solo sindaci comunisti, o post, eletti a furor di popolo. Lo scambio era virtuoso. Il Pci affidava la sua città natale ai migliori livornesi in circolazione (dopo i dieci anni di Diaz ci furono i dieci del grande filosofo Nicola Badaloni). La città affollata di operai e portuali rispondeva con tale generosità da farsi sfottere con allegria come patria dei trinariciuti. Non solo con prestazioni in natura, come quella di accorrere al tribunale di Pisa quando c’era da dare qualche spallata ai radicali che tentavano per sfregio di togliere al Pci il posto in alto a sinistra della scheda elettorale (i pisani, avendo l’Università al posto del porto non avevano il fisico). Ma soprattutto con il voto. Lo score di Livorno è impressionante: il 18 aprile 1948, quando il Fronte popolare travolto dalla Dc si ferma al 31 per cento, a Livorno prende il 56 per cento. Nel 1976 il tentativo di sorpasso della Dc porta Enrico Berlinguer al massimo storico del 34 per cento, ma in valuta livornese fa il 53 per cento. I livornesi sono pronti a svenarsi per qualsiasi cosa appaia anche vagamente di sinistra, dove però per sinistra si intende un profumo di pulito. Acclamano il concittadino Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica non comunista, ma laico e antifascista senza ombre, eletto nel 1999 un po’ a sorpresa mentre la burocrazia del partitone trama per portare al Quirinale il democristiano Franco Marini. Si fanno piacere l’ex democristiano Romano Prodi, senza se e senza ma: alle politiche del 2006, praticamente l’altro ieri, le liste dell’Ulivo prendono a Livorno 81 mila voti, il 70 per cento. I livornesi continuano a crederci, ma con fatica. Nel 2004 eleggono sindaco Alessandro Cosimi al primo turno con 54 mila voti, nel 2009 lo rieleggono ancora al primo turno ma con soli 46 mila voti. E domenica, al primo ballottaggio della storia di Livorno, il delfino di Cosimi si è fermato a 34 mila voti. I livornesi si sono stufati. Perché la fedeltà ai simboli è fatta anche di memoria. E a Livorno ricordano che Bordiga era sì ingegnere, ma non aveva amici costruttori. E Diaz e Badaloni non andavano in ferie sugli yacht degli appaltatori… Come si dice? Ah sì, progressisti.

"A Livorno il Pd meritava di perdere". Il regista Paolo Virzì, il deputato Andrea Romano, il direttore de 'Il Tirreno' Roberto Bernabò raccontano all'Espresso perché nella roccaforte democratica della Toscana questa volta ha vinto il partito di Grillo. E spiegano: "Più che una persona, ha vinto un programma: mandiamoli a casa", scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. “Se la meritava, questa sconfitta, tutto il gruppo dirigente del Pd. A Livorno si sono avvitati per anni in lotte fratricide tra mediocri notabilati locali mentre il mondo andava da un’altra parte. Ora è arrivato il napalm, ma un cambio ci voleva. Ha vinto il programma di una riga: mandiamoli tutti a casa”. Il regista Paolo Virzì, livornese trapiantato a Roma, è amareggiato ma ci va giù con la scure. Proprio perché è livornese. Questa città, aggiunge il direttore del Tirreno Roberto Bernabò, “è conservatrice ma capace di grandi gesti di ribellismo: avrebbe votato qualsiasi cosa pur di cambiare”. Così, dopo 68 anni di dominio incontrastato della sinistra, Livorno si è risvegliata grillina e pare quasi che si sia tolta un peso. “Guardi che oggi sono tutti contenti, pure il barista che serve caffè di fronte al municipio”, racconta Bernabò. Il Cinque stelle Filippo Nogarin ha vinto al ballottaggio con il 53,1 per cento dei consensi, contro il democratico Marco Ruggeri rimasto fermo al 46,9 per cento. Nessuno si stupisce: “Peggio di quegli altri non potranno fare”, è il leitmotiv in città. Insomma, prima che una vittoria di qualcuno, è una sconfitta del Pd. Sul punto concordano i tre livornesi illustri (un regista, un politico, un giornalista) da cui ci siamo fatti raccontare cos'è che ha terremotato una roccaforte indiscussa del partitone democratico. La cosa più incredibile, a sentire le analisi, è che era tutto già scritto da mesi, se non da anni. E non si capisce ancora se sia un colpo di coda del vecchio (i democratici pre-renzi, per intendersi), o un far capolino del nuovo che avanzerà ancora (come dice Grillo, festeggiando). Di certo nel suo piccolo è una vicenda paradigmatica. Anzi peggio. “Un insegnamento didascalico: se la sinistra si chiude in se stessa e non cambia verso, va a sbattere e anche malamente”, dice Andrea Romano, livornese, ex capogruppo alla Camera di Scelta Civica ora dato in riavvicinamento al Pd. Entusiasmo, voglia di "far bene" e anche un pizzico di incredulità. Sono queste le sensazioni che animano gli attivisti del M5S di Livorno all'indomani della vittoria al ballottaggio del candidato grillino Filippo Nogarin. "Un manipolo di 50 persone è riuscita a buttare giù una portaerei organizzata come quella del PD" riassume uno degli attivisti presenti al comitato elettorale pentastellato. Il quadro è da film di trama semplice. C’è una città in crisi che patisce la deflazione: le fabbriche chiudono, il porto arranca, il turismo non va (il business delle crociere se l’è aggiudicato La Spezia), i tagli al comune impediscono all’amministrazione di fare da “paciere sociale” come in passato. E poi c'è una sinistra locale incalzata da nessuno e incapace di rinnovarsi da sé, presa a metà di un cambiamento dentro cui non riesce a saltare. Bravissima nell’analisi, paralizzata nell’agire. Livorno, il nuovo sindaco Filippo Nogarin si siede nella sala del Comune. Subito festa con un tripudio di cori e applausi. Per la prima volta da 68 anni Livorno non sarà governata dalla sinistra.  “Una sinistra come ossificata, chiusa in se stessa, con figure sempre più endogamiche, interne”, racconta Romano. “C’è stata una guerra, per anni, tra il segretario De Filicaia e il sindaco uscente Cosimi, e in generale un tutti contro tutti che ha portato a un declino vertiginoso. Sul lato della cultura, persino imbarazzante” chiosa Virzì. Nessuno parla male del candidato democratico sconfitto, Marco Ruggeri. Anzi ne parlano come uno che ha dovuto lottare anche contro una parte del proprio partito. Preparato, volenteroso, ma invano. Una sorta di Cuperlo se avesse vinto le primarie. La storia recente che ha portato alla sua candidatura dice già tutto. Nell’ultimo anno, per dire, proprio per rilanciare l’appeal del partito – anche a Livorno come altrove diviso tra rottamatori renziani e continuisti cuperliani, ma dominato dagli ultimi - si era scatenata fra l’altro la ricerca informale del papa straniero. Un livornese illustre che incarnasse il nuovo, insomma. E a sentirla raccontare, quella ricerca, sembra un po’ un riecheggiare della “mozione Amedeo Nazzari”, quella della satira a cui il Guzzanti travestito da Veltroni rispondeva: “Lo dico per i compagni che non lo sanno: Amedeo Nazzari è morto”. A Livorno si cercava tra professori di robotica come Paolo Dario, membri dell’Fmi, giornalisti come Concita de Gregorio, politici come lo stesso Romano. Fu sondato in via informale anche Virzì, naturalmente: “Non li feci nemmeno parlare: io non ne sarei capace, sono matto, pigro, cialtrone e soprattutto credo nel valore della politica, che è una cosa seria. Dissi no e aggiunsi anche: spero che perdiate. Livorno non era mai stata contendibile. E non mi pare, a giudicare l’oggi, che le abbia fatto bene”. Alla fine nessuno accettò, “perché c’erano troppi pretoriani intorno e troppo poco sostegno del partito”, tira breve il direttore de Il Tirreno Bernabò. “E all’ultimo hanno scelto il migliore di loro: segretario di Ds, poi consigliere comunale, poi regionale. Preparato, in gamba e stimato, Ruggeri. Ma inadeguato a una campagna elettorale che aveva come slogan “punto e a capo”, perché esprimeva in realtà una continuità perfetta. Non era credibile per la sua storia personale l’incarnare il cambiamento”. Nei dibattiti, quando spiegava la sua voglia di tagliare i ponti col passato, la gente gli urlava: “Ma è settant’anni che siete là”. E così un Pd convinto del fatto che “come sempre avrebbe vinto, anche candidando un cavallo”, è stato stroncato. Hanno vinto i Cinque stelle. Ha vinto il loro, di cavallo. “Filippo Nogarin è un grande punto interrogativo”, racconta Bernabò: “Non è il classico grillino, anzi ha tenuto un profilo molto basso rispetto alle scelte programmatiche. Ha evitato di impegnarsi in cose specifiche”. L’unico no, giusto per cercare un analogo dell’inceneritore per Pizzarotti a Parma, è quello alla costruzione del nuovo ospedale. Il sindaco uscente aveva deciso una collocazione a sud che non è piaciuta ai livornesi: ora sono in corso le gare d’appalto, ma Nogarin ha detto che non se ne parla, l’ospedale là non si farà e piuttosto si paga la penale. Si vedrà. Può essere un altro Giorgio Guazzaloca, il sindaco che nel 1999 spezzò a Bologna il dominio della sinistra? No, dice Romano. “Guazzaloca vinse a Bologna perché c’era un’ansia di rinnovamento della città, era un esponente del mondo produttivo bolognese, si disse pure che avrebbe potuto candidarlo la sinistra. Qui, invece, è la sconfitta che conta: con Nogarin hanno vinto tutti quelli che non volevano il Pd”. “Questa storia mi fa venire voglia di tornare a Livorno e fare un film per raccontare tutto il male possibile dei livornesi”, concorda Virzì. “Ora staremo a vedere: questa cura al napalm potrebbe definitivamente mettere il sigillo sulla morte della città, oppure chissà. Se il sindaco fa il contrario di quel che dice il blog di Grillo e impara l’arte della politica, se magari lascia perdere l’idea puerile di selezionare gli assessori tra coloro che gli mandano le mail, potrebbe perché no governare le cose, come finora dai Cinque stelle non si è visto fare neanche a Parma. Certo, vederlo innervosirsi davanti ai giornalisti e inciampare coi congiuntivi, non è un bel biglietto da visita”.

Sberleffo alla livornese. Meno brutta di come l’han dipinta i malevoli toscani, meno bella di come l’hanno fatta i suoi pittori. Ma domenica a votare è andata la Livorno di Ciampi, inteso il cantautore Piero: il primo che cantò “ma vaffanculo”, scrive Camillo Langone su “Il Foglio”. Siccome mio padre era paracadutista, alla Folgore, di comunisti a Livorno non ne ho conosciuti tanti. Forse, adesso che ci penso, nessuno. Ci tornassi in questi giorni penso che faticherei a conoscervi dei grillini perché i grillini di oggi sono figli carnali o eredi spirituali dei comunisti di ieri e pertanto sono invisibili a chi cerca di vedere il bello in tutte le cose, quindi perfino in Livorno. Che non è brutta perché così l’hanno sempre voluta vedere i pisani e gli altri maledetti, malevoli toscani da Giusti a Campana a Malaparte, per non dire del ferocissimo anonimo che per primo disse “se il mondo fosse un culo, Livorno sarebbe il buco”, ma perché tale l’hanno resa gli americani: “Devastata dai bombardamenti, al termine della guerra conservò poche case intatte” scrive Piovene nel “Viaggio in Italia”. Non mi sovviene, ad esempio, una sinagoga più squallida della sinagoga di Livorno: ecomostro postbellico, per un cristiano è un mezzo gaudio verificare che negli anni Sessanta non solo i vescovi, anche i rabbini persero la trebisonda, se non la fede, inginocchiandosi alle mode architettoniche degli atei. Non mi sovviene nemmeno una città dove ho mangiato così male a parte un poncino alla Cantina Nardi, che però fu un bere e non un mangiare, ma la colpa chiaramente è degli indigeni a cui mi rivolsi: che scemo, non si chiedono indirizzi alla gente del posto, la gente del posto non sa mai nulla del posto. Perché la gente del posto prima di essere “del posto” è “gente” e quindi carne da Tripadvisor, bocche da scarafaggiai qualità/prezzo, tutti probabili elettori di Filippo Nogarin, nerd spaziale e aerospaziale, amante del brutto a cominciare dalle pale eoliche e perciò nuovo sindaco di Livorno. E’ una città urbanisticamente e politicamente capovolta, Livorno. Mentre Pizzarotti è sindaco di Parma a dispetto del suo prezioso centro storico, del suo Battistero, del suo Teatro Farnese, del suo Parco Ducale, e in rappresentanza di periferie anonime come i sindacheschi maglioncini, Nogarin è grillescamente adatto al decumano bombardato mentre risulta incongruo fuori dal centro, in quel viale Italia, lungomare “verde, ampio, orgoglioso”, che è una delle meraviglie del bel paese di cui porta il nome. Non c’entra nulla il neosindaco con i Bagni Palmieri dipinti da Giovanni Fattori, coi Casini d’Ardenza che sono un Royal Crescent di Bath però luminoso e sul mare, con l’Accademia Navale, la Terrazza Mascagni, la Baracchina Rossa, e figuriamoci con la Antignano dei macchiaioli, con la Calafuria del “Sorpasso” di Dino Risi… Detto questo, ho due spiegazioni artistiche circa la vittoria dell’antiartistico Nogarin. La prima me la fornisce Vittorio Matteo Corcos, ebreo livornese giustamente convertito, “peintre des jolies femmes”, ritrattista mondano, amico e forse emulo di Boldini e De Nittis: le sue signore col cappellino, i suoi gentiluomini in abito di lino possiedono lo stile di chi preferisce andare al mare piuttosto che, volgarmente, a votare. La Livorno corcosiana, dunque, domenica aveva di meglio da fare che compiere un dovere costituzionale. A votare, ed ecco la seconda spiegazione, c’è andata invece la Livorno ciampiana, ma non nel senso di Carlo Azeglio bensì di Piero, cantautore maledetto morto nell’80, labronico del tipo portuale e quindi alcolico e rissaiolo, il cui capolavoro si intitola “Adius” e contiene nel finale il primo e più grande vaffanculo della storia della canzone italiana: “Ma vaffanculo. Ma vaffanculo. / Sono quarant’anni che ti voglio dire… ma vaffanculo. / Ma vaffanculo te e tutti i tuoi cari. / Ma vaffanculo”. Chiaramente qui lo chansonnier ce l’ha con una donna ma quando una canzone funziona una volta funziona sempre, anche in contesti diversi, ed è con queste parole in mente che domenica scorsa, nel segreto dei seggi, gli elettori livornesi si sono rivolti al partito unico che li governava da quarant’anni e più.

Ma i guai non vengono mai da soli.

ANCHE LE ISTITUZIONI SONO MARCE? BUFERA GIUDIZIARIA SULLA GUARDIA DI FINANZA.

Gdf, indagato per corruzione il comandante in seconda Bardi. L’inchiesta della Procura di Napoli ha portato anche all’arresto del comandante di Livorno Mendella per presunte verifiche fiscali «pilotate» nel capoluogo partenopeo, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Indagato per corruzione il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Si tratta dell’ultimo sviluppo dell’inchiesta che ha portato - nella mattinata di mercoledì- anche all’arresto del colonnello Fabio Massimo Mendella, comandante della Guardia di Finanza di Livorno accusato di aver percepito un milione di euro per «pilotare» verifiche fiscali favorendo alcune società di imprenditori «amici» quando era in servizio a Napoli. Bardi è sospettato di aver ricevuto parte di quella somma oltre ad alcuni regali e favori. Nell’ambito dell’inchiesta i pm di Napoli Piscitelli e Woodcock hanno disposto una perquisizione degli uffici di Bardinella sede del Comando generale della Gdf in viale XXI Aprile a Roma. Il colonnello Mendella -comandante provinciale della guardia di finanza di Livorno - è finito in carcere insieme a un commercialista napoletano Pietro de Riu. I reati ipotizzati dalla Procura di Napoli sono concorso in concussione per induzione e rivelazione del segreto d’ufficio. In particolare De Riu avrebbe incassato per conto di Mendella, responsabile del settore verifiche del Comando provinciale di Napoli dal 2006 al 2012, oltre un milione di euro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali.

Bufera giudiziaria sulla Finanza. Arrestato per concussione il comandante Gdf di Livorno: tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Indagato il generale Bardi. Il provvedimento a carico di Fabio Massimo Mendella nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Fermato anche il commercialista napoletano De Riu. Perquisiti gli uffici romani del numero due della Guardia di Finanza che risulterebbe sotto inchiesta per corruzione in vicende collaterali, scrivono Dario Del Porto e Conchita Sannino su “La Repubblica”. Tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Finiscono in carcere l'attuale comandante provinciale della Finanza di Livorno, colonnello Fabio Massimo Mendella e il commercialista napoletano Pietro De Riu. Nell'inchiesta risulta indagato il generale Vito Bardi, numero due della Guardia di Finanza: i suoi uffici romani sono stati perquisiti. I pm Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock ipotizzano per gli arrestati il reato di concorso in concussione per induzione e di rivelazione del segreto d'ufficio. Per l'accusa, l'importo delle dazioni di denaro e di varie utilità incassate dagli indagati ammonta, in totale, ad un milione di euro. Somme che, è scritto in una nota della Procura di Napoli, sarebbero state "asseritamente richieste ed incassate da De Riu per conto di Mendella". I fatti, stando alle indagini condotte dalla Digos napoletana con la direzione centrale della polizia criminale e dai finanzieri del Comando provinciale partenopeo e della Tributaria di Roma, si riferiscono a rapporti intercorsi negli anni tra il 2006 e il 2012, quando Mendella era responsabile del settore Verifiche al comando provinciale di Napoli, e successivamente trasferito a Roma. A beneficiare dei presunti favori della Finanza sarebbero stati due fratelli imprenditori napoletani della società Gotha. Secondo la tesi accusatoria, il legame tra quel colonnello e quella società, saldata attraverso l'opera del commercialista, era così forte che quando il colonnello fu trasferito nella capitale, anche la Gotha cambiò sede, pur di continuare ad usufruire di quei vantaggi illeciti. Nell'ambito dell'inchiesta sono stati perquisiti gli uffici del comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi, che risulterebbe indagato per corruzione in vicende collaterali. Il generale di corpo d'armata, in pratica il numero due del corpo, è subentrato al generale Emilio Spaziante che è andato in pensione ed è stato arrestato con l'accusa corruzione nell'ambito della maxi inchiesta sulle tangenti del Mose. Bardi, 63 anni, è originario di Potenza. Ha ricoperto, tra l'altro, l'incarico di comandante interregionale dell'Italia meridionale. Il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, dopo una lunga telefonata con il comandante generale della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo, tiene a ribadire: "Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici, tanto che abbiamo affidato congiuntamente ad essa e alla Digos l'esecuzione delle misure, e l'attività integrativa continua ad essere svolta dalle Fiamme Gialle insieme all'ufficio della Digos". Tra gli episodi della vicenda giudiziaria viene riportata anche una festa in barca con Vip per Mendella. Il colonnello, nell'estate del 2006 partecipò alla festa di compleanno dell'imprenditore Paolo Graziano assieme ai calciatori Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro (i tre sono del tutto estranei alla vicenda; il solo Graziano è stato sentito come persona informata sui fatti). La festa si svolse sulla barca di Graziano, attuale presidente dell'Unione industriali di Napoli. La circostanza viene riferita dal gip Dario Gallo solo come elemento di riscontro delle dichiarazioni accusatorie dell'imprenditore Giovanni Pizzicato, che sarebbe stato indotto da Mendella a pagare somme di denaro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali. Nell'estate del 2007, invece, sia Mendella, accompagnato dalla fidanzata, sia il commercialista De Riu avrebbero trascorso le vacanze in Sardegna a spese di Pizzicato. Trasferito da Napoli a Roma, il colonnello Mendella - dice l'inchiesta - suggerì agli imprenditori Giovanni e Francesco Pizzicato di trasferire nella capitale anche la loro società Gotha spa. Dopo appena due giorni dal trasferimento della società, l'ufficiale propose ai suoi superiori una nuova verifica fiscale, che necessitava di una specifica autorizzazione a derogare dagli ordinari criteri di competenza. L'autorizzazione giunse 24 ore dopo. La tempistica dell'operazione, sottolinea il gip, è un decisivo elemento di conferma dell'ipotesi accusatoria: in quella circostanza spuntò il coinvolgimento di "due generali". Anche le modalità di concessione della deroga appaiono sospette, dal momento che non fu interessato il comando generale della Guardia di Finanza ma solo quello provinciale, mentre nè nella richiesta nè nell'autorizzazione erano specificate le circostanze eccezionali per derogare dai criteri di competenza. Nella sua denuncia, l'imprenditore Giovanni Pizzicato ha riferito di avere appreso dal commercialista Pietro De Riu, anche lui arrestato oggi, che la verifica "aveva richiesto una speciale autorizzazione da parte di due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante". In quella circostanza, De Riu chiese a Pizzicato 150.000 euro "perchè a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell'iniziativa, i generali". Il generale della Gdf Emilio Spaziante, oggi in pensione, è stato arrestato la settimana scorsa nell'ambito dell'inchiesta sul Mose.

Terremoto Gdf: arresti, perquisizioni ed incredulità. Arrestato il comandante della Finanza di Livorno, Mendella, con l'accusa di concussione ed indagato il comandante in seconda Bardi a Roma per corruzione. Lo sgomento delle fiamme gialle, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. "...è davvero impossibile". Diverse telefonate, identico però il tono e quel filo di voce di chi davvero ha preso un pugno nello stomaco. Sono le reazioni (anonime) dei militari delle Fiamme gialle di Livorno dopo l'arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella, accusato di concorso in concussione nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Il colpo è davvero tremendo: in caserma, nella città di Livorno e anche a Roma. In pochi hanno voglia di parlare. Mendella era arrivato al comando provinciale livornese neanche un anno fa, nel luglio del 2013, guadagnandosi immediatamente la stima del personale. Anche alti ufficiali della Finanza, raggiunti telefonicamente da Panorama.it, manifestano stupore ed incredulità. Oltre ad una profonda tristezza e smarrimento: E' impossibile per Mendella e ancora di più per il generale Bardi. Sembra quasi una voglia di colpire il Corpo.. cosa pensano di trovare all'interno di un ufficio di un comandante in seconda che cambia continuamente..” Poi qualcuno prosegue: "Mai una voce su Mendella..non è mai stato un collega chiacchierato come a volte ci può essere". Infatti, mentre la Digos di Napoli stava arrestando il comandante di Livorno, la procura di Napoli stava effettuando una perquisizione, sempre nell’ambito della stessa indagine che ha portato all’arresto del colonnello, nell’ufficio del generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza presso il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Il generale Bardi, al momento, risulterebbe indagato per corruzione. Ma perché il colonnello Mendella sarebbe finito in carcere?  E perché perquisire le stanze del Comando Generale di Roma? Secondo i pm napoletani, Piscitelli e Woodcock, gli imprenditori partenopei avrebbero versato oltre un milione di euro tra il 2006 ed il 2012 al commercialista Pietro De Riu, anche lui finito in manette questa mattina, che faceva da tramite con il responsabile verifiche ed accertamenti del Comando provinciale Guardia di Finanza di Napoli, ovvero il colonnello Fabio Massimo Mendella. Mendella, dopo sei anni nel capoluogo campano, fu trasferito dal Comando di Napoli a Roma. E in concomitanza con il suo trasferimento anche  la holding "Gotha s.p.a.", oggetto di una verifica pilotata eseguita dall'ufficio coordinato dal colonnello , avrebbe trasferito la propria sede legale nella Capitale. Se l’arresto del comandante di Livorno ha destato non poco stupore, meno “impatto”, tra alcuni finanzieri, ha avuto la notizia della perquisizione a carico del generale. Il generale Vito Bardi, infatti, non è nuovo alle vicende giudiziarie. Nel 2011 era stato indagato con le accuse di favoreggiamento e rivelazione di segreto nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P4. L'anno successivo, tuttavia, la sua posizione fu archiviata dal gip su richiesta dello stesso pm Henry John Woodcock. Al centro dell'inchiesta era l'ex deputato del Pdl Alfonso Papa, per il quale ora e' in corso il processo. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'ex parlamentare riceveva notizie coperte da segreto su indagini in corso e se ne serviva per ricattare alcuni imprenditori dai quali riceveva cosi' denaro o altre utilita'. Nell'inchiesta era coinvolto anche l'uomo d'affari Luigi Bisignani che ha patteggiato la pena. Ma la tristezza di moltissimi alti ufficiali della Finanza è dettata anche dal susseguirsi, di accuse verso gli appartenenti al Corpo o graduati ormai in pensione. E’ il caso del generale Emilio Spaziante rientrato nella maxi inchiesta, pochi giorni fa, sulle tangenti del Mose, a Venezia. Emilio Spaziante, in qualità "di Generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza" è  stato arrestato perché "influiva in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova" e avrebbe ricevuto dal presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, in cambio, la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. E' quanto stato scritto nell'ordinanza del gip dove si precisa anche che la somma versata fu poi di 500 mila euro divisa anche con Milanese e Meneguzzo. Le indagini della Procura di Napoli che hanno portato all'arresto di Mendella, sono state condotte dalla Digos partenopea con il contributo della Direzione centrale di Polizia criminale e anche del Comando Provinciale e del nucleo di Polizia tributaria della stessa Guardia di Finanza di Roma.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

Marcello Lonzi morì in cella, la madre: «Voglio il processo», scrive Celeste Costantino su Il Garantista”. Maria Ciuffi è un’altra donna costretta ad arrivare alle porte di Montecitorio per manifestare le sue paure, urlare il proprio dolore e chiedere giustizia a uno Stato che non si mette mai in discussione. È la madre di Marcello Lonzi, morto l'11 luglio del 2003 nel carcere livornese delle Sughere. Quello di Marcello è uno dei tanti casi archiviati come «morte per cause naturali». Infarto, precisamente. Per noi invece sembra inserirsi nell’ormai lungo elenco di morti che chiedono verità e giustizia, esattamente come quelle di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva e purtroppo tanti e tanti altri. Ieri siamo stati in piazza Montecitorio con Maria Ciuffi. Ha ricordato che Marcello era stato condannato a 9 mesi per tentato furto. Quando è stato trovato morto aveva già scontato metà della pena ed era in attesa di essere avviato in comunità per la riabilitazione, avendo quasi concluso la terapia a base di metadone. E invece il suo corpo è stato rinvenuto in una pozza di sangue: otto costole rotte, due buchi in testa, polso fratturato. Le indagini sulla morte di Marcello sono state riaperte lo scorso giugno, dopo undici anni di attesa. Purtroppo però il caso rischia di andare incontro a una nuova archiviazione. I familiari denunciarono l'11 luglio 2003 «evidenti ferite, nonché numerose ecchimosi, alla testa e al torace». Nell’ottobre dello stesso anno un'interrogazione parlamentare di Giuliano Pisapia, all'epoca deputato di Rifondazione Comunista e  presidente della Commissione Carceri della Camera, chiedeva informazioni al Governo ricevendo dall’allora ministro Castelli questa risposta, che non aggettiverò ma lascerò ai lettori di trovare le parole per definirla. «Il corpo del detenuto, ormai defunto, è stato attentamente visitato dal medico SIAS montante che non ha riscontrato alcun segno di lesioni in tutto il corpo ad eccezione di ferite lacero-contuse sulla fronte e sul labbro sinistro, verosimilmente procurate al momento della caduta, dopo avere sbattuto sul cancello d’ingresso della cella dove è stato trovato riverso bocconi con tracce di sangue intorno al capo. Gli accertamenti ispettivi effettuati e la ricostruzione della dinamica dell'evento sembrerebbero confermare che la morte del detenuto sia avvenuta per cause naturali». E ieri Maria Ciuffi ha esposto pubblicamente le foto del corpo martoriato di Marcello, chiedendo l’attenzione dei presidenti di Camera e Senato su una vicenda che, ad oggi, resta eufemisticamente un altro giallo irrisolto. Noi vorremmo andare un po’ oltre l’investimento legittimo delle alte cariche dello Stato e vorremmo chiedere al Parlamento di esprimersi. Perché questa istituzione, questo luogo sempre più svuotato delle proprie prerogative, deve una volta per tutte assumersi la responsabilità di conoscere la verità su quello che succede nelle caserme e nelle carceri del nostro Paese. Bisogna esprimere una volontà politica netta nel fare chiarezza e nell'individuare i guasti di un sistema che si riduce troppo spesso nell’assioma delle mele marce. Perché con delle leggi giuste anche i crimini delle male marce possono essere prevenuti. In questi anni c'è chi, per esempio Giovanardi, si è espresso in maniera urticante, dal mio punto di vista malvagio, su questi fatti. Eppure preferisco una posizione così lontana da me, ma che si definisce nella sua interezza, a quella di chi si nasconde in equilibrismi e retorica o, peggio, fa finta di niente aspettando che passi la bufera. Per questa ragione abbiamo presentato, e presenteremo, dei provvedimenti che cercano di rispondere in maniera concreta a questo bollettino di morte: vogliamo che siano il Parlamento e le forze politiche a non nascondersi più. Da tempo per esempio abbiamo depositato una proposta di legge per l'introduzione del reato di tortura nel codice penale per colmare così una lacuna gravissima nel nostro ordinamento. Oggi rappresenterebbe il primo passo per chiarire i limiti dell'esercizio della forza e dei pubblici poteri rispetto ad esigenze investigative o di polizia. In questi anni siamo stati al fianco di associazioni attive su questo tema, come Antigone e a buon diritto: insieme a loro abbiamo sollecitato l'introduzione di nuove leggi per il rispetto dei diritti umani, un impegno internazionale che il nostro Paese non rispetta da circa 25 anni (la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, ratificata dall’Italia ai sensi della legge 3 novembre 1988, n. 498, prevede all’art. 4 l’obbligo giuridico sull'introduzione del reato di tortura nel codice penale).  Le storie delle morti nelle carceri stanno lì a ricordarci che la tortura esiste. Che è praticata. E nessuno può sentirsi al sicuro.

Protesta davanti a Montecitorio. "Giustizia per Marcello Lonzi"

La madre del ragazzo, trovato morto in carcere undici anni fa, teme che il procedimento finisca con un'archiviazione. "Lo trovarono con otto costole rotte, due buchi in testa e un polso fratturato..." , scrive Il Tirreno”. "Verità e giustizia per Marcello Lonzi".  lo slogan del presidio, "promosso dal gruppo Sel in Campidoglio al fianco di Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, morto l'11 luglio del 2003 nel carcere livornese delle Sughere" che si è svolto in  piazza Montecitorio. Un caso che ricorda la vicenda di Stefano Cucchi, morto a Roma nel reparto detentivo dell'ospedale Pertini dopo una settimana dall'arresto. "Il caso era stato inizialmente archiviato, e Marcello dichiarato morto per cause naturali, un infarto. Dopo la riapertura delle indagini nel giugno di quest'anno a 11 anni dal caso, ora il rischio è quello di una nuova archiviazione, come racconta la signora Ciuffi", si legge in una nota di Sel che riporta anche le parole della madre di Marcello. "Sono stanca - dice la mamma livornese - La paura più grande è che il caso venga nuovamente archiviato. E' la prima volta che vengo a Roma, all'epoca scrissi al presidente della Repubblica senza ottenere risposta. Mi sono decisa a venire qui per riportare alla luce il caso di mio figlio e chiedere giustizia". "Un caso incredibilmente archiviato - dichiara Gianluca Peciola, capogruppo Sel in Campidoglio - nonostante il corpo del ragazzo fosse stato rinvenuto in una pozza di sangue con 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato. Il ragazzo si trovava nel carcere delle Sughere in seguito ad una condanna per tentato furto a nove mesi di reclusione. Le precedenti indagini terminarono inspiegabilmente con l'archiviazione in quanto la morte di Marcello Lonzi fu ricondotta a cause naturali. Dopo 11 anni, attualmente, le indagini sono state riaperte e sono in corso nuovi accertamenti. Siamo dunque qui in piazza Montecitorio per tenere alta l'attenzione sulla morte di Marcello Lonzi e chiedere verità e giustizia".

«Mio figlio morto: "cause naturali" ? Lo Stato mente. Voglio giustizia». Manifestazione davanti alla camera per ricordare il caso di Marcello Lonzi, il ragazzo livornese morto nel 2003 a trent’anni nel carcere «Le Sughere»: come Stefano Cucchi, scrive Gianluca Russo su "Il Corriere della Sera". «Quando un figlio sano viene affidato allo Stato e ti viene restituito con otto costole rotte, due buchi in testa, un polso fratturato e ti dicono che è morto per cause naturali, non è possibile accettare e farsene una ragione». Queste le parole di Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, il ragazzo livornese morto nel 2003 a trent’anni nel carcere «Le Sughere» di Livorno. Un sit-in a piazza di Montecitorio organizzato dalla madre di Lonzi e appoggiata dal sostegno di cittadini e politici (l’Associazione Il Detenuto Ignoto, Rita Bernardini Segretaria dei Radicali, Stefano Pedica del Pd e Gianluca Peciola Sel ) per chiedere conto allo Stato sulle responsabilità legate alla morte del figlio e che il caso venga riaperto così come è stato per il caso di Stefano Cucchi. Maria Ciuffi espone pubblicamente le foto del corpo martoriato di Marcello e chiede attenzione da parte dei presidenti di Camera e Senato sulla vicenda che ad oggi, resta un altro giallo irrisolto. Marcello Lonzi fu arrestato per un tentativo di furto e aveva quasi scontato gran parte della sua pena, ma quattro mesi dopo il suo arresto non è arrivato vivo nemmeno all’appuntamento con la libertà, perché l’11 luglio del 2003 è deceduto all’interno del carcere. La madre del ragazzo è stata avvertita solo il giorno dopo del decesso e nel referto è stata subito dichiarata la «morte per cause naturali dovute a infarto». Negli anni poi, due diverse procure hanno archiviato il caso Lonzi, a seguito delle dichiarazioni del Gip della Procura di Livorno, Rinaldo Meroni: «Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della Polizia Penitenziaria né di terzi». Oggi, come già qualche anno fa, Maria si rivolge alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per render nota la storia della morte di Marcello e portare la sua testimonianza all’attenzione dell’opinione pubblica. Nel gennaio di quest'anno intanto, sulla vicenda è spuntato un testimone che ha depositato al Pm la sua versione dei fatti, ed ha consentito di riaprire il caso del trentenne morto a «Le Sughere». Il testimone avrebbe infatti svelato l’esistenza di «celle bianche dove i carcerati vengono massacrati di botte», e ricorda che accanto a lui c’era un detenuto che chiedeva aiuto e cercava un medico. La risposta ricevuta del poliziotto è stata: «vuoi che ti curiamo noi, come si è fatto al Lonzi?». Intanto dopo undici anni, il Giudice per le indagini preliminari Beatrice Dani, ha respinto la richiesta di un’ulteriore archiviazione del caso e ha disposto al Pm Antonio Di Bugno (titolare dell’ultima indagine) nuovi accertamenti per dare risposte alle ipotesi mosse dall’avvocato della madre di Lonzi, Erminia Donnarumma e dal consulente, il professor Alberto Bellucco. Nelle archiviazioni delle precedenti indagini infatti, era stata stabilita la morte per cause naturali dovuta a «sindrome della morte improvvisa con maggiori probabilità di aritmia maligna in soggetto portatore di ipertrofia ventricolare». I segni sul corpo di Marcello Lonzi sono stati chiari sin da subito, come raccontano i rilievi fotografici effettuati sul cadavere. Due buchi in testa, la mandibola fratturata e otto costole rotte, tutto lasciano pensare tranne che un semplice infarto. Così il professor Bellucco dichiara invece che si è trattato di: «morte asfittica da sommersione interna da vomito alimentare per conseguenze di politraumatismo e stress cardiocircolatorio», e neanche sull’orario del decesso si è mai fatta chiarezza, perché la versione del carcere segna le 19.50 dell’11 luglio 2003, orario contestato da Bellucco secondo il quale Lonzi sarebbe morto intorno le 17:10. Maria chiede giustizia per Marcello e non si arrende, come si legge anche dal suo profilo facebook in cui scrive ogni giorno: «Buongiorno amore mio, mi manchi», lo scrive a quel figlio che non c’è più e di cui nessuno conosce, ancora oggi, le cause della sua morte.

Marcello Lonzi, la madre del ragazzo morto in carcere: “Voglio un processo", scrive David Evangelisti su "Il Fatto Quotidiano". La signora Maria Ciuffi in presidio davanti alla Camera dei deputati con le foto del figlio che ha perso la vita in cella nel 2003. Per le inchieste (archiviate) si trattò di infarto. Per la donna, però, il ragazzo è stato ucciso dalle percosse. Le foto choc del cadavere di Stefano Cucchi mostrate recentemente dalla sorella Ilaria davanti al tribunale di Roma ricordano soltanto una delle molte morti sospette avvenute tra le braccia dello Stato. Tra queste c’è anche quella di Marcello Lonzi, il detenuto 29enne morto nel 2003 all’interno del carcere “Le Sughere” di Livorno: decesso per infarto secondo le inchieste giudiziarie del 2004 e del 2010 (entrambe archiviate), morte a seguito di pestaggio secondo la madre Maria Ciuffi. Proprio la mamma 62enne ha mostrato stamani davanti a Montecitorio tre grandi foto del corpo del figlio, un cadavere su cui si possono vedere ferite, lividi e sangue (guarda il video di Irene Buscemi). “Marcello in carcere è stato massacrato di botte, queste foto parlano chiaro” ha ribadito la donna a ilfattoquotidiano.it. Perché un presidio davanti alla Camera dei deputati? “Voglio scuotere le coscienze di politici e cittadini e poi spero che i media nazionali tornino a parlare del caso: in questi 11 anni se ne sono occupati solo il Maurizio Costanzo show e Studio Aperto“. Al fianco della donna anche alcuni esponenti dell’associazione Il detenuto ignoto. Non solo: “Alcuni politici mi hanno garantito il loro impegno per portare il caso Lonzi in Parlamento“. Tra questi il consigliere comunale di Roma Gianluca Peciola (Sel): “Il nostro deputato Filiberto Zaratti è pronto a presentare un’interrogazione parlamentare”. Ciuffi ha contattato nei giorni scorsi anche la madre di Cucchi per esprimerle vicinanza: “Tutti assolti, è una vergogna – sottolinea la livornese – anche nel caso di Stefano si è voluto chiudere gli occhi davanti all’evidenza". Le due passate inchieste sul caso Lonzi si sono chiuse con l’archiviazione (l'uomo sarebbe morto per “cause naturali”) ma le foto del cadavere più volte mostrate in questi anni dalla signora Ciuffi continuano a far discutere, lasciando ancora aperti parecchi interrogativi: “Sul corpo privo di vita di Marcello sono stati ritrovati due buchi in testa e otto costole rotte. Per non parlare del polso sinistro, dello sterno e della mandibola fratturati: come si può parlare d’infarto?”. Alla donna viene espressa solidarietà un po’ da tutte le parti d’Italia: sul sito change.org sono ad esempio state raccolte quasi 23mila firme per chiedere di ottenere “giustizia vera”. La battaglia giudiziaria della signora Ciuffi intanto va avanti: le indagini relative alla nuova inchiesta non si sono però ancora chiuse. Nel 2013 la madre aveva presentato un nuovo esposto per capire se durante le operazioni di soccorso del figlio ci fossero state alcune fatali imperizie: nel mirino in questo caso il medico legale Alessandro Bassi Luciani che effettuò l’autopsia e i due medici della casa circondariale Gaspare Orlando e Enrico Martellini. Lo scorso giugno il gip Beatrice Dani aveva respinto la nuova richiesta d’archiviazione e disposto altri sei mesi d’indagini (leggi): “Al momento non si sono ancora concluse”. Ciuffi non molla: “La paura più grande – ha ribadito stamani – è che il caso venga nuovamente archiviato. È la prima volta che vengo a Roma, all’epoca scrissi al presidente della Repubblica senza ottenere risposta”. Lonzi, entrato in carcere il 1 marzo 2003 per tentato furto, doveva scontare una condanna di 9 mesi: dopo quattro mesi fu però trovato morto in cella. “Mio figlio aveva sbagliato e doveva pagare – ha concluso la madre – ma alla fine me l’hanno ucciso: ora ho diritto a un processo“.

Caso Lonzi, un’altra morte piena di ombre. Il ragazzo morì in carcere 11 anni fa. La madre chiede la verità. L’indagine riaperta rischia una nuova archiviazione. È uno dei 30 Cucchi d’Italia, scrive “La Notizia Giornale”. Marcello Lonzi è uno dei 30 morti in carcere senza un’apparente ragione e senza una verità. E oggi è stato promosso un presidio davanti alla Camera dei deputati con lo slogan: “Verità e giustizia per Marcello Lonzi”. A promuovere il presidio il gruppo SeL in campidoglio al fianco di Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi. Il ragazzo morì l’11 luglio del 2003 nel carcere livornese delle Sughere. "Il caso era stato inizialmente archiviato, e Marcello dichiarato morto per cause naturali, un infarto. Dopo la riapertura delle indagini nel giugno di quest’anno a 11 anni dal caso, ora il rischio è quello di una nuova archiviazione”, spiega la nota diffusa da Sel. “Sono stanca. La paura più grande è che il caso venga nuovamente archiviato”, ha affermato la madre del ragazzo, “E’ la prima volta che vengo a Roma, all’epoca scrissi al presidente della Repubblica senza ottenere risposta. Mi sono decisa a venire qui per riportare alla luce il caso di mio figlio e chiedere giustizia”. "Un caso incredibilmente archiviato”, afferma Gianluca Peciola, capogruppo SeL in campidoglio, “nonostante il corpo del ragazzo fosse stato rinvenuto in una pozza di sangue con 8 costole rotte, 2 buchi in testa e un polso fratturato. Il ragazzo si trovava nel carcere delle Sughere in seguito ad una condanna per tentato furto a nove mesi di reclusione. Le precedenti indagini terminarono inspiegabilmente con l’archiviazione in quanto la morte di Marcello Lonzi fu ricondotta a cause naturali. Dopo 11 anni, attualmente, le indagini sono state riaperte e sono in corso nuovi accertamenti. Siamo dunque qui in piazza Montecitorio per tenere alta l’attenzione sulla morte di Marcello Lonzi e chiedere verità e giustizia”.

Poliziotti che abusano della divisa: la rotta è stata invertita, scrive Paolo Signorelli su “L’Ultima Battuta”. I casi Gugliotta, Ferrulli e Androne e le condanne pesanti per gli agenti. I giudici non sono più disposti a coprire chi sbaglia. Tutto si può cambiare. Qualsiasi cosa, basta semplicemente avere la volontà giusta per farlo. Ed il coraggio di andare ad intaccare e combattere anche quelli che sono diventati  malcostumi. Quelle pessime e vergognose abitudini che sembrano radicate ed impossibili da modificare. Perché non sempre i “buoni” si comportano da buoni ed i “cattivi” da cattivi. Questo non è un segreto. Troppe volte abbiamo assistito a casi in cui alcuni (non tutti ci mancherebbe, parliamo sempre di una minoranza) poliziotti hanno pestato le persone fermate,  riducendole spesso in fin di vita. Talvolta le hanno pure ammazzate. Spesso, storie di questo tipo, non sono nemmeno mai uscite fuori. Perché i “tutori dell’ordine”, sulla loro strada, hanno incontrato pubblici ministeri compiacenti che, di fronte al colore della divisa, hanno sempre chiuso un occhio. Anche due. E giudici disposti ad accettare tutto questo. Così facendo, gli agenti, che si sono macchiati del peccato di aver abusato del loro ruolo, spesso l’hanno fatta franca. Non sono stati puniti. Perché l’assenza di regole certe e di un diverso trattamento di fronte alla legge, nei confronti dei poliziotti, ha fatto cadere la paura delle sanzioni da parte di questi ultimi. Che avrebbero il compito di far rispettare quelle stesse leggi che hanno infranto. Proprio l’importanza dei compiti affidati alle forze dell’ordine, richiede, necessariamente ed obbligatoriamente, norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l’ha violata. Ed esistono, purtroppo, molti casi in cui gli agenti, non sospesi dopo una condanna, sono tornati ad infrangere la legge. Altri non sono proprio mai stati proprio giudicati. Questi abusi non sono semplicemente una questione di “mele marce”, bensì un problema strutturale nella gestione dell’ordine pubblico fermo al modello degli anni ’70. Ma gli anni di Piombo sono ormai un ricordo, doloroso ma lontano. E non si può rimanere ancorati ad un determinato modus operandi che viene usato ancora oggi. Facendo finta di nulla. La rotta che il nostro paese (e non solo il nostro) ha intrapreso, sta però cambiando. Lentamente e a fatica, ma sta cambiando. Gli ultimi casi di Roma, Firenze, Milano, Frosinone, Napoli e Monza, ma anche le condanne dei poliziotti per gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi, lo dimostrano. Statistiche ufficiali non ce ne sono, ma solamente nell’ultimo anno 228 tra poliziotti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta. I giudici, alcuni, hanno trovato il coraggio di punire e di condannare, anche se non sempre finiscono in galera, tutti quei servitori dello Stato che hanno abusato della divisa. Massacrando manifestanti inermi, torturando detenuti, picchiando ragazzi dopo averli fermati per un controllo. Sparando e uccidendo. I pm no, ancora non sono entrati nell’ordine di idee di cambiarla quella rotta e non si capacitano che anche la polizia possa sbagliare. E cercano sempre di proteggere il suo operato.

Roma. Quella di Stefano Gugliotta è la notizia più recente, probabilmente la più eclatante. La condanna di quattro anni di reclusione per i nove poliziotti che nel 2010 lo picchiarono a sangue,  rappresenta un passo in avanti importante. Che certifica come le cose stiano davvero cambiando. Il pestaggio avvenne a Roma, nel dopo partita della finale di Coppa Italia tra Roma e Inter, il 5 maggio di quattro anni fa. Gugliotta, quella notte, stava andando col motorino ad una festa e venne fermato al quartiere Flaminio, vicino allo stadio Olimpico. Scambiato per un ultras (come se poi bastasse questo per colpire una persona) fu picchiato violentemente in strada e sbattuto in carcere per una settimana. Riportando la perdita di un dente e ferite sul volto e sul corpo. La sentenza contro i nove agenti è andata ben oltre le richieste della Procura, che aveva sollecitato condanne tra i tre e i due anni per Leonardo Mascia, Guido Faggiani, Andrea Serrao, Roberto Marinelli, Adriano Cramerotti, Fabrizio Cola, Leonardo Vinelli, Rossano Bagialemani e Michele Costanzo. Alla lettura del giudice, Gugliotta ed i familiari sono scoppiati in lacrime, mentre tra gli imputati non c’è stata alcuna reazione. Mandato in ospedale senza un perché, preso a pugni, calci e manganellate e tenuto in carcere una settimana con una falsa accusa. Infine scagionato e preso a simbolo di uno scontro che va oltre il caso singolo. Stefano Gugliotta ha vinto la sua battaglia giudiziaria.

Firenze. Le cause della morte di Riccardo Magherini, l’ex promessa delle giovanili della Fiorentina, deceduto la  notte tra il 2 e il 3 marzo scorsi durante un fermo da parte dei carabinieri, “sono legate ad un meccanismo complesso di tipo tossico, disfunzionale cardiaco e asfittico”. Si legge nel referto medico. La famiglia della vittima è convinta che Magherini (consumatore abituale di cocaina) sia stato vittima anche di un pestaggio. Intanto, nel registro degli indagati, accusati di omicidio colposo ci sono 11 persone: quattro carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale, cinque operatori e due centralinisti del 118.

Milano. Sette anni di carcere. E’ stata questa la richiesta di condanna richiesta nei confronti dei quattro agenti di polizia imputati per omicidio preterintenzionale e di falso in atto pubblico per la morte di Michele Ferrulli, avvenuta il 30 giugno 2011 a Milano. I quattro poliziotti, durante il fermo dell’uomo, lo avrebbero picchiato ripetutamente e con una violenza inaudita. Ferrulli, secondo quanto emerse dalle perizie, morì a causa di un arresto cardiaco, provocato dalla paura. Ma questa ipotesi non ha mai convinto del tutto. Per il giudice, “quando la vittima venne fermato insieme a due amici romeni in via Varsavia, alla periferia sud-est del capoluogo lombardo, subì una violenza gratuita e non giustificabile da parte degli agenti,  intervenuti in seguito alla chiamata di un cittadino infastidito dagli schiamazzi”. Parole accolte con soddisfazione dalla figlia dell’uomo, Domenica Ferrulli, parte civile nel procedimento insieme ad altri familiari.

Frosinone. In pochi si ricorderanno di Daniel Androne, un ragazzo romeno ucciso nel 2006. I carabinieri Mario Rezza e Francesco Porcelli sono stati recentemente condannati a 18 anni di carcere per omicidio volontario e occultamento di cadavere. Daniel venne fermato vicino Frascati. Era ubriaco e stava spacciando. Venne picchiato ed ucciso. Poi i due carabinieri nascosero il cadavere a Frosinone, che venne rinvenuto soltanto nel 2008. La Corte di  Giustizia della città ciociara ha fatto giustizia l’11 aprile scorso, quando ormai sembrava una storia, inquietante, destinata a rimanere nel dimenticatoio.

Monza. Le immagini di un uomo in una stanzina del commissariato, disteso a terra e con addosso soltanto un paio di boxer ed una maglietta, è stata pubblicata da quasi tutti i quotidiani nazionali nei giorni scorsi. Con le manette ai polsi. Il fermato era un cittadino marocchino che, a maggio, avrebbe partecipato ad una rissa in un parco di Monza. Processato nei giorni successivi è stato condannato a otto mesi per resistenza a pubblico ufficiale. Ma le immagini, crudi e forti, dell’uomo sdraiato per terra con tre agenti che lo circondano sono al centro di un’inchiesta che dovrà appurare se i poliziotti abbiano o meno abusato delle loro funzioni su di lui. Di sicuro il trattamento riservato al giovane marocchino non ha nulla a che vedere con le normali procedure di arresto. Nulla. E la questione è diventato oggetto di dibattito in Parlamento.

Napoli. Il caso di Napoli, va ad aggiungersi a quello di Monza, dove alcune foto apparse sui giornali hanno mostrato un cittadino straniero (che vendeva merce contraffatta) ammanettato alle mani e ai piedi, riverso a terra, sotto gli occhi degli agenti del commissariato. Picchiato fino a perdere i sensi.

Diritti umani dei cittadini calpestati, a prescindere dalla colpevolezza o meno del fermato. Ma il fatto che queste due foto siano state pubblicate certifica la voglia di dare un taglio a questi comportamenti, che non fanno altro che infangare il nome dello Stato e della Polizia italiana. Due episodi, quello di Monza e quello di Napoli, che ricordano molto i casi di Emmanuel Bonsu, uno studente ghanese di 22 anni all’università di Parma, che venne scambiato per pusher. Massacrato di botte, questa volta addirittura da 7 vigili urbani, fu portato in cella. E di Giuseppe Uva, fermato ubriaco e portato nella questura di Varese. Morì il giorno dopo una notte di violenze subite dai poliziotti. Gli stessi poliziotti che adesso sono in carcere condannati (in primo grado), del 2011, ma per i quali il pm ha appena chiesto il proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintezionale. Poi ci sono gli omicidi di Gabriele Sandri e Federico Aldrovandi. Il primo morì, l’11 novembre del 2011, nella stazione di servizio di Badia Alpino, ad Arezzo, ucciso da un colpo di pistola esploso dall’agente della PolStrada Luigi Spaccarotella. Condannato in primo grado per omicidio colposo a una pena di 6 anni di reclusione, in Appello il responso venne aggravato: omicidio volontario, con una pena di 9 anni e 4 mesi. Successivamente confermata anche in Cassazione. La vicenda di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto per le percosse di quattro agenti, ha riaperto il dibattito sull’inefficacia dei regolamenti che sanzionano il comportamento dei pubblici ufficiali. In questo caso, però, i poliziotti riconosciuti colpevoli (omicidio colposo) dalla Cassazione per quel pestaggio letale potranno tornare a indossare l’uniforme. Recentemente, in modo vergognoso, sono stati anche applauditi ad un convegno del Sap (sindacato autonomo di polizia) da tutti i partecipanti. Suscitando lo sdegno e la rabbia della famiglia Aldrovandi. Ed ancora le morti in carcere, quantomeno sospette, di Stefano Cucchi, “morto per deperimento”; Marcello Lonzi, ufficialmente morto “per collasso cardiaco”, le cui foto raccontano di un corpo martoriato di lividi; Gianluca Frani, 31 anni, che si sarebbe suicidato impiccandosi a un tubo dello scarico del water, nel carcere di Bari. C’è un dettaglio, però: Frani era paraplegico e semiparalizzato. E di casi come questi ce ne sono un’infinità. Storie orribilmente frequenti, in quegli inferni in terra che sono le carceri italiane. Ma non solo in galera. Da ricordare, raccontare e denunciare senza pause perché davvero, una volta per tutte, non accadano più. E qualcosa, anche se lentamente, sta finalmente cambiando.

Ma non per tutti.

Morì in carcere a 29 anni, chiesta l'archiviazione per 3 medici. L’indagine tris sul decesso di Marcello Lonzi è partita da un esposto della madre: è stato picchiato, altro che malore. Il giudice si è riservato, scrive Federico Lazzotti su “Il Tirreno”. Marcellino Lonzi aveva 29 anni quando venne trovato morto nella sua cella del carcere di Livorno, era l’11 luglio 2003. A distanza di quasi 11 anni, dopo due inchieste già archiviate, mercoledì mattina è andato in scena l’ennesimo capitolo della battaglia della madre del ragazzo, Maria Ciuffi, di convincere la giustizia a prendere in considerazione un’ipotesi diversa da quella del malore per spiegare il decesso del figlio. Davanti al giudice Beatrice Dani è andata in scena l’udienza nella quale il legale della donna, l’avvocato Erminia Donnarumma, ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal pubblico ministero Antonio Di Pugno in seguito all’esposto firmato dalla madre della vittima nell’ottobre 2013. Al centro della denuncia compaiono i due medici del carcere che tentarono invano di rianimare Lonzi, Enrico Martellini e Gaspare Orlando, e il medico legale Alessandro Bassi Luciani che ha effettuato l’autopsia sul corpo del detenuto. L’accusa nei confronti dei tre, per i quali è stato ipotizzato il concorso in omicidio colposo, è quello di non avere «svolto bene il loro dovere». Alla querela contro l'anatomopatologo e i medici in servizio all'epoca dei fatti presso l'infermeria del carcere, erano stata allegati ampi stralci della relazione medico legale eseguita dal consulente nominato dalla procura, quando fu riesumata la salma del giovane per effettuare una nuova autopsia, nella quale si evidenziavano «condotte non idonee». Si rileva inoltre, nella denuncia, la presenza nella parte addominale del cadavere di numerose fratture non evidenziate prima, «l'infossamento corticale dell'osso di 2 millimetri in corrispondenza di una ferita lacero contusa all'arcata sopracciliare non compatibile con morte naturale». Un quadro che non ha però convinto il pubblico ministero Antonio Di Bugno a chiedere il rinvio a giudizio nei confronti dei tre indagati. «L’ipotesi del concorso in omicidio colposo - spiega fuori dall’aula l’avvocato Alberto Uccelli, che difende Bassi Luciani - non è assolutamente plausibile». Dopo aver ascoltato tutte le parti, il giudice al termine dell’udienza si è riservato e la decisione è attesa nei prossimi giorni. Se anche questa inchiesta dovesse essere archiviata sarebbe molto probabilmente la fine del caso Lonzi. «Basta vedere queste foto - spiega la madre del ragazzo sfogliando il raccoglitore che porta con sé - per capire che mio figlio non è stato ucciso da un infarto ma è stato picchiato e lasciato morire».

Auguri amore, oggi ricorre il giorno del tuo compleanno, ti voglio un mondo di bene mi manchi tanto. Mamma, scrive sul suo blog Maria Ciuffi. Come è morto Marcello? Marcello Lonzi, il ragazzo di 29 anni morto nel carcere di Livorno l'11 luglio del 2003, oggi decorre il nono anniversario, in circostanze tutt'altro che chiare, soprattutto alla madre del ragazzo che ha avuto il malaugurato destino di aver dovuto seppellire il proprio figlio, e quando ha chiesto il perchè le è stato risposto che Marcello era morto di "infarto, un malore. Un male inevitabile dovuto da un mix da fattori fisici e pregressi "che hanno portato il suo cuore a dire basta. Eppure le foto oggettivamente mostrano" oltre ogni ragionevole dubbio un corpo che ha perso molto sangue ed ha subito diversi colpi riportando ecchimosi sulla schiena, ferite sul volto, sulla testa e in particolare una profonda fino all'osso.

"Mi chiedo quanto dovrò ancora chiedere, urlare che voglio giustizia per mio figlio. Possibile che nessun giudice veda, guardi e legga non ci credo. Solo che non vogliono mettersi uno contro altro. ma le foto parlano da sole, non è infarto.................non si muore cosi con 2 buchi in testa ed in uno ce la vernice attaccata a osso, con un polso rotto, 8 costole rotte, 2 denti rotti 3 ferite aperte in viso e tutti i lividi dietro la schiena. A distanza di 3 anni da esumazione sono state trovate impronte di scarpe.............facile tanti contro uno, in più con le mani legate. Che Dio vi perdoni, perchè io non lo farò mai". Raccontare una storia come quella di Marcello Lonzi, pone qualsiasi cronista nella condizione di riflettere  in punta di piedi sull'assurdità  della morte di un ragazzo  di soli 29 in custodia dello Stato. Uno Stato che avrebbe dovuto "custodirlo" e fargli scontare una pena per il reato commesso, e non riconsegnarlo alla madre chiuso in una bara. Ho deciso di raccontare la storia di Marcello, per ravvivare la mia stima per tutti coloro che indossando una uniforme/divisa , fanno ogni giorno il loro lavoro (spesso sottopagato)  con umanità e dedizione, prendendo viceversa le distanze da tutti coloro che abusano della loro condizione di superiorità occasionale, commettendo abusi e angherie. Marcello Lonzi entra nel carcere "Le sughere" di Livorno il 3 gennaio 2003; deve scontare una pena per il reato di tentato furto, ma, dal carcere uscirà solo da morto. Ufficialmente la causa della morte è "infarto": stride però l'immagine del corpo senza vita di Marcello con la presunta causa di morte. Non si è mai visto infatti il  cadavere di un soggetto infartuato con:  otto costole rotte, due denti spezzati, due buchi assestati in testa, mandibola rotta, polso e sterno fratturati. La madre, Maria Ciuffi, da anni ormai si batte perché venga ripristinata una verità oggettiva e logica  di ciò che accadde quel giorno in carcere, perché Marcello era suo figlio e la Signora ha il sacrosanto diritto di sapere perché e come sia morto.

11.07.2003 - Marcello Lonzi, 29 anni, muore nel carcere di Livorno. Il corpo di Marcello è riverso sul pavimento tra la cella numero 21, sezione sesta, padiglione "D" delle Sughere e il corridoio. La sua testa ostruisce la chiusura della porta. Tutto intorno sangue, sotto il cadavere e anche fuori dalla porta. In gocce o in strisciate circolari dai contorni netti. La procura archivia il caso un anno dopo il fatto: Lonzi è stato stroncato da un infarto, morto «per cause naturali. Aritmia cardiaca».

Morto in carcere, la madre: "Mio figlio ucciso a botte, ma lo Stato insabbia tutto da 10 anni", dice Maria Ciuffi intervistata da Cecilia Pierami su TGCOM 24.

Marcello Lonzi muore nel carcere di Livorno la sera dell'11 luglio 2003. Per la Procura si sarebbe trattato di "morte naturale", ma la madre, Maria Ciuffi, da 10 anni chiede "la verità" e ora ha deciso di ricorrere alla Corte di Strasburgo per avere giustizia.

"Al cimitero ho visto dove era mio figlio, ho fatto uscire dalla stanza tutti quelli che c'erano. Ho abbracciato la bara e ho detto: "Marcellino te lo giuro, qualcuno pagherà per quello che ti hanno fatto". E io quella promessa la rispetterò, costi quel che costi". Così Maria Ciuffi racconta a Tgcom24 la battaglia che combatte dal 2003 per far luce sulla morte del figlio Marcello Lonzi, 29 anni, deceduto mentre era detenuto nel carcere di Livorno.

Marcello Lonzi si trovava nel carcere "Le Sughere" di Livorno, per un una condanna per tentato furto. Muore l'11 luglio del 2003. Per la Procura si è trattata di un infarto, "cause naturali", ma la madre non ci ha mai creduto e ora porta il caso di fronte alla Corte dei Diritti dell'uomo di Strasburgo e, per sostenere la sua azione, ha lanciato una petizione online che, in meno di quattro giorni, ha già superato le 10mila adesioni.

"Marcello stava bene, non ha mai sofferto di cuore. Questo sarebbe già bastato per insospettire chiunque. Poi ho visto il corpo di mio figlio, i lividi, i segni e ho capito: nessuna morte naturale, qualcuno quell'infarto glielo ha fatto venire a suon di calci e pugni".

La Procura di Livorno ha però archiviato due volte le indagini sulla morte di suo figlio...

"Ho passato gli ultimi dieci anni a combattere, ho letto gli atti, ho parlato con chi era in carcere con mio figlio. Troppe lacune, troppe stranezze: sì il caso è stato archiviato due volte, ma sempre dallo stesso Gip. Per avere la riesumazione del corpo di Marcello e far eseguire un'autopsia da un medico di parte ho dovuto denunciare il pm di Livorno alla Procura di Genova, che ha disposto un supplemento di indagine. Ma più che un supplemento di indagine era un inizio: è venuto fuori che non era stato mai interrogato nessuno".

Cosa ha scoperto con i nuovi esami che ha fatto eseguire?

"Mio figlio aveva le costole rotte e non quelle che si rompono quando si fa il massaggio cardiaco per la rianimazione. Altre. Aveva un'impronta di uno scarpone sulla trachea. Aveva il polso rotto. Le foto mostrano chiaramente i segni di un pestaggio".

Perché pensa che le indagini siano state insabbiate?

"Ci sono troppe cose che non tornano e testimonianze contrastanti. Innanzitutto l'orario della morte. Stando agli atti, Marcello è morto alle 20.14. A parte che non torna con l'orario delle chiamate al 118, ho parlato con il ragazzo che era volontario sull'ambulanza. Ed è stato anche interrogato: lui è intervenuto di giorno non di sera. Lo dice e lo ripete. Ma i carabinieri, presenti durante la deposizione, volevano chiaramente che rispondesse altro. "Non è che era stanco per il lungo turno in ambulanza e non ricorda bene?" gli chiedevano".

A che ora sarebbe morto suo figlio secondo lei? Non ci sono stati testimoni del malore?

"Mio figlio credo sia morto nel primo pomeriggio. Tornerebbe con quelli che sono i risultati dell'autopsia e torna con molte testimonianze che ho raccolto. Ma spesso queste dichiarazioni sono completamente cambiate di fronte ai pm. Come quella del suo compagno di cella..."

Cosa ha sostenuto il compagno di cella di Marcello?

"Agli atti c'è questa dichiarazione: "Ho sentito un colpo, mi sono svegliato e Marcello era morto". Ma a me ha detto altro, ha raccontato che non era in cella, perché stava facendo la doccia, dopo aver lavorato tutto il giorno nella falegnameria del carcere. Però davanti ai pm ha cambiato versione perché aveva paura. Questo me lo ha ripetuto più volte: lui era dentro accusato di violenza sessuale, una di quelle accuse che in carcere gli altri detenuti ti fanno "pagare". Non lo aveva detto a nessuno e raccontava di essere dentro per un furto. Per quello ha cambiato versione, perché aveva paura, o è stato minacciato, che fosse svelata la verità".

E gli altri detenuti, non hanno visto o sentito niente?

"Mi è stato raccontato da un detenuto che il giorno in cui è morto, Marcello si era preso con un secondino la mattina, ma sembrava finita lì. Poi aveva mangiato. Subito dopo pranzo lo ha visto che lo portavano via. A volte capita che qualcuno sia chiamato in qualche sezione o reparto. Ma non è più tornato in cella. Alle 15.30, cosa molto insolita, hanno chiuso tutti i detenuti nelle celle e non le hanno più riaperte. Quando le celle erano chiuse, questa persona mi ha raccontato di aver sentito correre e urlare".

Cosa sarebbe successo secondo lei?

"Mio figlio è stato portato in isolamento. E lì è stato barbaramente picchiato. Tanto da fargli venire un infarto. Poi quando si sono resi conto di aver esagerato, hanno cercato di coprire tutto. Per quello hanno chiuso tutti in cella, per poterlo riportare nella sua, probabilmente già morto, senza che gli altri lo vedessero".

Ha avuto altre conferme in questo senso, altre testimonianze?

"Una donna, una ex detenuta in carcere a Livorno quando c'era anche Marcello, mi ha raccontato di essere stata avvertita nel pomeriggio, e non la sera, che era morto. Pensavano che fosse la sua compagna... E poi un altro fatto inquietante: una guardia sarebbe arrivato di corsa da un'infermiera che lavora a "Le sughere" e le avrebbe detto: "Corri corri mi è morto fra le mani". Naturalmente di questa testimonianza non c'è traccia negli atti. L'infermiera ha deposto in Procura, poi il giorno dopo è tornata al carcere e ha tentato il suicidio. Successivamente ha cambiato la sua deposizione".

E gli amici che Marcello aveva in carcere, si sono fatti un'idea di cosa sia successo?

"C'è poco da dire, mi hanno detto: "Maria è così, va così da sempre. A turno tocca a tutti, anch'io ho preso le botte. A me è andata bene. A lui no". Non hanno dubbi insomma che sia stato picchiato a morte".

Cosa farà adesso?

"Avevo fiducia nello Stato, credevo che ci proteggesse. Dopo tutto questo non crederò più nella giustizia. E' troppo evidente che qualcuno ha voluto insabbiare tutto questo caso. Mi scrivono spesso tanti ragazzi che mi dicono che hanno paura. Paura della polizia, paura di poter entrare in un carcere e non uscirne più. Ma mi scrivono anche dei secondini e degli agenti per chiedermi scusa, perché non tutti sono come quelli che io e mio figlio abbiamo incontrato sulla nostra strada".

"Adesso spero che l'appello alla Corte di Strasburgo porti a qualcosa. Io voglio solo giustizia, voglio andare a processo. La mia vita da dopo la morte di Marcello, non è stata più la stessa. Prima era la vita, dopo è stato solo il buio. L'ho promesso a mio figlio, chi gli ha fatto questo la pagherà. Costi quel che costi. Sono disposta anche ad andare in galera, ma qualcuno la pagherà".

L'appello: riapriamo il caso Lonzi, scrive Ilaria Lonigro su “L’Espresso”. Marcello Lonzi, 29 anni, morì in prigione nel 2003. Ufficialmente per 'infarto'. Ma aveva la mandibola fratturata, due buchi in testa, otto costole rotte. La madre non ha mai smesso di lottare per far riesaminare il caso. E ora chiede di firmare online per farlo arrivare alla Corte dei diritti dell'uomo. Così, forse, anche da noi la giustizia si muoverà. Non convince molti la verità giudiziaria secondo cui Marcello Lonzi, 29 anni, il volto gonfio e il corpo martoriato, sarebbe morto per un infarto, l'11 luglio del 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Le foto del ragazzo nudo in una pozza di sangue hanno spinto in meno di 5 giorni 15.000 persone a firmare la petizione online con cui la madre Maria Ciuffi chiede ora alla Corte europea dei diritti dell'uomo di riesaminare il caso. La Ciuffi era già ricorsa a Strasburgo, insoddisfatta delle due archiviazioni italiane, ben sintetizzate dalle parole del Gip della Procura di Livorno Rinaldo Merani: "Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Marcello Lonzi è morto per un forte infarto". Dopo che pure la Cassazione, il 29 marzo 2011, aveva negato la riapertura del processo, la donna si appellò alla Corte europea. Inutilmente: nel 2012 il ricorso fu dichiarato irricevibile. "Non incontrava gli articoli 34 e 35 della Convenzione europea sui diritti umani" fanno sapere all'Espresso da Strasburgo. Non si sa se il vizio fosse di procedura, merito o competenza. La decisione è comunque definitiva. Non la pensa così Erminia Donnarumma, legale di Maria Ciuffi, che vuole far riaprire il processo anche in Italia. "Con nuove prove c'è sempre la possibilità di riaprire le indagini. A marzo abbiamo denunciato il medico legale che ha fatto l'autopsia prima che la madre fosse avvertita del decesso, quindi senza che assistesse un perito nominato da lei. E abbiamo denunciato i due medici intervenuti la sera, per omissione di soccorso. Bisogna riconsiderare anche le fratture non prese in esame in sede di riesumazione. Ora dipende tutto dalla Procura di Livorno: se iscrivono il reato possono riaprire le indagini". Alle Sughere dal 1 marzo 2003, Marcello doveva scontare 9 mesi per tentato furto. Invece l'11 luglio il suo corpo resta a terra nella cella. Fuori, strisciate e gocce di sangue. Saranno tante le dichiarazioni contrastanti e i punti oscuri. Pochi giorni dopo aver parlato con la magistratura, nel 2008, tenta il suicidio in orario di lavoro l'infermiera delle Sughere in servizio quando fu ritrovato il corpo di Marcello. Si può escludere o no che c'entri con i fatti di Lonzi? C'è poi un referto medico falso e anonimo. Poco dopo l'ingresso in carcere, Marcello accusa dolori al torace: lo hanno picchiato le guardie, lamenta. Le radiografie che gli fanno mostrano una costola fratturata. Ma nel referto del 20 marzo 2003 il medico scrive il falso: "non fratture". E non si firma. Marcello non viene curato e i responsabili restano impuniti. Alle Sughere, 17 decessi tra il 2003 e il 2011, "la violenza è normale" secondo Mario, ex detenuto intervistato da Riccardo Arena nella rubrica RadioCarcere di Radio Radicale. Mario racconta di detenuti tornati dall'isolamento "spaccati in faccia". Lui stesso sarebbe stato pestato da "6 o 7 guardie". Che la morte di Lonzi abbia a che fare con i maltrattamenti lo hanno pensato anche alle Nazioni Unite. Nel 2011 l'argentino Juan Méndez, relatore speciale sulla tortura dell'Onu, segnalò all'Alto commissariato per i diritti umani il caso Lonzi. All'interno del suo "rapporto sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti", metteva in evidenza il "volto gravemente contuso" e il "corpo coperto di sangue" del ventinovenne. Non solo: la storia di Marcello Lonzi, insieme ad altre, "ritrae un'immagine disturbante della violazione dei diritti umani da parte di pubblici ufficiali che non sono soggetti a indagini rigorose". Così recita una relazione diretta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite scritta nel 2010 dall'ong Franciscans International, consulente ufficiale dell'Onu in tema di diritti. Che denuncia "un'apparente non volontà di investigare accuratamente e di consegnare alla giustizia i responsabili. Questo equivale a una violazione del diritto alla vita e del diritto a un rimedio efficace".

LIVORNO. CITTA’ DI MASSONI AMATA DA GARIBALDI.

Enzo Niccolini ha due grembiuli, scrive Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Uno da pasticciere, che mette per fare bigné, cannoli e millefoglie. Uno da Maestro della massoneria. E indossa l'uno e l'altro senza porsi più di tanto il problema che oltre un paio di secoli fa, nel 1797, si poneva il commerciante avignonese Francesco Morenas dando vita alla prima loggia livornese dell’«Union Parfaite»: «Fratelli, finalmente è giunta l’ora tanto desiderata di una ripresa dei nostri lavori segreti!» Lui no, nessun segreto, ormai. Anzi, suo figlio Giacomo è diventato improvvisamente famoso, un anno e mezzo fa, proprio compiendo un gesto che per Morenas e i suoi discendenti era un vero sacrilegio. Ha pubblicato sul Corriere di Livorno, l'unico quotidiano al mondo ad avere come editore un calciatore, per di più comunista, il centravanti amaranto Cristiano Lucarelli, una coraggiosa inchiesta sulla massoneria con l'elenco (scandalo!) di 300 iscritti alle logge labroniche. Certo, raccontano in città che i «fratelli» non apprezzarono affatto l'iniziativa e che qualcuno si spinse addirittura a chiedere a Niccolini di rinnegare quel figlio cronista un po' troppo intraprendente. Ma il solo fatto che il Maestro-pasticciere se la sia cavata senza troppe grane cambiando semplicemente loggia, la dice lunga su cosa sia la massoneria «popolare» in questo che con i suoi quattro secoli di vita è il più giovane dei capoluoghi di provincia italiani. Non c'è livornese che, avvitandosi in discorsi torrenziali dove abbondano le parole vernacolari e difettano le «C», non ti ricordi che la loro è la città della «Costituzione Livornina». La quale, voluta dal Gran Duca di Toscana per incentivare la crescita demografica, lanciava un invito a tutti i «mercanti di qualsivoglia Nazione, Levantini, Ponentini, Spagnuoli, Portughesi, Grechi, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani » a «venire a frequentare lor traffichi, merchantie nella sua diletta Città di Pisa e Porto e scalo di Livorno con habitarvi, sperandone habbia a resultare utile a tutta Italia, nostri sudditi e massime a poveri..». Un'apertura straordinaria. Che causò anche qualche problema, se è vero che Livorno a metà dell'800 metteva qualche brivido a Charles Dickens. Il quale scriveva di un luogo «prospero, attivo, pratico, dove l’ozio è scacciato dal commercio » ma anche guastato dalla «cattiva fama di essere un ricettacolo di malandrini». Fosse o non fosse vero, lo scrittore inglese aveva raccolto una diceria da spavento: «Non molti anni or sono esisteva in città un’associazione di maniaci sanguinari che non ce l’avevano contro nessuno in particolare, ma uscivano la notte per le strade ad assassinare la gente a pugnalate, persone a loro completamente sconosciute, per il solo piacere e l’emozione del gioco». Vero? Falso? Boh... Certo è che lo spirito di tolleranza è così radicato che anche i massoni hanno potuto qui superare perfino i momenti più brutti. Come sotto il fascismo, quando Benito Mussolini cercò di liberarsi delle logge, che avrebbero potuto dargli qualche fastidio, andando a mettere in discussione la cosa di cui tanti massoni andavano (a torto o a ragione, come spiega a pagina 19 Fulvio Conti) più orgogliosi. Vale a dire un ruolo niente affatto secondario nel processo di unificazione nazionale. Che Livorno sia stata importante, nella nostra storia patria, lo dice la Medaglia d'oro come Città benemerita del Risorgimento, per avere eroicamente resistito nel maggio 1849 all’assalto austriaco dopo il disastro di Novara ed essere stata «il centro più importante del movimento democratico e repubblicano». Fu da qui che Giuseppe Garibaldi, il 30 ottobre 1848, inviò uno dei suoi messaggi più celebri che si chiudeva così: «Coraggio, o lombardi! Prorompete da ogni verso sui barbari, tutti gli italiani sorgano armati, e sia guerra di popolo che sprezza gli ostacoli, deride i pericoli, non conta i nemici; sia guerra di nazionale vendetta, senza sosta, senza misericordia. A rivederci, o lombardi, in mezzo alla mischia!» Qui no, la memoria del Risorgimento non divide. Certo, quella parte della tifoseria della squadra amaranto «teppista-leninista» che fino allo scioglimento si riconosceva nelle «Bal», le Brigate Autonome Livornesi, il cui nome campeggiava on line anche in cirillico come sfregio agli anticomunisti e omaggio all’Urss (il sito pubblicava perfino l’elenco delle decorazioni sovietiche), ha sempre irriso a un certo patriottismo. Ma la sinistra al governo ininterrottamente dai primi anni del dopoguerra si è lasciata alle spalle da un pezzo quello che diceva sprezzante Palmiro Togliatti: «Il Risorgimento è per il piccolo borghese italiano come la fanfara per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi, per credersi un eroe». A spaccare la città più rossa d’Italia, oggi, è piuttosto il progetto del rigassificatore. Al punto che per la prima volta, alle elezioni comunali del 2009, il Pd ha avuto un po’ di tremarella. Certo, il sindaco Alessandro Cosimi è stato riconfermato col 51,5% al primo turno. Ma con un’emorragia, in termini reali, superiore al 12%. Disaffezione per la politica? Forse. Stanchezza di un elettorato che da sempre non conosce alternative? Anche. Merito dell’opposizione? Mah… Il candidato del Pdl, Marco Taradash, si è fermato al 25% nonostante una campagna battagliera condotta sostenendo che ormai di rosso c’era «solo la ruggine che hanno fatto calare sulla città» e rovesciando sulla giunta uscente accuse come quella di avere avuto l'intenzione di «comprare un allevamento di coccodrilli a Santo Domingo per importarne la carne». Più che i coccodrilli, come dicevamo, avrebbe pesato la guerra al rigassificatore offshore davanti alla costa. Tanto da regalare al professor Marco Cannito, una specie di «grillino» presentatosi con una propria lista, sostenuta da Sinistra critica e dai Verdi, addirittura il 9% dei voti. Opposizione durissima. In consiglio comunale. In tribunale. Nelle piazze. Sull'acqua. Tutto inutile: il progetto va avanti. Gestito dalla Olt, un’azienda controllata alla pari dal gruppo Iride (una società quotata in borsa che ha gli azionisti i comuni di Genova, Torino e Livorno) e dal gruppo multinazionale E.On, l’omologo tedesco dell’Enel. L’impianto dovrebbe entrare in funzione il prossimo anno. Tra i sospiri di sollievo di quanti sostengono, al contrario, l'ineluttabilità della scelta. Per sottrarre l'Italia almeno in parte ai ricatti dei Paesi dai quali dipende energeticamente. Per rilanciare l'economia cittadina. Il porto, la principale industria locale con circa duemila addetti orgogliosi del loro lavoro al punto che un proverbio labronico sostiene che «a Livorno 'r peggio portuale sona 'r violino co' piedi», è in difficoltà. Un dato per tutti: nell’ultimo anno le richieste di lavoratori portuali interinali è calata del 50-60%. Certo, c'è stata una certa ripresa del traffico container. Non sufficiente, però, neppure col concorso della crocieristica, a dare un po' di ossigeno a una città che, stando alle tabelle degli istituti di ricerca e alle inchieste dei giornali locali, ha vissuto troppo spesso al di sopra delle proprie possibilità. In fondo alle classifiche del risparmio, in testa a quelle degli indebitamenti. Non meno in difficoltà, però, per tornare al tema di partenza, è la massoneria. Spaccata nella sua città-simbolo come è spaccata a Roma. Roba da far rivoltare nella tomba Garibaldi, che fu nel 1864, sia pure per pochi mesi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e amava Livorno al punto da spingere l’ultima moglie Francesca e la figlia Clelia a prendere casa all'Ardenza, non lontano dalla famosa Accademia Navale che ebbe tra i primi cadetti Manlio Garibaldi. Per non dire del livornese Adriano Lemmi, patriota, cospiratore, amico e finanziatore di Mazzini, che per dieci anni, alla fine dell’Ottocento, aveva retto le sorti della più grande e potente organizzazione della massoneria italiana. Dove oggi volano gli stracci. Meglio, i grembiulini. Non era successo nemmeno ai tempi della P2 di Licio Gelli, nelle cui liste i livornesi erano addirittura una trentina: i conti, allora, si regolarono in famiglia. Ora, invece, i panni sporchi si lavano in piazza. Davanti al giudice, a colpi di carte bollate. La terza elezione consecutiva di Gustavo Raffi, che regna ormai da undici anni sul Grande Oriente d’Italia, ha scatenato una rivolta interna. Finita al tribunale civile di Roma, al quale i rivoltosi chiedono di dichiarare che l’attuale Gran Maestro occupa il posto illegittimamente. Un fatto senza precedenti. Come senza precedenti era stato, dicevamo, la clamorosa pubblicazione dell’elenco dei massoni livornesi. Venuta nella scia di un’indagine della magistratura sulla società Porto 2000, controllata dall’autorità portuale labronica, che gestisce il traffico turistico dello scalo. Una questione di spese di rappresentanza poco chiare, dietro cui gli investigatori sospettavano la lunga mano delle logge. Un’inchiesta finita in una bolla di sapone. Con lo strascico, però, di quell’elenco ricco di «fratelli ». Anziani signori e giovani rampolli sotto la trentina, professionisti e artigiani, negozianti di via Ricasoli e protagonisti della vita cittadina in larga parte aderenti al Grande Oriente l’Italia. Il cui capo indiscusso, nella città che ha dato i natali tra gli altri a Carlo Azeglio Ciampi, è Massimo Bianchi, già vicesindaco e candidato al Parlamento dei socialisti. Non è un massone qualsiasi, Bianchi: è Gran Maestro aggiunto, numero due del Grande Oriente d’Italia. Eletto lui pure per la terza volta in coppia con Raffi, e con Raffi finito nella bufera delle contestazioni. Alimentate, oltre che dalla pubblicazione della lista livornese, anche dalla rivelazione (sempre sul giornale di Lucarelli) del bilancio del Grande Oriente d’Italia. Apriti cielo. «Non è affare vostro», ringhiò in un’intervista Federico Barbera, considerato la figura emergente della massoneria labronica. «La nostra non è un’organizzazione democratica. Uno comanda e gli altri centomila obbediscono». Proprio ciò che i ribelli contestano. Non a caso, la punta di diamante della ribellione è un sito internet. Sito che si fa vanto di non essere affatto «coperto». Anzi. Dichiara di rifarsi a un nome e un cognome. Quelli di Gioele Magaldi, un ex Maestro Venerabile (che nella gerarchia massonica significa capo di una loggia) di 38 anni. Ma per capire che cosa sta succedendo nella roccaforte della massoneria italiana bisogna spiegare alcune cose. «Livorno vanta un indiscutibile primato: quello di essere stato l’unico centro in Italia dove l’attività libero-muratoria non si è mai interrotta, neppure quando la massoneria è stata messa al bando dal governo lorenese, durante la Restaurazione, e da quello mussoliniano», ha scritto Raffi nella prefazione a «La massoneria a Livorno», un volume di 560 pagine curato da Fulvio Conti. Libro pubblicato nel 2006 dal Mulino con il patrocinio del Comune e della Provincia ma anche il contributo finanziario, fra gli altri, della Fondazione Cassa di risparmi di Livorno, della Coop Uil casa, della Porto 2000, e della Operae, una società dell’immobiliarista Vittorio Casale, che nel 2005 fu uno dei fiancheggiatori di Giovanni Consorte nella scalata Unipol alla Bnl. Dettagli. Ma che dicono molto sul rapporto fra la massoneria e la città. La seconda dopo Firenze per densità di iscritti, nella regione, la Toscana, con più affiliati nel Paese, davanti a Calabria, Piemonte, Lazio e Sicilia. A Livorno, 160 mila anime, c’è un massone ogni 500 abitanti, a Roma uno ogni 1.800, in Italia uno ogni 3.000. Non a caso molte vie e piazze labroniche portano il nome di storici esponenti della massoneria, come Carlo Bini, Francesco Domenico Guerrazzi, Adriano Lemmi… Non a caso, una delle logge più importanti è intitolata a Lemmi. Banchiere livornese di origini ebraiche, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1885 al 1895, amico e sostenitore di Mazzini, finanziatore della spedizione di Carlo Pisacane. Praticamente un demonio, per il mensile Chiesa viva diretto da don Luigi Villa, che ne scrive col furore con cui poteva scriverne un secolo e passa fa: «Lemmi si vantò sempre di essere il valido emissario di Mazzini in un gran numero di assassinii, tanto che Mazzini stesso lo chiamava “il mio piccolo giudeo che vale dieci buoni diavoli”. Il 4 gennaio 1852 Mazzini e il suo comitato decretarono la condanna a morte del Duca di Parma Carlo III; il 26 marzo Carlo III cadeva sotto i colpi del sicario di cui Lemmi aveva stimolato il fanatismo. Il 21 ottobre 1852, Lemmi ispirò il tentato assassinio del ministro Baldasseroli, presidente del consiglio del Granduca di Toscana; fu lui, sempre su ordine di Mazzini, che armò il braccio del fanatico che attentò alla vita dell’Imperatore d’Austria, il 18 febbraio 1853. Nel 1855, Lemmi si recò a Roma e, poco dopo, il 12 giugno, vi fu un tentato assassinio del cardinale Antonelli…» Mah… Certo, trovò il tempo di costituire con un altro banchiere, Pier Augusto Adami, la società Adami & Lemmi. Beneficiata da Garibaldi, con decreto dittatoriale, della concessione per le ferroviemeridionali e il monopolio dei tabacchi. Concessioni subito revocate dai Savoia, si capisce. Ma l’episodio getta un’ombra sugli «effetti collaterali» dei rapporti tra «fratelli». Ombra che non di rado si allunga anche oggi: quanti rapporti d’affari si sviluppano nella «riservatezza» delle logge? Insomma, la massoneria è una faccenda tremendamente seria. Perfino a Livorno, dove sono abituati a ridere di tutto. Come quella volta che, alcuni anni fa, tre giovani geni della burla gettarono in canale tre finte sculture di Amedeo Modigliani. Ci cascarono tutti, per giorni e giorni. Finché i ragazzi non portarono le prove: quelle opere d’arte le abbiamo fatte noi, con un trapano Black & Decker. L’evento colse di sorpresa tutti, tranne i livornesi. La copertina del Vernacoliere che uscì qualche giorno dopo è passata alla storia: «Sconvorgente a Livorno! Trovata una sega! Questa vorta è vero: si tratta d’uno straordinario manufatto del Quaternario, un popò di segone preistorico tutto di sasso antìo, venuto alla luce ‘n una bua der gasse per la strada. Ora è sicuro: gia’ a que’ tempi si facevano le seghe!» Eppure perfino il mensile livornese, capace di sfiorare vette inarrivabili di satira («Miràolo! Berlusconi appare alla Madonna!») senza risparmiare nessuno, nemmeno la Chiesa («Trema anche Gesù: “Lasciate che i bambini vengano a me” oggi non lo direbbe più»), è rimasto sempre indifferente agli spunti comici che potevano venire dalle logge. «Ma no, nessuna censura—ride il direttore Mario Cardinali —. Gli è che non c’è mai venuta l’occasione giusta». Chissà che non arrivi in tempi brevi. Lo scontro processuale, ai vertici della massoneria italiana, sta per entrare nel vivo. E si sa com’è: fratelli coltelli…

LIVORNO E LA MAFIA.

Le infiltrazioni mafiose sul territorio livornese. Sotto l’egida di “osservatori della Legalità” agiscono numerose organizzazioni, con anche l’appoggio della Regione Toscana, che collaborano e si intrecciano con lo scopo comune di fare da sentinelle a fenomeni di criminalità organizzata ed in generale alle illegalità. Il rapporto annuo, diviso per zone della nostra regione, conta più di 13 tipi di illeciti diversi, di cui  usura , messa in schiavitù, ecomafia, droga, lavoro minorile  sono solo alcuni esempi, scrive Lura Sestini su “Ogni Sette”. Una frase di Antonino Caponnetto “La Toscana non è terra di mafia ma la mafia c’è” è diventata lo slogan di massima di tutte  quelle persone, esclusivamente volontari, che ogni giorno stanno all’erta su situazioni che paiono non quadrare. La Toscana è una terra ricca ed è apprezzata non solo per la sua bellezza ma anche per avere il potenziale per  grossi  investimenti di denaro illecito. Si apre con questa affermazione del Procuratore della Repubblica di Livorno, Francesco De Leo, “la mafia non è un fenomeno criminale ma una cultura che turba l’equilibrio della struttura sociale con l’esercizio di un’attività che tende a sopraffare gli altri”, l’assemblea pubblica tenutasi al Castello Pasquini il 9 febbraio scorso a tema “ Il fenomeno mafioso  a Livorno e in Toscana”. Presenziavano  all’incontro Domenico Mannino, Prefetto di Livorno, Ettore Squillace Greco, sostituto Procuratore direzione distrettuale Antimafia di Firenze, i sindaci di Rosignano e Cecina, Franchi e Benedetti oltre ai comandanti delle forze dell’ordine locali ed i rappresentanti di categorie economiche quali Confindustria, Coldiretti, Confagricoltori.  L’incontro, organizzato dal circolo LibertàGiustizia Bassa Valdicecina, mirava ad avere un quadro preciso di informazione delle infiltrazioni mafiose in Toscana con particolare  interesse alla provincia di Livorno ed approfondire violenti casi di estorsione a scapito di imprese edili cecinesi accaduti recentemente. Già ad ottobre Pietro Grasso, Procuratore nazionale Antimafia,  invitato ad un evento al GrandHotel Palazzo, aveva fatto tutta una serie di esempi di fenomeni che interessano la provincia. Episodi locali che sono campanelli d’allarme e che devono  tenere costantemente alto il livello di attenzione da parte di tutti. «Le mafie hanno travalicato i confini del meridione ormai da tempo e si sono già stabilizzate in Piemonte e Lombardia che sono gli ambiti trainanti dell’Italia da punto di vista economico, - ci ricorda Greco - chi ha soldi da riciclare finora è andato là. Ma ormai quei territori sono troppo sotto i riflettori delle forze dell’ordine e si cercano nuovi agganci in regioni come l’Emilia Romagna, la Toscana, l’Umbria». In un territorio la mafia non ha bisogno di farsi vedere ma di esserci. Secondo un sondaggio di Sos Impresa il fatturato annuo delle cosche si aggira intorno ai 137 miliardi di euro, dei quali 15 in Toscana. Non c’è più bisogno di azioni di estorsione o di usura, ma soprattutto di investire grandi capitali. Capitali che vanno ad acquistare immobili, soprattutto nelle zone di operatività, e attività produttive, che controllano imprese e possono condizionare  appalti pubblici. Andrea Gemignani, presidente di Confindustria  di Livorno asserisce che non ha mai avuto cenni di allarme dai suoi associati, ma in questo contesto storico-economico, dove accedere ai crediti bancari è più difficile, venire a contatto con gli usurai pare piuttosto semplice. «I gruppi mafiosi si infiltrano nelle istituzioni lì dove ci sono crepe nelle regole, - prosegue Greco. - I pubblici amministratori , da parte loro, devono rispettare le regole, dando contenuto concreto alla trasparenza delle azioni e delle transazioni». Decalogo di trasparenza anche per le imprese e le banche e puntare soprattutto sui giovani per una  cultura della legalità. Il sindaco di Cecina, Benedetti , è concorde con la trasparenza proposta dai procuratori sostenendo che si rispettano le troppe norme che la legge dà, rischiando di interpretarle male,  e nel suo  Comune non ci si avvale di appalti “al massimo ribasso” ma si cerca di premiare le aziende per la qualità del progetti presentati. Alessandro Franchi, primo cittadino di Rosignano, è convinto che qui ci siano gli anticorpi giusti perché la mafia non attecchisca e le aziende siano sane. Anche da parte dei cittadini c’è buona attenzione alla legalità e fiducia nelle istituzioni. Un occhio speciale anche sulla forte affluenza di extracomunitari, facile preda della criminalità, con sostegno da parte delle istituzioni per le necessità di base. «Negli ultimi anni, con l’internazionalizzazione delle mafie rumene, albanesi, nigeriane, cinesi e italiane, le magistrature di vari paesi si sono organizzate per operare insieme al contrasto della criminalità, e grandi passi avanti si sono fatti, ma quello che ha tenuto lontano davvero  la mafia dalla Toscana - ricorda Greco - è la società civile, i cittadini».

MALAMMINISTRAZIONE

Si può essere eroi anche così. La vita di Giampaolo Cardosi raccontata da Marco Gasperetti su “Il Corriere della Sera”. -«L'amavo molto quella divisa che mi hanno scippato. L'ho portata a testa alta e con onore, eppure non sono più riuscito ad indossarla», raccontava agli amici. Forse la indosserà stamani per l'ultima volta quella divisa, Giampaolo Cardosi, l'ex vigile capellone poi diventato clochard, morto a 69 anni dopo essere caduto dalla bicicletta. Era stato vittima incolpevole, Giampaolo, di persecuzioni amministrative e giudiziarie: aveva perso lavoro, casa e la madre era morta di crepacuore. La sua unica colpa era stata quella di essere controcorrente, di rifiutarsi di tagliare barba e capelli, di non aver ascoltato gli «ordini» dei suoi superiori che non potevano tollerare quel capellone «sporco e trasandato». Lo accusarono prima di aver rubato duemila lire di una multa; poi un tavolo e quattro vecchie sedie abbandonate in un bosco. Espulso, radiato, canzonato, costretto a dormire sulle panchine, Giampaolo si era trasformano in una creatura ricurva sulla sua misera bicicletta, ma allo stesso tempo non aveva perso fierezza e voglia di combattere. E non arretrò anche quando, dopo decenni di calvario, la giustizia lo prosciolse. Giampaolo chiese di essere reintegrato: «Vorrei indossare nuovamente la mia divisa, salire sulla bicicletta, fare il mio dovere». Il Comune rispose di «no» ma gli offrì 300 mila euro come riparazione del danno subito. Lui rifiutò i soldi, sdegnato. I guai non sarebbero finiti. Poco tempo fa era stato accusato di aver imbrattato la sede di Equitalia con frasi offensive. E lui aveva commentato: «La via crucis continua». Livorno popolare gli voleva bene. E nell'anniversario dell'Unità d'Italia c'è stato chi l'ha trasformato in Garibaldi, con tanti manifesti affissi e accolti con ironia ma anche sorrisi compiaciuti. La sua morte ha scosso la città. «Per favore concedetegli la divisa», ha chiesto un consigliere comunale dell'opposizione incassando centinaia di messaggi a favore di una completa riabilitazione. Sul web sta circolando anche l'ultima frase di Giampaolo: «Sono nato il 7 settembre del 1943 alla vigilia dell'armistizio. Ma nella mia vita io non ho mai incontrato la pace».

Ed ancora.

Per la seconda domenica consecutiva, il patron di Esselunga Bernardo Caprotti ha comprato pagine di pubblicità sui principali quotidiani per spiegare come funzionano le cose in materia di «concorrenza e libertà» nelle regioni rosse. La settimana scorsa, il caso Modena: prima le Coop pagano un terreno cinque volte il suo valore commerciale per ostacolare l’insediamento di un supermercato Esselunga, poi il comune completa l’opera decidendo di trasformare l’area da commerciale a residenziale. Così il supermercato non verrà mai costruito, né a marchio Coop ma soprattutto non a marchio Esselunga. E chi ci rimette di più? Per capirlo basta osservare lo specchietto pubblicato ieri mattina: a Modena le catene legate a Legacoop possiedono l’88,1 per cento della superficie di vendita, Caprotti appena il 3,4.

Per "Il Giornale" ora si apre un capitolo inedito del fortunatissimo Falce e carrello: il caso Livorno. Che presenta varie analogie con Modena. Anche sulla costa toscana ci sono giunte rosse, le Coop monopoliste (il 72,2 per cento degli spazi commerciali della grande distribuzione è dei marchi Legacoop) e un terreno commerciale conteso. Il proprietario è il cavaliere del lavoro Marcello Fremura, 80 anni, armatore e spedizioniere marittimo. La superficie fa parte di un grande lotto in cui verranno realizzati 700 appartamenti, uffici, servizi e appunto un ipermercato (unico sito cittadino disponibile per una nuova apertura) con annesso centro commerciale e megastore non alimentare. Due anni fa Fremura trova l’accordo con il Comune per avviare i lavori. Partono i contatti per rivendere i 41mila metri quadrati dell’area commerciale. Lo scorso aprile sul tavolo di Fremura si trovano tre proposte. Le Coop propongono 30 milioni di euro, qualcosa in più la Airaudo costruzioni, mentre Caprotti ne mette sul piatto 40. Vincono le Coop.

Faccenda «inconsueta e singolare» osserva Esselunga senza eccepire la regolarità delle procedure. Perché rinunciare a un’offerta più alta di un terzo? Fremura, attraverso la nipote Antonella Boccardo (che guida la società Le Ninfee creata per gestire l’operazione), fa sapere che l’offerta di Caprotti è giunta in ritardo. Strano, replica Esselunga, visto che è stata presentata il giorno dopo un colloquio a Livorno tra i due imprenditori, e non è ipotizzabile che Fremura abbia ricevuto Caprotti avendo già chiuso l’affare. «Delle sue buone maniere non è dato dubitare», si legge in una nota di Esselunga. D’altra parte, il rogito con le Coop è stato firmato davanti al notaio Poma di Firenze il primo luglio scorso mentre la lettera di Esselunga è del 9 aprile. Il tempo per trovare l’accordo c’era tutto.

Ma Caprotti punta il dito sul clima nel quale è avvenuta la compravendita. Due anni fa Sergio Costalli, amministratore delegato di Unicoop Tirreno, aveva dichiarato: «Siamo determinati a non lasciare spazio a nessun concorrente in Toscana». Un anno dopo aveva ripetuto: «L’importante è che non si insedi la concorrenza». Lo scorso febbraio, nei giorni cruciali delle trattative con Fremura, il presidente della società Marco Lami aveva lanciato l’ennesimo avvertimento: «Livorno è nostra». Segnali, messaggi, avvertimenti. E infatti Antonella Boccardo ha spiegato così la scelta di incassare 30 milioni di euro targati Coop invece che i 40 di Caprotti: «C’è stata una riunione di famiglia ed è stata presa una decisione. Ma soprattutto abbiamo deciso che non saremmo più tornati indietro. Ed è quello che faremo: noi a Livorno ci viviamo e lavoriamo». Caprotti non ci vive e non riesce ancora a lavorarci, con buona pace di centinaia di livornesi che su Facebook hanno aderito al gruppo «Vogliamo l’Esselunga a Livorno» con tanto di indicazioni stradali per arrivare al supermercato di Pisa. E poi Caprotti non ci sta a passare per bersaglio di false accuse, come l’agnello nell’apologo di Fedro che viene citato nella pubblicità sui giornali.

In difesa di Esselunga è sceso il coordinatore del Pdl e ministro Sandro Bondi: «Qualcuno raccolga l’ennesimo appello-denuncia. In una parte d’Italia, che grossomodo coincide con le regioni rosse, l’intreccio tra potere politico ed economia raggiunge livelli impensabili. Se la magistratura se ne occupasse si rivelerebbe un sistema di illegalità impressionante».

MALAGIUSTIZIA

Sei condanne e 2 assoluzioni per Elbopoli. Dopo sei ore di camera di consiglio, nell’aula del tribunale di Genova entra il collegio con la sentenza di Elbopoli, una delle bufere giudiziarie che si è abbattuta sull’Elba in quella calda estate del 2003 e che ha coinvolto un giudice, alti rappresentanti delle istituzioni, imprenditori. A distanza di oltre 6 anni dalla bufera giudiziaria i giudici (presidente Dagnino, a latere Lepri e Panicucci) hanno accolto la ricostruzione dell’accusa sostenuta dal pm Paola Calleri anche se le condanne sono state inferiori rispetto alle richieste del pubblico ministero e due imputati sono stati assolti. Quando i giudici leggono la sentenza in aula c’è un solo imputato: Giuseppe Pesce, ex prefetto di Isernia e all’epoca dello scandalo commissario prefettizio di Rio Marina. L’ex capo dei gip livornesi Germano Lamberti - che era in aula prima che il collegio si ritirasse - è stato condannato a 3 anni per corruzione in atti giudiziari e assolto invece dall’accusa di peculato e dalla corruzione con gli imprenditori.

Un anno e 4 mesi a Vincenzo Gallitto, ex prefetto di Livorno, per favoreggiamento in corruzione e 8 mesi per peculato; due anni e 2 mesi per corruzione per Giuseppe Pesce che ha annunciato che andrà in appello ritenendosi estraneo alle accuse ("Voglio essere assolto e non mi basta la prescrizione", ha detto); 3 anni e 4 mesi per gli imprenditori pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi condannati per un solo episodio corruttivo che fa riferimento alla Costa dei Barbari; un anno e 8 mesi per abuso di ufficio e falso a Gabriele Mazzarri, ex responsabile dell’edilizia privata del Comune di Marciana.

Al centro delle indagini della Finanza partite da una segnalazione del Corpo Forestale due complessi edilizi: il centro servizi di Procchio nel Comune di Marciana e la ristrutturazione della Costa dei Barbari, un’ex discoteca a Cavo nel Comune di Rio Marina. Per gli inquirenti intorno a quei due complessi, sui quali lavorano Giusti e Filippi, si sarebbero scatenati interessi di vario tipo. L’allora prefetto Gallitto avrebbe fatto da intermediario tra i costruttori Giusti e Filippi, il progettista Coppetelli ed il giudice Lamberti perché quest’ultimo rigettasse la richiesta di sequestro preventivo del Centro Servizi. In cambio, per l’accusa, il giudice avrebbe avuto a prezzo di favore 2 case a Cavo e una a Procchio. Appartamenti a prezzo di favore, per l’accusa, anche per Gallitto e Pesce che da commissario aveva nominato consulente all’edilizia privata del Comune Coppetelli che era il progettista della ristrutturazione di Cavo.

A Genova c’erano alcuni familiari delle vittime del Moby Prince. "Avrei voluto guardarlo in faccia. Ho accolto questa condanna con rabbia", ha detto Loris Rispoli, presidente dell’Associazione 140, parlando di Lamberti che era presidente del Tribunale al processo che mandò tutti assolti. "La condanna in atti giudiziari del giudice Lamberti apre scenari anche sulla tragedia del Moby, scenari che la Procura di Livorno non potrà non considerare".

Un buco nero che si spalanca davanti a una delle vicende giudiziarie più controverse della storia italiana. Non si sono fatte attendere le reazioni dei familiari delle vittime della tragedia del Moby Prince, il traghetto che andò a fuoco dopo uno scontro con la petroliera dell'Agip Abruzzo, dramma nel quale la sera del 10 aprile 1991 persero la vita 140 persone di cui molti sardi, dopo la condanna dell'ex capo dei Gip del tribunale di Livorno durante il processo per la tragedia.

Il presidente della prima sezione penale del tribunale di Genova, Giuseppe d’Agnino, dopo oltre sei ore di camera di consiglio, aveva letto la sentenza di condanna per sei degli otto imputati nel procedimento riguardante vari scandali immobiliari nell’Isola d’Elba: tra questi c'è anche l’ex capo dei Gip di Livorno, Germano Lamberti, presidente del Collegio giudicante nel processo sul disastro della Moby Prince, in cui furono assolti tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste».

La sentenza verrà però parzialmente riformata in appello: la terza sezione penale di Firenze dichiarò il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato. Secondo le accuse, Lamberti, in concorso con altri due imputati, avrebbe ottenuto appartamenti in un residence di lusso in cambio di agevolazioni per la realizzazione di un centro servizi nel comune di Marciana. Secondo il pm, inoltre, il giudice Lamberti non sequestrò volutamente un cantiere irregolare.

Tra il pubblico, al processo nei confronti di Lamberti, erano presenti alcuni familiari delle vittime della Moby Prince. «La sentenza del tribunale di Genova che ha condannato per corruzione il Presidente del Collegio giudicante del processo Moby Prince amareggia ed inquieta». Sono le prime parole di Angelo Chessa, presidente dell’associazione “10 aprile”, che raccoglie alcuni familiari delle vittime morte nel 1991 nel traghetto che entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno, nel commento dell’esito del processo genovese nel quale l’ex giudice Germano Lamberti era imputato per una vicenda diversa.

«Abbiamo - ha aggiunto Chessa - aspramente contestato il modo in cui il processo fu condotto e la sentenza successivamente emessa dal tribunale di Livorno. Ciò ci porta a tornare indietro con la mente e non siamo sereni».

Sono stati svolti due processi sulla tragedia della Moby Prince, dai quali non è emersa nessuna responsabilità precisa: la tragedia è quindi ufficialmente ascritta alla distrazione che sarebbe regnata a bordo del traghetto (si parlò a lungo anche del fatto che sia il personale di bordo sia i soccorritori sarebbero stato distolti dalle loro mansioni da un'importante partita di calcio che si stava svolgendo quella sera).

MAI DIRE ELBOPOLI.

La corte d'appello di Genova ha inflitto 4 anni e 4 mesi di reclusione all'ex prefetto di Livorno Vincenzo Gallitto e 4 anni e 9 mesi all'ex capo dei gip livornesi Germano Lamberti al processo d'appello per la vicenda di "Elbopoli" che aveva coinvolto otto persone, imputate a vario titolo di corruzione, peculato e favoreggiamento. E' stato invece assolto, ma solo per prescrizione dei reati l'ex prefetto di Isernia Giuseppe Pesce, già vice di Gallitto a Livorno. In particolare, secondo l'accusa Lamberti, Pesce e Gallitto avrebbero ottenuto appartamenti in un residence di lusso in cambio di agevolazioni per la realizzazione di un centro servizi nel comune di Marciana. I giudici, che sono rimasti in camera di consiglio per oltre quattro ore, hanno condannato a tre anni e sei mesi l'ex responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Marciana (Livorno), Gabriele Mazzarri, a cinque anni ciascuno gli imprenditori edili pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi, a due anni l'immobiliarista Francesco Sinisgallo ed a un anno e sei mesi a Luigi Logi, nella sua qualità di sindaco di Marciana. Sinisgallo e Logi hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena. Il processo di appello per "Elbopoli", gli scandali edilizi dell'isola d'Elba la cui pentola fu scoperchiata da Legambiente con un dossier sulla piccola isola di Cerboli, si è chiuso a Genova con una brutta sorpresa per quasi tutti gli imputati. Infatti le pene sono state aumentate rispetto alla prima istanza, con l'esclusione dell'ex vice prefetto dell'Elba dell'epoca (e poi prefetto di Isernia), ma solo per prescrizione dei reati, mentre gli è stata confermata l'assoluzione per il peculato. E' andata peggio agli altri imputati eccellenti: la Corte di appello di Genova ha inflitto 4 anni e 4 mesi di reclusione all'ex prefetto di Livorno Vincenzo Gallitto (2 anni in primo grado); 4 anni e 9 mesi all'ex capo dei Gip livornesi Germano Lamberti (3 anni in primo grado). La sentenza riguarda affari e scambi di favori edilizi che coinvolgono due complessi elbani l'ex discoteca "Costa dei Barbari" nella frazione di Cavo, Comune di Rio Marina (tornata al centro delle polemiche con il nuovo Regolamento urbanistico) da trasformare in appartamenti sul mare e il cosiddetto "ecomostro di Procchio" rimasto uno scheletro di cemento a pochi metri dal mare della frazione del Comune di Marciana e per il quale gli ambientalisti chiedono la demolizione. I giudici genovesi hanno condannato a 3 anni e 6 mesi l'ex responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Marciana Gabriele Mazzarri (1 anno e 8 mesi in primo grado e Mazzarri aveva già ricevuto una condanna per un'altra vicenda edilizia) e a 5 anni ciascuno gli imprenditori edili pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi (3 anni e 4 mesi in primo grado), che risultano ancora i proprietari dell'isolotto di Cerboli dopo innumerevoli tentativi di vendita. 2 anni la condanna per l'immobiliarista Francesco Sinisgallo e 1 anno e 6 mesi per Luigi Logi (che si è sempre detto estraneo alla vicenda), l'ex sindaco di Marciana eletto in una lista civica sostenuta dal centro-sinistra, entrambi erano stati assolti in primo grado e hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena.

Un’assoluzione e cinque prescrizioni. Teletirreno ha dato notizia così della conclusione di un’altra vicenda giudiziaria elbana. Una vicenda che suscitò grande impressione. Quella dei lavori alla piazza della Chiesa di Marciana Marina. Sette persone furono arrestate all’alba del primo maggio del 2004. Si parlò e si scrisse di un appalto "ammaestrato”. Sei anni dopo, all'esito del processo, il geometra portoferraiese Boris Gasparri è stato assolto perché risultato estraneo alle problematiche riguardanti il profilo del contratto d’appalto al centro del procedimento. Il giudice ha ritenuto di non dover procedere, per avvenuta prescrizione, anche nei confronti degli imprenditori Camillo Caldarera, Salvatore Pezzotta e Fiorenzo Batignani, e dell'archietto Lionello Balestrini, allora direttore dei lavori. Purtroppo non ha avuto il tempo di assistere alla conclusione della vicenda che l’aveva coinvolto l’architetto Luca Tantini. L’ex tecnico comunale di Marciana Marina, infatti, nei primi giorni di dicembre del 2005 è morto, a soli 56 anni, ucciso da un male improvviso e inesorabile. Una fine drammatica. La moglie e le figlie, in una lettera toccante piena di un dolore ancora incredulo pubblicata da Giovanni Muti nel suo “Affari e politica. Il caso è chiuso!”, hanno scritto di quanti sono “stati travolti, insultati, umiliati nel pubblico e nel privato, tanto colpiti che ne è risultata persa, non solo la serenità, la professione, la famiglia ma anche la vita”.

Ha pagato con la vita Tantini, come Giovanni Ageno. Entrambi travolti da quella che allora fu chiamata Elbopoli. Una serie di casi giudiziari fra loro legati solo da una lettura “politica”. Quella che voleva l’Elba - così alcuni dissero e scrissero – in preda “all’istinto predatorio”, all’“emergenza legalità”, a “intrecci pericolosi”, alla “perversa spirale del malaffare”. Coloro che furono coinvolti nel caso “Affari e politica”, politici e imprenditori, furono assolti perché il fatto non sussiste, perché la stessa pubblica accusa riconobbe la totale insussistenza delle accuse più gravi e infamanti, che allora furono addotte per giustificare il carcere, e misure restrittive lunghe e pesanti. A sei-sette anni da quelle vicende, dopo l’ennesima assoluzione, sarebbe giusto forse domandarsi cosa resta di quella “Elbopoli”. Qual è il bilancio giudiziario di quei casi, e quale il bilancio politico. E, se la storia insegna davvero qualcosa, sarebbe giusto chiedersi perché tutto ciò è successo, e come si può impedire che accada di nuovo.

Il fatto non sussiste un’altra volta. Un’altra assoluzione, doppia. Ma mentre ci rallegriamo per le ultime sentenze di proscioglimento che hanno riguardato l’ex vicesindaco di Campo, Enrico Graziani, non possiamo non rilevare che il suo non è un caso isolato, anzi è solo l’ultimo di una lunga serie. E riteniamo che l’Elba non possa più eludere una riflessione politica su cosa è stato e su quali effetti ha prodotto il giustizialismo, anche all’isola.

Molti anni sono passati, dai primi drammatici casi. Si coniò allora la parola Elbopoli, per marchiare l’isola con l’ombra di un sospetto: quello di un malaffare diffuso e generalizzato. Amministratori, professionisti, politici e imprenditori sono stati indagati o arrestati, sono rimasti in carcere per settimane e mesi. Hanno pagato un prezzo alto, hanno visto compromessa la serenità, la salute, a volte la loro vita. Le loro famiglie sono state distrutte o sottoposte a prove durissime. E a distanza di anni di quelle accuse, di quei teoremi non è rimasto niente. Fatti che non sussistono, accuse che non hanno retto alla prova del processo, anzi a volte sono state ritirate o derubricate dai magistrati incaricati della pubblica accusa.

 “Presunto colpevole”, la Rai racconta il caso Ageno. In onda alle 23,25 del 7 maggio 2012 la puntata del programma Tg 2 condotto da Fabio Bonini dedicato alla vicenda del 2004. Fra gli intervistati Nicola Ageno, Tiziano Nocentini, Sandra Maltinti, Alberto Fratti Paolo Chillè.

Ancora riflettori accesi sul caso giudiziario che nel giugno 2004 sconvolse Portoferraio e l’Isola d’Elba. Il programma del TG2 “Presunto colpevole”, condotto da Fabio Massimo Bonini, in onda domani alle 23 e 25, ripercorrerà la vicenda di Giovanni Ageno, sindaco di Portoferraio dal 1999 al 2004. Un fatto giudiziario che sconvolse Portoferraio, quello degli arresti del sindaco e di suo figlio Nicola, oltre che dell’assessore Alberto Fratti, del capo dell’ufficio tecnico Sandra Maltinti e degli imprenditori Tiziano Nocentini e Marco Regano. L'operazione fu condotta a una settimana dalle elezioni amministrative, ed evidentemente è ancora visto dalla stampa nazionale come esempio eclatante di errore giudiziario, anche per la maniera in cui si è conclusa la vicenda: l’ex sindaco morì dopo alcuni mesi dal suo arresto, gli imputati, dopo essere stati accusati di vari reati, tra cui l’associazione a delinquere e il voto di scambio, per un’intricata ipotesi di affari e urbanistica poi rivelatasi infondata anche agli occhi del pm, furono assolti “perché il fatto non sussiste” con la sentenza di primo grado arrivata nel 2008. Il programma Rai, che ogni settimana affronta i casi italiani di “malagiustizia”, ricostruisce la vicenda, dall’avvio delle indagini nel 2003 fino a quando - nel 2009 - la Procura di Livorno decise di non ricorrere in Appello facendo così calare il sipario sul caso. Per ricostruire il caso sono stati intervistati l’architetto Sandra Maltinti, l’ex assessore Alberto Fratti e il giornalista Paolo Chillè di Teleelba.

"AFFARI E POLITICA, IL FATTO NON SUSSISTE". E’ uscito il libro inchiesta di Giovanni Muti su una delle pagine più nere della storia elbana: il calvario di coloro che furono arrestati nel 2004 e dopo anni scagionati da ogni accusa. Cosa successe in quei giorni?

Riaprire le ferite. Scrivere altre pagine di una storia che finalmente poteva essere chiusa con quella sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Ma scrivere altre pagine e riaprire le ferite forse è inevitabile, per una questione di rispetto: della verità e della dignità. Per questo è uscito nelle librerie “Affari e politica a Portoferraio – Il fatto non sussiste” (ed. Forte Inglese). Un’inchiesta di Giovanni Muti che ripercorre una delle pagine più nere della storia elbana recente. Politici, imprenditori, tecnici, uomini, donne, mariti: arrestati all’alba come criminali comuni; spesso come tali trattati. Si scrisse di un “violento comitato d’affari” e di una “perversa spirale di malaffare”. Ingiustamente, si è visto molto tempo dopo, quando è stata lo stesso pm a smontare la gran parte delle accuse. E il giudice il resto. Allora però il caso era appetibile, come pochi: c’era il sindaco di Giovanni Ageno, medico di famiglia stimato, due lauree, colto, elegante, che in modo sorprendente aveva conquistato il Comune praticamente da solo, lui e gli uomini della sua lista civica. E da solo fu lasciato. Lo ricorda impietosamente Muti: a difendere pubblicamente la sua onorabilità solo pochi politici: Francesco Bosi, Pino Lucchesi, Elba 2000. Con Ageno fu arrestato un assessore, Alberto Fratti. E l'architetto Sandra Maltinti. E ancora il maggiore imprenditore dell’isola, Tiziano Nocentini e il suo stretto collaboratore Marco Regano. E altri ancora. Voto di scambio, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla concussione, abuso d’ufficio: l’accusa era terribile, e arrivava a pochi giorni dalle elezioni. Il libro è uscito a pochi giorni dalle stesse elezioni Comunali, Provinciali ed Europee, questa inchiesta di Giovanni Muti: “Non è un caso – spiega l’autore – qualcuno me lo ha fatto notare e mi sono posto il problema se non fosse necessario un distacco maggiore. Invece no, perché il distacco non è possibile, e questo è anche un atto riparatore”. “Ci sono stati drammi incredibili, e danni collaterali. E’ successo qualcosa di molto grave in quei giorni, Io speravo che dopo l’assoluzione la stampa locale desse il giusto risalto all’esito della vicenda, come lo aveva dato agli arresti, e invece non è stato così. Si sono defilati. Non tutti, ma molti”. Tutti sanno come finì: Ageno fu eletto consigliere, tornò in Consiglio per dimettersi, ma non era più lui. Il suo calvario finì pochi mesi dopo. È morto per un infarto nel febbraio 2005. Prima di poter leggere quelle sentenze di completa assoluzione. Nel libro c’è anche la vicenda dell’architetto Luca Tantini, e la testimonianza toccante della moglie. Con un lavoro di archivio giornalistico meticoloso, Muti ricostruisce quelle vicende, e le inserisce in un contesto politico e storico ben preciso. Teletirreno ha intervistato Nocentini, Fratti e Regano (la loro testimonianza è nel video pubblicato insieme a questo articolo). “Io stavo male – ricorda Fratti – ma non per me, per chi era fuori. Io pensavo ai miei cari”. “Spero che questo libro - ha detto Regano – possa far capire davvero cosa è successo, cosa abbiamo passato e cosa ci hanno cucito addosso”. “Certe cose non si dimenticano – ha detto ai microfoni di Teletirreno Tiziano Nocentini – noi stiamo valutando come muoverci. Pochi ormai hanno dei dubbi su questa vicenda. Spero che leggendo capiranno cosa ci ha portato”.

“L’ISOLA CHE NON C’E’” è il libro di Sandra Maltinti. «Male non fare, paura non avere». Un assioma che accompagna le certezze di ognuno di noi. Fino a quando un evento imprevedibile, accaduto contro ogni logica evidente, arriva a sconvolgere tutto. In questo romanzo autobiografico, Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare, per mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere, e immaginare. «Male non fare, paura non avere». Un assioma che accompagna le certezze di ognuno di noi. Fino a quando un evento imprevedibile, accaduto contro ogni logica evidente, arriva a sconvolgere tutto. Nel romanzo autobiografico L’isola che non c’è Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare. La ricerca del proprio io, disperso e distrutto dagli avvenimenti, all’interno di un mondo diverso, un universo dove vivere e lottare per settantadue lunghi giorni, con persone tanto diverse, con loro, le recluse, così diverse da lei e da quello che era il suo mondo. Il carcere, un grido ruggente all’interno di un racconto struggente, un “altrove” reale, che vive intorno e dentro di noi, dimenticato da tutti. Tutta l’Italia ha parlato di lei: è la protagonista di “ELBOPOLI”. Una lunga carriera di architetto, con piani regolatori ed opere realizzate. È stata a capo di diversi comuni come dirigente dei settori di assetto del territorio ed al comune di Portoferraio, fino al suo arresto, il 1 giugno 2004. “ già signora dell’urbanistica portoferraiese, potente consulente del Sindaco e di fatto a capo di questo settore nella cittadina elbana”, travolta dall’azione della Magistratura avvenuta a pochi giorni dalle elezioni amministrative a Portoferraio, con il Sindaco arrestato in veste di candidato. Racconta nel suo primo romanzo la sua esperienza, la sua verità, senza veli. Una lunga carriera di architetto, con piani regolatori e opere realizzate. È stata a capo di diversi comuni come dirigente dei settori di assetto del territorio e al comune di Portoferraio, fino al suo arresto, avvenuto il primo di giugno del 2004. Nel romanzo autobiografico L’isola che non c’è Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare. Già signora dell’urbanistica portoferraiese, potente consulente del Sindaco e di fatto a capo di questo settore nella cittadina elbana, viene travolta dall’azione della magistratura avvenuta a pochi giorni dalle elezioni amministrative a Portoferraio, con il Sindaco arrestato in veste di candidato. Racconta nel suo primo romanzo la sua esperienza, la sua verità, senza veli. «Male non fare, paura non avere». Un assioma che accompagna le certezze di ognuno di noi. Fino a quando un evento imprevedibile, accaduto contro ogni logica evidente, arriva a sconvolgere tutto. In questo romanzo autobiografico, Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare, per mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere, e immaginare. Sandra Maltinti fu condotta in carcere, dove le furono prese le impronte digitali, gesto che l’ha marchiata. Accusata di reati verso la pubblica amministrazione e con 14 capi di imputazione nei suoi confronti, ha trascorso 72 giorni dietro le sbarre e si è vista negare per tre volte gli arresti domiciliari “perché sostenevano fossi socialmente pericolosa”, ha affermato in una intervista. Dopo quattro anni di processo è stata completamente assolta. “Non per non aver commesso il fatto, ma perché il reato non c’era”, ha spiegato. «Non basta essere innocenti – continua l’ex dirigente del Comune di Portoferraio – è difficile assumere una ex galeotta. Dopo aver presentato 22 domande sono ancora senza lavoro. Se sei stato in carcere sei marchiato a vita». Il processo oltre all’architetto Maltinti vide coinvolte altre persone, tra cui l’ex sindaco del comune dell’Elba Giovanni Ageno, deceduto per infarto pochi mesi dopo la scarcerazione. Due mesi e mezzo di carcere subito ingiustamente. Tanta sofferenza. Fango gettato sulla sua professionalità ed una dignità su cui c’è ancora qualcuno che sputa veleno. Dall’incubo si sta riprendendo, grazie all’amore della sua famiglia che non l’ha mai abbandonata in “quell’universo di donne urlanti”.

Tanti i ricordi e i rimpianti. E’ la storia di Sandra Maltinti, architetto, residente ad Empoli, che ha trascorso settantadue giorni nel carcere di Sollicciano senza avere alcuna colpa. E’ stata arrestata con l’accusa di reati contro la pubblica amministrazione a Portoferraio. Maltinti aveva lavorato per diverse amministrazioni comunali come dirigente dei settori di assetto del territorio. Arrestata il primo giugno del 2004, è stata protagonista di Elbopoli. Da questa esperienza ha tratto un libro “L’Isola che non c’è” (Società editrice fiorentina). “Novanta pagine per non dimenticare – spiega- e mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere e immaginare”. L’autrice del libro è stata intervistata da Cinzia Ficco.

Dunque, architetto, una brutta storia. Come è cambiata la sua vita? E’ difficile rialzarsi?

Quando non hai più niente ad un tratto scopri quali sono le cose più importanti della vita: la famiglia , gli amici, quelli veri che sanno fin dall’inizio che non può essere vero. Il mio libro è dedicato a loro. Sì, a quelli che non ci hanno mai creduto.

E il suo lavoro?

Ah, quello è perso. Non riesco più a trovare una pubblica amministrazione e un sindaco che credano veramente che era una balla. Se uno è stato in galera- dicono- una ragione ci sarà pure stata.

Cos’è il carcere vissuto da un innocente?

La galera è un universo di donne urlanti. Ma le loro voci giungono silenziose nel mondo che non le può sentire, che ignora la loro esistenza: dura, giorno dopo giorno.

Anche lei ha provato ad urlare?

Sì, ma ho aspettato settantadue giorni perché la mi voce oltrepassasse la cortina impermeabile del carcere . Io ci sono riuscita. Ma poverette quelle che non hanno un bagaglio di cultura, forza e soldi. Dopo il carcere ingoiate in quell’inferno che ti porta di nuovo indietro. Il mio pensiero va spesso a loro.

Ci racconta in poche battute cosa è successo?

Tutto è nato da un presunto abuso edilizio , una denuncia di inizio di attività redatta da un tecnico. Ci voleva la concessione, dice il consulente della Pubblico Ministero, o almeno un’autorizzazione comunale. Forse il consulente non era aggiornato sul fatto che la legge non prevedeva più l’autorizzazione , e le modifiche interne agli edifici erano soggette A Denuncia di Inizio di Autorità, come era stato fatto.

Strano questo errore dovuto ad ignoranza!

Anche se una ragione in realtà non c’era dominavano pressapochismo e smania di notorietà. Tutta la mia storia e altre sono state pubblicate in un libro di un giornalista di sinistra che ha ricostruito i fatti secondo la sua logica.

La stampa ha dato un prezioso contributo!

Eh sì, si veda il di questo giornalista per capire quanto la stampa uccida più che la spada.

Perché tanta cattiveria?

La minoranza non ci dava pace, vedeva che il comune cominciava a funzionare e faceva di tutto per mettersi di traverso nei consigli comunali, sui giornali, denunce alla magistratura. Di tutto. Il motivo era che non si poteva permettere ad una giunta di destra di fare di più e meglio di una di sinistra con la Provincia e la Regione che remavano contro. Sempre la politica, anche quando non c’entra niente.

E ora? Ha avuto giustizia, anche se con ritardo!

Ripenso spesso al tempo della galera con nostalgia.

Davvero?

Non perché abbia voglia di riviverlo, giammai, ma perché l’amicizia con le mie compagne di cella e di tutte le donne senza voce è stata veramente toccante. Vorrei fare di più per loro, per quelle che non possono difendersi e non hanno un bagaglio di cultura e forza come il mio. Parlo anche di possibilità economiche. Il carcere annienta, non serve a riabilitarti.

Perché dice questo?

Una delle due compagne di cella quando è uscita non aveva da mangiare e dopo tre giorni si è dovuta prostituire. Poi tutto torna inevitabilmente come prima se non c’è nessuno che ti aiuta.

Sandra Maltinti, architetto, parla della sua esperienza in carcere. “La galera è un universo di donne urlanti, ma le loro voci giungono silenziose nel mondo, che non le può sentire, che ignora la loro esistenza: dura, giorno dopo giorno''. Anche lei ha provato ad urlare, e, soprattutto, ad invocare giustizia. Ma ha dovuto aspettare settantadue giorni perché la sua voce oltrepassasse il mondo impermeabile della galera. Alla fine, con i suoi mezzi, ci è riuscita. Ma poverette quelle che, come lei stessa dice, non hanno un bagaglio di cultura, forza e soldi. Dopo il carcere ingoiate in quell’inferno che ti porta di nuovo dentro. La testimonianza è di Sandra Maltinti, architetto, residente ad Empoli che, per errore, ha trascorso due mesi e mezzo nel carcere di Sollicciano. E’ stata arrestata con l’accusa di reati contro la pubblica amministrazione a Portoferraio. Da questa esperienza è venuto fuori un libro: “L’Isola che non c’è'' (Società editrice Fiorentina), che rappresenta “un atto dovuto alle compagne di cella- spiega Maltinti- e a se stessa''. Novanta pagine per non dimenticare e “per mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere e immaginare''.

Ma perché questo titolo? “L'isola che non c'è'- chiarisce- è il carcere, un altrove così vicino, ma nello stesso tempo lontano anni luce dal mondo normale, dove vigono altre leggi. Ma è anche l'isola d'Elba, un mondo a parte''. Maltinti ha lavorato per diverse amministrazioni comunali come dirigente dei settori di assetto del territorio. Arrestata il primo giugno del 2004, è stata protagonista di Elbopoli. “E tutto- scrive a pagina 54- per un presunto abuso edilizio…una denuncia di inizio di attività redatta da un tecnico…ci voleva la concessione, dice il consulente del Pubblico Ministero , o almeno un’autorizzazione comunale. Forse il consulente non era aggiornato sul fatto che la legge non prevedeva più l’autorizzazione, era stata abrogata e le modifiche interne agli edifici erano soggette a Denuncia di Inizio di Autorità, come era stato fatto''. Dunque, ingiustizia e sofferenza derivate da sciatteria, ignoranza? Anche se una ragione in realtà non c'era- replica Maltinti- dominavano solo pressappochismo e smania di notorietà! (il fine giustifica i mezzi!). Tutta la mia storia (e altre) sono state pubblicate in un libro che è uscito in questi giorni all'Elba di un giornalista (di sinistra) che ha ricostruito la vicenda dagli articoli di giornale. E’ sul sito camminando.org. Ritengo che sia significativo come la stampa uccida più che la spada. L’esperienza in carcere l’ha cambiata, ma di certo non le ha tolto la voglia di rialzarsi e riprovare. Anche se non è semplice. Quando non hai più niente- spiega- ad un tratto scopri quali sono le cose più importanti della vita: la famiglia, gli amici, quelli veri che sanno fin da principio che non può essere vero... il mio libro è dedicato a loro... a quelli che non ci hanno creduto. Il mio lavoro è perso. Non riesco più a trovare una pubblica amministrazione e un sindaco che credano veramente che era una balla, se uno è stato in galera una ragione ci sarà pur stata, dicono''. Ma solo errori e sciatteria? O c’è stato dell’altro? “La minoranza- scrive a pagine 51 del libro- non ci dava pace, vedeva che il comune cominciava a funzionare e faceva di tutto per mettersi di traverso…nei consigli comunali, sui giornali, denunce alla magistrature…di tutto…il motivo era che non si poteva permettere ad una giunta di destra di fare di più e meglio di una sinistra ..con la Provincia e la Regione che remavano contro…sempre la politica, anche quando non c’entra niente…E ora, quali saranno i suoi impegni? La politica? L'amministratore non l'ho mai fatto, anche se ho vissuto per più di venti anni nelle amministrazioni pubbliche, è solo un salto di barricata''. Conclude: “Ripenso al tempo della galera con nostalgia, non perché abbia voglia di riviverlo, giammai!, ma perché l'amicizia con le mie compagne di cella e di tutte le donne senza voce è stata veramente toccante. Vorrei fare di più per loro, per quelle che non possono difendersi e non hanno un bagaglio di cultura e di forza come il mio...(vorrei aggiungere possibilità economiche). Il carcere annienta, non serve a riabilitarsi. Una delle due compagne di cella quando è uscita non aveva da mangiare e dopo tre giorni si è dovuta prostituire. Poi tutto torna inevitabilmente come prima se non c'è nessuno che ti aiuta.

PARLIAMO DI LUCCA

LUCCA E LA MASSONERIA.

Massoneria? No, consorteria..., scrive Aldo Grandi su “La Gazzetta di Lucca”. A Lucca, che chi scrive sappia, ci sono solamente due persone che non hanno problemi, ma hanno gli attributi e la faccia per dichiarare la loro appartenenza ad una loggia massonica ovviamente scoperta: Giorgio Serafini, proprietario della Lucar e Roberto Davini, dirigente industriale. In una città dove anche i bimbi appena nati cominciano a comprendere, da subìto, il significato reale del termine, è un bel record per il quale la insolita coppia appena citata può andare, giustamente, fiera. Se qualcuno crede che la massoneria, nell'anno di grazia 2013 sia ancora legata ai cappucci e ai mantelli di carbonara memoria, allora non ha capito una... fava. Al giorno d'oggi essere massoni ha un significato e una connotazione ben diversa e molto, ma molto più sottile al punto che alla parola massoneria che implicherebbe l'iscrizione regolare a una delle logge esistenti sul territorio nazionale peraltro affiliate ai due rami centrali del movimento, si potrebbe tranquillamente sostituire quella di consorteria. Nel medioevo la consorteria era un raggruppamento di famiglie nobili determinato da interessi politici. Oggi basta eliminare nobili e aggiungere, a politici, anche economici e il gioco è fatto. Anche a Lucca, ormai, la nobiltà è decaduta o in decadenza irreversibile mentre le consorterie formate da famiglie - più o meno sempre le stesse - che si spartiscono il potere e gli incarichi che da esso derivano - sono ben vive, radicate e si tramandano di padre in figlio. Attenzione, perché l'accezione spregiativa di consorteria parla di un insieme di persone, operanti nella politica e nell'economia, che perseguono interessi particolaristici più o meno illeciti. Vogliamo essere buoni, rimuoviamo l'ultima parola e mettiamo il punto dopo particolaristici. Alcuni anni fa, sul finire del secolo scorso o a inizio secolo nuovo, giunsero alla redazione del quotidiano La Nazione di Piazza del Giglio, gli elenchi degli appartenenti alle logge massoniche scoperte della Toscana e di Lucca. Chi scrive, se non ricorda male, rammenta una di queste associazioni il cui nome era, salvo errori di memoria, Burlamacco. Tra coloro che ne facevano parte, qualche personaggio noto sì, ma scarsamente rappresentativo della geografia del potere nella nostra città. Cosa che ci fece pensare, a noi cronisti, che si trattasse di logge di scarsa importanza nonostante il gran numero degli affiliati. Provate a seguire la mappa del potere di questa città che trasuda intese apparentemente innominabili e vi renderete conto di come consorteria, plurale e singolare, costituiscano non l'eccezione, ma la regola e che nessuno, tantomeno i media locali, abbiano mai avuto la necessaria costanza per andare a fondo e rompere i coglioni a questa gente. Tanta gente purtroppo e sempre, dannatamente, la medesima, senza coloritura politica se non quella, pallida e bianca come un cencio, di chi non conosce vergogna. Nell'accumulo di cariche e di incarichi quelli che, il Guido Pallotta fascistissimo morto volontario sul fronte occidentale, era solito definire "gli accumulisti di cariche" ché anche durante il fascismo l'andazzo, Mussolini o non Mussolini, era sempre lo stesso: una grande torta e altrettante bocche fameliche mai sazie. Piano piano, ma con un costante crescendo, arrivano in redazione segnalazioni e denunce di banchetti più o meno antichi e più o meno recenti ai quali si sono seduti esponenti politici, economici, amministrativi. Noi, nel nostro piccolo, se capiterà l'occasione di sputtanare qualcuno, lo faremo con immenso piacere. Ormai, del resto, dignità e onore sono caduti in disgrazia da tempo, ma per noi, al contrario, non c'è prescrizione che tenga. 

LA MAFIA A LUCCA.

Sono passati  anni esatti da quel 23 maggio 1992, quando Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro persero la vita sulla A 29 all'altezza di Capaci. Un anno, il 1992, molto particolare la cui memoria va coltivata. Ne parliamo con Salvatore Calleri, presidente della Fondazione Caponnetto intervistato da Giulio sensi de “Lo Schermo”.

Calleri, cosa rappresenta oggi il 1992 per l'Italia?

«Fu un anno importante. Prima con la sentenza definitiva relativa al maxi processo istruito da Caponnetto con cui venne meno per la prima volta l'impunità di Cosa Nostra. Ci furono molte condanne ed ergastoli. È anche l'anno di tangentopoli, l'anno che inizia con una tentata strage del 6 gennaio sul Lecce-Milano di cui nessuno si ricorda. E in cui si susseguirono le stragi, di Capaci e poi di via D'Amelio. Cosa Nostra scelse la strategia terroristica su cui ancora si cerca la verità, ma che poi si rivelerà perdente e che sarà costretta a cambiare. Che aprì la strada al 1993, altrettanto duro, di cui ricordiamo anche la strage di via dei Georgofili.»

La Toscana, che storicamente è estranea ai fenomeni mafiosi, venne toccata direttamente. La Fondazione Caponnetto ci ricorda con il suo dossier annuale che la criminalità organizzata è ben radicata ormai anche da noi. Quali sono i fronti di maggiore preoccupazione?

«In Italia ci sono 24-25 forme diverse di criminalità organizzata e mafiosa. A giugno è uscito il dossier 2013 sulle mafie in Toscana. I fronti sono quelli noti: il riciclaggio di denaro sporco, l'usura, il traffico di droga, il gioco d'azzardo, la penetrazione nelle imprese edili. Il quadro toscano non è purtroppo positivo anche se la toscana si mantiene una terra abbastanza sana culturalmente. La guardia va tenuta alta. Il dossier dedicherà un capitolo specifico alla provincia di Lucca. Posso solo anticipare che Lucca rimane una delle province a più alta densità mafiosa di tutta la Toscana.»

Le istituzioni e la politica si impegnato su questi fronti?

«C'è ancora da lavorare molto, la politica è presente, ma a volte è distratta e può e deve fare di più. La società civile in Toscana è unita e non vive le divisioni sulle questioni mafiose che invece si vedono in altre parti d'Italia.»

Alla vigilia dell'anniversario della strage di Capaci c'è stata l'ennesima polemica per il tentativo di ridurre le pene per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Cosa ne pensa?

«L'Italia ha da un lato la migliore normativa antimafia esistente al mondo, dall'altro ogni tanto qualcuno tira fuori dal cappello proposte per ridimensionare il 41 bis o il reato di concorso esterno. Da un lato può essere positivo tipizzare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, ma prevedere pene basse e l'impossibilità di utilizzare le intercettazioni sarebbe un colpo letale. In generale viviamo sempre con l'angoscia che tutti i passi avanti vengano cancellati all'improvviso da norme nefaste. Per fortuna questa proposta sembra sia stata stroncata sul nascere, ma non mi piace che in concomitanza delle celebrazioni e dei ricordi delle vittime della mafia escano sempre segnali di ridimensionamento delle pene o cose del genere. È grottesco e nefasto, così come la campagna per il ridimensionamento del 41 bis che invece è da difendere.»

SCANDALI AL POTERE.

L’assessore alla mobilità e il dirigente dell’ufficio urbanistica in manette: accusati di corruzione. Ai domiciliari l'ex azionista di maggioranza della Lucchese e il figlio del presidente del Tribunale di Lucca.

Al telefono si definiva come la «Volpe del deserto», facendo un chiaro riferimento al generale tedesco Erwin Rommel, protagonista della campagna d’Africa durante la Seconda Guerra Mondiale, scrive "Il Corriere Fiorentino". Protagonista della conversazione, l’assessore alla mobilità del Comune di Lucca, con le deleghe al centro storico e allo stadio, Marco Chiari, arrestato insieme al dirigente dell’ufficio urbanistica, Maurizio Tani, in esecuzione di due ordinanze di custodia cautelare in carcere, entrambi accusati di corruzione. La procura ha spiccato anche tre ordinanze di custodiacautelare agli arresti domiciliari per l’architetto Giovanni Valentini del Gruppo Valore di Prato ed ex azionista di maggioranza della Lucchese Calcio e per i professionisti Andrea Ferro, ex presidente della commissione urbanistica-ambientale del comune di Lucca, e Luca Antonio Ruggi, dello studio professionale di Chiari. Anche per loro l’accusa è di corruzione. Andrea Ferro è figlio del presidente del Tribunale di Lucca, il giudice Gabriele Ferro. Il suo ufficio di ingegneria è stato perquisito dai carabinieri.

Un vero e proprio terremoto che si abbatte sul Comune di centrodestra: l'inchiesta infatti, vede iscritti sul registro degli indagati anche il sindaco Mauro Favilla e l’assessore alle finanze, già vicesindaco, Giovanni Pierami. Entrambi però, non hanno ricevuto nessun avviso garanzia perchè su di loro non pendono provvedimenti esecutivi. Alla domanda «Anche il sindaco di Lucca Mauro Favilla è indagato?» il procuratore di Lucca, Aldo Cicala, risponde così: «Anche se lo fosse non potrei darne notizia». «La vicenda è tutt’altro che chiusa. Le indagini vanno avanti - ha detto Cicala - per questo, anche qualora il sindaco fosse iscritto tra gli indagati, non essendoci provvedimenti esecutivi non potremmo, comunque, darne notizia». Al centro dell'inchiesta la ristrutturazione dello stadio Porta Elisa e il nuovo quartiere Sant'Anna.

«Sul piano personale non ho ricevuto avvisi di garanzia - dice Favilla - Io sono totalmente tranquillo per quello che ho fatto. Io, sin dall'inizio del mandato, sapevo di voci che dicevano che il mio ufficio era sotto controllo, ma, ripeto, non ho mai fatto nulla di cui debba vergognarmi. Alla luce di questi eventi convocherò una giunta, non subito, però, perché ci devo pensare. Il mio giudizio sull'inchiesta? Non posso darlo perché non conosco gli atti. Proprio per questa ragione abbiamo richiesto, tramite il nostro segretario generale, gli atti alla procura della Repubblica. Quello che, comunque, emerge, trattandosi di corruzione, è che siamo in presenza di responsabilità individuali».

Secondo gli inquirenti, il passaggio di denaro tra l’imprenditore Giovanni Valentini e l’assessore alla mobilità, Marco Chiari, si nascondeva dietro il pagamento di fatture emesse da due professionisti, ora agli arresti domiciliari. I compensi illeciti sarebbero serviti per agevolare l’adozione di provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia, consentendo grandi interventi immobiliari tra cui il centro residenziale Parco di Sant'Anna e la ristrutturazione dello stadio comunale di Lucca, Porta Elisa. Il meccanismo che in circa un anno di indagini sarebbe stato appurato dalla Procura prevedeva, in pratica, che le somme di denaro fossero fatturate dall’ingegnere Andrea Ferro e dall’architetto Luca Ruggi, entrambi ai domiciliari, alla società Valore spa di Prato, di cui è titolare Giovanni Valentini.

Ma tali somme, sempre secondo l’accusa, sarebbero in realtà in tutto o in parte state poi girate all’assessore arrestato che si sarebbe avvalso, per facilitare l’iter amministrativo dei procedimenti, del supporto del dirigente comunale, anche lui finito in cella. Oltre al sequestro di somme e beni per oltre 18 milioni di euro alla società Valore, sono stati sequestrati anche 40.000 euro quale profitto del reato di corruzione. Sotto sequestro anche l’intera area del parco di Sant'Anna dove i terreni hanno cambiato più volte destinazione d’uso e dove l’architetto Valentini progettava di costruire appartamenti, un albergo, negozi, un centro commerciale, una multisala.

Le intercettazioni. «Volpe nel deserto», si definiva così l’assessore arrestato, Marco Chiari, facendo un chiaro riferimento al generale tedesco Erwin Rommel, protagonista della campagna d’Africa durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa è una delle curiosità che sono emerse dalle intercettazioni tra i protagonisti dell’inchiesta lucchese. L’operazione prende il nome proprio da questa definizione. Pare infatti che nel corso di una intercettazione telefonica, mentre parlava con altri personaggi coinvolti nell’inchiesta, sia stato lo stesso assessore Marco Chiari ad autodefinirsi la «Volpe nel deserto».

VIAREGGIO: UNA STRAGE ANNUNCIATA.

Una strage annunciata di Gianfranco Maffei: disegnatore e sceneggiatore.

Alle 23:48 del 29 giugno 2009, il treno merci 50325 con il suo convoglio di quattordici carri cisterna contenenti GPL deraglia per il cedimento dell’asse del carrello del primo convoglio. Il gas GPL che fuoriesce si incendia al contatto con l’ossigeno provocando la morte di 32 persone e ferendone 25. Diverse abitazioni nella zona dell’incidente vengono abbattute su ordinanza delle autorità comunali perché non più agibili, compreso il sovrappasso principale della stazione, la cui struttura è stata gravemente danneggiata dallo stress termico.

Gianfranco Maffei, che nella strage ha perso il cognato, ricostruisce le cause, gli interessi, le dinamiche che hanno portato alla strage del 29 giugno, documentandole con profonda indignazione e commozione.

“Voglio tranquillizzare gli italiani. Tutto ha funzionato. La rete italiana è la più sicura d’Europa. Non sono io a dirlo, ma le statistiche.” Mauro Moretti, Amministratore Delegato di FS. Dalla prefazione Gianfranco Maffei. Il resto è cronaca.

Viareggio è una cittadina molto quieta d’inverno (eccezion fatta per quel mese di Carnevale che tutti conoscono) e frizzante d’estate. A onor del vero, anche nei mesi caldi non tutte le serate viareggine sono così movimentate. Giugno e settembre, ad esempio, sono piuttosto tranquilli, soprattutto nei giorni feriali come il lunedì. Quei giorni in cui l’affluenza di turisti, concentrata soprattutto nei fine settimana, viene un po’ a mancare. Perché vi dico tutto questo? Perché quell’incidente maledetto è avvenuto un lunedì di giugno, quando non si è ancora in ferie e la città viene vissuta quasi solo dai suoi abitanti. Alcuni, quella sera, erano fuori per una pizza, un gelato, una semplice passeggiata. Qualcuno però rimase in casa con le finestre spalancate, o seduto in giardino, con le citronelle accese. In ogni caso, alle 23 e 48, ormai prossimi alla mezzanotte, un treno merci composto da quattordici ferrocisterne contenenti gas propano liquido deragliò nei pressi della stazione a causa del cedimento dell’asse del carrello del primo carro. Una delle cisterne si scontrò contro un inutile picchetto d’acciaio che le procurò uno squarcio di circa mezzo metro. Il GPL cominciò a fuoriuscire, e a distribuirsi prima nei dintorni della stazione, poi nelle vie adiacenti, alzando lentamente anche una spessa nube. I macchinisti, nel frattempo, riuscirono a mettersi in salvo, allertando la stazione e dando modo agli operatori di bloccare gli altri treni in arrivo. Ma la nube avanzò, e cominciò a entrare nei giardini, nelle abitazioni attraverso le finestre aperte, negli angoli più nascosti delle vie che circondano la stazione.

Il resto è cronaca, è terribile tragedia. Inutile entrare nel dettaglio degli orrori, degli strazi, delle sofferenze e dell’ansia terribile dei momenti successivi alla strage. Basti ricordare le ricerche disperate dei propri cari in una città sconvolta, avvenute magari intralciando l’operato encomiabile dei Vigili del Fuoco e dei numerosi volontari subito accorsi, delle ambulanze e delle forze dell’ordine, dei medici volontari del primo soccorso allestito dalla Protezione Civile, dei medici del Pronto Soccorso dell’ospedale Versilia, e di tutto lo staff del reparto di Rianimazione. La reazione della città è stata esemplare per condivisione, partecipazione, solidarietà e umanità. Si è stretta compatta nel dolore, dando vita ad associazioni e comitati che operano tuttora attivamente per supportare (AVIF, Assistenza Vittime Incidente Ferroviario), salvaguardare (Assemblea 29 Giugno, sicurezza ferroviaria), ricostruire (Comitato via Ponchielli, per chi ha perso la sua abitazione), testimoniare (Il mondo che vorrei, ONLUS dei familiari delle vittime), per non dimenticare chi è morto e cercare di dare un senso al suo sacrificio. Quattro associazioni nate con motivazioni diverse, ma che mirano tutte a verità, giustizia e sicurezza, cercando di non disperdere, e soprattutto di controllare, lo spirito di solidarietà che le circonda. Si impone una riflessione che trascende il singolo fatto e riguarda tutte le tante, troppe tragedie che si verificano nel nostro Paese. La frequenza di questi avvenimenti non diminuirà finché al centro delle nostre attenzioni continueranno a esserci, al posto dell’uomo e della sua sicurezza, “valori” come denaro e profitto. Quindi, se da un lato dobbiamo continuare a impegnarci come stiamo facendo per gli obbiettivi citati, dall’altro è altrettanto importante che questa, come le altre tragedie, contribuisca a formare una morale diversa, in modo che i nostri figli possano vivere in una società dove il cittadino, e la sua incolumità, siano sempre posti in primo piano. Solo così, io credo, il sacrificio dei nostri cari avrà avuto un senso. Gianfranco Maffei, autore di questo libro, è parente della vittima numero 24 della Strage di Viareggio.

PARLIAMO DI MASSA CARRARA

MASSA CARRARA E LA MAFIA.

Uscito "Trame di potere". Inchiesta scomoda su intrighi in Versilia, Massa-Carrara e La Spezia. In libreria il libro inchiesta del giornalista Pier Paolo Santi e di Francesco Sinatti: “Trame di potere” intrecci e intrighi tra Versilia, Massa – Carrara e La Spezia. Nel libro ci si domanda: “i furbetti del quartierino" intendono investire sui porti toscani? Gli affari di Penati si sono spinti fino alla terra apuana? I grandi scandali sono il frutto di piani organizzati? Esiste un sistema malato dove famiglie mafiose ('ndrangheta e camorra) possono mettere radici. Di quali famiglie stiamo parlando? È un viaggio investigativo in grado di svelare, con una ricca documentazione, scenari inquietanti e in continua trasformazione. Una inchiesta spregiudicata e coraggiosa voluta per far conoscere al lettore una Versilia tutt'altro che spensierata, una terra apuana tutt'altro che tranquilla e apatica e La Spezia come possibile provincia cerniera tra colletti bianchi e criminalità organizzata. Esiste uno stretto legame malavitoso tra Massa-Carrara e la Liguria?. Santi aggiunge: “ l'inchiesta si divide in due indagini parallele che mettono a fuoco da una parte una certa politica e imprenditoria che ha causato scandali e danno erariale  e dall’altra  l’intenzione  della criminalità organizzata di insediarsi sul territorio. Su quest’ultimo punto a differenza del primo libro possiamo fare i primi nomi e cognomi dei malavitosi”. Dello stesso parere è Sinatti  che puntualizza : “il sistema degli sprechi organizzati ha colpito duramente città che, altrimenti, sarebbero divenute ricche di turismo e risorse naturali. Invece, Massa – Carrara, sono più note alle cronache per il disagio sociale, l’arretratezza culturale, e una diffusa conflittualità sociale che, sapientemente alimentata da un certo potere politico, lo legittima in una perenne guerra tra poveri”. Una pubblicazione coraggiosa con la quale Eclettica si dimostra una casa editrice in prima linea nella denuncia e nell’ attività.

A tutto ciò si riferisce il Comunicato Stampa del candidato Bruno Ricci (Fratelli d’Italia) pubblicato su “Il Sito Di Massa Carrara”.

"Ho denunciato per primo i dissesti economici e finanziari delle partecipate. Ho denunciato anche Magistrati per essere libero fino in fondo".

Salve cari Cittadini,

siete pronti a scegliere secondo responsabilità? Io sono qua e vi aspetto numerosi. Vi ricordo un po’ del mio cammino. Sono stato il primo che ha avuto il coraggio di denunciare i falsi di bilancio che hanno coinvolto: ASL, CERMEC, ERREERRE, MASSA SERVIZI. A questo si aggiunge anche la denuncia, poi controfirmata dalla Guardia di Finanza di Massa, contro l’amministrazione di Carrara. Un’amministrazione colposamente e dolosamente inadempiente in tema di Regolamento di Agri Marmiferi. Ho denunciato anche il Magistrato Giovanni Sgambati che non ha avuto neanche la dignità di contro denunciarmi.  Un Magistrato che ha avvallato il fallimento di ERREERRE senza rendersi conto dei falsi di bilancio depositati negli atti di causa (sul punto vi invito a leggere i due libri del Giornalista Pier Paolo Santi: TRAME DI POTERE e INFILTRAZIONI MAFIOSE IN TERRA APUANA - Eclettica Edizioni). Errori inscusabili…

Essere responsabili/proattivi: significa essere capaci di rispondere agli eventi della vita.

Abbiate il coraggio di votare l’alternativa: FRATELLI D’ITALIA. Un gruppo di giovani senza scheletri nell’armadio e pronti a dar battaglia per:

-         i valori religiosi;

-         sostenere le famiglie economicamente in difficoltà e quelle con figli bisognosi di assistenza;

-         per la cultura e la conservazione dei beni storici del nostro territorio;

-         abolizione IMU prima casa;

-         abolizione IMU su fabbricati commerciali;

-         devono andare a casa tutti coloro che parteciparono a depauperare oltre 500 milioni di denaro pubblico con i disastri: ASL, CERMEC, ERREERRE, MASSA SERVIZI;

-         immigrazione illegale e sostegno a tutti gli immigrati di buona volontà che desiderano costruire un futuro migliore per sé e per le proprie famiglie in Italia;

-         sostegno alle imprese del nostro comprensorio. Impresa = prosperità per le famiglie massesi;

-         per una giustizia veloce e giusta. Responsabilità civile dei magistrati. Affinché non si ripeta quanto affermato dal PM Valerio Longi della Procura di Torino nei confronti del Tribunale di Massa:

-         “Non sarebbe male sopprimere il tribunale di Massa, visto la pessima prova di sè che ha dato in questa vicenda”;

-         “criminale incompetenza di molti giudici che si sono occupati di questa causa» ne ha davvero per tutti. A cominciare dall’ex presidente del tribunale di Massa, Francesco Bonfiglio, che ha sfilato come teste in tribunale a Torino. E che, secondo l’accusa avrebbe assegnato all’allora giudice Donatiello la procedura esecutiva alla Server Plus. Per il pm Longi quello di Bonfiglio: «E’ stato un comportamento assolutamente ignobile”;

-         “Speriamo di averli mandati in pensione, insomma almeno a qualcosa l’indagine è servita, è stata un’azione di pulizia, di auto pulizia, nel senso che tutti gli interessati o quasi sono andati in pensione. Perchè poi quel fallimento (della ditta Dazzi) è stato dichiarato nel 2001, e avete mai sentito a Torino di una procedura fallimentare che sta in piedi per un anno e mezzo”;

-         E infine una frecciata del pm Valerio Longi è riservata - sempre stando ai verbali di udienza - al giudice Maurizio Ermellini . Partendo dalla sua deposizione in veste di testimone nel processo legato alla moschea “fantasma” e alla bancarotta fallimentare. «E’ l’ennesima presa in giro da parte di questi signori che indegnamente e indecorosamente continuano a indossare la toga. E questo signore, che si è fatto 400 chilometri per venire qui a raccontare panzane e fa il magistrato, quindi ha fatto il giudice delegato».«Quindi, forse si dovrebbe ipotizzare che sappia quello che dice- si legge nel verbale di udienza relativo alla requisitoria del pm Longi - Perché delle due l’una: o è un disonesto o è un incompetente assoluto e totale e spero che in vita sua non faccia mai più il giudice delegato».

PARLIAMO DI MAFIA E MASSONERIA A MASSA CARRARA.

Partiamo dall'introduzione al libro: "La criminalità organizzata in Toscana" - Una regione che non è terra di mafia e che tuttavia, risulta permeabile alle infiltrazioni mafiose. Una regione  dove manca il consenso sociale alla criminalità organizzata ma che in questa situazione di crisi economica può essere particolarmente esposta ai suoi appetiti. Mi pare che sia questo il quadro che emerge da questa ricerca sulla “Infiltrazione delle mafie in Toscana” curata dal professor Enzo Ciconte per conte della Regione Toscana e di Avviso Pubblico. Un quadro che va oltre le cronache degli ultimi mesi per guardare a quanto è successo nella nostra regione in almeno 30 anni. Passaggio necessario, questo, perché non si può capire il presente senza curare la memoria, a partire da quando, con i primi soggiorni obbligati, si segnalarono le prime presenze di famiglie mafiose. Le varie mafie hanno visto nella Toscana una regione ricca per fare buoni investimenti e riciclare denaro sporco. Hanno comprato alberghi, negozi, aziende. Ma allo stesso tempo a esse hanno fatto capo attività quali il traffico di stupefacenti. In tutto questo c'è molto per cui essere preoccupati. Grazie alla difficoltà economiche di tante imprese, tra l'altro, ora è anche più facile che arrivino nei nostri territori capitali mafiosi. Ma la nostra regione ha dimostrato  di avere anche importanti carte da giocare. In primo luogo la diffusa cultura della legalità, decisiva perché è chiaro che la mafia comincia a mettere radici là dove il complesso delle regole comincia a cedere. E poi la tenuta di istituzioni locali che solo in sporadici casi si sono dimostrate permeabili agli interessi della criminalità organizzata. Come Regione Toscana stiamo facendo molto. E tra le tante cose che potrei citare ricordo solo la nostra legislazione sugli appalti, per assicurare regolarità e trasparenza nella gestione di lavori e forniture e così garantire anche le imprese davvero oneste. E' un lavoro che proseguirà. E potrà proseguire al meglio anche grazie al patrimonio di conoscenza fornito da ricerche come queste.”

A Carrara, in una piazza poco distante dal Teatro degli Animosi si erge il monumento al valoroso eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, fautore della storica e vincente spedizione dei mille in Sicilia che diede inizio di fatto all’unità d’Italia, quella statua eretta là in quel posto da decenni è stata presa oggi, se possiamo dire così, in “prestito” dalla potente e segreta Massoneria locale che governa di fatto in ogni ganglio della società civile di Massa Carrara e dell’intera Provincia ed è di fatto usata come “proiettore” del proprio tipico “saluto simbolico” di riconoscimento! Già, perché se di giorno il fiero Garibaldi è perennemente immortalato in tutto il suo impeto glorioso con la mano sinistra alta su verso il cielo incitante alla battaglia con la sciabola sguainata nella mano destra, di notte grazie ad un ingegnoso studio di fasci di luce proiettati dai tre fari posti a terra alla base della statua, lo stesso Garibaldi si trasforma nella sua ombra proiettata sulla parete dell’edificio che ospita il Teatro in un ometto “gobbo” mantellato che saluta con le “corna” e non tutti forse sanno, ma fare le corna con la mano è anche il tipico saluto dei Massoni “Illuminati”! La cosa buffa è che il monumento le corna non le fa proprio, ma quel gioco di luci così studiato proietta l’ombra della mano issata al cielo come se la statua le facesse anche nella realtà ed il bello è che in ogni angolatura che l’osservatore si mette continuerà a vedere l’ombra di questo “gobbo che fa le corna” contro la parete dell’edificio! Un segno inequivocabile forse che segretamente la Massoneria locale vuole lasciare sue tracce di riconoscimento ai suoi “confratelli” Massoni anche per ricordare chi è che comanda davvero nella politica e nell’economia di Massa-Carrara???

La provincia di Massa Carrara per la posizione geografica e per il tipo di economia risulta appetibile per le organizzazioni criminali mafiose. Da un lato vi sono le cosche del ponente ligure e dall'altro gli interessi di altri gruppi provenienti dal sud in arrivo su un territorio considerato accogliente. Il territorio dimostra una discreta propensione all'uso della cocaina (operazione codino in primis), alla prostituzione diffusa con numerose minorenni rumene (operazione del 4 luglio 2011) ed inoltre ad aggravare il tutto ci sono i molteplici incendi dolosi tra cui quello di inizio dicembre del club Regina di Cuori o quello ancor più recente al cantiere navale nel capannone dello Lb Yacht. Non bisogna poi dimenticare il marmo e tutto ciò che ruota attorno ad esso dal lavoro nero nelle cave, al trasporto, agli appalti delle strada del marmo. In proposito occorre far notare la presenza di numerose imprese provenienti da zone dell'Italia assoggettate alla criminalità organizzata, i controlli quindi devono essere continui senza ovviamente fare alcuna generalizzazione. La crisi economica porta anche all'aggravamento del fenomeno dell'usura e recentemente un soggetto dedito a tale pratica originario di Carrara e residente a Viareggio ha subito un sequestro di beni da parte della DIA di Genova pari a 6 milioni di euro. Il territorio si presta come altri al gioco d'azzardo e gli interessi di Cosa Nostra non mancano come si evince dalla maxi operazione contro il re delle slot machines di Caltanissetta con una società sequestrata anche a Massa Carrara. Se a tutto ciò aggiungiamo l'allarme della DIA di Napoli sulla presenza dei casalesi a Massa Carrara dopo l'arresto di Zagaria e le paure dei cittadini con relative denunce anonime contro il pizzo, non si può non rilevare una situazione nel suo complesso abbastanza grave. Massa Carrara rischia quindi di trovarsi colonizzata dalle organizzazioni mafiose.

La fondazione Antonino Caponnetto, il magistrato che guidò il pool antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino scomparso anni fa, lancia l'allarme criminalità organizzata in Toscana e dice di tenere gli occhi aperti soprattutto nella provincia apuana. La fondazione ha pubblicato il rapporto del 2011 sulla Legalità e giustizia sociale e quello di Massa-Carrara è l'unico territorio con una presenza economica mafiosa alta e un rischio di colonizzazione altrettanto alto. Tutte le altre province hanno un valore alto (o medio alto) e il secondo e quasi sempre basso. Ci sono margini per intervenire. Ai piedi delle Apuane invece la situazione sembra compromessa. Il rapporto della fondazione Caponnetto trae spunto dai fatti di cronaca. E l'elenco degli episodi in odore di criminalità organizzata è lungo.

Sono soprattutto gli incendi a esercizi pubblici o aziende a preoccupare. Ma c'è anche l'avviso della Dia alla squadra mobile di tenere gli occhi aperti arrivato dopo l'arresto del superboss dei Casalesi Michele Zagaria. La Direzione investigativa antimafia ha detto di stare attenti ad appalti, attività imprenditoriali e investimenti sia a Massa sia a Marina. Non è un vero e proprio allarme camorra, ma ci manca poco. Perché la sensazione degli inquirenti campani è che in terra apuana possa nascondersi qualcosa di grosso. L'impressione è che dando la caccia al superlatitante della camorra gli inquirenti abbiano scoperto qualcosa in terra apuana, ma che per ora siano soltanto a livello di ipotesi. Del resto non è la prima volta che vengono accostati i Casalesi a Massa. Esattamente due anni fa sempre la Dia aveva sequestrato un complesso immobiliare ai Ronchi. Case ricavate dal restyling di un vecchio hotel (il Colombo) che aveva chiuso i battenti da un pezzo. La palazzina era intestata ad Aldo Bazzini, suocero di Pasquale Zagaria, fratello del boss Michele. Proprio il superlatitante finito in manette una decina di giorni fa. Va detto che il titolare della ditta, Paolo Bazzini, il giorno dopo i sigilli all'immobile aveva tenuto a precisare che loro non la camorra non c'entravano nulla. Ma intanto il sequestro è rimasto. Il nuovo allarme della Dia e il precedente fanno capire che qualcosa cova sotto la cenere. Il rapporto sul 2011 poi comprende una voce preoccupante: il videopoker. Anche qui l'anno appena trascorso si è chiuso con il sequestro di un'azienda massese che apparteneva a un imprenditore nisseno finito in manette dopo un'indagine sulle macchinette truccate. Tutti segnali che non fanno dormire sonni tranquilli agli inquirenti locali.

A conclusione di quanto scritto su Mafia e Massoneria a Massa Carrara c’è da sottolineare che Sara Vatteroni è stata la prima firmataria del dossier sull’inattività della Procura di Massa – Carrara, ed ha denunciato l’infiltrazione mafiosa e il pericolo della massoneria deviata nel territorio provinciale.

Ci sono storie, piccole storie, che raccontano più di tante analisi e di tanti discorsi. Perché poi solo in apparenza sono piccole storie. Andiamo a Massa, in Toscana. Nel carcere di Massa c’è un detenuto, si chiama Salvatore Iodice. Forse è colpevole, forse no, non importa saperlo. Il signor Iodice prima di essere incarcerato, in quel carcere ci viveva buona parte della sua giornata, perché ne era il direttore. Lo accusano di aver pilotato delle gare per la realizzazione di lavori proprio di quel carcere. Chissà. A noi interessa quello che dice ad “Articolo 21”: «Sono stato arrestato nel luglio 2010; ho vissuto in isolamento, in un ambiente angusto e malsano. In piena estate sotto il letto crescono i muschi. Ero guardato a vista 24 ore su 24, senza alcuna possibilità di socialità. Solo quando manca un mese dalla scarcerazione l’isolamento finisce. Per 20 giorni non ho potuto ricevere lettere, ho potuto chiamare casa dopo 30. A farmi compagnia tantissimi scarafaggi e insetti di ogni tipo. E ora se nessuno mi darà una spiegazione sarò portato a credere che la carcerazione sia stata usata come strumento di tortura. Ho subito una carcerazione umiliante e degradante, chi toglie la libertà ad una persona ha l’obbligo morale di garantire i diritti minimi. Ogni Pubblico Ministero sa che in quelle condizioni si dice il vero o il falso pur di uscire dalla disperazione. Mentre gli inquirenti acquistavano visibilità, io ero alla gogna».

In riferimento al fatto si riporta all’articolo pubblicato su “La Nazione” da cui si possono estrapolare tutti i fatti ed i nomi: “Nove persone sono state arrestate nell'ambito dell'operazione 'Do ut des', condotta dalla polizia di Massa, che ha portato all'emissione delle misure di custodia cautelare per reati inerenti presunti appalti pilotati per la realizzazione di opere all'interno del carcere delle Gorline. Tra gli altri, in manette sono finiti il direttore del carcere, quattro imprenditori e alcuni funzionari del Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture.

Secondo gli inquirenti, fin dal 2005 attorno ai lavori, di routine, per la manutenzione della struttura carceraria, si era creato un business a base di appalti truccati: si trattava di lavori saltuari e comuni, di entità diversa: tutto andava bene per alimentare un bando dall'esito già concordato sul nascere. Le accuse si fondano, tra l'altro, su varie intercettazioni telefoniche. La polizia, penitenziaria e la squadra mobile avevano da tempo nel mirino due ditte, Ciesse e Comies, alle quali andavano stabilmente gli appalti dal 2005. Le indagini sono guidate dai magistrati Federico Manotti e Rossella Soffio; i reati contestati vanno dalla corruzione al peculato al falso ideologico.

La questura di Massa ha reso noti i nomi degli arrestati nell'indagine 'do ut des': uno degli arrestati è il direttore del carcere di Massa, Salvatore Iodice, 61 anni. Il direttore Iodice, negli anni, ha caratterizzato la sua attività con iniziative di carattere sociale per il recupero dei detenuti. E' stato promotore della nascita della squadra di calcio 'la Galeotta', composta da detenuti semiliberi e rappresentanti delle forze dell'ordine che ha partecipato al campionato di Terza Categoria; ha favorito il reinserimento dei detenuti nella società tramite lavori retribuiti dentro e fuori dal carcere ed ha portato personaggi del mondo del pallone nella casa circondariale per incontri e partite di calcio con i reclusi. Iodice ha aperto il carcere a Pierluigi Collina, Marcello Lippi, Silvio Baldini e l'Empoli, Renzo Ulivieri, Luciano Spalletti. Secondo alcune indiscrezioni, il direttore del carcere forse aveva una relazione con un'imprenditrice coinvolta nella vicenda.”

Dopo la pubblicazione di questo articolo, di fatto alla redazione perviene da un avvocato una semplice email: “Con la presente si intima e diffida la Vs. spett.le redazione alla cancellazione della pagina web, poiché pur non contestando il legittimo diritto costituzionale di cronaca, si evidenzia che essendo trascorso sufficiente tempo dalla pubblicazione della notizia, ad oggi è venuto meno l’interesse pubblico sotteso al diritto di cronaca giornalistica, ovvero informare la collettività, creare opinioni, stimolare dibattiti, suggerire rimedi. Pertanto ad oggi la mia cliente rivendica il legittimo diritto all’oblio, che viene costantemente violato il momento in cui sul motore di ricerca Google viene digitato il nome della stessa con la conseguente riproposizione di una medesima vicenda, che deve ritenersi oramai lesiva della personale reputazione poichè al momento della riproposizione l’interesse pubblico alla vicenda non è più esistente. Tanto anche in considerazione del ruolo sociale svolto dalla mia assistita, imprenditrice, e dell’effetto devastante sulla propria reputazione della ripetizione di un fatto che può considerarsi a tutti gli effetti un accanimento nei confronti della stessa. Per tutto quanto sopra esposto e dedotto, Vi intimo e diffido ai sensi dell’art. 7 del codice della privacy, che consente all’interessato il diritto di ottenere la cancellazione o il blocco dei dati trattati in violazione della legge, alla rimozione immediata della pagina web o dei dati della mia assistita, avvertendoVi che decorsi infruttuosamente 7 gg. dal ricevimento dal telematico della presente si agirà nelle competenti sedi in Vs. danno e a tutela dell’immagine e del diritto alla privacy della mia assistita. Certo di un vostro fattivo riscontro, porgo distinti saluti.”

All’avvocato ed alla sua cliente, di cui è inutile fare i nomi di entrambi, come per altro a tutti coloro che vogliono chiuderci la bocca, rispondo pubblicamente. L'interpretazione dell'art. 21 dà vita a dei principi: Il diritto di critica e di cronaca, oltre alla libertà di informare e la libertà di essere informati, concorrendo i seguenti tre requisiti: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti.

Io mi attengo sempre e mi sono sempre attenuto a questi principi adottando i suddetti requisiti quando ho composto le migliaia delle mie inchieste o quando ho scritto i miei libri. Ne è prova la mia fedina penale incensurata.

Sia chiaro per tutti: a noi non interessa la gogna mediatica. Chi ci conosce sa che noi combattiamo la mafiosità delle istituzioni e dei funzionari pubblici: quella impunita ed omertosamente taciuta dai giornalisti.

Per questo siamo lieti di omettere i nominativi dei cittadini, quantunque delinquino, ma nessuno può impedirci di divulgare le notizie tacitate dalla stampa su illegalità commesse da chi invece dovrebbe dare l’esempio. E tale diritto di critica e di cronaca divenuta storia diventa imprescrittibile e indecadibile, oltre che scriminante riguardo al reato di diffamazione a mezzo stampa o per violazione della Privacy.

Se nonostante ciò da parte di qualcuno vi sia spirito di rivalsa e di vendetta: si metta in coda alla lunga fila aspettando il suo turno. Né denunce, né pallottole, però, ci possono intimorire.

Firmato: dr Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", direttore di Tele Web Italia e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, riconosciuta dal Ministero dell'Interno.

PARLIAMO DI PISA

PISA VISTA DA LONTANO

Discorso fatto da Niccolò Machiavelli nel 1499 al Magistrato dei Dieci sopra le cose di Pisa

Che riavere Pisa sia necessario a volere mantenere la libertà, perché nessuno ne dubita, non mi pare da mostrarlo con altre ragioni che quelle le quali per voi medesimi intendete. Solo esaminerò i mezzi che conducano o che possano condurre a questo, i quali mi paiono o la forza o l’amore, come sarebbe il ricuperarla per assedio, o che ella vi venga nelle mani volontaria. E perché questa sarebbe più sicura, e per conseguenza più desiderabile via, esamineremo se tale è riuscibile o no, e discorremola così. Quando Pisa sanza fare impresa ci abbia a venire alle mani, conviene che per loro medesimi vi si rimettano nelle braccia, o che un altro che ne sia signore ve ne faccia presente. Come si possa credere che loro medesimi siano per ritornare sotto il patrocinio vostro, ve lo dimostrano i presenti tempi, nelli quali, destituti da ogni presidio, rimasti piccoli e debolissimi, suti non accettati da Milano, discacciati dai Genovesi, non ben visti dal pontefice, e da’ Sanesi poco intrattenuti, stanno pertinaci, sperando sulla vana speranza di altri, e debolezza e disunione vostra; né mai hanno volsuto accettare, tanta è la perfidia loro, un minimo vostro segno ed imbasciata. Pertanto essendo in tanta calamità al presente, e non flettendo l’animo, non si può né debbe a nessun modo credere che per loro medesimi mai vengano volontari sotto il giogo vostro. Che la ci sia concessa da chi la possedesse, dobbiamo considerare che quello tale che ne sia possessore, o vi sarà entrato dentro chiamato da loro, o per forza. Quando vi fusse entrato per forza, nessuna ragione vuole che ce la conceda, perché chi sarà sufficiente ad entrarvi per forza, sarà ancora sufficiente a guardarla per sé, e a preservarsela; perché Pisa non è città da lasciarla volentieri per chi se ne trovasse signore. Quando vi fusse entrato dentro per amore, e chiamato da’ Pisani, fondandomi sul fresco esempio de’ Viniziani, non mi pare da credere, che alcuno fusse per rompere loro la fede, e sotto nome di volerli difendere, li tradisse, e désseveli prigioni. Ma quando tale possessore volesse pure che la tornasse sotto il nome vostro, l’abbandonerebbe e lascerebbevela in preda, come hanno fatti i Viniziani; sicché per queste ragioni non si vede alcuna via che Pisa senza usare forza sia per recuperarsi.

Sendo adunque necessaria la forza, mi pare da considerare, se gli è bene usarla in questo tempo o no. Ad ultimare l’impresa di Pisa bisogna averla o per assedio o per fame, o per espugnazione, con andare con artiglieria alle mura. E discorrendo la prima parte dell’assedio, si ha da considerare se i Lucchesi siano per volere o per potere tenere che del paese loro non vada vettovaglia in Pisa; e quando volessero o potessero, ciascuno si accorda che basterebbe solamente guardare le marine; ed a questo effetto basterebbe solamente tenere un campo a S. Piero in Grado con il ponte sopra Arno, mediante il quale le genti vostre potessero essere ad un cenno dato in foce di fiume Morto o di Serchio, dove bisognasse, tenendo qualche cavallo e fante in Librafatta, e così a Cascina. Ma perché si dubita della volontà de’ Lucchesi, e perché è anche da dubitare che quando bene volessero, non potessero tener serrato il lor paese, per esser il paese che si ha da guardare largo, e per non aver loro dai loro sudditi un’intera obbedienza; si pensa, volendo bene assediar Pisa, che non sia da fidarsi al tutto che questa parte sia guardata dai Lucchesi; ma che bisogni ai Fiorentini pensare e per questo che non basti fare un solo campo a S. Piero in Grado, ma bisogni pensare di farne o un altro, o due altri, come meglio sarà giudicato, o come meglio si potrà. E però dicono che il più vero e fermo modo sarebbe il fare tre campi, uno a S. Piero in Grado, l’altro a S. Iacopo, l’altro alla Beccheria, ovvero ad... E considerando gli elmetti e cavalli leggieri avuti, toccherebbe per campo venti elmetti, e cento cavalli leggieri, e ottocento fanti: i quali campi stando in questo triangolo, tengono assediata Pisa etiam contro alle voglie de’ Lucchesi; starieno sicuri affortificandosi con fosse, come saprieno fare e sbigottiriano i Pisani in modo, da credere che calassero subito. E perché in S. Piero in Grado è trista aria, dove per avventura, avendovi a stare un campo, si ammaleria; e perché parrebbe forse troppo grieve tenere detti tre campi, si potria tenere detto campo di S. Piero in Grado tanto, che in quel luogo si facesse un bastione grosso, capace di trecento o quattrocento uomini in guardia, il quale si farebbe in un mese; e fatto il bastione, levarne il campo e lasciarvi il bastione e la guardia, e rimanere con quelli altri due campi; e così non si verrebbe ad avere la spesa di tre campi, se non per un mese. L’uno di questi due modi detti, o di tre campi o del bastione con i due campi, è il più approvato da questi signori condottieri, e quello che tengono più utile e più atto per affamare Pisa. Ma se voi non voleste tanta spesa, e volessi fare appunto due campi, bisogna di necessità tenerne uno a S. Piero in Grado, o tuttavia non ci facendo il bastione, o facendovelo, infino a tanto che fusse fatto. L’altro campo dicono si vorria tenerlo al Poggiolo sopra il ponte Cappellese, e perché gli avrebbe a guardare Càsoli ed i monti, dubita alcuno che da detto campo, Càsoli non potesse essere ben guardato. E per questo vi bisognerebbe fare più un bastione che ricevesse cento uomini in guardia; e, quanto ai monti, bisognerebbe tenere nella Verruca dugento fanti, o tenerne in Val di Calci quattrocento, o fare un bastione fra Lucinari ed Arno, che fusse capace di cento uomini in guardia, e tenere cinquanta cavalli almeno a Càscina; e questo sarebbe un altro modo da assediare Pisa, ma non tanto gagliardo quanto l’uno di quelli due primi de’ tre campi, ovvero del bastione con due campi. Vero è, che mentre si fa il bastione, si potrebbe tener tre campi, e fatto il bastione ridurli a due: ovvero mentre si fa il bastione tenere due campi; aggiunte quelle altre cose dette di sopra: e fatto il bastione, lasciarvi la guardia e ridursi coi due campi alle poste e luoghi soprascritti, a S. Iacopo l’uno, l’altro... ovvero... E qui ci sarebbe di spesa più dall’un modo all’altro quanto si spende in un mese in mille fanti più. È venuto loro in considerazione un’altra cosa: se gli è da fare questo bastione a S. Piero in Grado, o no. Alcuno ha fatto questa distinzione, e detto: o i Fiorentini sono d’animo, non potendo affamar Pisa, di sforzarla, giudica superfluo fare il bastione, perché di qua a un mese che il bastione sia fatto, sarà tempo di andare alle mura, cioè intorno al principio di maggio, e così la spesa del bastione viene ad essere gettata: se non sono di animo di tentare la forza, ma di stare nello assedio, giudica ciascuno che sia da fare il bastione. Alcuno dice che etiam che i Fiorentini vogliano tentare la forza, debbono fare il bastione, perché potrebbe non riuscir loro lo sforzarla, e non riuscendo, e loro si trovino il bastione fatto, da poter rimanere nell’assedio. Hanno ancora esaminato se gli è credibile che l’assedio basti sanza la forza: e sono di parere, che non basti, perché credono che egli abbiano da vivere insino al grano nuovo, per riscontri si ha da chi viene di Pisa, e per i segni si vede del pane vi si vende e dello ostinato animo loro; ed essendo per patire assai, non si vede che patischino un pezzo a quello che l’ostinato animo loro li può indurre a patire; e però pensano che voi sarete costretti a tentare la forza. Pensan bene che sarà impossibile che vi reggano, tenendo voi questi modi di tenerli stretti il più potete un quaranta o cinquanta dì, ed in questo mezzo trarne tutti gli uomini da guerra potete, e non solamente cavarne chi vuole uscire, ma premiare chi non ne volesse uscire, perché se ne esca. Dipoi, passato detto tempo, fare in un subito quanti fanti si può; fare due batterie, e quanto altro è necessario per accostarsi alle mura; dare libera licenza che se ne esca chiunque vuole, donne, fanciulli, vecchi, ed ognuno, perché ognuno a difenderla è buono; e così trovandosi i Pisani vôti di difensori dentro, battuti dai tre lati, a tre o quattro assalti saria impossibile che reggessero, se non per miracolo, secondo che i più savi in questa materia hanno discorso.

PISA E LA MASSONERIA.

“La Massoneria a Pisa” il libro di Sergio Piane e Ippolito Spadafora. Non sarebbe possibile scrivere la storia anche recente della Toscana, se si ignorasse il contributo dei Massoni. È sufficiente guardarsi intorno: dalla toponomastica delle città toscane, molte strade sono dedicate a Massoni per il contributo che hanno dato alla società, alla sempre maggior frequenza di commemorazioni di personaggi, autorevoli per il loro ruolo politico o sociale o culturale, in cui siamo chiamati ad illustrare la loro dimensione massonica. Ciò non deve far meraviglia perché la Massoneria toscana ha sempre fornito una parte significativa della classe dirigente. Ed anche nell’immediato dopo guerra fra le forze partigiane e fra coloro che reggeranno le sorti di molte comunità toscane, troviamo giovani e meno giovani, alcuni dei quali busseranno alle porte della Massoneria a conferma di una continuità ideale, di una identità di valori fra resistenza e Massoneria, fra antifascismo e amore per la libertà. Ed anche quando l’appartenenza alla Massoneria ha procurato discriminazione ed ostilità (purtroppo in Toscana anche in tempi recenti), non hanno mai avuto dubbi su quello che doveva essere il loro dovere: prodigarsi per gli altri, cercare di dare un contributo alla società, mettere a disposizione della comunità le capacità professionali, lottare per quegli stessi ideali per i quali scelsero la lotta partigiana, la libertà e la lotta alla discriminazione. Presentazione del libro "Pisa e la Massoneria" di Ippolito Spadafora. "Questo libro - scrive Spadafora - vuole essere un piccolo contributo personale alla ricorrenza del 150º anniversario dell’Unità d’Italia. Si riconosce evidente un sottile fil rouge che caratterizza l’attività sociale e politica delle logge massoniche pisane da subito dopo il periodo d’influenza bonapartista fino ad inizio Novecento, ed è la condivisione delle istanze di unificazione dell’Italia e la partecipazione piena e incondizionata alle vicende prima risorgimentali e poi irredentiste. Protagonisti prima dell’insurrezione e poi della costruzione della Nuova Italia, sono molti i massoni pisani che dopo aver riempito le pagine dei rapporti di polizia, segnalati come Patriotti, “pericolosi democratici, repubblicani e sovversivi”, figureranno tra i protagonisti della costruzione sociale, politica e culturale dell’Italia unita".

PARLIAMO DI PISTOIA

PISTOIA E LA MASSONERIA.

Chi era Licio Gelli, l'ex "venerabile" della P2. Il gran maestro della loggia massonica, morto ieri, è stato protagonista di una lunga stagione di trame e misteri della storia italiana, scrive "Panorama" il 16 dicembre 2015. Il "burattinaio", "Belfagor", "il venerabile". Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della loggia massonica P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, è morto a 96 anni nella sua dimora storica Villa Wanda, alle porte di Arezzo.

La vita. Nato a Pistoia il 21 aprile 1919, a 18 anni si arruolò come volontario nelle camicie nere di Franco in Spagna. Fu fascista, "repubblichino" e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio.Le di Castiglion Fibocchi.

La massoneria. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia "Propaganda 2", nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi.

I guai con la giustizia. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia.

La condanna. L'11 aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. (ANSA)

A 96 muore Licio Gelli. In Italia non ha mai fatto un giorno di carcere. Scompare l'ex venerabile della loggia P2. E' deceduto a Villa Wanda, ad Arezzo. Condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, dopo essere stato detenuto in Francia e Svizzera era tornato a vivere in Toscana, scrive R.I. su "L'Espresso" il 16 dicembre 2015. E' morto Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2, coinvolto nei misteri più oscuri dell'Italia del dopoguerra. Si è spento alle 23 del 15 dicembre a Villa Wanda, la casa sulle colline di Arezzo. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli fu condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, era tornato a vivere a Villa Wanda. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e i tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali sono previsti giovedì a Pistoia, mentre la camera ardente potrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda. Il «burattinaio», «Belfagor», «il venerabile». Ovvero, Licio Gelli. L'ex gran maestro della P2, che tante volte è tornato nella storia della prima e della seconda Repubblica tra rapporti occulti con il potere, vicende giudiziarie, arresti, fughe e guai col fisco, a 18 anni si arruolò come volontario nelle «camicie nere» di Franco in Spagna. Fu fascista, repubblichino e poi partigiano. Il 16 dicembre 1944 sposa Wanda Vannacci dalla quale ebbe quattro figli. Dopo la guerra si trasferisce in Sardegna e in Argentina, dove si lega a Peron e Lopez Rega. Tornato in Italia comincia a lavorare nella fabbrica di materassi Permaflex e diventa direttore dello stabilimento di Frosinone. Poi diventa socio dei fratelli Lebole e proprietario dello stabilimento Gio.Le di Castiglion Fibocchi. Nel 1963 Gelli si iscrive alla massoneria. Nel 1966 il Gran maestro Gamberini lo trasferisce alla loggia «Propaganda 2», nata a fine Ottocento per permettere l'adesione riservata di personaggi pubblici. Nel 1975 si decide lo scioglimento della P2, che però grazie a Gelli, che da segretario diviene gran maestro, rinasce più forte e allarga i suoi tentacoli in ogni ramo del potere. Quando, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi Turone e Colombo, indagando sul crack Sindona, arrivano alle liste, per il mondo politico italiano è un terremoto. Negli elenchi ci sono quasi mille nomi tra cui ministri, parlamentari, finanzieri come Michele Sindona e Roberto Calvi, editori, giornalisti, militari, capi dei servizi segreti, prefetti, questori, magistrati. C'è anche il nome di Berlusconi. La P2 risulta coinvolta direttamente o indirettamente in tutti i maggiori scandali degli ultimi trent'anni della storia italiana: tentato golpe Borghese, strategia della tensione, crack Sindona, caso Calvi, scalata ai grandi gruppi editoriali, caso Moro, mafia, tangentopoli. Il 22 maggio 1981 scatta il primo ordine di cattura, ma Gelli è irreperibile. Verrà arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Rinchiuso nel carcere di Champ Dollon, evade il 10 agosto 1983. Il 21 settembre 1987 si costituisce a Ginevra. Torna a Champ Dollon, che lascia il 17 febbraio 1988 estradato in Italia. L'11aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Il 16 gennaio 1997 c'è un nuovo ordine di arresto, ma il ministero della Giustizia lo revoca: il reato di procacciamento di notizie riservate non era tra quelli per cui era stata concessa l'estradizione. Il 22 aprile 1998 la Cassazione conferma la condanna a 12 anni per il Crack del Banco Ambrosiano. Il 4 maggio Gelli è di nuovo irreperibile: la fuga dura più di quattro mesi. Gli vengono concessi i domiciliari, che sconterà a Villa Wanda, la residenza dove è morto e che nell'ottobre 2013 gli venne sequestrata a conclusione di una indagine per un debito col fisco; la magione - nella quale tuttavia continuò a vivere - è rientrata nella sua disponibilità pena nel gennaio scorso per la dichiarata prescrizione dei reati fiscali. Nell'aprile 2013 i pm di Palermo dell'inchiesta Stato-mafia lo hanno sentito per gli intrecci tra P2, servizi ed eversione. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex venerabile porta con se nella tomba alcuni dei segreti, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo il 17 marzo 1981, quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di ’grand commis’ aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervaso e Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crack del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.  

Cia, golpe, esercito e crac: tutti i torbidi segreti che Licio Gelli si porta nella tomba, scrive “Libero Quotidiano” il 16 dicembre 2015. Con la morte di Licio Gelli scompare uno dei protagonisti degli anni più bui della storia d’Italia. L’ex "venerabile "porta con se nella tomba alcuni dei segreti più torbidi d’Italia, destinati, salvo colpi di scena, a restare tali. A capo di una loggia massonica P2 (Propaganda 2), sconfessata solo dopo lo scoppio dello scandalo dal Grande Oriente, Gelli era riuscito a tessere una trama di relazioni internazionali e nazionali che ne hanno fatto a lungo il burattinaio occulto del Paese. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli aveva creato con la P2 nel corso degli anni ’70 un centro di potere di cui, si scoprì, facevano parte alti vertici delle forze armate, dei servizi segreti, politici, imprenditori e giornalisti. La P2 è stata chiamata in causa in tutti i più grandi scandali della storia d’Italia, dal tentato golpe del principe Borghese, il crack Sindona, il caso Calvi, il controllo del Corriere della Sera (Bruno Tassan Din, direttore generale della Rizzoli aveva la tessera 534). Fu condannato, tra l’altro, a 10 anni per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1980. Dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia, è vissuto a Castiglion Fibocchi, a nord di Arezzo, a Villa Wanda, sequestrata il 10 ottobre 2013 dalla Guardia di Finanza per frode fiscale (17 milioni di euro). Dopo varie aste andate deserte è stata affidata a Licio Gelli come custode giudiziario. Qui dal 2001 Gelli viveva in detenzione domiciliare dove ha scontato la pena di 12 anni per la bancarotta fraudolenta dell’Ambrosiano. L’Italia scoprì l’esistenza di una sorta di Stato parallelo allignato dentro e dietro quello ufficiale il 17 marzo 1981 quando gli allora giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell’ambito di un’inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona, fecero perquisire Villa Wanda e la fabbrica di sua proprietà - Giole - sempre a Castiglion Fibocchi, subito a nord di Arezzo. Qui venne scoperta una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di "grand commis" aderenti alla P2 resa pubblica dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Spadolini il 21 maggio 1981. La lista includeva 962 nomi tra cui anche l’intero gruppo dirigente dei servizi segreti italiani, 2 ministri (Gaetano Stammati e Paolo Foschi, entrambi Dc), 44 parlamentari, 12 generali dei Carabinieri, 5 della Guardia di Finanza, 22 dell’Esercito, 4 dell’Aeronautica e 8 ammiragli. Imprenditori come Silvio Berlusconi, giornalisti come Roberto Gervasoe Maurizio Costano e Vittorio Emanuele di Savoia. Nel maggio del 1981 Gelli è già irreperibile. Scappò in Svizzera dove fu arrestato nel 1982 e rinchiuso nel carcere di Champ Dollon da cui, nel suo stile, misteriosamente riuscì a scappare, l’anno dopo, ad agosto del 1983. Trovò rifugio in Sudamerica dove resto a lungo tra Venezuela e Argentina prima di costituirsi nel 1987, però sempre a Ginevra. Solo nel febbraio del 1988 venne estradato in Italia ma resta in carcere pochi giorni: ad aprile ottiene la libertà provvisoria per motivi di salute. Licio Gelli è stato condannato, tra l’altro, a 12 anni per il crac del Banco Ambrosiano di Calvi; calunnia nei confronti dei magistrati milanesi Colombo, Turone e Viola; calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni. Nel corso della sua movimentata storia Gelli aveva coltivato buoni rapporti con i militari golpisti argentini che nel 1976 avevano deposto Isabelita Peron: il generale Roberto Eduardo Viola e l’ammiraglio Emilio Massera. Si è spesso parlato di suoi legami con la Cia, mai provati, o quanto meno con personaggi legati indirettamente a Langley come lo storico conservatore Michael Ledeen.

È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo, scrive Luca Romano Mercoledì 16/12/2015 su "Il Giornale". È morto Licio Gelli. L'ex venerabile della loggia P2, 96 anni, è deceduto nella sua dimora di Villa Wanda a Arezzo. Gelli era stato ricoverato recentemente in ospedale. L'ex imprenditore divenuto famoso per la vicenda legata alla loggia massonica P2 si è spento poco prima delle 23 di martedì a Villa Wanda dove risiedeva da anni. Da due giorni le condizioni di salute di Licio Gelli, già precarie, erano fortemente peggiorate tanto da indurre la moglie Gabriela Vasile a ricoverarlo nella clinica pisana di San Rossore da dove era stato dimesso alla fine della scorsa settimana perché giudicato ormai in fin di vita. Dopo un rapido check up all'ospedale di Arezzo che aveva dato lo stesso esito, la famiglia aveva deciso di riportarlo a Villa Wanda dove è spirato. Nato a Pistoia il 21 aprile del 1919, Gelli è stato condannato per depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna del 1980, dopo essere stato detenuto in Svizzera e Francia e coinvolto in varie inchieste, si era ritirato nella sua abitazione sulle colline di Arezzo dove è morto. Gelli lascia la seconda moglie Gabriela (la prima Wanda è scomparsa da tempo) e tre figli Raffaello, Maurizio e Maria Rosa, la quarta figlia Maria Grazia è morta nel 1988 in un incidente stradale. I funerali si svolgeranno probabilmente giovedì a Pistia, mentre la camera ardente dovrebbe essere allestita nella chiesa di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo a pochi metri da Villa Wanda.

Licio Gelli e la P2. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981, continua Luca Romano. Condannato per depistaggio delle indagini della strage di Bologna del 1982, è stato l'uomo dietro ai grandi misteri d'Italia, il nome dell'ex venerabile - gran maestro della loggia deviata - è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia dello scorso secolo: tentato golpe Borghese, strategia della tensione (strage alla stazione di Bologna in testa), crac Sindona, caso Calvi e Moro, mafia, tangentopoli. Classe 1919, si è spento nella sua villa Wanda (ribattezzata in onore della prima moglie Wanda Vannacci) sulle colline di Arezzo, dove era rientrato dopo un breve ricovero in ospedale. Definito "il burattinaio d'Italia", faccendiere e imprenditore, fu fascista durante il regime e la Repubblica di Salò e, poi, partigiano, quando la vittoria della guerra cominciò a rivelarsi impossibile per i nazi-fascisti. Le liste segrete loggia P2 (Propaganda due) furono scoperte il 17 marzo 1981. I giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone, nell'ambito di un'inchiesta sul finto rapimento del finanziere Michele Sindona (banchiere coinvolto nell'affare Calvi e mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli), fecero perquisire la villa di Gelli e la fabbrica di sua proprietà (la Giole di Castiglion Fibocchi, Arezzo), che portò alla scoperta di una lunga lista di alti ufficiali delle forze armate e di funzionari pubblici aderenti alla P2. La scoperta di un potere parallelo, di un altro Stato che controllasse ogni intrigo di potere, fu un terremoto politico, che travolse un pezzo della classe dirigente italiana. Tra le 962 persone inserite nell'elenco vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell'allora governo (Enrico Manca, Psi e Franco Foschi, Dc), un segretario di partito, 12 generali dei carabinieri, 5 generali della guardia di finanza, 22 generali dell'esercito italiano, 4 dell'aeronautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, diversi giornalisti ed imprenditori. Tra i nomi più noti, oltre a Vittorio Emanuele di Savoia, anche il futuro premier Silvio Berlusconi. Nel 2008, in un'intervista a Klaus Davi per Klauscondicio, l'ex venerabile dichiarò: "Con la P2 avevamo l'Italia in mano. Con noi c'era l'esercito, la guardia di finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia". Il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani attese il 21 maggio 1981, prima di rendere pubblica la lista degli appartenenti alla P2. Fu istituita, per volontà della presidente della Camera Nilde Iotti, una commissione parlamentare d'inchiesta, guidata dalla deputata democristiana Tina Anselmi, ex partigiana e prima donna a diventare ministro. La commissione affrontò un lungo lavoro di analisi venendo a scoprire come la P2 fu anche un punto di riferimento in Italia per ambienti dei servizi segreti americani, intenzionati a tenere sotto controllo la vita politica italiana fino al punto, se necessario, di promuovere riforme costituzionali apposite o di organizzare un colpo di Stato. La commissione denunciò la loggia come una vera e propria organizzazione criminale ed eversiva. Fu sciolta con un'apposita legge, la numero 17 del 25 gennaio 1982.

Gelli e i misteri d'Italia. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia, conclude Luca Romano. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Licio Gelli, l'ex venerabile della loggia P2 scomparso nella serata di martedì 15 a 96 anni nella sua casa di Arezzo, è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d' Italia: dal tentato golpe Borghese a tangentopoli, dalla scalata a gruppi editoriali al caso Moro.

Questo un elenco dei principali fatti che lo hanno visto coinvolto e indagato negli ultimi anni.

- STRAGE DI BOLOGNA (2 agosto 1980 - 85 morti e 200 feriti): assolto definitivamente dall' accusa di associazione eversiva Gelli nel 1994 è stato condannato per calunnia (10 anni) al processo d'appello-bis. Nell'ambito del processo l' ex "venerabile" fu protagonista anche della misteriosa rinuncia all'incarico da parte di uno dei legali di parte civile Roberto Montorzi che abbandonò il collegio dopo due incontri con Gelli a villa Wanda.

- BANCO AMBROSIANO: al processo di primo grado a Milano, Gelli è stato condannato a 18 anni di reclusione per il ruolo avuto nella bancarotta dall'istituto di Calvi (che aveva la tessera n.519 della P2). Il suo nome è da sempre anche al centro delle indagini sulla morte del "banchiere di Dio". Nel processo di secondo grado la pena venne ridotta a 12 anni. Il 6 maggio 1998 Gelli, che doveva scontare la condanna divenuta definitiva, fugge da villa Wanda e si rende irreperibile. Il 10 settembre viene fermato e arrestato a Cannes. Gelli entrò anche nell'inchiesta sull'omicidio del banchiere, ma il procedimento venne archiviato il 30 maggio 2009.

- CONTO "PROTEZIONE": il 29 luglio 1994 Gelli è stato condannato a Milano a sei anni e mezzo, in primo grado, per la vicenda del conto 633369 di Silvano Larini all'Ubs di Lugano, del quale fu trovata traccia nel 1981 a Castiglion Fibocchi con riferimenti a soldi destinati al Psi di Craxi e Martelli. La pena fu ridotta a 5 anni e 9 mesi in appello. La Cassazione decise l'annullamento della condanna per Gelli per improcedibilità dell'azione penale, essendo stata la sua posizione definita nel processo per il crac del Banco Ambrosiano.

- ATTENTATI AI TRENI IN TOSCANA: accusato di aver finanziato le organizzazioni eversive "nere" per gli attentati degli anni Settanta, Gelli è stato prima condannato a 8 anni e poi dichiarato non processabile.

- MAFIA-POLITICA-AFFARI: Gelli era uno dei 126 imputati al processo a Palmi sui presunti collegamenti tra mondo politico ed imprenditoriale e organizzazioni mafiose. Secondo l'accusa, si sarebbe adoperato per "aggiustare" un processo in Cassazione a due presunti mafiosi di Taranto. Venne assolto il 3 marzo 1995 dall' accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 1998 è chiamato in causa dal procuratore capo di Palermo Giancarlo Caselli nell'inchiesta Sistemi criminali poi archiviata nel 2000.

- INCHIESTA OPERAZIONI FINANZIARIE: tra il 1993 ed il 1994, Gelli è stato al centro dell'attenzione dei magistrati di Arezzo e Roma per una serie di operazioni finanziarie miliardarie che avrebbe disposto in varie banche. Le indagini sono legate in particolare al fallimento della holding Cgf del gruppo Cerruti. Un ruolo di primo piano nelle vicende è rivestito dall'ex vicepresidente del Csm Ugo Zilletti.

- LEGAMI CON LA CAMORRA: la Dda di Napoli ha indagato sui rapporti tra Gelli ed alcuni esponenti della camorra.

- INCHIESTA CHEQUE TO CHEQUE: Gelli venne iscritto nel registro degli indagati, insieme al figlio Maurizio, nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura di Torre Annunziata (Napoli) in relazione ad un presunto traffico internazionale di armi e valuta. Una trentina le persone arrestate. L'inchiesta venne poi trasferita a Milano.

- CASO BRENNEKE: le presunte rivelazioni fatte al Tg1 dal sedicente ex agente della Cia Richard Brenneke sui rapporti tra servizi segreti Usa e P2, duramente smentite da Gelli, estate del 1990 provocarono tensioni e polemiche, anche per il coinvolgimento dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

- FALLIMENTO DI NEPI: Il 10 giugno 1997 la procura di Roma emette 9 ordini di arresto per il fallimento della holding Di Nepi e di numerose società legate al gruppo. Per Gelli scatta l'obbligo di dimora a Arezzo. Il 18 aprile 2005 venne condannato a 2 anni e 3 mesi di reclusione per associazione a delinquere e bancarotta insieme ad altre 9 persone.

Licio Gelli, quel megalomane di provincia diventato potente per caso. Un uomo bugiardo. Che solo le circostanze, la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti, avevano potuto trasformare in un uomo capace di infilarsi ovunque, dai partiti ai servizi segreti. E all'ombra delle grandi stragi di questo Paese, scrive Marco Damilano il 16 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Gli ho parlato una sola volta, al telefono, più di dieci anni fa. Chiamai il numero della casa ad Arezzo per un'intervista, l'apparecchio suonò un paio di volte, poi qualcuno rispose. «Pronto, vorrei parlare con Licio Gelli», dissi. Dall'altra parte un lungo silenzio, poi quella voce: «Non è in casa». Io, stupito: «Ma scusi, Gelli è lei, la riconosco!». E lui: «No, guardi, non sono io». E mise giù. A me venne in mente che l'attore Alighiero Noschese, il primo imitatore della tv italiana, era stato affratellato alla loggia P2, si diceva che falsificasse le voci nelle telefonate del Venerabile, fingeva di essere un ministro o il presidente del Consiglio. E anche lui all'epoca si era inventato un'altra identità, al telefono si faceva chiamare dottor Luciani, per paura delle intercettazioni. E pensai che questo era, prima di tutto, Licio Gelli. Un bugiardo. Un megalomane di provincia che solo le circostanze - la guerra fredda, l'essere l'Italia un paese di frontiera tra l'Ovest e l'Est, in un brulichio di spie, affaristi e politicanti - avevano potuto trasformare in un uomo potente. In vecchiaia si era messo a scrivere versi di dubbio valore letterario ma di sicuro impatto per le cronache: ««Passano gli anni e il tempo affresca le rughe, / scalfisce i segreti remoti che durano nel cuore…». Untuoso, anzi viscido, ogni parola un soffio di ricatto. «Sono il confessore di questa Repubblica», amava vantarsi ai tempi della sua ascesa. Quando arrivava all'hotel Excelsior in via Veneto, si rinchiudeva nelle sue tre stanze, dalla 127 alla 129, e riceveva. I suoi seguaci. I candidati alla loggia. «Il braccio sinistro appoggiato su una scrivania con molti cassetti. Ogni tanto ne apriva uno e tirava fuori qualche fascicolo ben conservato in copertine di cartoncino rosa. Era il suo archivio. Lo faceva intravedere, ora ammiccante ora minaccioso, ai suoi ospiti costretti a sedersi su una poltrona più bassa, tanto per far notare la differenza. Quasi sempre, dopo ogni visita, le cartelline rosa si arricchivano di altri fogli, nuovi segreti», scrivevano Maurizio De Luca e Pino Buongiorno, due giornalisti che non ci sono più, nell'instant-book a più mani "L'Italia della P2" uscito subito dopo la pubblicazione degli elenchi della loggia nel maggio 1981, a tutt'oggi il libro più bello su Gelli e i suoi cari. Generali, ammiragli, direttori di giornale, ministri, segretari di partito. Piccoli uomini, ridicoli e sinistri. Questa era la loggia massonica P2. Nella lista ritrovata a Castiglion Fibocchi erano 962, sfilarono uno a uno a palazzo San Macuto, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi. Nei diari della parlamentare democristiana ci sono gli appunti di quelle audizioni, dove tutti negavano e insieme confermavano. «Enrico Manca: nel 1980 il 4 aprile entro come ministro del Commercio estero nel governo Cossiga. A fine aprile conosco Gelli a un ricevimento all'ambasciata argentina. Visita di Maurizio Costanzo, che disse di essere massone, e a nome di Gelli mi chiese se ero disponibile a aderire alla massoneria. Quando mi vidi negli elenchi di Gelli telefonai a Costanzo, ma questi mi confermò di aver telefonato a Gelli la non disponibilità...». La carriera di Gelli era cominciata nel biennio 1943-45, nel passaggio di regime, al trapasso del fascismo, con la penisola occupata da eserciti stranieri, l'ideale per cominciare una lunga trafila di doppiogiochista. Il giovane repubblichino resta in forza alle SS ma traffica con i partigiani, è un fascista che trama con gli antifascisti, per lui a guerra finita garantisce il presidente comunista del Cln di Pistoia Italo Carobbi: «Il Gelli Licio di Ettore, pur essendo stato al servizio dei fascisti e dei tedeschi, si è reso utile alla causa dei patrioti». Due righe che valgono un'intera biografia, ricordate dallo storico Luciano Mecacci nel volume-inchiesta sull'assassinio di Giovanni Gentile, intitolato "La ghirlanda fiorentina". Quella pianta intrecciata di fiori secchi, appassiti, putridi che soffoca ogni raggio di luce. La Ghirlanda massonica e piduista cresce negli anni della democrazia, come una radice marcia di un albero rigoglioso, una cellula malata in un corpo sano, nell'oscurità. Gelli entra nella segreteria di un deputato democristiano, diventa dirigente di una nota ditta di materassi, la Permaflex, e in questa veste accoglierà Giulio Andreotti all'inaugurazione dello stabilimento di Frosinone (il Divo lo ricorderà sempre così: «Era uno che vendeva materassi», e via sminuzzando), giura fedeltà alla massoneria, il Grande Oriente. Prospera negli anni Settanta dei misteri e delle stragi, si infila dappertutto: nei partiti, al Quirinale, a Palazzo Chigi, a Montecitorio, tra gli alti gradi delle forze armate, al comando dei servizi segreti. Controlla le scalate bancarie più prodigiose, da quella di Michele Sindona a quella di Roberto Calvi, destinati a morti tragiche e mai chiarite. È un'ombra nelle più grandi tragedie italiane: la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Si allarga al Sud America, nell'Argentina di Peron e dei generali golpisti. Sogna di riscrivere la Costituzione: il piano di rinascita democratica, i partiti da chiudere, la tv privata da diffondere, lo statuto dei lavoratori da stracciare, la separazione delle carriere dei magistrati, «l'obbligo di attuare i turni di festività per sorteggio, per evitare la sindrome estiva che blocca le attività produttive». Cede alla vanità e si fa intervistare dal "Corriere della Sera" di cui alla fine degli anni Settanta ha il pieno controllo. Il verbo gelliano va nella prestigiosa terza pagina del quotidiano di via Solferino domenica 5 ottobre 1980. Titolo in ginocchio: «Parla, per la prima volta, il signor P2 Licio Gelli». Incipit genuflesso: «Capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un'intervista esponendo anche il suo punto di vista...», scrive felice l'intervistatore Maurizio Costanzo, iniziato alla loggia due anni prima. «Una brodaglia disgustosa, con il burattinaio che (tronfio, allusivo, arrogante, ricattatorio) pontifica su tutto e tutti, dispensando ridicole ricette economiche dietro le quali s'intravedono speranze di nuovi affari», scrive Giampaolo Pansa. Silvio Berlusconi giurò da fratello il 26 gennaio 1978 nella sede romana della P2 in via Condotti, con il grado di apprendista, tessera numero 1816. E in quel sodalizio tra il Gran Maestro e il Cavaliere c'era un'intuizione potente: che per attuare il piano di rinascita e conquistare l'Italia non servivano le bombe sui treni ma il Mundialito, il mini-mondiale di calcio in Uruguay strappato alla Rai dalla tv del Biscione grazie alla mediazione di Gelli. Non ci voleva il colpo di Stato, bastava "Colpo grosso". Tra i due personaggi distanti in tutto, uno dedito ai segreti, l'altro all'immagine, c'è in realtà la stessa concezione del mondo. In cui le relazioni valgono più delle regole, le lobby occulte e trasversali contano di più delle appartenenze visibili, la fedeltà alle istituzioni va scavalcata da doppie, triple fedeltà non dichiarate. Gelli se ne va e a leggere le cronache di questi giorni si direbbe che abbia vinto lui. Le vicende bancarie di questi giorni, con la ghirlanda di relazioni intrecciata attorno alla Banca Etruria, fiore all'occhiello di Arezzo, la città del Venerabile. Lo scandalo vaticano di ricatti incrociati e millanterie. Il ritrovato attivismo di Luigi Bisignani, il più giovane tra i nomi comparsi nella lista dei piduisti (lui ha sempre negato, naturalmente: «Non avevo neppure l'età per iscrivermi»). La P3, la P4, numerate con scarsa fantasia, per certificare il marchio di origine, il logo di successo. Quante volte, in questi ultimi anni, in questi ultimi mesi, ci siamo sorpresi ad avvertire in alcune carriere improvvise l'inconfondibile odore della P2, gli stessi metodi, a volte le stesse persone. I burattinai o presunti tali si sono moltiplicati nei palazzi, solo che la posta in gioco è più meschina, non c'è il grande gioco della guerra fredda che serviva a nascondere i piccoli affari. E ancora più avvilenti sono i protagonisti: banchieri di provincia, monsignori allupati, ragazze esibizioniste, faccendieri invecchiati... «Se la loggia P2 è stata politica sommersa, essa è contro tutti noi che sediamo in questo emiciclo. Questo è il sistema democratico che in questi quaranta anni abbiamo voluto e costruito con il nostro quotidiano impegno: non può esservi posto per nicchie nascoste o burattinai di sorta». Con queste parole, il 9 gennaio 1986, Tina Anselmi presentava nell'aula della Camera le conclusioni della commissione parlamentare di inchiesta sulla P2 da lei presieduta. Trent'anni dopo Gelli se ne va. Ma ancora c'è tanto da fare per custodire la Repubblica e le sue istituzioni, la trasparenza della democrazia, dai suoi eredi, i suoi imitatori, i suoi fratelli. I tanti Gelli d'Italia che si aggirano tra di noi.

Quando Licio bocciò Silvio, scrive Gianfrancesco Turano il 16 dicembre 2015 su "L'Espresso". È morto Licio Gelli, 96 anni, fascista vertical che passerà alla storia per avere legittimato in quasi un secolo di vita il sistema del potere oligarchico attraverso l'associazionismo segreto. Che si chiamasse loggia P2 o altrimenti, per l'Aretino non faceva grande differenza purché depotenziasse la democrazia nell'unico modo ammesso dai sistemi politici dell'Occidente: l'oligarchia, appunto. L'unica cosa che Gelli non poteva tollerare, da ex fautore del sistema autocratico, erano le imitazioni. Per questo, cinque anni fa, sconfessò il suo ex iscritto e Nostro Caro Leader Silvio Berlusconi in un'intervista all'Espresso. La malattia e una sua certa vicinanza, puramente territoriale, con elementi del governo in carica hanno forse impedito al Venerabile Maestro di esprimersi compiutamente sulla squadra di Matteo Renzi. In modo alquanto compassato, Gelli ha criticato come goffe le riforme, poco più di un anno fa, e ha usato il termine "bambinone" per il primo ministro senza chiarire chi siano i genitori dell'infante. Il paleocraxiano Rino Formica, felice inventore dell'espressione "sinistra ferroviaria", ha attribuito la paternità del renzismo proprio a Gelli e al suo Piano Rinascita in un'interemerata risalente al marzo 2014. Esagerato? Di certo l'Istituzione, cioè la massoneria, ha continuato fino a oggi ad avere un rapporto contrastato amore-odio verso il "fratello che sbaglia" Licio. La sua influenza reale è però stata continua, costante, a dispetto dei proclamati rinnovamenti di grembiuli e cappucci. La morte di Gelli arriva quasi contemporanea alla dipartita verso l'Oriente Eterno di Armando Cossutta e della Popolare dell'Etruria e del Lazio. Il primo ha rappresentato per anni l'Urss all'interno del Pci. La seconda è la banca aretina appena fallita dopo decenni di gestione del massonissimo Elio Faralli, scomparso a 91 anni nell'aprile 2013. La morte è trasversale. Una specie di massoneria. Il Raguno invernale è intitolato, ovviamente, al Venerabile. Si invitano i partecipanti a vestirsi in modo adeguato. In attesa di comunicare gli indirizzi delle migliori boutique di fashion massonica, vorrei pregare GLU di interrompere i servizi di Discovery Channel che ama accompagnare all'iniziativa. La scelta del luogo è di pertinenza del Venerabile BM, clonato e seviziato dalle suore nel Raguno Gaetano di semifausta memoria. Propenderei per Roma dove si trovano i migliori grembiuli in pelle d'agnello. Se no Abruzzo, dove abbondano i suscuoiati agnelli. PS Mi sono appena accorto che questo è il post numero 333 di RdC. Ça ne s'invente pas.

Gelli: "Sono le mie brutte copie". "Il governo Berlusconi si è abbeverato al mio Piano di Rinascita nazionale. Ma il premier non è in grado di realizzarlo". Parla l'ex capo della Loggia P2, scrive Gianfrancesco Turano il 20 giugno 2010 su “L’Espresso”.

"La democrazia è una brutta malattia, una ruggine che corrode. Guardi quello che accade in Grecia, in Spagna, in Portogallo: anarchia completa". In partenza, Licio Gelli è coerente con il credo di una vita giunta al traguardo dei 91 anni: ordine e disciplina. Eppure no. Il Venerabile della poco disciolta loggia P2 non può godere appieno del successo della sua creatura, quel Piano di Rinascita che per Antonio Di Pietro e molti altri oppositori è la stella polare dell'esecutivo. "È vero", sostiene Gelli: "Gli uomini al governo si sono abbeverati al mio Piano di Rinascita, ma l'hanno preso a pezzetti. Io l'ho concepito perché ci fosse un solo responsabile, dalle forze armate fino a quell'inutile Csm. Invece oggi vedo un'applicazione deformata".

Non è contento dell'esecutivo?

"Ho grandi riserve. Ci sono gli stessi uomini di vent'anni fa e non valgono nulla. Sanno solo insultarsi e non capiscono di economia. Tremonti è un tramonto. Il Parlamento è pieno di massaggiatrici, di attacchini di manifesti e di indagati. Chi è sotto inchiesta deve essere cacciato all'istante, al minimo sospetto". 

Almeno il suo ex iscritto Silvio Berlusconi ha la sua benedizione?

"Io sono un laico. Non do benedizioni ma certamente non condivido ciò che accade per sua volontà. Anche certe questioni private si risolvono in famiglia. Deve essere meno goliardico".

Vede in lui il realizzatore del Piano Rinascita?

"Non è adatto. Inoltre, non ha molti collaboratori di valore".

Pensa che sia vittima della pressione leghista?

"La Lega per me è un pericolo. Sta espropriando la sostanza economica dell'Italia. Le bizzarrie di Umberto Bossi hanno già diviso il Paese. Bisogna dire basta".

Altri segnali di crisi?

"I partiti non esistono più e i leader attuali passano il Rubicone con tre tessere in tasca. Non bisogna riformare solo la giustizia, ma prima di tutto l'economia e la sanità".

Ci tranquillizzi, dottor Gelli. Lei non sta diventando di sinistra?

"Io sono per il buon senso. Sono per il benessere al popolo che oggi patisce, non arriva al 20 del mese. Qui siamo oltre i margini della rivolta. Siamo alla Bastiglia".

Filippo Facci il 17 luglio 2014 su “Libero Quotidiano”: "Aveva ragione Gelli". Se Hitler era vegetariano (che poi non lo era) non è che allora ci strafoghiamo di carne. Del resto Hitler fece la prima campagna antifumo: non è che allora ci ammazziamo di canne. A Stalin piaceva Mozart: non è che allora ascoltiamo tutti Peppino di Capri. Eccetera. Il discorso è demenziale ma serve a dire che persino Licio Gelli poteva aver ragione in alcune cose: non perché fosse un genio visionario, ma perché il suo Piano di Rinascita democratica sosteneva anche dei progetti in parte banali e in parte condivisi da democrazie di tutto il mondo. Ecco perché esorcizzare i tentativi di riforma paragonandoli a quanto scriveva Gelli nel 1976 - vedi Il Fatto di martedì - resta di un livello intellettuale annichilente, minestra riscaldata persino per un pubblico para-grillino. Un Parlamento semplificato, un Senato regionale, un premier eletto dalla Camera, i decreti legge non emendabili, dei limiti all'ostruzionismo, l'abolizione delle province, riduzione dei parlamentari: la verità è che certi propositi piduisti erano di assoluta usualità; oppure, come nel caso dell'Italicum, erano delle oasi di democrazia se paragonati alle liste bloccate che ci vanno cucinando. Altre proposte di Gelli, poi, non sono né banali né moderate: sono dei sogni. Tipo "dissolvere la Rai in nome della libertà di antenna" o ancora la chimera della "responsabilità civile dei magistrati": quella vera, non l'inapplicabile legge Vassalli o il consommè che il ministro Andrea Orlando va preparando.

Licio Gelli al Fatto: “Il bambinone Renzi e gli ex lacchè di Berlusconi”. Il Venerabile della Loggia P2 dice la sua sulle ultime mosse del governo: "Le riforme sono goffe". E sull'Italia di oggi: "Sono felice che vengano a galla le responsabilità della cattiva politica", scrive di Marco Dolcetta il 23 maggio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Di questi tempi sia la schiena che il cuore stanno dando qualche problema a Licio Gelli. Il 96enne Venerabile della Loggia P2, nonostante la voce affaticata, mantiene una certa energia verbale: “Lei deve sapere che sono entrato nei Servizi di intelligence dello Stato italiano dopo un incontro con Mussolini che voleva conoscermi. Io, il volontario ‘Licio Gommina’ della guerra civile di Spagna, nella quale aveva perso la vita mio fratello. Il Duce mi chiese quale poteva essere la ricompensa che lo Stato italiano poteva dare alla mia famiglia. In quella occasione, gli dissi che senz’altro mi sarebbe interessato conoscere il mondo dei Servizi segreti… Da allora non ne sono più uscito”.

Ma che ne pensa dell’attualità italiana e di Renzi?

Renzi è un bambinone, visto il suo comportamento che è pieno di parole e molto ridotto nei fatti: non è destinato a durare a lungo… Comunque, non è mai stato (né lui né i suoi familiari) nella massoneria. Vedo che nel suo governo ci sono molte giovani donne che io personalmente vedrei molto meglio a occuparsi d’altro…”.

E le riforme del premier?

Quelle di Renzi, per la legge elettorale e il Senato, sono goffe. Per quanto riguarda Palazzo Madama, mi fa piacere pensare che, nonostante tutti mi abbiano vituperato, sotto sotto mi considerano un lungimirante propositore di leggi; una quarantina di anni fa, con Rodolfo Pacciardi, scrivemmo, su invito dell’allora presidente Giovanni Leone, il cosiddetto Piano R., di Rinascita nazionale. Prevedeva una serie di norme e riforme che avrebbero potuto creare i fondamenti per uno Stato più efficace. Leone fu eletto presidente della Repubblica grazie ai voti della massoneria: lui mi ringraziò e poi mi chiese questo contributo. Così gli facemmo avere il testo del Piano R., cui lui non diede mai alcun riscontro e, anzi, da allora evitò di incontrarmi… Riguardo al Piano di Rinascita democratica, sfogliando le pagine di quel testo, si ritrova – nella parte riguardante le riforme istituzionali – una quasi totale abolizione del Senato. Riducendone drasticamente il numero dei membri, aumentando la quota di quelli scelti dal presidente della Repubblica e attribuendo al Senato una competenza limitata alle sole materie di natura economica e finanziaria, con l’esclusione di ogni altro atto di natura politica. L’intento era ed è ancora oggi chiaro. Dare un taglio effettivo a un ramo del Parlamento che, storicamente, ha maggiore saggezza e cultura non solo politica, a favore di una maggiore velocità nel fare leggi e riforme. Ricordo di averne parlato in seguito, quando veniva a trovarmi ad Arezzo, anche con la mia amica Camilla Cederna”.

In tema di amici, che ne pensa della carriera letteraria di Luigi Bisignani?

Più che mio amico, Luigi è mio figlioccio. Quando era ancora giovane, dopo la scomparsa di suo padre, sia io che Gaetano Stammati ci prendemmo cura di lui. Avevo e ho sempre avuto una grande stima di Luigi. Tanto che, quando nacque il progetto dell’Organizzazione Mondiale del Pensiero e dell’Assistenza Massonica, a Roma, il 1 gennaio 1975, decidemmo di affidargli l’incarico di addetto stampa, perché eravamo certi di poter fare pieno assegnamento sulla sua preziosa collaborazione…”.

Lei con la Svizzera ha un rapporto particolare, conosce bene le galere ma anche le banche di quel Paese…

Sì, soprattutto quando mi sono stati sottratti dai giudici milanesi diversi milioni di franchi che risultavano il frutto lecito di mia mediazione internazionale e che furono destinati a risarcire piccoli azionisti del Banco Ambrosiano dopo le note vicende che mi videro ingiustamente coinvolto. Ma nonostante tutto, ho accettato questo risarcimento forzato. La cosa più sorprendente, però, è che quei soldi non sono stati mai destinati a piccoli azionisti, tanto che da tempo io, assieme al loro legale, l’avvocato Gianfranco Lenzini di Milano, ho presentato richiesta di chiarimenti in tutte le sedi, ma senza alcun risultato”.

Come spiega il caso Renzi, la sua veloce ascesa, e cosa prevede per il futuro?

Beh, Renzi è un fenomeno parzialmente italiano, e mi risulta che fra i suoi mentori politici ci siano persone che vivono a Washington. È circondato, però, da mezze tacche: gli ex lacchè di Berlusconi. Fini, che ho conosciuto bene, quando faceva l’attendente ossequioso di Giorgio Almirante cui prestavo denari per il Msi. Soldi sempre resi… quello sì che era uomo di parola. E poi Schifani, Alfano: personaggi non certo di livello. Berlusconi ha sbagliato con le giovani donne, ma soprattutto circondandosi di personaggi di bassa levatura… Penso a Verdini, un mediocre uomo di finanza; è un massone… credo, ma non della nostra squadra. Il più alto livello di maturità politica in Italia c’è stato con Cossiga e Andreotti che avevano entrambi dei sistemi di controllo politico, uno con ‘Gladio’ e l’altro con Anello, cosa che Berlusconi non è mai riuscito a ripetere. E si sono visti i risultati di questa sua incapacità…”.

Per concludere, che ne pensa dell’Italia, e del suo futuro?

Non le nascondo che vedo, con una certa soddisfazione, il popolo soffrire. Non mi fraintenda: non sono felice di questa situazione. Sono felice, invece, che vengano sempre più a galla le responsabilità della cattiva politica. Perché, probabilmente, solo un tributo di sangue potrà dare una svolta, diciamo pure rivoluzionaria, a questa povera Italia”. Da Il Fatto Quotidiano del 23 maggio 2014

Licio Gelli (nato a Pistoia il 21 aprile 1919), è stato Gran Maestro massone della potente loggia massonica italiana P2, ed ha continuato in questo ruolo anche dopo l'espulsione della P2 dalla Massoneria ufficiale, avvenuta nel 1976, scrive “Misteri nel Mondo”. Gelli è stato anche membro dei Cavalieri di Malta. È stato detenuto in Svizzera e in Francia ed in Toscana. Durante il Fascismo, Gelli partì volontario con la spedizione delle Camicie Nere, mandate in Spagna da Mussolini in aiuto di Francisco Franco, e conseguentemente divenne un ufficiale di collegamento fra il governo fascista e il Terzo Reich, con contatti fra i suoi gerarchi fra cui Hermann Göring. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, si ipotizza che Gelli si sia arruolato nella CIA, su raccomandazione dei servizi segreti italiani (ma questa ipotesi non è stata verificata). Gelli è stato accusato di aver avuto un ruolo preminente nell'Operazione Gladio, un'organizzazione clandestina che si rifaceva all'operazione "Stay-Behind", promossa dalla CIA e dalla NATO per contrastare l'influenza comunista in Italia, così come negli altri paesi europei. In ogni caso, l'affaire Gladio è stato affrontato (anche giudizialmente) senza collegamenti diretti alla questione P2. Gelli ha ripetutamente dichiarato in pubblico di essere stato uno stretto amico del leader argentino Juan Domingo Perón (ma nessuna conferma è mai venuta dal Sud-America), escludendo la famosa foto alla Casa Rosada nella quale appare con Giulio Andreotti e spesso ha affermato, in maniera strana, che tale amicizia è stata veramente importante per l'Italia, senza però aver mai spiegato perché. È molto probabile che la Loggia P2, che si è delineata come un vero e proprio servizio segreto atlantico, fosse stata trasformata anche in una sede di raccordo e di incontro tra tutte le strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia. Nelle liste della P2, rinvenute il 17 marzo 1981 nella villa di Gelli di Castiglion Fibocchi, risultavano iscritti numerosi nomi di dirigenti dei servizi segreti:Miceli, Maletti, La Bruna, D'Amato, Fanelli, Viezzer. Vi risultavano anche Giuseppe Santovito, Grassini e Walter Pelosi, capo del CESIS dal maggio 1978. C'erano i nomi di numerosi altri dirigenti, tra cui Musumeci, capo della segreteria di Santovito, Sergio Di Donato e Salacone, dell'ufficio amministrativo… Nelle liste della P2 c'era anche una nutrita schiera di funzionari del SISDE. Per molti iscritti la data di iniziazione era immediatamente precedente o successiva al passaggio nei servizi segreti. Nel 1962-64 il generale De Lorenzo e il SIFAR predisposero principalmente un'attività di schedatura dei cittadini e di preparazione di un possibile colpo di Stato. Negli anni settanta i dirigenti del SID (mutamento del nome del servizio segreto da SIFAR a SID, dopo lo scandalo del "piano Solo") esplicarono soprattutto azioni per proteggere eversori di destra e sospetti autori di stragi. Gli ufficiali del SISMI, che ne costituirono le strutture occulte, nel 1978-81 spaziarono dalla trattativa trilaterale con Br e camorra per la liberazione di Cirillo, al depistaggio dei giudici impegnati nelle indagini sulla strage del 2 agosto alla stazione di Bologna, dalla operazione "Billygate" al peculato, dalle macchinazioni nei confronti dei collaboratori del capo dello Stato alla diffusione di notizie calunniose attraverso la stampa, da loro stessi finanziata. A somiglianza della P2, della quale per altro la struttura era una articolazione, il SUPERSISMI svolgeva un amplissimo ventaglio di attività, tutte direttamente o indirettamente finalizzate a intervenire nella sfera politica, il che era, con tutta evidenza, incompatibile con le finalità d'istituto. Quando Gelli nel marzo del 1965 s'iscrisse alla massoneria nella loggia del Grande Oriente "Romagnosi" di Roma, aveva già delle buone credenziali come fascista della repubblica di Salò. Contava sull'amicizia con Giulio Andreotti e referenze con gli ambienti del Vaticano, una lista di cinquanta nuovi iscritti molto qualificati. Aveva legami con molti ufficiali dei servizi segreti, in particolare col generale Giovanni De Lorenzo e con il colonnello dell'Arma dei Carabinieri Giovanni Allavena, reduci dalle trame del "piano Solo", (che sarebbe scattato se il governo di centrosinistra avesse adottato un programma autenticamente progressista), e dallo scandalo delle schedature del SIFAR, il nostro servizio segreto che in pochi anni aveva raccolto 157 mila dossier, per usarli come arma di ricatto su politici, militari, giornalisti, preti, privati cittadini, uomini di cultura. Questi dossier passarono molto probabilmente nelle mani di Gelli, che ne fece uno degli strumenti del suo stesso potere. Allo stesso De Lorenzo, capo del Sifar, venne dato il compito di organizzare l'esercito clandestino di Gladio. Nel 1962, quando Antonio Segni salì al Quirinale, De Lorenzo era impegnato con gli uomini della CIA di Roma a creare "squadre d'azione per compiere attentati contro le sedi della Democrazia cristiana e di alcuni quotidiani del Nord, da attribuirsi alle sinistre; sono necessari altresì gruppi di pressione che chiedano, a fronte degli attentati, misure di emergenza al governo e al capo dello Stato." (Il brano è tratto da un memorandum dei servizi segreti americani ratificato da De Lorenzo). La carriera di Gelli in Massoneria fu velocissima. Nel dicembre del 1966, poco più di un anno dopo la sua iscrizione alla massoneria, venne nominato capo della loggia HOD, nota come P2, la più importante e misteriosa di tutto il Grande Oriente. La Commissione parlamentare d'inchiesta ha sottolineato che il ruolo di Gelli crebbe di pari passo col defilarsi di Frank Gigliotti ormai anziano. Gigliotti, uomo della CIA, era un feroce anticomunista, amico di molti mafiosi siciliani, ex agente della OSS, la rete di spionaggio degli Stati Uniti in Italia durante la guerra. Dalle logge massoniche americane gli era stato affidato il compito di rimettere insieme quello che rimaneva della massoneria conservatrice di piazza del Gesù, con il Grande Oriente di palazzo Giustiniani. Gigliotti rimise in circolo logge come la "Alam" del principe Giovanni Alliata di Montereale, protagonista di almeno un paio di mancati golpe e amico di boss mafiosi e finanzieri alla Michele Sindona. Gelli stesso rivendicherà sempre con orgoglio i legami con la destra americana più reazionaria. I legami tra la CIA e la P2 sono stati confermati in un'intervista al TG1 nel 1990, dalle rivelazioni di Richard Brenneke e Razin, ex agenti della CIA, sui finanziamenti dei servizi segreti americani alla P2. Presero, quindi, l'avvio le inchieste che portarono a scoprire il ruolo della CCI, la "Kriminal Bank", usata dalla CIA e dai trafficanti internazionali di valuta e di armi.I due agenti parlarono anche di qualcosa molto simile a Gladio. Razin era stato addirittura supervisore della Gladio europea. Questa intervista scatenerà una delle prime esternazioni del presidente Cossiga e porterà alla rimozione del direttore del telegiornale, Nuccio Fava, e alla esautorazione del giornalista Ennio Remondino, autore dell'inchiesta. Per Cossiga, allora capo dello Stato, era inammissibile che i servizi di sicurezza di un paese amico venissero attaccati in quel modo. Bisognava prendere provvedimenti contro dirigenti e funzionari Rai. Con altrettanta foga reagì qualche mese dopo, dando del "giudice ragazzino" a Casson che voleva interrogarlo su Gladio.  Nella sua testimonianza resa ai giudici di Bologna, che indagavano sul coinvolgimento del capo della P2 nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, Tommaso Masci, primo portiere nella seconda metà degli anni 70 dell'albergo romano Excelsior, di cui Gelli era in quel periodo cliente fisso, tracciava una descrizione efficace del formicolio dei potenti intorno a Licio Gelli. Tra i visitatori di Gelli c'erano politici, militari, giornalisti, alti funzionari dello Stato, banchieri. Tra coloro che lo frequentavano, c'erano Andreotti, Cossiga, Craxi, Fanfani, solo per fare i nomi più noti. Tra i visitatori c'era anche il bombarolo Paolo Aleandri, il terrorista di destra a cui Gelli aveva affidato il compito di mantenere i contatti con Filippo de Jorio, consigliere politico dell'onorevole Andreotti, che era latitante per il golpe Borghese del 1970. Lo stesso Aleandri incontrò nella stanza di Gelli il generale Vito Miceli, capo del SID, cioè l'uomo che avrebbe dovuto arrestarlo. Verso la fine del 1979 Alfredo De Felice, della cerchia dei neofascisti, assistette ad un incontro tra Gelli e il ministro del Commercio Estero Gaetano Stammati, che doveva sottoporre a Gelli le bozze di un decreto economico del Governo. Il deputato democristiano si iscrisse alla loggia P2 nel 1977 e, poco dopo, diventò ministro del Commercio estero del governo Andreotti. Dopo le elezioni del giugno 1979, l'incarico di formare il nuovo governo fu dato a Cossiga, che affidò il ministero del Commercio Estero a Stammati, quando, precedentemente, lo aveva promesso al liberale Altissimo. Alle inferocite rimostranze dei liberali, Cossiga rispose: "Non ne ho potuto fare a meno; ho ricevuto tante pressioni…". Nello stesso tempo Gelli, nella sua stanza all'Excelsior, si vantava con gli amici di avere imposto Stammati. L'attività della P2 negli anni '70 era frenetica. C'era la pratica costante della raccomandazione e c'erano gli affari, e gli affari intrecciati col potere che lo alimentavano. Degli affari citiamo i più noti: l' Eni-Petronim, il banco Ambrosiano, il crak della Banca Privata di Sindona, la scalata al "Corriere della Sera", tutti collegati a scandali e cadaveri come quello di Calvi, penzolante sotto un ponte di Londra o quello di Ambrosoli, liquidatore della banca Privata di Michele Sindona. A volte gli uomini della P2 si servirono delle organizzazioni criminali: mafia, camorra, 'ndrangheta. Collegamenti accertati dalle inchieste giudiziarie sul finto rapimento di Sindona, sul caso Cirillo, sulla strage del rapido 904, sull'omicidio di Roberto Calvi. I nomi degli iscritti alla P2 ritornano con ossessiva puntualità in tutte le indagini sui misteri d'Italia: la strage sul treno Italicus, il caso Moro, la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, il delitto Mattarella, il traffico di armi e droga, solo per citarne alcuni. Il treno "Italicus", linea ferroviaria Firenze-Bologna, il 4 agosto 1974 verso sera tardi, venne squassato dalla forte esplosione di una bomba ad altissimo potenziale:12 persone morte e 105 feriti. Apparve certo, fin da subito, che la strage era opera del neonazismo. Le indagini si diressero sul gruppo di neofascisti di Arezzo e precisamente su Franci, Malentacci e Tuti, che avevano legami anche con la P2. I tre sono rinviati a giudizio e poi assolti. Il giudice istruttore di Bologna Angelo Vella, affiliato alla massoneria locale, non coinvolge nessun piduista. Il neofascismo terrorista era coinvolto nella grande operazione presidenzialista, che rappresentava e rappresenterà lo scopo principale a cui tende, trasversalmente a tutti i partiti, la politica italiana. Luciano Violante, partendo dal golpe presidenzialista, era arrivato ai gruppi terroristici di estrema destra. "Sussistono prove - scrive - di una corrispondenza tra Edgardo Sogno e l'avvocato Antonio Fante di Padova…Che dagli elementi in atti appare che tale corrispondenza abbia ad oggetto la costituzione di una organizzazione intesa a raggruppare tutti i gruppi di estrema destra, tra i quali anche Ordine Nuovo, in epoca successiva al decreto di scioglimento di questo gruppo." Spiega, inoltre, nella sua requisitoria contro Sogno e Cavallo, Violante: "..Va considerato che l'allertamento disposto venne a conoscenza di quei settori militari che molteplici fonti di prova indicano come interessati all'iniziativa eversiva, disincentivando per il momento la realizzazione del piano…" I giudici milanesi Turone e Colombo arrivarono alla scoperta degli archivi di Gelli indagando sul finto rapimento e il soggiorno in Sicilia del bancarottiere Michele Sindona. I giudici milanesi, come quelli di Palmi, che indagavano sulle nuove logge coperte, scoprirono che attraverso la P2 passavano molti dei misteri e degli scandali italiani di quegli anni, e furono costretti a suddividere in capitoli il materiale raccolto:

· la P2 e lo scandalo Eni;

· la P2 e il Banco Ambrosiano;

· la P2 e lo scandalo dei petroli;

· la P2 e la magistratura;

· la P2 e la Rizzoli;

· la P2 e i segreti di Stato;

· la P2 e i finanziamenti all'eversione nera;

· la P2 e le stragi;

· la P2 e il sequestro Moro;

· la P2 e il caso Pecorelli.

Un altro gigantesco capitolo fu aperto dall'inchiesta del giudice Carlo Palermo sul traffico di armi, che coinvolgeva molti piduisti e da cui trasparivano forti legami con la criminalità organizzata e col traffico di droga…………. Un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria.  Prima che i giudici di Palmi riaprissero il capitolo oscuro dei rapporti tra massoneria, traffici di armi, affari sporchi e criminalità, altre logge coperte erano finite in inchieste della magistratura. A Palermo il giudice Falcone, prima di essere costretto a trasferirsi a Roma, si era a lungo occupato di massoneria. Aveva scoperto la loggia di via Roma 391, dove politici locali e funzionari pubblici venivano iniziati, insieme a mafiosi del calibro di Michele Greco e Giovanni Cascio, del quale molti anni dopo verrà intercettata una telefonata in cui si parlava in termini amichevoli di Gelli. Gran maestro della loggia di via Roma era Pietro Calacione, direttore sanitario dell'ospedale Civico di Palermo e il Civico, forse non per una semplice coincidenza, era uno dei feudi elettorali dell'onorevole Salvo Lima.

Falcone si era occupato di un'altra inchiesta sull'intreccio tra mafia e massoneria e le indagini dei carabinieri si erano svolte in tre direttrici: logge massoniche, rilevamento di società sull'orlo del fallimento, contatti con i politici. Le indagini erano arrivate fino a Roma e a Milano. Pino Mandalari, capo di alcune logge, poi condannato a due anni di carcere per riciclaggio di denaro sporco, in una telefonata intercettata, si vantava di potere arrivare fino alla segreteria di Bettino Craxi; in altre telefonate si parlava del generale Cappuzzo, siciliano già iscritto alla P2, di Salvo Lima, di alcuni sottosegretari di governo.

Inesplorata resta la questione delle coperture assicurate a Gelli dai politici, a cominciare da Andreotti, suo grande amico, poi da Cossiga, da Fanfani, da Craxi, da Forlani e da molti altri. Fu scoperto che dietro la sigla del circolo Scontrino di Trapani si celavano ben sei logge massoniche e una superloggia coperta( loggia C), con iscritti deputati regionali, alti funzionari e mafiosi. La loggia C saltò fuori anche nelle indagini del giudice Augusto Lama di Massa Carrara, sui traffici di armi di Aldo Anghessa, un collaboratore dei servizi segreti italiani. Questa storia intricata vede coinvolti anche dei neofascisti che, secondo una sentenza della magistratura, avrebbero ricevuto tra l'altro finanziamenti da Licio Gelli. E' un intreccio solido quello che traspare dalle inchieste giudiziarie su mafia e massoneria delle logge coperte. Uno studio attento della struttura massonica più conosciuta, la P2, fa rilevare che la regione più rappresentativa tra gli iscritti alla loggia di Gelli è proprio la Sicilia, che non è, storicamente, una terra di grandi tradizioni massoniche. La P2,quindi, risultò coinvolta in molte inchieste giudiziarie sulle stragi e su alcuni omicidi politici
Non è un caso che a Castiglion Fibocchi, alla villa di Gelli, perquisita dai carabinieri per ordine dei magistrati milanesi Gherardo Colombo e Giuliano Turone, il 17 marzo 1981, i giudici milanesi siano arrivati, indagando sul misterioso soggiorno in Sicilia di Michele Sindona, il bancarottiere di Patti, iscritto alla P2 e legato a filo doppio ad Andreotti. Nel corso del suo finto sequestro, Sindona si era avvalso dell'appoggio, tanto della massoneria quanto della mafia. Proprio durante il suo soggiorno in Sicilia, nell'estate del 1980, si aprì, con gli omicidi del commissario Boris Giuliano e del giudice Cesare Terranova, la stagione dei cosiddetti delitti "eccellenti". E' solo un caso che nella stessa estate ci sia la strage alla stazione di Bologna? Il 20 maggio 1981, il governo messo alle strette dallo scandalo, comunicò al Parlamento la lista dei presunti aderenti alla loggia segreta P2 di Licio Gelli, alla quale risultavano affiliati, tre ministri, un segretario di partito, i vertici dei servizi segreti, militari, imprenditori, parlamentari, banchieri, giornalisti. Ogni nome era preceduto da un numero di fascicolo e da un numero di gruppo; seguiva un "codice", al quale talvolta seguiva il numero della tessera e un appunto relativo alle quote sociali. Nella lista c'erano: 52 alti ufficiali dei Carabinieri, 50 dell'esercito, 37 della Guardia della Finanza, 29 della Marina, 11 Questori, 5 Prefetti, 70 imprenditori, (uno era un famoso costruttore di Milano, figlio di un dipendente della Banca Rasini, pluriinquisito e pluriindagato), 10 presidenti di banca, 3 ministri in carica, 2 ex ministri, il segretario di un partito di governo, 38 deputati,14 magistrati, sindaci, primari ospedalieri, notai e avvocati. Gli elenchi della loggia segreta P2 del Venerabile Maestro Gelli, come si può notare, erano impressionanti: politici, imprenditori, giornalisti, alti gradi delle forze armate, tutori dell'ordine pubblico, funzionari dello stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati. E ancora,119 piduisti già insediati ai vertici delle maggiori banche, nel ministero del tesoro, e in quello delle finanze. Gente che spesso aveva giurato fedeltà e obbedienza tanto alla Costituzione Italiana quanto alla massoneria. Secondo la commissione parlamentare d'inchiesta, l'elenco completo degli iscritti alla P2 era all'incirca di 2500 nomi; ne mancano 1650. Solo la magistratura ha avuto il coraggio di punire gli appartenenti alla P2. L'assoluzione più sconcertante è stata quella dei militari, voluta dal ministro della Difesa Lagorio, socialista e iscritto alla massoneria. Tra i 962 iscritti c'è anche il "nostro" presidente del consiglio del 2001, l'on. Cav. Silvio Berlusconi. Silvio Berlusconi risulta iscritto alla loggia P2, con la tessera numero 1816, codice e.19.78, gruppo 17, fascicolo 0625, il 26 Gennaio del 1978. Lo stesso giorno in cui si era iscritto Maurizio Costanzo, numero di tessera 1819. Dagli atti della Commissione parlamentare, ed in particolare dagli elenchi degli affiliati, sequestrati in Castiglion Fibocchi, figura il nominativo del Berlusconi (numero di riferimento 625) e l'annotazione del versamento di lire 100.000, eseguito in contanti in data 5 maggio 1978, versamento la cui esistenza risultava comprovata anche da un dattiloscritto proveniente dalla macchina da scrivere di proprietà di Gelli. Alla Magistratura di Venezia Berlusconi, sotto giuramento, nega di aver versato personalmente soldi per la sua iscrizione, contro tutte le prove portate a suo carico, e per questo viene condannato come "spergiurio", in via definitiva, dal Tribunale veneziano. Berlusconi sarà comunque amnistiato, e così potrà diventare Presidente del Consiglio nel 1994 e nel 2001. Postato da: LicioGelliFC a dicembre 15, 2005 15:20 "INTERVISTA" a La Repubblica "Avevo già scritto tutto trent'anni fa" "Guardo il Paese, leggo i giornali e dico: avevo già scritto tutto trent'anni fa" "Giustizia, tv, ordine pubblico è finita proprio come dicevo io". Son soddisfazioni, arrivare indenni a quell'età e godersi il copyright. "Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo a pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa". Tutto nel piano di Rinascita, che preveggenza. Tutto in quelle carte sequestrate qui a villa Wanda ventidue anni fa: 962 affiliati alla Loggia. C'erano militari, magistrati, politici, imprenditori, giornalisti. C'era l'attuale presidente del Consiglio, il suo nuovo braccio destro al partito Cicchitto: allora erano socialisti. Chi ha condiviso quel progetto è oggi alla guida del paese. "Se le radici sono buone la pianta germoglia. Ma questo è un fatto che non ha più niente a che vedere con me". Niente, certo. Difatti quando parla di Berlusconi e di Cicchitto, di Fini di Costanzo e di Cossiga lo fa con la benevolenza lieve che si riserva ai ricordi di una stagione propizia. Sempre con una frase, però, con una parola che li fissa senza errore ad un'origine precisa della storia.

Quel che rende Licio Gelli ancora spaventosamente potente è la memoria. Lo si capisce dopo la prima mezz'ora di conversazione, atterrisce dopo due. Il Venerabile maestro della Loggia Propaganda 2 è in grado di ricordare l'indirizzo completo di numero civico della prima casa romana di Giorgio Almirante, l'abito che indossava la sua prima moglie quel giorno che gli fece visita a Natale, i nomi dei tre figli di Attilio Piccioni e da lì ricostruire nel dettaglio il caso Montesi che vide coinvolto uno dei tre, ricorda il numero di conto corrente su cui fece quel certo bonifico un giorno di sessant'anni fa, la targa della camionetta di quando era ufficiale di collegamento col comando nazista, quante volte esattamente ha incontrato Silvio Berlusconi e in che anni in che mesi in che giorni, come si chiamava il segretario di Giovanni Leone a cui consegnò la cartella coi 58 punti del piano R, che macchina guidava, se a Roma c'era il sole quella mattina e chi incontrò prima di arrivare a destinazione, che cosa gli disse, cosa quello rispose. Questo di ogni giorno dei suoi 84 anni di vita, attualmente archiviata in 33 faldoni al primo piano di villa Wanda, dietro a una porta invisibile a scomparsa.

"Ogni sera, sempre, ho scritto un appunto del giorno. Per il momento per fortuna non mi servono, perché ricordo tutto. Però sono tranquillo, gli appunti sono lì". Il potere della memoria, ecco. Il resto è coreografia: il parco della villa che sembra il giardino di Bomarzo, con le statue le fontane i mostri, la villa in fondo a un sentiero di ghiaia dietro a un convento, le stanze con le pareti foderate di seta, i soffitti bassi di legno scuro, elefanti di porcellana che reggono i telefoni rossi, divani di cuoio da due da tre da sette posti, di velluto blu, di raso rosa, a elle e a emiciclo, icone russe, madonne italiane, guerrieri d'argento, pupi, porcellane danesi, un vittoriano buio con le imposte chiuse al sole di settembre, scale, studi, studioli, sale d'attesa coi vassoi d'argento pieni di caramelle al limone. Ma lei vive qui da solo?. "Sì certo solo". E questi rumori, le ombre dietro le porte di vetro colorato? "La servitù".

Commendatore, gli sussurra una segretaria pallida porgendogli un biglietto: una visita. "Mi scusi, mi consente di assentarmi un attimo?

E' un vecchio amico". Gelli è in piena attività. Riceve in tre uffici: a Pistoia, a Montecatini, a Roma. Oltre che in villa, naturalmente, ma fino ad Arezzo si spingono gli intimi. Dedica ad ogni città un giorno della settimana. A Pistoia il venerdì, di solito. A Roma viene il mercoledì, e scende ancora all'Excelsior. Le liste d'attesa per incontrarlo sono di circa dodici giorni, ma dipende. Per alcuni il rito è abbreviato. Al telefono coi suoi segretari si è pregati di chiamarlo "lo zio": "La regola numero uno è non fare mai nomi ? insiste l'ultimo di una serie di intermediari ? Lei non dica niente, né chi la manda né perché. La richiameranno. Quando poi lo incontra vedrà: è una persona squisita. Solo: non gli parli di politica". Di poesia, vorrebbe si parlasse: perché Licio Gelli da quando ha ufficialmente smesso di lavorare alla trasformazione dell'Italia in un Paese "ordinato secondo i criteri del merito e della gerarchia", come lui dice, "per l'esclusivo bene del popolo" ha preso a scrivere libri di poesia, ovviamente premiati di norma con coppe e medaglie, gli "amici" nel '96 lo hanno anche candidato al Nobel. "Vorrei scivolare dolcemente nell'oblio. Vedo che il mio nome compare anche nelle parole crociate, e ne soffro. Vorrei che di me come Venerabile maestro non si parlasse più. Siamo stati sottoposti a un massacro. Pensi a Carmelo Spagnolo, procuratore generale di Roma, pensi a Stammati che tentò di uccidersi. E' stata una gogna in confronto alla quale le conseguenze di Mani Pulite sono una sciocchezza. In fondo Mani pulite è stata solo una faccenda di corna. Lei crede che la corruzione sia scomparsa? Non vede che è ovunque, peggio di prima? Prima si prendeva facciamo il 3 per cento, ora il 10. Io non ho mai fatto niente di illegale né di illecito. Sono stato assolto da tutto. Le mie mani, eccole, sono nette di oro e di sangue". Assolto da tutto non è vero, dev'essere per questo che lo ripete tre volte e s'indurisce. Indossa un abito principe di Galles, cravatta di seta, catena d'oro al taschino, occhiali con montatura leggerissima, all'anulare la fede e un grosso anello con stemma. Questo avrebbe detto dunque a Montecatini, a quel convegno a cui l'hanno invitata e poi non è andato? Dicono che Andreotti l'abbia chiamata per dissuaderla. "E' una sciocchezza. Andreotti non è uomo da fare un gesto simile. Si vede che lei non lo conosce". Senz'altro lei lo conosce meglio. "Se Andreotti fosse un'azione avrebbe sul mercato mondiale centinaia di compratori. E' un uomo di grandissimo valore politico". Come molti della sua generazione. "Molti, non tutti. Cossiga certamente. Non Forlani, non aveva spina dorsale. Naturalmente Almirante, eravamo molto amici, siamo stati nella Repubblica sociale insieme. L'ho finanziato due volte: la seconda per Fini. Prometteva molto, Fini. Da un paio d'anni si è come appannato". Forse un po' schiacciato dalla personalità di Berlusconi. "Può darsi. Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Ricordo bene che già allora, ai tempi dei nostri primi incontri, aveva questa caratteristica: sapeva realizzare i suoi progetti. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni". Vi sentite ancora? "Che domanda impertinente. Piuttosto. L'editore Dino, lo conosce?, ha appena ripubblicato il mio primo libro: Fuoco! E' stata la mia opera più sofferta, anche perché ha coinciso con la morte di mio fratello nella nostra guerra di Spagna. E' un edizione pregiata a tiratura limitata, porta in copertina il mio bassorilievo in argento. Ci sono due altri solo autori in questo catalogo: il Santo padre, e Silvio Berlusconi". Anche Berlusconi col bassorilievo d'argento? "Certo, guardi". Il titolo dell'opera è "Cultura e valori di una società globalizzata". Pensa che Berlusconi abbia saputo scegliere con accortezza i suoi collaboratori? "Credo che in questa ultima fase si senta assediato. E' circondato da persone che pensano al "dopo". Non si fida, e fa bene. E' stato giusto bonificare il partito, affidarlo a un uomo come Cicchitto. Cicchitto lo conosco bene: è bravo, preparato". Il coordinatore sarebbe Bondi in realtà. "Sì, d'accordo. Credo che anche Bondi sia preparato. E' uno che viene dalla disciplina di partito". Comunista. "Non importa. Quello che conta è la disciplina e il rispetto della gerarchia". Ha visto il progetto di riordino del sistema televisivo? "Sì, buono". E la riforma della giustizia? "Ho sentito che quel Cordova ha detto: ma questo è il piano di Gelli. E dunque?

L'avevo messo per scritto trent'anni fa cosa fosse necessario fare. Leone mi chiese un parere, gli mandai uno schema in 58 punti per il tramite del suo segretario Valentino. Pensa che chi voglia assaltare il comando consegni il piano al generale nemico, o al ministro dell'Interno? Ma comunque non è di questo che vogliamo parlare, no? Vuole anche lei avere i materiali per scrivere una mia biografia? Arriva tardi: ho già completato il lavoro con uno scrittore di gran fama". Su una poltrona è appoggiato l'ultimo libro di Roberto Gervaso. La scrive con Gervaso? "Ma no, ci vuole una persona estranea ai fatti. Se vuole le mostro lo scaffale con le opere che mi riguardano, le ho catalogate: sono 344". Certo: il burattinaio è un soggetto affascinante. "Andò così: venne Costanzo a intervistarmi per il Corriere della sera. Dopo due ore di conversazione mi chiese: lei cosa voleva fare da piccolo. E io: il burattinaio. Meglio fare il burattinaio che il burattino, non le pare?". Sembra che ce ne siano diversi di burattinai in giro ultimamente. "Il burattinaio è sempre uno, non ce ne possono essere diversi". E adesso chi è? "Adesso?

Questa è una classe politica molto modesta, mediocre. Sono tutti ricattabili". Tutti? Mettiamo: Bossi. "Bossi si è creato la sua fortezza con la Padania, ha portato 80 parlamentari è stato bravo. Ma aveva molti debiti... Per risollevare il Paese servono soldi, non proclami.

Ho sentito che Berlusconi ha invitato gli americani a investire in Italia: ha fatto bene, se qualcuno abbocca?

Ma la situazione è molto seria. L'economia va malissimo, l'Europa è stata una sventura. Non abolire le barriere, bisognava: moltiplicarle. Fare la spesa è diventato un problema, il popolo è scontento. Serve un progetto preciso". Per la Rinascita del Paese. "Certo". C'è il suo: certo forse i 900 affiliati alla P2 erano pochi. "Ma cosa dice, novecento persone sono anche troppe. Ne bastano molte meno". Allora quelle che ci sono ancora bastano, tolti i pentiti. "Nessuno si è pentito. Pentiti? A chi si riferisce? Costanzo, forse. L'unico. Con tutto quello che ho fatto per lui. Guardi: io non devo niente a nessuno ma tutti quelli che ho incontrato devono qualcosa a me. Ci sono dei ribelli a cui ho salvato la vita, ancora oggi quando mi incontrano mi abbracciano". Ribelli? "Sì, i ribelli che stavano sulle montagne, in tempo di guerra. Io ero ufficiale di collegamento fra il comando tedesco e quello italiano. Ne ho salvati tanti". Intende partigiani. "Li chiami come crede. Eravamo su fronti opposti, ma quando sei di fronte ad un amico non c'è divisa che conti. L'amicizia, la fedeltà ad un amico viene prima di ogni cosa". L'amicizia, sì. La rete. Cossiga l'ha citata giorni fa, in un'intervista. Ha detto: chiedete a Gelli cosa pensava di Moro. "Da Moro andai a portare le credenziali quando ero console per un paese sudamericano. Mi disse: lei viene in nome di una dittatura, l'Italia è una democrazia. Mi spiegò che la democrazia è come un piatto di fagioli: per cucinarli bisogna avere molta pazienza, disse, e io gli risposi stia attento che i suoi fagioli non restino senz'acqua, ministro'". Anche in questo caso tragicamente profetico, per così dire. Lei cosa avrebbe fatto, potendo, per salvare Moro? "Non avrei fatto niente. Era stato fascista in gioventù, come Fanfani del resto, ma poi era diventato troppo diverso da noi. Lei ha visto il film sul delitto Moro?" Quello di Bellocchio? "No, l'altro. Quello tratto dal libro di Flamigni. Ma le pare che si possa immaginare un agente dei servizi segreti che con un impermeabile bianco va a controllare sulla scena del delitto se è tutto andato secondo i piani?". Gli agenti dei servizi sono più prudenti? "Lei conosce Cossiga? Proprio una bravissima persona. E poi un uomo così colto, uno capace di conversare in tedesco. Un uomo puro, un animo limpido. Dopo la morte di mia moglie mi mandò un biglietto: "Ti sono vicino nel tuo primo Natale senza di lei", capisce che pensiero? Vorrebbe farmi una cortesia? Se lo incontra, vuole porgergli i miei ricordi, e i miei saluti?". Postato da: LicioGelliFC a dicembre 15, 2005 15:22 AMICI MIEI (atto IV°) Chi c’era in quell’elenco? Questo è l’elenco alfabetico dei nomi di 962 presunti iscritti alla "Loggia P2" della massoneria sequestrato il 17 marzo 1981 a Licio Gelli (distribuito dalla presidenza del Consiglio il 21 maggio 1981). La relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta, consegnata ai presidenti della Camera e del Senato il 12 luglio 1984, afferma che: "le liste sequestrate a Castiglion Fibocchi sono da considerare: a) autentiche: in quanto documento rappresentativo dell'organizzazione massonica denominata Loggia P2 considerata nel suo aspetto soggettivo; b) attendibili: in quanto sotto il profilo dei contenuti, è dato rinvenire numerosi e concordanti riscontri relativi ai dati contenuti nel reperto". Ciononostante, dal momento che questo elenco è stato contestato, con successo, da diverse persone i cui nominativi figurano nello stesso e che si sono rivolte alla magistratura, è necessario avvertire il lettore che la presenza di un nominativo in questa lista non significa l’acclarata appartenenza dello stesso alla Loggia massonica P2. C’è infine da tenere conto del fatto che la Corte d'Assise romana ha recentemente negato la fondatezza della accusa di cospirazione mediante associazione, escludendo quindi che la P2 sia stata una struttura in grado di interferire ad un livello diverso da quello (di bassissimo profilo) dello scambio di favori e di raccomandazioni.

"I massoni di sinistra? Nelle logge sono 4mila". Il Gran Maestro e il caso Pd: "Scoprono ora che la sinistra è figlia anche della massoneria". "E' ora di finirla con la leggenda della segretezza, frutto avvelenato di Gelli" , scrive Alberto Statera su “La Repubblica”. "Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera", recita ironico il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo un po' risorgimentale, ex segretario locale del defunto Partito repubblicano di Ugo La Malfa, quando gli si chiede di commentare l'improvvisa fiammata antimassonica di parte del Partito Democratico. E l'Opus Dei? E Comunione e Liberazione? E tutti i mariuoli, clericali o non, ormai in circolazione per ogni dove? E tutti i seri problemi del paese che il Pd tende spesso a rimuovere imboccando improbabili vie di fuga? Il Gran Maestro se lo chiede, ma la delibera assunta lunedì dalla Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer, proveniente da una vecchia famiglia massonica il cui capostipite Mario, padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari, in fondo non gli dispiace: "Al di là della temporanea sospensione dei fratelli pd iscritti - dice - c'è un percorso serio per capire la questione e non infliggere una censura dogmatica; è un percorso laborioso, ma simile a quello già tracciato saggiamente dal lodo di Valerio Zanone e Giovanni Bachelet". Ma non gli va giù che i problemi interni di un partito in cui si è rivelata difficile la convivenza tra l'anima cattolica ex democristiana con quella laica ex repubblicana, ex socialista ed ex comunista, tirino inopinatamente in ballo "una delle più importanti agenzie produttrici di etica che abbia creato dal suo seno la storia dell'occidente, come il professor Paolo Prodi ha efficacemente definito la massoneria".  Un fatto è certo, i massoni del Partito democratico, che dovranno ora rivelarsi, sono a bizzeffe, come garantisce l'ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli. Col Gran Maestro recalcitrante, che giura di non aver mai chiesto di mostrare la tessera di partito ai suoi fratelli ("Se no verrei messo fuori dal consesso della massoneria mondiale") tentiamo un computo, che ci porta a un totale di oltre 4 mila su quasi 21 mila iscritti in 744 logge, il 50 per cento dei quali concentrati in Toscana, Calabria, Piemonte, Sicilia, Lazio e Lombardia, con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. Di questi almeno 4 mila diessini, molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali, come in passato il Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, che è stato vicesindaco socialista di Livorno. Adesso dovranno rivelarsi ed è facile prevedere che non sarà un'operazione indolore. Ma Gustavo Raffi pensa che potrebbe venirne persino un bene, cioè "la fine di questa leggenda della segretezza, frutto avvelenato delle gesta del materassaio di Arezzo, che non ha ragione di persistere. Ma come si fa - si accalora - a confondere il Grande Oriente, scuola di etica e di classe dirigente, con i mariuoli che infestano il paese anche in false massonerie? Il fascismo, perseguitandola, costrinse la massoneria al segreto, ma oggi siamo un'istituzione trasparente tornata nella storia. Lo dimostrano le decine di nostri convegni culturali con partecipanti del calibro di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Umberto Galimberti, Giuseppe Mussari, Ignazio Marino, Paolo Prodi, Gian Mario Cazzaniga e tanti, filosofi, storici, accademici di reputazione e scienza preclare. Il Pd si accorge adesso che la sinistra è figlia anche della massoneria? Fanno fede i nomi dei fuorusciti a Parigi durante il fascismo, le Brigate partigiane in Spagna e la Costituente, dove su 75 membri 8 erano massoni, da Cipriano Facchinetti ad Arturo Labriola, Meuccio Ruini... ". Gran Maestro - lo interrompiamo - per favore, non torniamo a Garibaldi e Bakunin e ai generi massoni di Marx, il fatto è che in un passato più recente le vicende della massoneria ufficiale non sempre sono apparse commendevoli. Tra l'altro, nel governo e nella attuale maggioranza di destra si dice ci sia la più alta concentrazione di massoni (e di Opus Dei) mai vista, come ha rilevato l'ex presidente Francesco Cossiga, che se ne intende. A parte Berlusconi, Cicchitto, che erano nella P2, e al consulente di Gianni Letta, quel Luigi Bisignani che ne era il reclutatore, ce ne sarebbero molti altri, a cominciare da Denis Verdini, che però ha smentito. Per non dire dei Lavori Pubblici, culla della Cricca degli appalti, considerato il ministero col maggior numero di dirigenti massoni. Il Gran Maestro non sfugge: "Io le posso dire in tutta coscienza che, tolti quelli che giocavano a nascondino col materassaio di Arezzo e che con noi non hanno nulla a che fare, abbiamo fatto un'attenta analisi dei nomi emersi come appartenenti alla Cricca e delle intercettazioni telefoniche pubblicate sui giornali. Abbiamo trovato solo un nome nelle nostre liste e l'abbiamo sospeso immediatamente. Se ne emergeranno altri, stia certo subiranno la stessa sorte". Inutile insistere per ottenere il nome, il Gran Maestro garantisce di non ricordarlo, ma promette di ricercarlo, perché dice di sognare una massoneria supertrasparente come quella americana, cui i fratelli sono fieri di appartenere, dove le logge sono indicate al centro delle città con grandi cartelli stradali, "come già abbiamo fatto a Ravenna mettendo la targa sulla nostra sede, perché se ti nascondi finisci alla gogna". Ma nulla autorizza la componente cattolica del Pd a confondere la massoneria storica con pseudomassonerie affaristiche, "se no è come se io dicessi non che un partito è degenerato, ma che tutti i partiti sono degenerati, mentre, pur se disastrati, continuano ad essere il cardine della democrazia. Mai dirò che i partiti inquinano la massoneria, ribaltando l'affermazione di quel parlamentare del Pd, il quale ha osato dire che la massoneria inquina il suo partito". Se la teoria del senatore di Magliano Sabina Lucio D'Ubaldo prendesse piede nel Pd, il Gran Maestro vi scorgerebbe un arretramento clericale e culturale quasi a due secoli fa, all'enciclica "Mirari Vos" di Gregorio XVI che condannò la separazione tra Stato e Chiesa e qualunque libertà di coscienza. Chissà se la delibera dei garanti pd guidati da un Berlinguer frenerà ora le iscrizioni al partito, notoriamente non in splendida salute, o al Grande Oriente d'Italia, che conta 1600 "bussanti" all'anno, più di un terzo dei quali respinti in attesa di "passaggi all'Oriente Eterno" di anziani fratelli.

PISTOIA E LA MAFIA.

Il rapporto mafia della Fondazione Caponnetto. Il report, 40 pagine che ripercorrono anche le indagini e le operazioni di polizia più significative sul territorio, cerca di mettere a fuoco la situazione odierna, valutando penetrazione e pericolosità delle varie organizzazioni, di origine italiana e straniera. “La situazione esistente nella provincia di Prato è molto simile a quella della vicina Pistoia – si dice nel report – La presenza mafiosa si conferma ai massimi livelli, così come il rischio colonizzazione. Preoccupante è l’aspetto riguardante il radicamento di clan della camorra. Di assoluto rilievo, poi, la presenza della criminalità cinese e le problematiche connesse ai reati in materia di sostanze stupefacenti”.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Per il Csm il magistrato ha fatto eccessivo ricorso a «una tendenza ingiustificabile a minimizzare le notizie di reato e ad iscriverle nel registro dei fatti che non costituiscono illecito penale» – Il Capo della Procura di Pistoia ha operato con «una conoscenza e un’applicazione inadeguata delle norme dell’ordinamento giudiziario», scrive Edoardo Bianchini su “Quaratta News”. Forse ai più sarà sfuggito che anche il TG2 delle 20.30 del 12 maggio 2012, si era occupato del dottor Renzo Dell’Anno, Procuratore Capo della Repubblica di Pistoia non riconfermato dal Csm. Il fatto era stato riportato, con una forte evidenza, dai due giornali di cronaca locale e da Repubblica nell’edizione fiorentina del 24 aprile, come del resto anche da questo blog (Procura. Respinta dal Csm la richiesta di conferma di Dell’Anno;  Il procuratore Renzo Dell’Anno e la decisione del C.S.M.). Più o meno una settimana dopo, su Marco Pannella, di passaggio a Pistoia per sostenere i radicali in lista per le amministrative, Il Tirreno scriveva: «Ha parlato ovviamente anche Marco Pannella, che proprio ieri ha festeggiato 82 anni. Pannella si è concentrato sui temi della giustizia negata, criticando tra l’altro la decisione del Csm di non confermare alla guida della procura della repubblica Renzo Dell’Anno “perché – ha detto Pannella – lo rimproverano di aver fatto troppo presto, di aver lavorato lui e di non aver fatto lavorare solo i sostituti procuratori. È una desolazione”» (Il Tirreno, giovedì 3 maggio 2012). Peccato che la fretta – e anche Marco, che pure ho ammirato e perfino votato, è un frettoloso – non faccia mai del tutto bene all’oggettività. Eppure Franca Selvatici (dell’articolo comparso il 24 aprile su Repubblica?), li aveva sottolineati bene i motivi secondo i quali il Csm aveva preso la decisione di negare la conferma a Dell’Anno: 1. «gravi carenze e inadeguatezze del suo profilo professionale»; 2. «iniziative poco rigorose sotto il profilo del rispetto dei principi del corretto esercizio dell’azione penale»; 2. lesioni del procuratore capo a «l’autonomia e l’indipendenza dei sostituti» facendo esplicito riferimento all’introduzione di «obblighi» e «vincoli procedimentali» in materia di misure cautelari; 3. disposizioni impartite «con modalità che si prestano alla elusione delle garanzie previste dalla legge a tutela della sfera di autonomia professionale e operativa dei sostituti»; 3. eccessivo ricorso al modello 45, quello in cui vengono iscritti i cosiddetti “atti non costituenti reato”. A distanza di una decina di giorni dall’intervento di Pannella a Pistoia, su Notizie Radicali di venerdì 11 maggio, compare un’altra presa di posizione a favore del dottor Renzo Dell’Anno: Velocizzare i processi, dice il vice-presidente del Csm. Quello stesso Csm che giorni fa ha preso una decisione che, per come la si apprende, non può che sconcertare. Vale la pena di raccontarla, questa storia: è il caso di un procuratore di fatto “punito” perché ha lavorato. Giorni fa il Csm ha stabilito che Renzo Dell’Anno non sarà più il procuratore capo di Pistoia. Decisione, si legge nelle motivazioni, maturata in base a valutazioni di carattere formale sulle modalità con cui Dell’Anno ha diretto in questi anni il proprio ufficio. Tra le principali motivazioni addotte si evidenzia in particolare quella relativa alla gran mole di lavoro “operativo” che il dottor Dell’Anno ha portato a termine in prima persona in tale periodo: migliaia di fascicoli che si è accollato sia per sgravare dai tanti arretrati i suoi sostituti sia per raggiungere l’obiettivo (del quale, una volta raggiunto, si è dichiarato orgoglioso) di eliminare dalla procura di Pistoia il rischio prescrizione: un lavoro encomiabile che, evidentemente, mentre sarebbe tale per un semplice sostituto procuratore, è invece, secondo il Csm, improprio per un procuratore capo, che dovrebbe dirigere l’ufficio, programmando e coordinando l’attività degli altri e non, in pratica, “fare” il magistrato. Anche se solo come “facente funzioni”. Chi ci capisce qualcosa è bravo.  La riflessione compare a firma di Valter Vecellio, che lavora in Rai, dirige il giornale telematico Notizie Radicali, è iscritto al Partito Radicale dal 1972, è stato componente del Comitato Nazionale, della Direzione, della Segreteria Nazionale del partito. E quel giorno stesso (11 maggio) la notizia di Dell’Anno, e il suo commento, approdano anche al TG2 delle 20.30. Ma ecco che sabato 12 maggio alle 20.30, come ultima notizia del TG2, la giornalista legge una nota di rettifica dello stesso Csm che ha ripuntualizzato tutta la vicenda Dell’Anno, aggiungendo, a quelli già noti, anche altri particolari che fanno ulteriormente riflettere sia sulla vicenda in sé che sugli incauti commenti radicali. Il Csm, nel ricordare che la non conferma di Renzo Dell’Anno alla guida della Procura di Pistoia è la conseguenza di un’ampia e motivata delibera del plenum – fatto del tutto inconsueto, peraltro –, e nel sottolineare ancora l’atteggiamento del magistrato lesivo dell’autonomia dei sostituti, ha posto nuovamente l’accento sul fatto che il capo della Procura pistoiese, nello sfoltire gli arretrati – cosa di cui si era dichiarato orgoglioso – ha fatto sin troppo ricorso all’iscrizione delle denunce nel modello 45, con «una tendenza ingiustificabile a minimizzare le notizie di reato e ad iscriverle nel registro dei fatti che non costituiscono illecito penale»: ma soprattutto – dice il Csm – Dell’Anno ha operato con «una conoscenza e un’applicazione inadeguata delle norme dell’ordinamento giudiziario».

Arrestato il comandante dei vigili urbani di Pistoia, racconta Massimo Donati su "Il Tirreno". Ai domiciliari Giuseppe Napolitano, indagato per turbativa d’asta per l’installazione di un autovelox sulla tangenziale. I poliziotti della Digos si sono presentati alla sua porta di casa per notificargli la misura cautelare disposta dal gip del tribunale, un ennesimo colpo di scena nell’ambito dell’inchiesta “Untouchables”, che, l’11 giugno scorso, aveva portato già all’arresto di 23 tra funzionari pubblici e imprenditori: da ieri mattina, si trova ai domiciliari il comandante della Polizia municipale di Pistoia, Giuseppe Napolitano. Originario di San Giuseppe Vesuviano e laureato in giurisprudenza, 41 anni, Napolitano guida i vigili urbani pistoiesi dal settembre 2007. Nell’ambito della dirompente inchiesta sugli appalti pubblici portata avanti dal pm Francesco Sottosanti, era già certamente indagato per la vicenda legata all’installazione del nuovo autovelox sulla tangenziale cittadina, ma non è stato reso noto se la misura cautelare sia stata disposta dal giudice delle indagini preliminari per questa o per altre eventuali accuse. Ieri mattina il comandante Napolitano è stato accompagnato in questura dagli uomini della Digos per il disbrigo delle formalità di legge, per poi essere riportato a casa agli arresti domiciliari. Giuseppe Napolitano, difeso dall’avvocato Fabio Piccioni, del foro di Firenze, è indagato per il reato di turbata libertà degli incanti in concorso con Stefano Meoni, funzionario comunale responsabile dell’ufficio viabilità, Marcello Evangelisti, dirigente del servizio lavori pubblici, e Carlo Alberto Diddi, imprenditore, arrestati lo scorso 11 giugno. «Mediante doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti – si legge nel capo di imputazione O) contestato a Meoni – turbavano la gara indetta dal Comune di Pistoia a seguito della deliberazione della giunta comunale n.26 del 9 febbraio 2012 per interventi in materia di politiche per la sicurezza, opere edili necessarie per l’installazione di un misuratore di velocità sul raccordo di Pistoia, al chilometro 1+400, aggiudicata alla Diddi Carlo Alberto Sas mediante affidamento diretto, per un importo di 39.950 euro». In tale vicenda Napolitano era il Rup, il responsabile unico del procedimento, avviato nel febbraio scorso. «In particolare – si legge nell’ordinanza eseguita l’11 giugno scorso – i mezzi fraudolenti sono consistiti nel ricorrere alla procedura dell’affidamento diretto per i lavori in economia in mancanza dei presupposti previsti in relazione all’importo e alla tipologia dei lavori da eseguire; nel ridurre l’importo dei lavori facendolo rientrare nei limiti dei 40.000 euro, ben sapendo che successivamente sarebbe stato necessario ricorrere a un’altra gara o a varianti in aumento; nell’escogitare una motivazione che giustificasse il ricorso ai lavori in economia al solo fine di aggiudicare i lavori al Diddi senza indire alcuna gara». Nella sua ordinanza il gip Roberto Tredici aveva indicato anche i ruoli secondo lui ricoperti da ciascuno dei quattro indagati: «Il Diddi si attivava con Evangelisti e Napolitano per ottenere l’aggiudicazione della gara; Evangelisti e Napolitano indicavano la necessità di ricorrere all’affidamento diretto per aggiudicare la gara al Diddi e rivedevano la delibera dopo i rilievi della ragioneria del Comune; il Meoni rivedeva il progetto dei lavori in modo da farlo rientrare nell’importo di 40.000 euro ben sapendo che i lavori avrebbero richiesto un esborso maggiore e che ciò veniva fatto solo per favorire il Diddi». In un altro passo dell’ordinanza, il gip cita Napolitano nel motivare le esigenze cautelari nei confronti di Diddi. Il pericolo di reiterazione dei reati viene ritenuto «eccezionale... anche riguardo al contenuto della nota della Digos del 24 maggio 2012: stanno continuando gli episodi di corruttela attraverso l’effettuazione di lavori presso l’abitazione dell’Evangelisti, lavori che vengono svolti anche presso l’abitazione del comandante della polizia municipale di Pistoia, segno evidente che il cancro della corruttela si sta sempre più espandendo e va pertanto adeguatamente cautelato».  

Pistoia ed il “Club degli Appalti”, così come raccontato da “Il Corriere della Sera”.

Associazione per delinquere, turbativa d'asta, corruzione e concussione. Sono i reati per i quali la polizia di stato di Pistoia ha eseguito stamani 23 ordinanze di custodia cautelare (11 in carcere e 12 agli arresti domiciliari), emesse dal gip di Pistoia Roberto Tredici su richiesta della Procura della Repubblica. Tra i destinatari dei provvedimenti funzionari pubblici e imprenditori. Coinvolti anche amministratori. Nel mirino lavori edili e stradali assegnati ad un ristretto numero di imprese. Le indagini hanno consentito anche di ipotizzare il reato di concussione in relazione ai contributi versati per il «Festival Blues» di Pistoia del 2011. Secondo gli inquirenti, infatti, le sponsorizzazione venivano richieste e pretese dal dirigente del servizio lavori pubblici del Comune di Pistoia in misura percentuale sull'ammontare dei lavori edili e stradali che egli aveva fatto ottenere agli imprenditori privati, i quali dovevano aderire a tali richieste per poter ottenere in futuro ulteriori lavori dall'amministrazione locale. Così Giuseppe Grieco, procuratore facente funzione di Pistoia, ha definito l'associazione per delinquere formata da dirigenti pubblici, politici e imprenditori, sgominata dalla polizia di Pistoia dopo lunghe e complesse indagini, che dal 2010 ad oggi ha permesso di scoprire almeno una decina di aste «truccate» e di far scattare 23 ordinanze di custodia cautelare, di cui 11 in carcere. In particolare, tra imprenditori e funzionari pubblici ci sarebbe stato un rapporto stretto, anche al di fuori delle relazioni di lavoro, che avrebbe consentito di assegnare allo stesso gruppo di impresari i lavori. «Un'associazione capace di far nominare - ha proseguito Grieco - uomini di fiducia in commissioni e anche in ambiti politici, per garantire l'aggiudicazione di gare e appalti pubblici a un ristretto numero di imprenditori locali, con una corruzione caratterizzata da pagamento di somme di denaro, favori di vario genere e utilità che venivano garantite ai pubblici amministratori». «La massima concentrazione e attenzione - ha aggiunto il procuratore Grieco - è incentrata sul responsabile dell'ufficio tecnico del Comune di Pistoia che è stato considerato uno dei tre maggiori responsabili promotori dell'associazione». Gli arrestati sono 23, 11 dei quali in carcere e gli altri ai domiciliari. In carcere: Roberto Riccomi, nato a Buggiano (Pistoia) il 22 maggio 1954. Marcello Evangelisti, nato a Pistoia il 6 marzo 1949. Paolo Mazzoni, nato a Pistoia il 28 gennaio 1947. Giordano Rosi, nato a Pescia (Pistoia) il 28 gennaio 1947. Roberto Vescovi, nato a Lamporecchio (Pistoia) il 5 aprile 1944. Paolo Conti, nato a Montecatini Terme (Pistoia) il 15 settembre 1949. Franco Fambrini, nato a Pescia (Pistoia) il 30 agosto 1957. Mauro Filoni, nato a San Marcello il 30 aprile 1960. Angiolo Orsi Spadoni, nato a Montecatini Terme il 30 gennaio 1961. Roberto Mannelli, nato a Bagno a Ripoli (Fi) il 4 dicembre 1956. Riccardo Ponticelli, nato a Pistoia il 20 maggio 1954. Agli arresti domiciliari: Riccardo Gaddi, nato a Pisa il 22 dicembre 1958. Michele Vescovi, nato a Firenze il 6 settembre 1967. Cristian Giovanni Diddi, nato a Pistoia il 18 novembre 1979. Amos Chelucci, nato a Pistoia il 27 giugno 1957. Patrizia Natalini, nata a Pistoia il 15 luglio 1957. Riccardo Vespignani, nato a Pistoia il 29 dicembre 1957. Alessandro Ponticelli, nato a Pistoia il 27 luglio 1959. Francesco Flori, nato a Pistoia il 6 gennaio 1964. Vincenzo Guarino, nato a Prato il 5 agosto 1967. Stefano Meoni, nato a Pistoia il 18 novembre 1959. Paolo Tondini, nato a Pistoia il 27 febbraio 1959. Carlo Alberto Diddi, nato a Pistoia il 1 novembre 1932.

Tra le tante testate anche dalla “Nazione” un resoconto dettagliato. Un terremoto l’operazione «Untouchables»: nel mirino il meccanismo che serviva a pilotare l’assegnazione dei lavori pubblici, con ventiré arresti tra carcere e domiciliari per dipendenti pubblici e imprenditori anche di peso del settore edile, per accuse che vanno dall’associazione a delinquere, turbativa d’asta, corruzione e concussione. Un meccanismo sviscerato dalla Digos di Pistoia nel corso di un’indagine di due anni. «Un’indagine che non ha precedenti nella storia di questa Procura», per dirla con le parole del procuratore facente funzione Giuseppe Grieco. Le severe regole della legge sugli appalti venivano eluse attraverso l’assegnazione diretta, concordata anche, e soprattutto, semplicemente a cena (ma avendo cura di non dire mai il nome del ristorante per telefono), salvo poi ritoccare i costi in corso d’opera. Le ditte che beneficiavano di queste «facilitazioni» erano poi, secondo l’accusa, «costrette» a sponsorizzare il Pistoia Festival — la serie di manifestazioni estive promosse dal Comune — dal deus ex machina della situazione, ovvero l’ingegnere Marcello Evangelisti 63 anni (nella foto), dirigente comunale del servizio lavori pubblici, finito in manette, all’alba di ieri, con altre dieci persone mentre undici, fra imprenditori e funzionari pubblici si trovano ai domiciliari. IN CARCERE, tra gli altri, si trovano Roberto Riccomi, 58 anni, oggi titolare di due agenzie di viaggi a Montecatini, figlio dell’ex sindaco Lenio, ex segretario provinciale del Psi e oggi nella segreteria regionale del partito; Paolo Mazzoni, ex funzionario della Provincia di Pistoia; Mauro Filoni, responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Piteglio e, tra gli imprenditori pistoiesi più in vista, anche Paolo Conti, presidente della Cooperativa muratori e sterratori e affini di Montecatini, che in questo periodo tra le altre opere sta costruendo la nuova questura a Pistoia (non oggetto dell’indagine). Per tutti gli indagati, il blitz all’alba, quando sono state eseguite le ordinanze di custodia cautelare del gip Roberto Tredici su richiesta del pm Francesco Sottosanti, è stato un fulmine a ciel sereno. La Digos ha saputo lavorare nell’ombra: alla criptatura delle conversazioni telefoniche, ha posto rimedio con pedinamenti e filmati. E i sequestri a sorpresa negli uffici sono stati sostituiti dallo studio dei dati reperibili sui siti, passati in rassegna uno a uno, analizzando l’attività di sei anni di appalti (dal 2006 al 2012) a partire dall’ottobre di due anni fa quando alcuni esposti anonimi avevano dato il via all’indagine.

ABUSI SUI BAMBINI. BAMBINI SEVIZIATI ALL'ASILO NIDO, CHI SONO GLI ORCHI?

Le maestre violente, i genitori che non hanno denunciato o la magistratura che non è intervenuta ?!?

Hanno fatto il giro di tutta Italia le immagini video shock delle due maestre dell'asilo nido di Pistoia riprese di nascosto da una telecamera che le mostra, mentre maltrattano e picchiano i piccoli bambini dell'asilo nido.

Infatti, a seguito delle denunce di alcune mamme dei bimbi in questione, la Squadra Mobile aveva messo delle telecamere nascoste ed ecco le macabre immagini video: piccoli picchiati, schiaffeggiati, costretti a mangiare a forza. E poi un bambino che vomita, la titolare della struttura, che gli rifila due schiaffi facendo cadere il piccolo bimbo sul suo stesso vomito. Un bambino colpito con schiaffi sulla testa, una bambina tirata dai capelli e costretta a ingurgitare la pappa e poi picchiata con un giocattolo (un camioncino dei pompieri), scrive "Il Corriere Fiorentino". E ancora: un bimbo piange seduto su una sedia, la maestra lo prende per il polso, lo solleva da terra e lo picchia. È la violenza in presa diretta, con le sequenze registrate dalle telecamere nascoste prima del blitz della squadra mobile all’asilo nido «Cip Ciop» di Pistoia. Il video è stato trasmesso in esclusiva dal Tg 1 del 2 dicembre 2009.

"Lei sembrava essere una maestra severa, ma niente che facesse pensare a questa crudeltà. Mercoledì mattina alle 9.30 ho portato la mia bambina all'asilo, poi quando alle 13.00 sono andata a riprenderla, l'asilo era assediato da poliziotti e giornalisti e non sapevo cosa fosse successo: questo proprio perché ero totalmente incredula". Così a "Domenica cinque" su Canale 5 del 6 dicembre 2009, i genitori di Alice, la bambina di 14 mesi più colpita dalla violenza della maestra dell'asilo hanno parlato dell'asilo lager di Pistoia. "Voci di corridoio non confermate - hanno aggiunto - dicono che sono diversi anni che succede che questa signora maltratti i bambini? Alice adesso non mangia con il cucchiaino, non vuole né seggiolone né piatto; lei deve mangiare dalle sue mani e dalle miei mani lo fa con molta diffidenza. Sono costretta a darle il latte, nonostante sia allergica, perché non prende niente di solido. Il mio primo istinto è stato quello di andare dalla maestra e imboccarla con la stessa metodologia che ha usato con mia figlia. Mi appello alla giustizia, che faccia il suo corso, mentre io e mio marito, come genitori, daremo l'apporto psicologico a nostra figlia e ci metteremo a disposizione della magistratura, affinché abbiano tutti i capi d'accusa possibile. I bambini devono essere tutelati, sempre. Io ho smesso di piangere e voglio combattere per mandare queste due persone in carcere". «Quello non era un asilo, era un lager», singhiozza senza freni Angela. Il filmato nitido restituisce le immagini di sua figlia Alice di 14 mesi mentre viene afferrata per i capelli con una tale violenza che il seggiolone si solleva. Con la testa reclinata all’indietro la direttrice della scuola Laura Scuderi la ingozza di cibo premendo poi il bavaglino sul viso per non farla sputare. «Quella donna è una bestia — ripete come una litania — e alle mamme che pensano che la polizia abbia fatto un errore dico che prima di parlare devono guardare le immagini. Quella è violenza pura, altro che scossoni o scappellotti». I bambini, racconta, venivano costretti a pranzare alle dieci del mattino. Se la piccola si ribellava erano schiaffi. E nel resto della giornata nè cibo, nè acqua. «Solo adesso riesco a spiegarmi perché mia figlia è terrorizzata tutte le volte che vede un cucchiaino e provo a darle da mangiare». Quando la bambina arrivava a casa era affamata e assetata ma «come potevo immaginare tutto questo?». Adesso a quelle due donne augura tutto il male del mondo, «tutto quello che hanno fatto patire ai piccoli che non potevano difendersi». Alice frequentava quella scuola dal costo di 300 euro al mese, da meno di un anno. Di giochi e altre attività, nell’asilo che ha solo il nome a misura di bambino, nessuna traccia. «Si vede benissimo dai filmati — racconta Angela — I bambini venivano lasciati inermi, abbandonati a loro stessi o terrorizzati».

Ma tutto ciò poteva essere evitato: dall’intervento della magistratura, ovvero dalle denunce dei genitori.

Una madre intervistata da Videonews ha accusato le istituzioni di aver lasciato cadere nel vuoto una denuncia presentata da lei e da altre madri 5 anni prima, dopo aver scoperto che la maestra afferrava la sua bambina per le mascelle e la obbligava con il cucchiaino a ingoiare la pappa, scrive Franca Selvatici su "La Repubblica". «Nessuno ha alzato un dito», ha detto. «Se c'è stata una denuncia, non è stata certamente presentata alla polizia», precisa il capo della squadra mobile Antonio Fusco: «La nostra indagine è partita in agosto dalla segnalazione di un collega che aveva raccolto delle voci.

Siamo stati noi a chiamare le madri e le maestre che lo avevano sconsigliato di iscrivere il suo bambino al Cip Ciop, e ci siamo fatti spiegare. Alcune mamme ci hanno raccontato di braccine slogate e di bernoccoli, e della decisione di togliere i loro figli dall´asilo. Ma nessuna aveva presentato denuncia, pensando che sarebbe stata la loro parola contro quella della maestra. Soltanto una ne aveva parlato con una psichiatra».

Un padre, rappresentante delle forze dell’ordine, e una madre che lavora nell’ambito della sanità, sono stati i primi a farsi delle domande di fronte al figlio che, dopo l’ingresso al nido, si era come trasformato. «Qualcuno — racconta  il padre — mi ha anche detto che ero pazzo a mandare mio figlio lì, con tutto quello che si diceva in giro. Ma io non volevo credere a quelle che mi sembravano solo voci infondate». Dopo il primo anno però qualcosa è cambiato. «Il bambino non era più lo stesso», racconta la madre. «Che qualcosa non andasse per il verso giusto ce ne siamo accorti dopo. A sei mesi il bambino è troppo piccolo per parlare ma a un anno e mezzo riesce a farsi capire meglio». Il suo disagio si esprime con la rabbia e la paura: «Non ne voleva sapere di andare in quella scuola e quando si trovava di fronte soprattutto alcune insegnanti era ancora più nervoso del solito, come impaurito». La maestra Laura, dice ora il padre, aveva un atteggiamento sempre un po’ aggressivo verso i piccoli «ma pensavo si trattasse solo di un fatto caratteriale, non ho mai pensato ci potesse essere qualcosa di più». Il piccolo diventa sempre più irascibile. «Quando tornava a casa era aggressivo — continua la madre — sembrava avere pochissimi stimoli e io avevo la netta impressione che da quando andava a scuola avesse fatto più passi indietro che avanti». Per qualche tempo la madre si è posta il problema che quell’atteggiamento dipendesse dal fatto che il piccolo non frequentasse assiduamente la scuola. «Utilizzavo il nido più che altro come un baby parking. Lo portavo a giorni alterni e non sempre rimaneva a pranzo. Avevo anche chiesto alle insegnanti se ci fossero problemi ma loro hanno sempre negato».

Qualcuno racconta anche che in quell’asilo era vietato giocare, che i bambini non potevano avvicinarsi ai giochi perché altrimenti li sporcavano. Voci certo, ma sempre più insistenti. Come quelle che raccontano di maltrattamenti. Una madre che va a prendere il figlio e lo trova da solo, tutto sporco in un angolo del giardino. Nessuno le ha saputo spiegare perché fosse lì, ha detto alla polizia. E poi il bambino con la spalla lussata, quello che torna a casa con i lividi. «Certe notizie facevano in un attimo il giro della città, Pistoia è piccola ». Le risposte delle maestre erano sempre le stesse: si sono fatti male giocando, si sa i bambini.... Una, due, troppe volte. Quando un medico al pronto soccorso dice che una lussazione può essere stata provocata solo da un adulto, non da un bambino, i dubbi diventano sospetti. Troppi gli indizi e tutti nella stessa direzione. Il tarlo comincia a rodere la mente di quel genitore che vede il figlio chiudersi sempre più in se stesso. Alla fine di agosto l’uomo fa una prima segnalazione alla questura.

La sezione minori della squadra mobile inizia a mettere insieme i puzzle di questa terribile storia. Gli investigatori iniziano a cercare i genitori dei bambini, soprattutto quelli che avevano abbandonato la scuola. Ci sono anche quattro ex insegnanti tra i testimoni che puntano il dito contro la titolare della scuola. Sono loro a raccontare di aver abbandonato il campo perché in disaccordo con i metodi educativi. Si va a ritroso nel tempo. Alcuni genitori raccontano di bambini che smettono di mangiare e dormire. Bambini che troppe volte tornano a casa con arrossamenti e lividi. Qualcuno torna a casa e racconta che «la maestra ha picchiato un bambino» o che la maestra li ha lasciati al buio. Non è stato facile capire che c’era qualcosa di più dietro quei capricci per non andare a scuola, spiega il padre che ha denunciato. Con i bambini un insetto si può trasformare in un gigante. Ma nessuno poteva neppure lontanamente immaginare quel film dell’orrore. Dieci giorni fa la procura fa piazzare le telecamere, solo video, nessuna voce. Per questo tipo di reato non sono consentite le intercettazioni. Le maestre non sanno che finiscono «in diretta» negli uffici della squadra mobile con le violenze e i toni bruschi che fanno a pugni con i sorrisi e i pianti dei bambini. I genitori che hanno fatto la prima segnalazione adesso si sentono sollevati, anche se il loro piccolo è ormai lontano. «Speriamo che queste cose non accadano più — dicono adesso — speriamo che la nostra denuncia serva ad aiutare altri». Per gli altri genitori solo pochi consigli: «Controllate sempre i bambini, parlate con loro, anche se sono piccoli. E quando li affidate a qualcuno ogni tanto non dimenticate un blitz a sorpresa».

PARLIAMO DI PRATO

STRAGE DI STATO.

Prato, imprese cinesi: le responsabilità che nessuno prende. Nelle fabbriche-galere i sindacati non hanno iscritti. E 'denunciano' Confindustria. Che accusa le forze dell'ordine, scrive Antonietta Demurtas su “Lettera 43”. Non sono solo i pratesi a sapere che ogni giorno dalle fabbriche cinesi di confezioni escono abiti made in Italy prodotti da schiavi made in China. Che dentro quelle aziende dai nomi italiani come Teresa Moda (quella in cui è scoppiato l'incendio che ha ucciso sette persone domenica 1 dicembre) i cinesi lavorano, vivono e muoiono, lo sanno tutti. Eppure nella scala delle responsabilità che davanti a ogni tragedia si percorre con il dito puntato, i sindacati occupano uno dei primi gradini. Perché se a essere violati sono i diritti umani tout court, quelli dei lavoratori dovrebbero essere loro a tutelarli. Dove sono? Che fanno? Perché non scendono in piazza per difendere anche i diritti di quelle persone che non indossano le felpe della Fiom né sventolano le bandiere della Cisl, ma sono comunque operai di questo Paese? Femca e Filctem, le associazioni di categoria del settore tessile della Cisl e della Cgil non si tirano indietro e fanno un mea culpa. «Non vogliamo negare le nostre responsabilità, anche il sindacato ha commesso degli errori, ma il vero problema è che noi non abbiamo gli strumenti per fare rispettare la legge», dice a  Lettera43.it Sergio Gigli, segretario nazionale della Femca-Cisl. «Sappiamo esattamente quali sono le aziende dove non si rispettano le regole, ma dopo la nostra segnalazione sono la guardia di finanza e la polizia che devono agire: noi abbiamo le mani legate». Le denuncia come una unica arma, quindi. Una linea rivendicata anche da Luca Barbetti, segretario generale della Filctem-Cgil Toscana. «Ma è un'arma spuntata. Sono anni che denunciamo, le istituzioni ci avrebbero dovuto ascoltare di più. Queste sono situazioni di illegalità ben nascosta ma nota a tutti», spiega a Lettera43.it. Il gioco di parole rende l'idea di quanto il sistema cino-pratese sia ben radicato. A Macrolotto, nella zona industriale di Prato dove si trovano i capannoni delle confezioni cinesi, il segretario nazionale Gigli ha provato ad andarci. «Volevo entrare a parlare con questi lavoratori ma i colleghi del posto mi hanno sconsigliato di scendere dalla macchina», ricorda, «perché lì il problema non è solo il mancato rispetto delle norme di lavoro, ma il racket, la malavita organizzata cinese». Quella che costringe i lavoratori a non aver nessun contatto con i sindacati. «Questi operai vivono segregati, non parlano italiano e anche quando escono dai capannoni sono difficili da avvicinare», racconta. «Qualche collega ci ha provato, ed è stato messo in guardia: 'Fatti gli affari tuoi, altrimenti...', si è sentito dire». Intimidazioni davanti alle quali anche il sindacato «deve reagire e avere più coraggio». Ma riuscire ad allargare le tutele anche a questi lavoratori non è così facile. Perché «in quelle fabbriche non abbiamo iscritti e se non c'è un delegato sindacale non possiamo entrare, sarebbe violazione della proprietà privata», aggiunge Barbetti. «Molte di queste aziende invece sono associate a Confindustria, e che cosa fa l'associazione? Prende solo le quote?», critica Gigli, ricordando quando Ivan Lo Bello, il presidente degli industriali della Sicilia disse: «Chi paga il pizzo fuori da Confindustria». Ora forse sarebbe il caso di dire: «Chi non rispetta le regole e i diritti dei lavoratori lasci l'associazione». Il presidente della Confindustria pratese, Andrea Cavicchi, non ha problemi ad accogliere l'invito: «Noi da tempo stiamo cercando di fare un'opera di sensibilizzazione», dice a Lettera43.it. «Ma in realtà tra gli iscritti abbiamo solo due aziende cinesi con 15 dipendenti, e a Prato sono ben 3 mila». Anche la Confederazione nazionale dell'artigianato (Cna) sta cercando di avvicinare questi imprenditori, «hanno già 80 iscritti, perché qui a Prato quelle cinesi sono realtà artigianali più che industriali». E «l'associazione non è un organo di controllo: io devo sostenere le imprese. A sanzionarle se sbagliano devono invece essere le forze dell'ordine», ricorda. Le quali però, con un certo «lassismo», «spesso sorvegliano più gli imprenditori italiani che quelli stranieri». La riflessione su quanto è successo a Prato, tuttavia, deve essere più ampia ancora. «Qui c'è un problema di perdita della legalità che si è inserito in un distretto industriale che stava morendo», segnala il presidente degli industriali locali. C'è infatti un problema mai risolto, un compromesso che il Paese ha tacitamente accettato. «Quel territorio ha sviluppato una ricchezza indotta e tutti hanno chiuso un occhio per far sì che il distretto industriale rimanesse lì, anche a costo di avere regole sommarie», ammette il sindacalista Gigli. Per anni quel modus operandi «è stato utile alla stessa classe imprenditoriale pratese, che attraverso l'esternazione della manodopera ha costruito la propria fortuna», aggiunge Barbetti. «Tutti hanno commesso degli errori», ricorda Cavicchi, che è anche presidente della Furpile Idea, azienda tessile fondata nel 1972 dal padre, «ma fare gli sceriffi ora e accusarsi a vicenda non risolve nulla, al massimo può portare dei voti». A livello locale Confindustria e sindacati hanno più volte affrontato il tema insieme. «L'effetto dumping di questa situazione è sempre stato sotto gli occhi di tutti», dice Barbetti, «alla fine il trasferimento della lavorazione dalle aziende che rispettavano le regole a chi sfruttava i lavoratori ha danneggiato tutti». Ma il confronto tra le parti sociali sulla ricomposizione della filiera del tessile, sulla tracciabilità dei prodotti non ha dato i risultati sperati: «Abbiamo scritto e sottoscritto degli impegni, che però sono rimasti sulla carta». «Serve tempo», riflette Cavicchi. «A Buxelles abbiamo ottenuto il primo sì all'articolo 7 sulla tracciabilità dei prodotti, ma non dobbiamo dimenticare che le manifatture cinesi fatte a Prato sono comunque italiane, quindi non è con la tracciabilità che si risolve il problema. È il rispetto delle regole che bisogna pretendere». Ma nemmeno questo è facile: perché «spesso gli imprenditori affittano i capannoni, superano tutti i controlli e operano secondo le regole, ma poi nel giro di pochi mesi li trasformano in posti di lavoro illegali», rileva. Come si cambia? Con un monitoraggio più costante, «che le forze dell'ordine del territorio non riescono a garantire da sole: per questo chiediamo un intervento serio del governo», sintetizza il presidente di Confindustria. Dopo l'ennesima tragedia, per risolvere il problema non bastano i mea culpa né i j'accuse: «Serve un patto per sradicare questa nuova schiavitù e per farlo Confindustria, governo, forze dell'ordine e sindacati devono lavorare insieme», conclude Gigli.

Prato, incendio nella fabbrica dell’ “insostenibile illegalità”, scrive Giulia Pappapippo. Il procuratore: ''La maggior parte delle aziende sono organizzate così: è il far west''. Sette le vittime dell’incendio divampato domenica mattina intorno alle 7 in una fabbrica di pronta moda a Prato. Non una fabbrica qualsiasi ma una prigione a tutti gli effetti che è diventata una trappola mortale. Le cause sono ancora da chiarire, potrebbe essere stato un mozzicone di sigaretta non accuratamente spento, una scintilla partita da un cortocircuito causato da una piccola stufa o di una fuga di gas proveniente dal cucinino fatiscente. In realtà, la vera causa è sotto gli occhi di tutti: l’indifferenza. Tutti, non solo i toscani, sappiamo che a Prato c’è un’altissima concentrazione di cinesi che lavorano ininterrottamente soprattutto nel settore tessile, in condizioni disumane. Ma finora si è fatto sempre troppo poco. Le prime ricostruzioni lasciano senza parole, perché non ci sono molte parole per descrivere la disumanità delle condizioni di vita e di morte di queste persone, così disperate da rinunciare a tutto, anche alla vita, per sopravvivere lavorando ininterrottamente. E lo fanno anche per un euro all’ora o 40 centesimi a vestito. E il racket cinese ha una parte importante in tutto ciò: manodopera usa e getta a costo zero, sempre reperibile. Le fiamme e il fumo si sono diffuse in brevissimo tempo a causa del fatto che i muri erano in cartongesso, i loculi dove questi invisibili vivevano erano in cartone. Fa rabbrividire il racconto di quei pompieri che hanno dovuto segare le grate di una finestra per prelevare quello che rimaneva del corpo di una vittima che ha tentato disperatamente di trovare salvezza nell’ossigeno ma che invece è stata uccisa dal monossido di carbonio e divorato dalle fiamme. C’era anche un bambino nel capannone. La Procura di Prato ha aperto un’inchiesta e i capi d’accusa sono: omicidio colposo plurimo, disastro colposo, omissione di norme di sicurezza e sfruttamento di mano d’opera clandestina. Ma tutto ciò non basta e a dirlo è il procuratore della Repubblica Piero Tony: “La maggior parte delle aziende sono organizzate così: è il far west” e prosegue: “I controlli sulla sicurezza e su ciò che è collegabile al lavoro, nonostante l’impegno di tutte le amministrazioni e delle forze dell’ordine, sono insufficienti. Siamo sottodimensionati: noi come struttura burocratica siamo tarati su una città che non esiste più, una città di 30 anni fa“. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito la situazione lavorativa di questo esercito di invisibili una “condizione di insostenibile illegalità e sfruttamento” e ha esortato non solo le amministrazioni locali ma anche le istituzioni nazionali ad avviare politiche diverse, più concentrate e con interventi diretti. Possono essere i mancati finanziamenti alle forze dell’ordine una delle concause di questa tragedia? Molti dei cinesi presenti nella fabbrica e salvatisi dal rogo sono senza nome, risultano fantasmi nel nostro Paese. Da dove di può iniziare? Forse dalla stessa fabbrica che ha preso fuoco domenica mattina e da quella accanto. Non è e non deve diventare solo un fatto giuridico come il reato di clandestinità ma una questione di dignità, di dignità per gli italiani perché è qui che sono morte queste persone e qui che continuano a sopravvivere a ritmi impossibili. Spesso schiavi di un debito che difficilmente riusciranno a ripagare.

Prato, "Quante saranno le prossime vittime?" L'indignazione, spesso tardiva, di associazioni e istituzioni. Le vittime nella fabbrica-lager di Prato hanno acceso l'attenzione sull'universo dello sfruttamento dei lavoratori stranieri e cinesi in particolare, costretti a sopravvivere in luoghi assurdi, dove si lavora 16 ore al giorno a un euro l'ora. Il Codacons ha presentato esposto alla Procura della Repubblica, che chiama in causa il sindaco di Prato, l'Inail e l'Ispettorato del Lavoro, scrive “La Repubblica”.  Non c'era alcuna possibile via di fuga nel laboratorio, trasformato in fabbrica-lager, una vera e propria trappola mortale nella zona del Macrolotto a Prato, dove sette cittadini cinesi sono morti in un incendio che ha devastato la fabbrica, che era anche l'abitazione di chi ci lavorava. Le cui cause precise ancora non si conoscono, ma ad innescare le fiamme, probabilmente è stata una stufa elettrica, perché al momento non sarebbero state trovate bombole di gas. Ma quel che emerge drammaticamente da questa tragedia, sono le condizioni in cui vive un numero imprecisato di cinesi in quello che una volta era il fiore all'occhiello di Prato, il distretto del tessile e che lascia sempre di più spazio al low cost del pronto moda. I lavoratori morti bruciati nel rogo vivevano tutta la loro giornata nella fabbrica, dormendo in veri e propri loculi sopraelevati, lungo una parete del capannone. Sul tavolo della Procura della Repubblica di Prato c'è da ieri un esposto del Codacons. L'associazione chiede di accertare le responsabilità del Sindaco di Prato, dell'Inail e dell'Ispettorato del Lavoro (che nella zona di Prato sembra abbiano un solo ispettore adibito ai controlli) relativamente alle verifiche e rispetto delle norme di sicurezza. Secondo il comandante della polizia municipale Pasquinelli, "la ditta andata a fuoco non era mai stata controllata - spiega l'associazione nella denuncia - quello che è accaduto a Prato - ha aggiunto - sono in molti a definirla una strage annunciata". A confermarlo ci sono anche le dichiarazioni dell'assessore alla sicurezza del Comune di Prato, Aldo Milone: "Avevamo denunciato da tempo la pericolosità di questa situazione". "Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Il Codacons ha dunque chiesto alla Procura di "verificare se la struttura fosse a norma sotto tutti gli aspetti di legge, e quali attività abbiano compiuto l'Inail al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori o se fossero prospettabili negligenze od omissioni idonee a configurare responsabilità penali per Inail nonchè a carico dell'ispettorato del lavoro e del sindaco di Prato e di  tutti quei soggetti, organi e autorità preposte a controlli, verifiche e rispetto delle norme di sicurezza sotto il profilo dei reati di Rifiuto di atti d'ufficio e Omissione, oltre ai reati di omesso controllo e vigilanza, concorso in strage, concorso in omicidio plurimo, omicidio con dolo eventuale. Già nel 2010 il Codacons aveva denunciato i rischi connessi alla soppressione dell'Ispesl (l'istituto incaricato dei controlli sui luoghi di lavoro) e al suo accorpamento all'Inail, presentando ricorso al Tar del Lazio e segnalando come la misura voluta dall'allora Ministro Tremonti avrebbe avuto effetti negativi sul fronte della sicurezza per i lavoratori. Una ditta di confezioni gestita da cittadini cinesi è stata sequestrata questa mattina a Prato, nella zona Macrolotto Due, durante un servizio straordinario interforze. All'interno della ditta sono stati identificati 11 cinesi, di cui due risultati irregolari e quindi condotti in Questura. I locali, in precarie condizioni igienico sanitarie, presentavano abusi edilizi mediante l'allestimento, anche soppalcato con pannellature in legno e cartongesso, di 13 angusti piccoli ambienti dormitorio. Ma anche disastro colposo, omissione di norme di sicurezza e sfruttamento di mano d'opera clandestina: sono i reati per i quali la procura di Prato ha aperto un'inchiesta in seguito all'incendio della fabbrica in cui sono morti 7 lavoratori cinesi. L'unico corpo identificato e uno dei feriti sono irregolari. Intanto una sola delle sette vittime dell'incendio al momento è stata identificata. Si lavora intanto per dare un nome alle altre 6 vittime. Due persone lottano ancora tra la vita e la morte nell'ospedale della città toscana. Unanime il coro di chi dice basta a quella che è stata definita una tragedia prevedibile. "Noi non possiamo permettere che in Toscana ci siano uomini e donne ridotti in una condizione di schiavitù. Ce lo gridano alle nostre coscienze quei corpi morti bruciati, quei volti rassegnati e impauriti dei giovani lavoratori cinesi, quel bambino che e fuggito correndo", ha detto il presidente della regione Toscana, Enrico Rossi. "Qui è il far West e "La maggior parte delle aziende sono organizzate così" dice Piero Tony, procuratore capo di Prato. Gli fanno eco politici e sindacati che sottolineano come "Prato rappresenta probabilmente la più grande concentrazione di lavoro nero, ai limite della brutalità e della schiavitù" E il Codacons ha presentato oggi un esposto alla Procura della Repubblica di Prato in merito all'incendio scoppiato in una fabbrica tessile della città, costato la vita a 7 lavoratori. Con tale esposto l'associazione chiede di accertare le responsabilità del Sindaco di Prato, dell'Inail e dell'Ispettorato del Lavoro relativamente a controlli, verifiche e rispetto delle norme di sicurezza. A Prato - ha detto ancora il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi - "siamo in presenza del più grande distretto tessile sommerso, basato sullo sfruttamento di decine di migliaia di lavoratori cinesi che vivono in condizioni di schiavitù, lavorando 16 ore di giorno e di notte, per un euro l'ora. Queste sono condizioni disumane che ricordano quelle di Auschwitz. La Toscana questo non può permetterselo. Deve intervenire il Governo nazionale - ha aggiunto -la Regione ha fatto la sua parte, garantendo la sanità, senza chiedere un euro in più, e che nelle scuole ci fosse integrazione ma i temi della sicurezza e che qui c'è un'extraterritorialità fuori da ogni legge, devono essere affrontati a livello nazionale". La Campagna Abiti Puliti si stringe intorno ai familiari delle vittime della tragedia di Prato. Il parallelo con quanto avvenuto a Dakha in Bangladesh, poco più di un anno fa, quando 112 persone sono morte bruciate vive nella fabbrica Tazreen, aumenta l'indignazione che tali tragedie suscitano subito dopo che accadono. Non solo perché questa volta la macabra conta dei morti avviene a due passi dalle nostre case. Ma soprattutto perché, ora come allora, ci si trova di fronte a disastri che si potevano evitare. Il fenomeno dei laboratori clandestini, a Prato e non solo, spesso legati alla produzione e al confezionamento di abiti per conto di grandi marchi della moda nazionale e internazionale, è stato denunciato da tempo. Non ci sono alibi per non essere intervenuti prima che una simile tragedia si verificasse. Al momento non sembra esserci alcun marchio coinvolto nella vicenda con contratti di appalto o subappalto. Ma tutte le verifiche del caso sono ancora in corso. Le istituzioni da anni sono impegnate nella costruzione di un sistema economico basato sull'ottenimento del profitto in una logica di concorrenza sfrenata. È ora che intervengano per mettere fine a queste condizioni di schiavitù in cui si ritrovano decine di migliaia di persone. Chiediamo che si inverta la rotta, iniziando ad anteporre i diritti umani e la difesa dei lavoratori agli affari. Tutte le parti in causa devono assumersi le loro responsabilità e dare il proprio contributo a rifondare un patto di civiltà. L'accordo internazionale raggiunto in Bangaldesh, che prevede ispezioni indipendenti negli edifici, formazione dei lavoratori in merito ai loro diritti, informazione pubblica e revisione strutturale delle norme di sicurezza, studiato per la situazione bengalese, può rappresentare, adeguatamente riadattato al contesto italiano, un valido esempio di assunzione di responsabilità di tutte le parti in causa. "Si è scelto di introdurre il reato di clandestinità - si legge in una nota dell'ARCI - rendendo le migliaia di persone straniere che arrivano o sono già in Italia tutte ricattabili, manodopera 'usa e getta', merce che in condizioni disumane, e finchè serve, produce altra merce. E poi - ricorda la nota - c'è chi da anni questa condizione la denuncia, fa proposte, si mobilita a fianco degli sfruttati, dei senza diritti. Avremmo dovuto urlare più forte, data la sordità della politica? Forse. Se serve lo faremo, ma nessuno potrà più nascondersi dietro al 'io non sapevo', pensare di salvarsi l'anima e la faccia con ipocrite condoglianze. Vanno adottate nuove politiche - prosegue il comunicato - va cambiata la legge sull'immigrazione e va eliminato il reato di clandestinità, subito".

Vi spiego perché il sindacato non c'è a Prato. Il segretario Cgil Toscana spiega come vengono assunti i lavoratori all'interno delle aziende cinesi e lancia l'allarme su altre aree della regione, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. “È una giungla impenetrabile per chi ha la fiamma sul cappello, figurarsi per noi sindacalisti”. Alessio Gramolanti, Responsabile Cgil della Toscana non fa riferimento solamente alla zona industriale del Macrolotto dove è avvenuta domenica mattina la strage di lavoratori cinesi ma anche all’area di Campi Bisenzio e di Empoli.

Il Paese e il Governo devono capire che non sono facili i controlli e le ispezioni per carabinieri e Guardia di Finanza e quindi è impensabile che i datori di lavoro cinesi possano aprire le porte delle loro aziende per riunioni sindacali”.

Alessio Gramolanti, tra gli iscritti alla Cgil Toscana compaiono lavoratori di nazionalità cinese?

“No, neppure uno”.

Mai nessun cinese si è rivolto al sindacato per denunciare le condizioni di lavoro disumane alle quali sono costretti a sottostare?

“Si, a dir la verità due lavoratori nel 2012”.

Che cosa hanno raccontato e soprattutto che cosa vi hanno chiesto…

“Volevano essere regolarizzati e chiedevano il riscatto di tutte le ore di lavoro svolto al nero.  Adesso vi spiego come vengono assunti. Ciascun lavoratore cinese viene assunto con un contratto part time a tempo indeterminato, quindi gli viene pagato regolarmente, ai fini di legge, dal datore di lavoro solamente lo stipendio per quel tipo di contratto. In realtà queste persone lavorano continuamente per tutto il giorno e a volte anche durante la notte. Riposano pochissimo. I due lavoratori che si sono presentati alla Cgil chiedevano il pagamento e i contributi per le ore lavorate fuori contratto”.

Avete fatto vertenza?

“Si, l’abbiamo vinta ma i due lavoratori sono stati licenziati e dopo sei mesi di disoccupazione sono stati costretti a rimpatriare. Adesso serve uno “scatto” politico importante.”

Che cosa intende. Ci spieghi meglio…

“Lo Stato deve prevedere interventi di tipo repressivo e allo stesso tempo di integrazione. Non è possibile reprimere senza prevedere una possibilità o opportunità di lavoro per queste persone che altrimenti si ritroverebbero senza occupazione. La vicenda di Rosarno dovrebbe farci capire che è necessario dare una opportunità a questi lavoratori clandestini che si trovano in Italia. Poi lo Stato deve poter potenziare gli organi di controllo su questo territorio..”

Il Comune di Prato sta lavorando da anni alla messa in sicurezza di queste aziende, ma quante altre persone aiutano l’ente pubblico in questi controlli?

“Per 90 mila lavoratori  presenti solamente nel Marcolotto (l’area dove si è sviluppato l’incendio. ndr.)c’è un solo ispettore Inail, dell’ispettorato del Lavoro ce ne sono solo 2 e poi 1 dipendente dell’ufficio Igiene e sicurezza ogni 7 mila lavoratori”.

Secondo la Cgil Toscana quale dovrebbe essere  adesso il primo step, quello da attuare immediatamente..

“La tracciabilità del lavoro e delle responsabilità del committente. E’ una cosa possibile che garantisce sicurezza e emersione del lavoro nero. L’azienda Gucci lo ha fatto e con ottimi risultati. Dunque lo possono fare tutte le aziende, non solo quelle del lusso. Ma la cosa più importante è che le aziende italiane devono rompere i legami con le aziende cinesi che lavorano illegalmente sul nostro territorio. Solo spezzando il canale commerciale si potrà pensare alla regolarizzazione di queste aziende”.

Certificati residenza comprati dai cinesi: 11 arrestati a Prato. La Guardia di Finanza sta eseguendo 11 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di appartenenti ad una presunta associazione a delinquere composta da italiani e cinesi che a Prato favoriva il rilascio di falsi certificati di residenza ad immigrati di origine cinese. Nell’inchiesta è coinvolto anche un pubblico ufficiale: si tratterebbe un dipendente del Comune di Prato addetto alle certificazioni di residenza. I provvedimenti sono stati emessi dal Gip del tribunale di Prato. Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, l’associazione - attraverso la complicità del pubblico ufficiale - riusciva ad ottenere illecitamente, in cambio di denaro ed altre utilità, le iscrizioni all’anagrafe di cittadini cinesi che non ne avevano i requisiti ed erano entrati in Italia illegalmente. Dalle indagini sarebbe emerso che almeno 300 cittadini cinesi hanno usufruito dell’associazione per avere i documenti.

Scoperti almeno 300 cittadini cinesi che, pagando dai 600 ai 1.500 euro, ottenevano la residenza pur non avendo i requisiti. Coinvolto anche un dipendente del Comune, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. Undici persone sono finite in manette, nella città toscana, per aver facilitato il rilascio di false residenze ai cinesi. Gli arresti sono stati eseguiti questa mattina dalla Guardia di Finanza, sulla base delle ordinanze di custodia cautelare emessi dal Gip di Prato nei confronti di una banda, accusata di associazione a delinquere, formata da italiani e cinesi che avrebbe facilitato l’indebito rilascio di certificati di residenza a favore di cinesi immigrati. Nell’inchiesta è coinvolto anche un pubblico ufficiale: è un dipendente del Comune di Prato che si occupa dei certificati di residenza. Grazie alla complicità del funzionario comunale, la banda sarebbe riuscita a far iscrivere all’anagrafe oltre 300 cinesi che non avevano i requisiti e che sono arrivati in Italia da regolari. Per il rilascio dei documenti sarebbero state pagate anche tangenti. Pur di ottenere il certificato di residenza, infatti, i cinesi irregolari avrebbero pagato all’associazione criminale somme tra i 400 e i 2.000 euro. Prima di consegnare il certificato di residenza la banda ritirava i passaporti ai cittadini asiatici. Una parte dei soldi raccolti veniva girata dai componenti cinesi della banda ai colleghi italiani. L’indagine della Gdf è durata quasi un anno. Si calcola che il giro d'affari della banda abbia raggiunto i 450mila euro in otto mesi.

La nemesi del Cenni, la nemesi di Prato. Il "sindaco anti-cinese" proclama per domani il lutto cittadino: per un giorno gli italiani piangeranno gli odiati cinesi, scrive Giovanni Cocconi su “Europa Quotidiano” del 3 dicembre 2013. E’ la nemesi del Cenni, è la nemesi di Prato. Per la prima volta nella sua storia domani sarà lutto cittadino. La campana civica di Palazzo Pretorio rintoccherà a lutto, le bandiere saranno a mezz’asta, in scuole e uffici pubblici per un minuto si sentirà solo il silenzio. La tragedia ha fatto il miracolo. I pratesi piangono gli odiati cinesi, per una volta fratelli. E il paradosso nel paradosso è che a proclamare il lutto cittadino è stato quel Roberto Cenni che, nel 2009, Il Tirreno definiva «il sindaco anti-cinesi», l’ex Mister Sasch. Il quale, nella città più cinese d’Europa, promettendo “tolleranza zero” contro il lavoro nero, riuscì a conquistare la città dopo 63 anni di dominio rosso. La città delle case del popolo raccontate da Roberto Benigni. Ma non chiamatelo Mister Sasch. Oggi il marchio di abbigliamento che un tempo girava il mondo per lui è solo un brutto ricordo, che tutti i mesi lo costringe a versare i 4mila euro dell’indennità da sindaco ai creditori dell’azienda, fallita nel 2011. Bei tempi. Era stato proprio il Cenni, negli anni Novanta, a trasformare un’azienda del tessile all’ingrosso in un vero gruppo di abbigliamento casual di fascia medio- bassa, rivoluzionando distribuzione e marketing (Sasch era tra gli sponsor ufficiali di Miss Italia), anche per mettersi al riparo dalla concorrenza cinese, allora solo agli inizi. L’espansione all’estero fu rapidissima, c’è chi dice troppo, con l’apertura di centinaia di punti vendita monomarca per reggere la concorrenza dei giganti Zara ed H&M, i modelli stranieri ai quali la Sasch di Cenni ha cercato di tenere testa. Nei tempi d’oro Sasch contava più di 250 negozi, la metà dei quali in Italia, molti in franchising. E poi Russia, Messico, Romania, Polonia, Cina. Sì, anche in Cina, a Shangai, dove anni dopo gli operai di un’azienda tessile, senza stipendio da mesi, si fermeranno per protestare contro l’azienda controllata proprio dalla Sasch. Paradossi della globalizzazione. «Non sono un sindaco anti-cinese, sono un uomo della globalizzazione» si è sempre difeso il Cenni, un po’ imprenditore e un po’ sindaco, e sempre molto in imbarazzo quando la prima metà era costretta a dare risposte all’altra metà nei tempi bui della ristrutturazione dell’azienda, con quasi 400 dipendenti senza lavoro. Nel 2008 tutto il distretto del tessile di Prato andò in piazza srotolando un enorme striscione tricolore. Un evento che sancì, simbolicamente, lo starter della crisi italiana che non si è ancora chiusa. L’anno successivo il Cenni riuscirà a vincere le elezioni anche sulla scia di quel malessere, il disagio di migliaia di padroncini che si trovavano la concorrenza cinese in casa. «Tolleranza zero contro il far west» è la parola d’ordine di una campagna elettorale che lo vede candidato in una lista civica ma alla guida di una coalizione che comprende anche Pdl, Lega Nord, Udc e Destra. In questi quasi cinque anni blitz e controlli contro il lavoro nero made in China non sono mancati. Ma nemmeno sono bastati a evitare la morte di sette operai nel rogo di domenica. «Una tragedia annunciata» dice oggi il sindaco. «Ci troviamo di fronte a un problema epocale, a una realtà più grande di noi» ammette il suo assessore all’integrazione. Qualcosa, però, forse cambiando. Qualche mese fa per la prima volta un operaio cinese clandestino ha deciso di fidarsi delle istituzioni e di denunciare il suo sfruttatore. Chissà se basterà.

La strage di Prato e l'illegalità tollerata per convenienza. Chiudiamo gli occhi sull'illegalità, senza renderci conto che così finiscono fuori mercato tante aziende italiane a cui quelle violazioni non sono concesse, scrive  Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Oggi sarà il giorno del lutto e delle polemiche ipocrite per i morti di Prato. Ma dureranno meno di quel che c'è voluto a spegnere l'incendio della fabbrica e a ricomporre pietosamente i corpi di quei poveri cristi che spalavano carbone nella caldaia vorace del nostro consumismo. Non è una previsione: è una certezza. Perché è già successo. Dopo un blitz della Guardia di finanza in una sartoria industriale in nero ricavata da un oscuro scantinato o dopo i morti nei regolamenti di conti della malavita asiatica che traffica invisibile anche nelle nostre città. Brevi in cronaca, notizie che ci scivolano addosso. Perché sono cinesi. Non è una questione di razzismo, il colore della pelle o le differenze culturali c'entrano poco. Il punto è che questa possente macchina produttiva che pulsa a Pechino, ma è ramificata in tutto il mondo, Italia inclusa, ha nel suo Dna due geni che la rendono invisibile ai nostri occhi. Il primo è la capacità della comunità cinese di organizzarsi in un mondo autarchico e silenzioso. Ha proprie regole e dinamiche, servizi interni «specializzati» (oculisti, dentisti) e perfino una criminalità autonoma che è così saggia da non immischiarsi degli affari illegali altrui. Perfino gli omicidi di cinesi sono per lo più commessi da cinesi. Ma non solo. L'altro gene della loro invisibilità è la capacità di offrire merci e servizi a basso costo, sfruttando un'innata capacità di adattamento, di più, di mimesi, che fa parte della cultura cinese. È ormai caso di scuola la causa vinta dalla Ferrero in Cina: per la prima volta un giudice diede ragione a un'azienda italiana il cui prodotto era stato letteralmente «clonato» da un rivale cinese. I Ferrero Rocher a Pechino erano diventati «Tresor Dorè», identici in tutto e per tutto, venivano perfino offerti dagli ambasciatori cinesi agli ospiti stranieri come simbolo di prelibatezza locale. Il giudice di primo grado aveva dato torto a Ferrero, lodando l'azienda cinese per la capacità di copiare così bene. Per loro è un vanto. Clonano i prodotti, lavorano sodo, sono abili commercianti e si mimetizzano. Il rapporto Istat in settimana ha mostrato che il nome di battesimo più comune per i cinesi nati in Italia è Matteo. Dietro a questo sipario scivolano come formiche operose e producono per noi, violando ogni regola. Hanno abrogato di fatto la legge Merlin aprendo centri estetici con ingresso su strada che tutti sanno essere luoghi di prostituzione. Spesso impiegano lavoratori in nero. Non è difficile trovare parrucchieri cinesi aperti nel giorno di chiusura obbligatoria. Molti negozi non fanno scontrini. Tante merci non rispettano i canoni minimi di sicurezza e atossicità. A Milano ci sono perfino ristoranti frequentati quasi solo da cinesi in cui si fuma tranquillamente. Spesso, quasi sempre, su queste violazioni chiudiamo gli occhi. Perché è comodo tagliarsi i capelli fuori orario o comprare il caricabatterie del cellulare o un maglione a un decimo del prezzo. Conviene, e per questo chiudiamo gli occhi sull'illegalità, chiudiamo gli occhi su morti e sfruttati, senza renderci conto che così finiscono fuori mercato tante aziende italiane a cui quelle violazioni non sono concesse. E allora bisognerebbe almeno evitare l'ipocrisia: o meno regole per tutti o farle rispettare a tutti. Perché di fronte a quei corpi carbonizzati possiamo pensare che non ci riguardi e girarci dall'altra parte, ma a forza di chiudere gli occhi si va contro un muro.

Pm sveglia, i cinesi sono berlusconiani (purtroppo anche noi). Malafede. Non c’è altro termine per defini­re il modo con cui spesso viene applica­ta, o non applicata, che è poi il rovescio della medaglia, la giustizia in questo Paese, scrive Alessandro Sallusti  su “Il Giornale”. Malafede. Non c'è altro termine per definire il modo con cui spesso viene applicata, o non applicata, che è poi il rovescio della medaglia, la giustizia in questo Paese. Ieri il tribunale di Milano ha emesso una sentenza che ci riguarda. Il nostro collega Luca Fazzo è stato condannato a sei mesi di carcere senza condizionale per diffamazione. Aveva definito in un articolo «cocainomane incallito» un tizio coinvolto in una inchiesta sullo spaccio nelle discoteche della Milano bene. Il pm aveva chiesto una ammenda di tremila euro, e già la cosa ci era sembrata ingiusta. Non è una opinione, vi riporto uno stralcio dell'interrogatorio-confessione del suddetto galantuomo: «Sono consumatore da 4 anni di cocaina e negli ultimi anni ne consumo parecchia anche dalle due alle quattro volte alla settimana (...) di solito funziona che al tavolo del privè dell'Hollywood si chiede ai presenti se hanno cocaina ed effettivamente molti ne hanno disponibilità e sono adusi a regalarla. Io e le mie amiche andavamo in bagno a consumare la sostanza». Ora, uno che ammette di consumare regolarmente coca da quattro anni come andrebbe definito? Diversamente non cocainomane? Perbenino? La colpa di Fazzo non è quella di aver commesso un errore professionale. Anzi, è stato come al solito un cronista scrupoloso. Paga solo il fatto di lavorare per Il Giornale, paga per aver scritto senza remore dell'accanimento giudiziario contro Berlusconi. Paga, insomma, il prezzo ingiusto della sua libertà. Una cosa simile è successa, sempre ieri e sempre al tribunale di Milano, a Daniela Santanchè. Quattro giorni di carcere, commutati in pena pecuniaria, per aver manifestato senza permesso (così dice l'accusa) contro l'uso del burqa da parte delle donne della comunità islamica di Milano. Notate bene: portare il burqa, in questo Paese, è reato, ma non risulta che quelle donne siano state sanzionate. Così come non c'è traccia di condanne al carcere per le centinaia di proteste non autorizzate (dai No Tav ai centri sociali) che ogni giorno bloccano e a volte devastano parti delle nostre città. Ma si sa: anche la Santanchè è donna di centrodestra, anche lei non tace critiche a certa magistratura. E quindi giù botte. A farla franca invece sono quei criminali cinesi che con i loro laboratori-ghetto schiavizzano giovani e donne, inquinano e creano danni enormi al libero mercato. Possibile che se un nostro artigiano non rispetta anche l'ultimo cavillo delle leggi sulla sicurezza (non parliamo di quelle fiscali) le procure gli chiudono l'azienda e invece centinaia di cinesi possono violare leggi e diritti umani? Quei poveri morti di Prato li ha sulla coscienza anche la magistratura, che invece di occuparsi di reati veri e gravi perseguita - a senso unico - la libertà di espressione. Per salvare altre vite in pericolo bisognerebbe diffondere la notizia che i cinesi votano Berlusconi. Solo così possiamo sperare che qualcuno in procura alzi il posteriore dalla scrivania e faccia il lavoro per il quale è lautamente pagato.

PRATO E LA MASSONERIA.

La statua di Giuseppe Mazzoni che guarda il Duomo ha tentennato. Allora, per rispondere, si è mosso addirittura il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, scrive Alessandro Pattume su “Il Tirreno”. Quello che intende il vescovo Gastone Simoni riguarda un certo tipo di "attrazione fatale" che ha spiegato con dovizia di particolari addirittura dieci anni fa, durante una lunga intervista rilasciata al Tirreno dopo aver festeggiato il settimo anniversario del suo arrivo nella città di Prato. Parole che riguardavano da una parte la positiva apertura di un numero sempre maggiore di persone alla spiritualità, ma dall'altra anche il conseguente rischio di incappare in un tipo fasullo di spiritualità o in un «un certo tipo di cammino spirituale, caro alla tradizione massonica, indifferente a una precisa identità di fede», e soprattutto alternativo alla spiritualità evangelica. Di qui, dieci anni dopo, con tutto quello che è stato e con la crisi che morde anima e corpo dei pratesi, le parole del vescovo di Prato devono essere suonate come un'accusa su cui non si poteva passare sopra ai membri delle logge cittadine. «Non si può tacere sul fatto che in città esistano certi poteri - ha infatti detto il vescovo - Bisogna parlarne apertamente. Nei miei rapporti personali mi sono anche reso conto che tanti sono entrati in qualche loggia non tanto per odio contro la Chiesa, ma per un mix di interessi personali e attrazione per l'esoterico». La loggia reagisce. Troppo, evidentemente, per la Loggia del Grande Oriente d'Italia. Il tam tam massonico ha impiegato tre giorni per arrivare alle orecchie del Gran Maestro in persona e quelle che ieri sono giunte da Ravenna, in forma di lettera aperta firmata Gustavo Raffi, sono parole che respingono e ricambiano in toto le cortesie espresse dal vescovo di Prato Gastone Simoni. «Mi arriva il soffio delle sue paure sulla massoneria a Prato come se questa istituzione dedita al bene dell'umanità giungesse col freddo o con il virus della febbre suina a debilitare il tessuto civile e il vissuto della città - comincia la lettera - ma vorrei anche rassicurare spiegandole che non ha nulla da temere dai liberi muratori, che sono uomini del dubbio ma prima di tutto uomini onesti e di buoni costumi». E la rassicurazione si colora forse di scherno più avanti, prima di passare alle richieste di un confronto. «Suvvia, eccellenza, i tempi delle prediche alla Savonarola sono finite da lunga pezza e voglio rassicurarla - scrive Raffi - che non abbiamo scelto di colonizzare Prato e che non vedrà di notte girare campanelli sotto i suoi portici nè troverà mandragore negli orti della Curia». Piuttosto, semmai, è un invito a confrontarsi, quello che chiede il Gran Maestro, ma che finisce per assumere anche sfumature degne di un rimprovero. «Metta al bando le sue paure e le sue ansie e si confronti con chi, come i fratelli massoni di Prato, da anni e in stile di costruttiva proposta, cerca il bene comune per la città e il suo vissuto» chiede la lettera. Confronto sì, «ma se poi le ricette non arrivano - continua - se la politica o la Chiesa stessa non riescono a declinare soluzioni, non se la prenda con fantomatici "poteri esoterici", altrimenti creiamo ancora più spaesamento». «Mi piacerebbe discutere con lei di queste cose da vicino - conclude il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi - come faccio da anni con il cardinale Tonini e altre espressioni della chiesa del Vaticano II. Amo credere che nel presepio della sua Diocesi [...] ci siano anche alcuni dei nostri fratelli massoni. Se alzerà lo sguardo, li vedrà in silenzio ma sempre all'opera, a portare la loro parte di pietra e di luce all'unica strada che resta, per noi come per Dio: quella dell'uomo».

PRATO MAFIOSA.

Prato, profitti in nero per 4,5 miliardi riciclati ed esportati dalla mafia cinese. La capitale tessile della Toscana è una centrale del gigantesco flusso di denaro sporco: più della tassa dell'Imu. Così si concludono le indagini su cinque anni di attività. Gli indagati sono 287, scrive Franca Selvatici su “La Repubblica”. UN atto di accusa contro un'economia tanto florida quanto radicalmente illegale. Una fotografia drammatica del sistema delle imprese cinesi attive principalmente a Prato ma anche in altre città italiane, e del suo effetto devastante sul settore tessile, sulla pelletteria, sulle calzature, sul pronto moda, sull'abbigliamento. Tale è l'avviso di conclusione delle indagini preliminari sugli sterminati profitti che, dopo essere stati conseguiti in Italia grazie allo sfruttamento di manodopera sottopagata e spesso clandestina, al contrabbando doganale, alla contraffazione di marchi e all'evasione fiscale, venivano ripuliti, frazionati e inviati in Cina. Si parla del riciclaggio di 4 miliardi e mezzo di euro (pari a quasi 9 mila miliardi di lire) dal 2006 al 2010. Denaro volato via dall'Italia. Una cifra spaventosa. Più dell'Imu sulla prima casa. Di questo enorme flusso di denaro, circa un miliardo e mezzo sarebbe partito da Prato. Il trucco dello smurfing. L'avviso di conclusione, che rappresenta la sintesi delle inchieste "Cian Liu" (fiume di denaro), "Cian Ba" (diga sul fiume) e "Cian Ba 2012" della Guardia di Finanza, è un atto di 133 pagine firmato dal procuratore Giuseppe Quattrocchi e dal sostituto distrettuale Pietro Suchan, il primo magistrato italiano ad essersi occupato sistematicamente di mafia cinese, nel frattempo passato a Eurojust, l'organismo europeo che si occupa di reati transnazionali. Le persone indagate sono 287, quasi tutti imprenditori cinesi o loro prestanomi, ma anche alcuni italiani. A ventiquattro di loro viene contestata l'accusa di associazione mafiosa "finalizzata al riciclaggio di ingenti somme di denaro pari a euro 4.501.189.227,58, dall'anno 2006 all'anno 2010". Tre esponenti della famiglia cinese Cai  -  Jianhan e Chen Qui residenti a Milano, e Chengchun, residente a Padova  -  sono ritenuti i promotori e, con Luciano Bolzonaro di Bologna, anche gli organizzatori e i dirigenti della associazione mafiosa, a cui gli altri sono accusati di essere associati. Fra di loro anche i figli di Luciano Bolzonaro, Fabrizio e Andrea. Al centro dell'inchiesta vi è la società di intermediazione finanziaria Money2Money con sede legale a Bologna e subagenzie sparse in varie città italiane. Nel 2006 i Cai divengono soci dei Bolzonaro in Money2Money e da quel momento si verifica una crescita improvvisa ed enorme di raccolta di denaro da trasferire in Cina. Sostiene l'accusa che in Money2Money e nelle subagenzie gli imprenditori arrivavano con borse di decine o centinaia di euro in contanti, e che gli importi  -  prima di essere inviati in Cina  -  venivano frazionati in tranches di 1.999 euro ciascuna, mentre i reali mittenti venivano occultati dietro nominativi di prestanome talvolta consapevoli, talvolta ignari o addirittura inesistenti. La procura ritiene inoltre che questa colossale attività di riciclaggio sia stata eseguita con modalità mafiose, e cioè con l'uso della forza intimidatrice verso l'esterno e verso l'interno, con conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà, in modo tale da acquisire il controllo di gran parte delle rimesse degli imprenditori cinesi operanti in Italia. Con l'aggravante, secondo l'accusa, di aver svolto tale attività "al fine di agevolare e rafforzare, almeno in parte, altre associazioni e gruppi di criminalità cinese di stampo mafioso, come quelle operanti a livello internazionale e nell'area fiorentino-pratese dedite, fra l'altro, alla gestione organizzata dei flussi migratori degli immigrati cinesi clandestini in Italia e in Europa". Nel 2010, quando venne data notizia della prima indagine Cian Liu (fiume di denaro), con la scoperta, all'epoca, di un flusso di denaro riciclato pari a 2,7 miliardi di euro e 24 arresti, l'allora procuratore nazionale antimafia e oggi presidente del Senato Pietro Grasso la definì "una maxioperazione senza precedenti contro la mafia cinese in Italia, sia nei metodi sia negli obiettivi". E il pm Suchan spiegò che era stato scoperto "un fiume di denaro fra Italia e Cina e un fiume di clandestini dalla Cina all'Italia, in una palude di connivenze, omissioni e interessi illeciti, non solo di cinesi, ma anche con la complicità interessata di diversi italiani".

Prato, il tesoro da 4 miliardi della mafia cinese. Una cifra più alta dell'Imu sulla prima casa uscita illegalmente dall'Italia nel giro di 5 anni. Un flusso enorme di denaro, partito in larga parte da imprenditori di Prato e spostato in Cina attraverso i "money transfer" tra il 2006 e il 2010, scrive Michele Bocci su “La Repubblica”. Vale 4,5 miliardi il maxi riciclaggio scoperto dalla guardia di Finanza e dalla procura di Firenze, che ha chiuso le indagini preliminari su un sistema economico illegale radicato in Toscana ma anche in alcune grandi città come Roma, Milano e Napoli. A spostare i soldi erano soprattutto immigrati cinesi ma non solo, del sistema facevano parte anche italiani. I soldi erano guadagnati in Italia al nero grazie allo sfruttamento di manodopera sotto pagata e in certi casi clandestina, alla contraffazione di marchi, al contrabbando e all'evasione fiscale. Per ripulirli venivano mandati in Cina utilizzando un numero enorme di transazioni di basso valore, la maggior parte di appena 1.999 euro l'una, che permettevano di evitare i controlli, automatici dai Un'industria tessile cinese 2mila euro in su. Chi inviava realmente il denaro era occultato dietro prestanome alcune volte consapevoli, altre ignari o inesistenti. Il lavoro per le agenzie era immane. In cinque anni una che si trova in via Principe Umberto a Roma ha fatto qualcosa come 460.686 operazioni per un totale di un miliardo 245 milioni di euro trasferiti. È stata Bankitalia a rendersi conto che qualcosa non andava. I controlli periodici sulle transazioni transfrontaliere hanno rivelato che nel 2009 e nei due anni precedenti solo da Prato sono partiti qualcosa come 430 milioni di euro all'anno per la Cina. Nel 2010 è stata resa pubblica la prima indagine della procura di Firenze e quell'anno i trasferimenti dalla città toscana sono scesi a 170 milioni. Non sono più tornati al livello dell'anno precedente. Segno che il flusso di denaro è stato interrotto o ha trovato altri canali. L'avviso di conclusione indagini è la sintesi di tre inchieste della Guardia di Finanza. Gli indagati sono 287, quasi tutti imprenditori cinesi o loro prestanomi, ma anche alcuni italiani. Per 24 di loro l'accusa è di associazione mafiosa «finalizzata al riciclaggio di ingenti somme di denaro pari a euro 4.501.189.227,58, dall'anno 2006 all'anno 2010». La procura è infatti convinta che la colossale attività di riciclaggio sia stata eseguita con modalità mafiose, e cioè con l'uso della forza intimidatrice, con conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà, in modo tale da acquisire il controllo di gran parte delle rimesse degli imprenditori cinesi operanti in Italia. Il tutto agevolando e rafforzando «almeno in parte», altri gruppi di criminalità cinese di stampo mafioso, come quelli che gestiscono i flussi degli immigrati clandestini tra Firenze e Prato. Al centro dell'inchiesta c'è la società di intermediazione finanziaria Money2Money con sede a Bologna e subagenzie sparse in varie città italiane. Nel 2010, quando gli investigatori illustrarono la prima indagine che fece scoprire i primi 2,7 miliardi trasferiti in Cina, l'allora procuratore nazionale antimafia e oggi presidente del Senato Pietro Grasso arrivò a Firenze e la definì «una maxioperazione senza precedenti contro la mafia cinese in Italia, sia nei metodi sia negli obiettivi».

MANIFESTO CONTRO LA MALAGIUSTIZIA.

Manifesto contro la malagiustizia. Processare la gogna. Non si può tacere di fronte al libro di Piero Tony, scrive Giuliano Ferrara su “Il Foglio”. Piero Tony non è Flaubert né vuole o ha bisogno di esserlo. Non è supremo stilista e non si occupa che indirettamente del cuore umano e dei sensi. Ma fa lo stesso. Così come Madame Bovary ti consente di capire (sentire come parte del tuo mondo) la stupidità del farmacista, la compostezza broccolona del marito, la vanità degli amanti, l’inquietudine dell’amore, il presagio della morte in una carrozza che sobbalza e la quint’essenza della puttanaggine o della vita borghese di provincia, proprio così, proprio allo stesso modo ti è consentito, se leggi il libretto di Tony, un magistrato che si è stufato e la dice chiara e tutta, di capire che cosa è andato storto nel nostro modo di giudicare le persone, di fare pulizia nella vita pubblica, di trattare gli esseri umani come mezzi invece che come fine, di costruirci una leggenda nera al posto della nostra stessa storia. E di sentire il tradimento dei giornali, l’invacchimento dell’informazione televisiva, la resa al peggio di istituzioni di garanzia del vivere civile come parte del tuo mondo. Di oggi. Il mondo che vivi. Di cui parli o scrivi. Sono i miracoli della scrittura quando rende testimonianza e ti porge l’anticchia di verità di cui hai bisogno nella forma sublime del romanzo o nell’ordinario e chiarissimo linguaggio di un esposto civile. Insomma questo breve trattato di un magistrato che si è stufato, si è messo da parte e ha deciso di dirla tutta con spontanea sicurezza, con contegno, senza urlare, senza fare nomi a casaccio, mantenendo terzietà giudicante anche nella denuncia, è efficace come un classico dell’Ottocento. L’autore, toga pura, si meriterebbe un processo al termine del quale poter dire “Madame Bovary c’est moi”, e invece oggi la censura opera per silenzi, ammiccamenti, rimozioni, edulcorazioni e altri mezzi bassi di deprezzamento e di isolamento di chiunque non stia al gioco. E’ un vero peccato di omissione, è la rinuncia al piacere intellettuale della riscoperta di ciò che non sapevi di sapere, ma vagamente intuivi, il fare finta che questo libro Einaudi (stile libero extra) non sia in libreria, il passare oltre e considerarlo un qualunque saggio sulla professione di magistrato scritto “da uno di loro”. Come testimoniato da Indro Montanelli in tempi non sospetti (ne riferivamo ieri qui), Piero Tony, il procuratore generale che osò mandare a monte il processo mediatizzato sul mostro di Firenze, è un campione di retorica forense, ma proprio perché la sa esercitare senza ornamento, nuda e chiara come la luna piena nelle serate terse. Nel suo manifesto di una vita non si propone come campione di alcunché, si offre di aprirci o scoperchiare la sua vita in toga, e di spiegarci come mai questo paese è avviluppato nella spirale umiliante della politicizzazione della giustizia, dell’arbitrio nell’esercizio del diritto, della “supplenza” invasiva che porta alla fine della divisione dei poteri, nella torsione a fiction, ma di quella banale, fotoromanzata, del reale giurisdizionale, con orde di manettari, di personaggi sciatti e farfalloni, di ambiziosi pieni di bullaggine e di prosopopea, tutti intenti a primeggiare, gareggiare nel nulla delle “hard news”, costruire teoremi moraleggianti, distruggere vite e società civile compromettendo una delle tre istituzioni decisive di una democrazia liberale, il giudiziario. L’autore è persuasivo quando descrive la politicizzazione della giustizia penale, la lentezza e l’impaccio così utili dei suoi meccanismi, la discrezionalità togata che diventa arbitrio, la politica che asseconda il fenomeno e lo fa suo per gola e per inerzia anche prima di restarne vittima, la gogna che stravolge vite ed è “giudizio costituzionale definitivo”, il famoso “giudicato” di tipo nuovo, acconcio ai tempi, la persecuzione strepitante di “fenomeni” da processare invece che di “reati” da individuare e provare; è persuasivo perché è tecnico (quando ci vuole) ma non pedante, perché parla di tutto ma come i signori parla delle cose e non delle persone, lasciando al lettore il suo personale catalogo degli errori e degli orrori. Capisci cosa pensa, tutto il male possibile, del processone stato-mafia o del processo Ruby o delle persecuzioni delle streghe pedofile, ma lo capisci perché ti racconta come si stravolge una procedura, come si nullifica la riforma del processo inquisitorio, come si sostituisce il soggettivismo e la cultura di corrente o ideologia di parte alla coscienza collettiva di una professione di Stato esercitata in nome del popolo o al libero convincimento del giudice. Il “che cosa” spiegato bene attraverso il “come”: sono lacerti di verità che i lettori del Foglio conoscono da vent’anni, che sono parte sostanziale della nostra piccola ma tenace funzione editoriale e civile, sono cose che magari ricordate da un articolo di Vitiello, da un pezzo di Mauro Mellini, da un saggio di Fiandaca,  ma stavolta chi parla non è un politico come Violante (in funzione di storia critica di sé stesso), non è uno di noi corsari dell’informazione, stavolta è un compassato magistrato di sinistra che vorrebbe tanto voltare la faccia dall’altra parte, che cita anche tutto il buono che c’è nel lavoro di mille suoi colleghi, ma che non riesce, proprio non riesce, a non essere sottile e sferzante, accusatorio e generoso di dettagli e di virgole decisive tra una fattispecie e l’altra di moralismo messo fraudolentemente al posto del diritto penale. E c’è veramente tutto: c’è il capitolo sul concorso esterno in mafia, una lettura drammatica a carcere in corso per i Cuffaro e i Dell’Utri, c’è lo smantellamento del guardonismo e del comune senso del pudore capace di condurre a campagne “isteriche” e antiliberali sul sesso e l’amicizia, c’è l’elencazione senza nomi ma palmare del numero infinito di “salti in politica” che ha screditato come parziale e faziosa la funzione di giustizia che va dalle inchieste milanesi sulla corruzione ad oggi. E c’è la gioia di vedere che questo gran finale di carriera, perché Tony come ho detto ha scelto di chiamarsi fuori per essere finalmente dentro il problema della malagiustizia, è stato pescato da un giovanissimo cronista, che ora dirige questo giornale, abituato a leggersi le pagine locali dei giornali e disposto a partire per Prato e a parlare con il capo dell’ufficio dei pm che aveva in animo il programma galeotto di questo magnifico libro. Da anni ci chiediamo: quando finirà il tormento della giustizia ingiusta, dell’arbitrio, della compromissione dell’intera magistratura nei comportamenti abnormi delle sue avanguardie supplenti della politique politiciènne? A leggere questo libro il momento della rivoluzione di libertà e di diritto è arrivato; a sentire il silenzio ottuso e impudico che per adesso lo circonda, quel momento è sempre rimandato.

Le confessioni dell'ex procuratore Piero Tony: "Ecco cosa fanno le toghe rosse". L'ex procuratore: "Dire che la magistratura è politicizzata non è una provocazione ma è una dura realtà. I responsabili della gogna giudiziaria sono spesso nelle procure", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "Le toghe rosse esistono, e adesso vi racconto cosa fanno". A parlare è l’ex procuratore capo di Prato, Piero Tony, che in un libro, “Io non posso tacere. Un magistrato contro la gogna giudiziaria. Confessioni di un giudice di sinistra”, scritto con il direttore de Il Foglio, Claudio Cerasa, racconta la sua carriera da magistrato iscritto a Magistratura Democratica. La toga alza il velo sulle dinamiche dei magistrati di sinistra e sul loro modo di gestire la giustizia. "La situazione di oggi è questa, una magistratura corporativa e politicizzata, vistosamente legata ai centri di potere, che non urla per protestare contro un sistema che l’ha resa inutile, ma anzi continua a opporsi in modo sistematico a qualsiasi progetto di riforma dell’esistente. È probabilmente l’effetto del piccolo cabotaggio delle varie campagne elettorali, attente più agli indubbi privilegi di categoria, compresi quelli economici, che ai modi per sanare un sistema spesso inefficiente. Piccolo cabotaggio che però non impedisce – soprattutto per quell’assenza di complessi sottesa a una politicizzazione così anomala – di agire e pontificare non solo in casa propria, ma in relazione a buona parte dei grandi temi politici nazionali e internazionali senza tema di essere apostrofati con un “taci, cosa c’entri tu?”. È questo che ha portato la giustizia, e non solo Magistratura Democratica, a ritenere di avere una singolare missione socioequitativa realizzabile non con la difesa dei più deboli, ma con l’attacco ai più forti. È come se a un tratto, in mancanza di alternative di governo, una parte della magistratura avesse scelto di perseguire attraverso la via giudiziaria l’applicazione del socialismo reale. Ma così salta tutto. Saltano i confini tra la politica e la magistratura. Salta la distinzione dei ruoli. Oggi è solo tautologia dire che la magistratura è partitizzata, non si tratta di un’opinione, è un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. È un dramma, negarlo sarebbe follia", scrive Tony. E ancora: "ora è ovvio che qualcuno pensi, mettendo insieme i pezzi, che talvolta l’azione della magistratura possa nascondere un fine legato non solo al rispetto della legge, ma anche a un’idea della politica. Attenzione, non mi riferisco a complotti o ad altre ingenuità del genere. Qui si tratta proprio di un problema di metodo, individuale. Non esistono complotti, esistono atteggiamenti, che a volte possono essere più o meno diffusi, e questi atteggiamenti spesso presentano lo stesso problema: la legge non è uguale per tutti, ma è più severa con chi non la pensa come te. Si tratta di accanirsi su una persona, o di utilizzare con questa metodi che non useresti con altri, solo perché ciò ti fa sperare in un ritorno d’immagine. (…) A questo punto mi si chiederà inevitabilmente: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Non entro nel merito dei processi, che non conosco, non ho titolo per farlo, ma mi sento di affermare senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. Anche nel caso Ruby, che in linea teorica avrebbe dovuto essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale". Insomma per chi avesse bisogno di ulteriori conferme non resta che leggere la confessione integrale di Piero Tony sul suo libro, che di certo solleverà non poche polemiche.

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito. Qualche frase del libro? «È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia». Ancora? «Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile. 

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia. 

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica? 

Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto.

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario». 

Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo. 

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994.

Passiamo alle intercettazioni? 

Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè».

Il bignè?

Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo.

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena. 

Qual è la sua soluzione, allora?

Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente.

Ma è soltanto sciatteria?

In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola.

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità.

Cioè?

Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo.

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere. 

Divampa la polemica fra le toghe, scrive Domenico Coviello su “Firenze Post”. Durissima presa di posizione, oggi 12 giugno, da parte della Giunta distrettuale toscana dell’Associazione nazionale magistrati contro Piero Tony, ex procuratore capo di Prato ed ex presidente del Tribunale dei Minori di Firenze.

DISSENSO – All’unanimità la Giunta, è scritto in una nota, «sente il dovere di esprimere profondo dissenso per le affermazioni contenute nel libro scritto dall’ex collega Piero Tony, dal titolo ‘Io non posso tacere’, laddove l’autore, che per molti anni ha esercitato l’attività di magistrato in Toscana, ricoprendo anche il ruolo di presidente del tribunale per i minorenni di Firenze e di procuratore della Repubblica di Prato, ha ritenuto, solo dopo essere andato in pensione, di pubblicare un testo dalla valenza oggettivamente delegittimante dell’intero Ordine Giudiziario, in quanto intessuto di giudizi del tutto infondati». «Non è del resto accettabile – prosegue il testo – che chi ha ricoperto importanti incarichi direttivi attenda di andare in pensione per esprimere pubblicamente i propri asseriti convincimenti critici sulla categoria professionale di appartenenza, quando invece, coerentemente ai propri dichiarati convincimenti, l’ex collega Tony avrebbe potuto e dovuto tradurre in denunce e iniziative formali le distorsioni di cui lamenta soltanto ex post la diffusa esistenza».

DIETROLOGIE – «Non è del pari accettabile – continua l’Anm Toscana polemizzando con il magistrato – che si pretenda di riscrivere la storia di processi definiti con sentenze passate in giudicato con interpretazioni soggettive, radicalmente smentite dalle emergenze processuali, oppure di processi non conclusi nelle aule per morte dell’imputato, oppure ancora, vagheggiare indimostrate dietrologie con riferimento all’istituto dell’applicazione extradistrettuale di magistrati, che, come è noto, costituisce un meccanismo ordinamentale assolutamente consueto, applicato abitualmente per garantire la funzionalità del processo».

DEONTOLOGIA – «A tutela, quindi, dei colleghi, inquirenti e giudicanti, che ogni giorno, senza essere in alcun modo condizionati da clamore mediatico o da altre motivazioni, compiono responsabilmente il proprio dovere – si legge ancora nel comunicato -, la Giunta ribadisce che la realtà dei fatti non è quella descritta nel libro di Piero Tony, ma è il portato del quotidiano impegno e sacrificio dei magistrati, e sottolinea al contempo il dovere di denunciare eventuali e singole patologie quando si è nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, in specie se direttive, e non quando si è nella comoda posizione di potere dire tutto, senza assumere alcuna responsabilità». La Giunta dell’Anm Toscana sottolinea infine che «imprescindibili doveri deontologici ed etici del magistrato sono la sobrietà, la riservatezza, il rifiuto di ogni vanità ed autocompiacimento nonché il rispetto per le sentenze, specie quando trattasi di pronunciamenti passati in giudicato, e la perdurante coscienza dell’imprescindibile ruolo che la magistratura svolge nel Paese».

LA POSIZIONE DI TONY – Nella presentazione del libro di Tony che la casa editrice Giulio Einaudi fa online è riportato un estratto delle affermazioni del magistrato ora in pensione, secondo cui: «Sarebbe bello, sarebbe un sogno dire che è solo un problema di riforme, di risorse, di scelte del governo, di leggi fatte e di leggi non fatte. C’è anche quello, sí, ma il problema è nostro, prima di tutto, e fino a quando non capiremo che c’è tanto che non va, e che quel tanto riguarda non solo l’esterno, bensí anche l’interno della magistratura, la sua anima e la sua cultura, rimarremo inerti ad assistere a un grave e progressivo deterioramento di credibilità e autorevolezza, due condizioni necessarie per l’accettazione di qualsiasi giudizio. E allora no, francamente non posso tacere». «Piero Tony – prosegue ancora il testo che Einaudi pone a premessa della presentazione del libro – ha scelto di andare in pensione con due anni di anticipo per essere libero di protestare contro un fenomeno tutto italiano, quello dei magistrati che spesso hanno trasformato gli strumenti di indagine in armi puntate contro i cittadini, usandole poi per combattere battaglie politiche. Il suo è un racconto sconcertante, ancor piú venendo da un giudice certificato e autocertificato di sinistra, poiché rivela l’esistenza di un virus capace di minare la giustizia del nostro Paese. Un virus che però può, e deve, essere combattuto».

Libri di malagiustizia: dopo Tony, ecco Conte il Pm imputato, scrive Guido Paglia su “L’Ultima Ribattuta”.Il convincimento accusatorio viene anteposto all’accertamento dei fatti, dando così spazio alle deduzioni, alle illazioni, se non all’ideologia, lasciando all’indagato l’onere di confutarlo. In questo modo, il presunto innocente si trasforma in presunto colpevole e si trova nella non invidiabile posizione di dover confutare una teoria completamente infondata, sebbene apparentemente coerente”. La solita lamentela di un avvocato? O quella di un giornalista “garantista”? Né l’una, né l’altra. Questa volta a scrivere è un magistrato, addirittura un pubblico ministero, rimasto a sua volta triturato da un caso di malagiustizia. Si chiama Mario Conte, ex pm a Bergamo, Palermo e addirittura presso la Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo siciliano. Per denunciare le storture della macchina giudiziaria e soprattutto della gestione dei “pentiti”, ha scelto di scrivere un libro, in cui racconta i quasi vent’anni che sono stati necessari per vedersi riconoscere del tutto estraneo ai fatti che gli erano stati contestati dai suoi colleghi. Si intitola “E se fossi tu l’imputato? Storia di un magistrato in attesa di giustizia” (Guerini e associati editore). Come quello firmato dall’ex-procuratore di Prato, Piero Tony (“Io non posso tacere”, recensito due settimane fa), è un volume agghiacciante. Proprio perché entrambi scritti da due giudici. Ma mentre Tony si limitava a denunciare i punti infetti del sistema giudiziario italiano, evitando scendere nei particolari dei casi specifici, Conte chiude il cerchio raccontando come la gogna mediatica possa toccare anche ad una toga abituata e specializzata nel rappresentare la pubblica accusa. Ed essere perfino imputato di aver “coperto” traffici di droga e armi per consentire al generale dei carabinieri Giampaolo Ganzer e ai suoi uomini vantaggi di carriera. “Per la prima volta – ha scritto Conte ricordando i momenti cruciali della sua vicenda – capii quanto poteva essere facile finire accusato di un crimine non commesso”. Ora, visto il ripetersi di questi sfoghi dall’interno dell’Ordine Giudiziario, è troppo chiedere al Ministero della Giustizia che questi volumi facciano parte dei libri di testo da far leggere e studiare ai giovani aspiranti magistrati? 

Il 5 gennaio 1997 iniziava il sit-in dell'imprenditore contro la magistratura pratese. Un anno davanti al tribunale. Dalle croci al comizio la solitaria protesta di Miri, scrive “Il Tirreno”. Un anno davanti al tribunale. Vittorio Miri, oggi, celebra il primo anniversario della sua solitaria ma tenace protesta contro quella che lui definisce «malagiustizia». Era il 5 gennaio 1997 quando comparve fuori dal palazzo di giustizia, vestito come un uomo sandwich, con due cartelli a tracolla. Sembrava niente più che un gesto isolato. Poi iniziò a raccogliere firme, a fermare i passanti, ad affiggere cartelli. Un anno dopo, Vittorio Miri è ancora là che protesta, nel parcheggio del tribunale. Con meno clamore rispetto ai mesi scorsi, con minor presenza fisica, ma con la stessa convinzione e incrollabile certezza di essere dalla parte della ragione. Fino al 5 gennaio 1997 Miri era conosciuto solo dai pochi che lo avevano apprezzato nel suo ristorante di Carmignano. Oggi il suo nome suona familiare ai pratesi. Lo troviamo scritto nelle cabine telefoniche e sui muri accanto a Che Guevara e al Duce, lo leggiamo sui giornali. Una notorietà che l'ex ristoratore si è guadagnato con azioni eclatanti, fuori dal normale. Perchè Vittorio Miri, in questo anno, ha fatto praticamente tutto per farsi conoscere. Ha piantato sette croci nel giardino del palazzo di giustizia, ed è stato sgomberato con la forza. Ha urlato insulti con il megafono, ed è stato denunciato. Ha annunciato di volersi bruciare, come un bonzo, salvo poi cambiare idea all'ultimo istante perchè «piove ed il fuoco non prende». Ha fatto il bucato e steso i panni di fronte agli occhi allibiti dei magistrati. Si è improvvisato oratore nel beffardo comizio di piazza del Comune. E' finito nelle interrogazioni parlamentari. E' diventato un caso politico. Tutto ciò per un titolo sul giornale o una citazione in tv, per tenere alta l'attenzione sul suo disperato caso. Miri sostiene di essere stato rovinato dai magistrati, che per un debito da niente gli tolsero il locale di Carmignano precipitandolo nella rovina. Dice di essere stato vittima di un complotto, e per questo ha inviato ripetute denunce ai magistrati di Bologna, cui competono le inchieste sul tribunale di Prato. Le autorità dapprima lo hanno ignorato, poi hanno reagito con fastidio alle sue insolenti azioni, infine lo hanno trattato con indifferenza. Ormai non rispondono più alle sue provocazioni, perchè reagendo otterrebbero l'effetto contrario, gli farebbero pubblicità. Miri però insiste in una battaglia della quale non si vede ancora la fine. A febbraio dovrebbe essere discusso il suo ricorso in Appello contro la contestata sentenza della Pretura che gli ha tolto il ristorante. C'è ancora un mese. Un altro mese davanti al tribunale, e poi chissà ancora quanti altri.

Vasco Morucci si è affiancato a Vittorio Miri. La protesta si sdoppia. Un altro imprenditore davanti al tribunale, continua “Il Tirreno”. Da ieri non c'è più solo Vittorio Miri a protestare davanti al tribunale di Prato. All'ex ristoratore di Carmignano, che presidia l'ingresso del palazzo di giustizia dall'inizio di gennaio, si è affiancato Vasco Morucci, imprenditore pratese di 51 anni che si è improvvisato uomo sandwich «contro la malagiustizia». Del caso di Morucci il Tirreno si è già occupato all'inizio del 1996, quando l'imprenditore si decise a raccontare le sue disavventure. Dall'estate del 1995, disse Morucci, era in corso una battaglia a suon di carte bollate sulla proprietà della filatura ex Dolfi di via Ariosto. Morucci, con un fallimento alle spalle, aveva accettato l'offerta di due mediatori che gli avevano offerto l'impianto a 200 milioni per conto della Compagnia tessile. Essendo fallito, utilizzò il figlio Furio come prestanome e si mise d'accordo per pagare a rate. Nel frattempo rimise in funzione i macchinari e si apprestava a filare il primo mescolo. A questo punto insorgono complicazioni coi proprietari dell'immobile che ospitava la filatura e nonostante Morucci riesca a trovare un accordo per l'affitto, è la versione dell'imprenditore, emissari della Compagnia tessile si fanno dare le chiavi dagli operai e chiudono la filatura. Inizia la battaglia legale, Morucci mette in mora la Compagnia tessile, si rivolge al sostituto Marco Modena e ottiene il sequestro di locali e attrezzature, il tribunale del riesame annulla il sequestro. Successivamente il pretore Cosentino gli dà ragione e ordina alla Compagnia tessile di restituire locali e macchinari. Morucci va in via Ariosto e non trova più i macchinari, poi un vice pretore gli dà nuovamente torto. Insomma, una vicenda giudiziaria che più ingarbugliata non si può e dalla quale Morucci non si è ripreso. Sperava di poter ricominciare da capo e invece è rimasto con un pugno di mosche in mano. E' per questo che da ieri ha deciso di protestare anche lui fuori dal tribunale, perché pensa di non aver ottenuto giustizia. Nel frattempo i vigili urbani sono tornati davanti al tribunale per togliere le bandiere e i panni stesi da Vittorio Miri. Lo avevano già fatto qualche settimana fa, salvo poi veder ricomparire i vessilli di lì a poco.

«Non mi consentono di votare». La storia paradossale di Vittorio Miri, giudicato «irreperibile», continua Walter Fortini su "Il Tirreno". Vittorio Miri vive a Carmignano,in casa di amici. Così almeno lui dice, anche se all'anagrafe sostengono di non sapere dove trovarlo (altrimenti potrebbero iscriverlo ad ufficio). «Non mi sono mai allontanato da qui, non sono mai veramente stato irreperibile nè tanto meno indisponibile. Ho risposto regolarmente alle lettere che mi inviano». Ma dal 28 settembre del 1998 Vittorio Miri irreperibile lo è, almeno per il comune e l'ufficio anagrafe; passato un anno di ispezioni infruttuose, come prescrive la legge, è stato cancellato dal registro dei residenti. Ha perso così il diritto di voto in quanto privo di mora in qualsiasi altro comune del territorio nazionale. E domenica non potrà così recarsi alle urne. «E' stata una cancellazione arbitraria», replica il ristoratore emiliano che nelle settimane scorse è stato nuovamente oggetto di una discussione in consiglio comunale e che dopo il sequestro dell'omonimo ristorante a Carmignano, da anni ha ingaggiato una battaglia personale contro il tribunale di Prato per un provvedimento che reputa illegale. La presunta irreperibilità risalirebbe proprio al periodo in cui campeggiava davanti al tribunale pratese. «La sera - spiega Miri - tornavo comunque a casa a Carmignano, dove ho la ragazza. Se fossero venuti, mi avrebbero trovato». La storia ha del paradossale. E mantiene talune zone d'ombra. Ma merita indubbiamente di essere raccontata. Sulla carta Vittorio Miri è adesso un cittadino senza fissa dimora. Questa sua formale condizione non gli vieterebbe di per sé di votare. La legge gli consente di fatti di eleggere la sua residenza presso un'associazione o una casa comunale, venendo così reintegrato nel registro elettorale. Per tutelare la propria dignità personale e il diritto alla privacy può chiedere anche un indirizzo fittizio, come «via del Palazzo Comunale n. 1». Miri aveva proposto «Via dei combattenti e gli oppressori dei diritti umani». Una provocazione che non ha trovato una risposta positiva.

LETTERE a "Il Tirreno". Caso Miri: violazione della Costituzione e dei Diritti umani. In nome e per conto del signor Vittorio Miri invio la presente per replicare all'articolo «Miri fa causa al Comune: voglio 258 milioni di euro», contestandone i contenuti ed i toni. 1) Il titolo in oggetto minimizza e ridicolizza la domanda giudiziale presentata dal sig. Vittorio Miri davanti al Tribunale di Firenze nei confronti del sindaco del comune di Prato e di altre autorità locali, oltre ad attribuirgli una frase mai detta. 2) La foto non è attuale ed è stata pubblicata illegittimamente senza alcuna autorizzazione. 3) Non corrisponde al vero che il Miri non abbia pagato i canoni di locazione e comunque non è mai stato espropriato. Il suo locale gli è stato sottratto in forza di un sequestro giudiziario richiesto dalla signora Daniela Fontani proprietaria dell'immobile ove era collocato il Ristorante Da Miri, sequestro che poi è stato dichiarato illegittimo dallo stesso Tribunale di Prato. Tuttavia l'azienda ed i beni ivi contenuti non sono stati restituiti al suo legittimo proprietario signor Vittorio Miri. Ed ogni denuncia penale in merito a tali gravissimi fatti che hanno visto coinvolti certe autorità e magistratura pratese incredibilmente non hanno avuto alcun seguito... 4) L'episodio dell'antitetanica è realmente accaduto ed è stato riportato nell'atto di cui sopra in aggiunta ad altri fatti a riprova di come certe autorità si preoccupano della salute ed incolumità dei loro cittadini. Tuttavia la domanda risarcitoria di cui sopra si fonda su altri gravissimi fatti. E' falso quanto riportato circa un interessamento del comune di Prato che avrebbe offerto un alloggio dopo oltre un anno al signor Vittorio Miri costretto fino ad allora in auto. Riflettiamo come se anche ciò fosse davvero accaduto sarebbe stato gravissimo, infatti non è ammissibile che un Comune venga meno per un anno ai suoi doveri di legge e lasci che una persona «viva» in un'auto senza mezzi e con tutti i disagi del caso. La cosa appare ancora più grave per la parte politica che regge detto comune e che per sua auto definizione si dice difensore dei diritti e dei deboli(sic). Il Comune di Prato non ha mai fatto gesti di solidarietà nei confronti del signor Vittorio Miri, ma anzi è venuto meno ad ogni obbligo in materia di assistenza sociale. L'albergo cui fa riferimento l'articolo è stato concesso per soli trenta giorni nel maggio 1997 e poi, dato che il mio assistito non ha ceduto alle richieste dell'autorità di rinunciare alle sue denunce e diritti, è stato sbattuto fuori senza alcuna pietà. E da allora, ancor più è stato fatto oggetto di ritorsioni, violenze varie e perfino tentativi di omicidio da parte di ignoti. E' stato falsamente dichiarato irreperibile e cancellato da tutte le liste anagrafiche Usl ed elettorali. A tutt'oggi è privo di ogni assistenza sanitaria e sociale ed è senza documenti personali nonché impedito a svolgere ogni attività lavorativa dell'umano vivere. Una tale gravissima violazione della Costituzione e dei Diritti Umani (che è in essere da oltre sette anni) pare non interessi a nessuno, neppure a codesto Quotidiano che tanto si fregia di dare voce agli esposti e disagi dei cittadini e che davanti ad un caso così grave usa toni da «operetta». Avvocato Elisabetta Vinattieri.

L'avvocatessa ha ragione, risponde il direttore. Il titolo «Miri fa causa al Comune: voglio 258 milioni di euro» poteva apparire riduttivo. Meglio: «Voglio 500 miliardi». Scherzi a parte, perché sulla vicenda Miri c'è davvero poco da scherzare, stupiscono le affermazioni dell'avvocatessa Vinattieri. Per oltre un anno il nostro quotidiano ha pazientemente seguito giorno per giorno la protesta di Miri, dando voce alle sue vere o presunte ragioni, ospitando i suoi fax, ascoltando le sue decine di telefonate. Di questo ne sono riprovagli articoli del nostro giornale, ne sono testimoni i nostri lettori. Tutto si potrà dire ma non certo che la stampa locale ha ignorato Miri. E, oggettivamente, ignorarlo era difficile. Perché al contrario di altre persone sfortunate, e bisognose almeno quanto lui di aiuto, Miri ha fatto di tutto per farsi notare. Dalle croci piantate e dai panni stessi davanti al tribunale, dai comizi col megafono al volantinaggio per strada. Sulle controversie giudiziarie di Miri preferiamo non addentrarci: quello che abbiamo riportato è sempre statala sua versione dei fatti. Sorprende comunque che anche l'avvocatessa cada nel gioco berlusconiano della Grande Congiura: «ed ogni denuncia penale in merito a tali gravissimi fatti che hanno visto coinvolti certe autorità e magistratura pratese incredibilmente non ha avuto alcun seguito...». Se a lei il nostro articolo è apparso «da operetta», la sua frase ci è sembrata quantomeno sibillina. Quale sconvolgente allusione si celerà mai dietro quei puntini di sospensione? 

Appoggiato dal Club Pannella, si scaglierà contro la «malagiustizia». Una piazza per Vittorio Miri. Da mesi assedia il tribunale, scrive Alessandra Piersantini su "Il Tirreno". Prove e fatti conditi da nomi e cognomi. Dopo sette mesi di «assedio» al tribunale di Prato, Vittorio Miri mette tutto in piazza, letteralmente. E lo farà usando un microfono, in piazza del Comune mercoledì prossimo alle 21.30. Ad offrirgli l'opportunità di un pubblico sfogo è il Club Pannella-Riformatori che pur non «entrando nel merito giuridico della questione» ritiene «di dover sostenere i diritti civili di questo cittadino». Miri, infatti, si è visto negare dal Comune la disponibilità della piazza per un comizio personale e a rimediare ci ha pensato il Club Pannella. Per Vittorio Giugni, responsabile politico, «non dare lo spazio a Miri è stato come negare a un cittadino quella libertà di pensiero e d'espressione che la Costituzione garantisce. Miri, come chiunque altro, ha il diritto di dire ciò che pensa assumendosene le responsabilità». Il diniego, tra l'altro, «è stato anche un atto formalmente scorretto» visto che sulla comunicazione mancavano le motivazioni, previste dalla legge. «Per tutto questo _ incalza Giugni _ abbiamo chiesto e ottenuto la piazza dove parleremo di un tema scottante per Prato: la giustizia. Partendo dal caso Miri, che sarà l'oratore principale». I pannelliani aprono così un fuoco di fila contro l'amministrazione della giustizia in città che Giugni definisce «distorta e insostenibile». «A Prato non c'è giustizia. I cittadini non hanno diritto ad avere delle risposte _ è il parere di Giugni _ Il nostro tribunale non funziona e denunciamo la totale paralisi di procedimenti e cause che giacciono insolute da almeno 10 anni. Nonostante le promesse del sottosegretario Corleone qui tutto continua allo stesso modo, in un silenzio omertoso di Comune, sindaco e prefetto». Per i pannelliani, in pratica, «grazie alle lungaggini del Tribunale un semplice caso di giustizia civile si è trasformato in ben altro costringendo un cittadino a vedersi negare ogni diritto solo perchè vuole giustizia». Il caso Miri, con i suoi strascichi ancora irrisolti, è ormai noto a tutti. Miri vive da sette mesi accampato in un'auto prestata di fronte al tribunale di Prato, con l'unico conforto dato dalla solidarietà della gente. Il suo caso è persino approdato alla Camera e al Senato con cinque interrogazioni che non hanno ottenuto risposta mentre il presidente Scalfaro, sollecitato sulla questione, ha rimesso tutto nelle mani del Csm. «Mi boicottano perchè ho denunciato nove giudici del Tribunale ma non ho intenzione di arrendermi _ sostiene Miri _ Al comizio spiegherò la situazione e denuncerò, documenti alla mano, tutti coloro che pur di tapparmi la bocca mi hanno sottoposto a intimidazioni e prevaricazioni. Forze dell'ordine ed enti pubblici mi hanno negato i diritti minimi di sopravvivenza, ho subìto minacce fisiche e attentati. E tutto nell'indifferenza delle istituzioni. Persino il prefetto, davanti a testimoni, mi ha detto che se avessi smesso di protestare mi avrebbe fatto avere un sussidio e una casa per alcuni mesi. Ma che sistemi sono questi?».

BOSI. Al Ministro di grazia e giustizia. Premesso: che da oltre due mesi il signor Vittorio Miri, un imprenditore nel settore della ristorazione, vive nella propria automobile accampato di fronte al tribunale di Prato; che l'azienda del signor Miri risulta sia stata posta sotto sequestro dall'autorità giudiziaria soltanto a causa di una presunta morosità per ritardato pagamento del canone di locazione di appena due milioni e mezzo, una mensilità; che tale provvedimento ha provocato il totale dissesto finanziario dell'imprenditore in questione ed il conseguente discredito presso l'intera comunità in cui operava; che la vicenda che ha visto protagonista il signor Miri ha avuto grande eco sulla stampa locale suscitando indignazione nell'opinione pubblica; che l'accaduto ha avuto ripercussioni sui rapporti economici, sociali e familiari del signor Miri; che a seguito dell'apposizione dei sigilli all'azienda in questione si è provocata la perdita di posti di lavoro con danni all'economia locale, si chiede di sapere se non si ritenga opportuno adottare iniziative volte all'accertamento dell'accaduto anche al fine di valutare la correttezza delle procedure adottate e la inevitabilità delle conseguenze. (4-05057) (2 aprile 1997)

Risposta. Senato della Repubblica XIII Legislatura, 6787-6788-6789, 13 Ottobre 1998. Fascicolo 90 Risposte scritte ad interrogazioni. In riferimento all'interrogazione in oggetto, anche sulla base delle notizie fornite dal Ministero dell'interno e dagli uffici giudiziari, si comunica quanto segue. A partire dal 5 gennaio 1997, il signor Vittorio Miri ha attuato una singolare forma di protesta, consistente nell'accamparsi dinanzi all'ingresso del palazzo di giustizia di Prato, allo scopo di denunciare all'attenzione dell'opinione pubblica i raggiri e le truffe delle quali egli sarebbe rimasto vittima. All'origine della cennata manifestazione vi è una vicenda di natura economica, afferente alla gestione e cessione di un ristorante-pizzeria in comune di Carmignano, di cui il Miri era titolare fino al luglio 1995, ad un gruppo di persone che, però, non gli avrebbe mai corrisposto quanto pattuito causandogli, con ciò, gravi problemi finanziari. Reiteratamente contravvenzionato per irregolarità amministrative, l'esercizio in questione venne tra l'altro definitivamente chiuso in data 1 gennaio 1996 su decisione dei nuovi gestori. La vicenda è caratterizzata dal fatto che Miri assume di aver subito abusi, come evidenziato anche in svariati esposti da lui inviati alla locale prefettura e ad altre autorità locali e nazionali. Per il tramite del questore di Prato, il signor Miri è stato invitato a desistere dalla sua protesta e rassicurato sulla circostanza che, comunque, il suo caso - come riferito a suo tempo dal procuratore della Repubblica di Prato - era sottoposto all'attenta e scrupolosa valutazione dell'autorità giudiziaria. Persistendo tuttavia il Miri nella sua protesta, è stato ricevuto personalmente dal prefetto nella seconda metà del mese di gennaio 1997. Nel corso di tale incontro il Miri ha sostanzialmente formulato due richieste, riguardanti il risarcimento del danno economico causato, a suo dire, dai raggiri e dalle truffe delle quali egli sarebbe rimasto vittima, nonchè la disponibilità di un alloggio ove abitare. Nell'occasione, il prefetto, nel rappresentare, in merito alla prima questione posta, di non poter in alcun modo intervenire, essendo il caso all'attenzione dell'autorità giudiziaria, ha assicurato che avrebbe interessato l'assessore ai servizi sociali del comune di Prato. Detto assessore, prontamente contattato, ha offerto la disponibilità, per circa un mese, a spese dell'amministrazione comunale, di una camera in un albergo di media categoria. Rifiutata inizialmente la proposta, il Miri ha proseguito la propria manifestazione di protesta, non solo rimanendo accampato dinanzi all'ingresso del palazzo di giustizia di Prato ma anche facendo pervenire alla prefettura una serie di documenti e certificazioni personali (cartelle esattoriali e dichiarazioni dei redditi intestate ma non compilate, certificati elettorali, eccetera) che sono state trasmesse agli uffici competenti. Di fronte al perdurare della protesta, il sindaco di Prato, con una propria ordinanza dell'aprile 1997, ha intimato al Miri di sgomberare il piazzale antistante al palazzo di giustizia, imponendogli di rimuovere le croci e gli altri oggetti dallo stesso collocati durante i giorni di protesta. Tale ordinanza è stata eseguita dalla polizia municipale non senza difficoltà, stante l'atteggiamento del Miri, che più volte è tornato a manifestare nel predetto luogo. Il nominato, che ha peraltro percepito per circa un mese un sussidio straordinario del comune e che ha dimorato, con trattamento di pensione completa, per alcuni giorni, in alcuni alberghi cittadini, a spese dell'amministrazione comunale, si è reso protagonista di vari episodi. Durante la cerimonia per la commemorazione del quinto anniversario della strage di Capaci, svoltasi a Prato il 23 maggio 1997, ha disturbato le celebrazioni interrompendo con slogan e contestazioni gli interventi degli oratori. In altra occasione, il Miri, servendosi di un megafono, ha lanciato accuse contro numerose autorità, dinanzi al palazzo di giustizia, prendendo di mira in particolare il procuratore della Repubblica di Prato, il questore e il prefetto. L'invettiva è terminata con l'intervento di personale del nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri, che ha sequestrato il megafono utilizzato per la protesta. Nel luglio 1997 il Miri, che nel frattempo non si era presentato ad un incontro fissatogli dal sindaco di Carmignano, nella sede di una cooperativa locale, presso la quale avrebbe potuto essere assunto, ha tenuto, in una piazza cittadina, un pubblico comizio. Nel corso della manifestazione, a cui hanno assistito circa 50 persone, egli ha esposto i motivi della sua protesta, non mancando di utilizzare espressioni colorite nei confronti dell'autorità giudiziaria, del prefetto, del questore, del sindaco e della giunta comunale, nonchè verso alcuni rappresentanti delle forze dell'ordine della provincia di Prato. Per quanto attiene ai profili più squisitamente giudiziari della vicenda si riferisce quanto segue. Il Miri gestiva in Carmignano un ristorante dopo averlo rilevato da precedenti gestori e subentrando nell'affitto del relativo immobile. Il mancato pagamento di uno o più canoni determinava il sequestro dell'azienda con provvedimento in data 21 dicembre 1995 del pretore di Prato. Il sequestro era convalidato all'udienza del 29 dicembre 1995. La custodia era affidata al proprietario dell'immobile e subito dopo ad altra persona che in precedenza aveva preso in subaffitto l'azienda e che aveva fatto istanza di utilizzare il ristorante per la cena di fine anno. In data 28 dicembre 1995 veniva eseguito anche il pignoramento di alcuni beni mobili ad istanza di un terzo creditore. Parte dei beni pignorati era però asportata e, conseguentemente, a seguito di querela, era aperto procedimento penale. Il 29 marzo 1996 il tribunale di Prato revocava il sequestro dell'azienda. A seguito di ciò Miri chiedeva la restituzione delle chiavi del locale. Il proprietario non vi provvedeva adducendo di non esserne in possesso per averle consegnate alla persona subentrata nella custodia. Quest'ultima, a sua volta, affermava di non essere più in possesso delle chiavi. Questa in sommi capi la vicenda giudiziaria del Miri. Questi, con dichiarazioni verbalizzate presso la sezione di polizia giudiziaria di Firenze, ha lamentato di essere vittima di persecuzione ad opera di privati e magistrati autori, a suo dire, di reati ai suoi danni. La procura della Repubblica di Firenze ha indi trasmesso il relativo fascicolo alla procura di Prato, che ha poi trasmesso gli atti (fascicolo n. 1516/96T) a quella di Bologna per competenza ex articolo 11 del codice di procedura penale per eventuali reati a carico di magistrati degli uffici giudiziari di Prato. Per le manifestazioni di cui si è fatto prima cenno, il Miri è stato denunciato per il reato di cui all'articolo 342 del codice penale. Il relativo fascicolo è stato trasmesso alla procura della Repubblica di Bologna per competenza. La persona in questione, con esposti indirizzati, tra gli altri, anche a questo Ministero, ha rivolto ai magistrati ed ai titolari di alcune istituzioni locali reiterate accuse d'inerzia, di abusi e di irregolarità nell'esercizio delle loro funzioni. Nell'ambito delle competenze ministeriali è stata acquisita presso l'autorità giudiziaria ampia documentazione dal cui esame non sono emersi possibili rilievi di carattere disciplinare nei confronti di magistrati, tenuto conto che le doglianze si riferiscono a provvedimenti adottati nell'esercizio di attività giurisdizionale, in relazione ai quali non sono state ravvisate abnormità, nè macroscopiche violazioni di legge nè, infine, il perseguimento di fini estranei a quelli di giustizia. Ne consegue che la suddetta attività giurisdizionale non è suscettibile di sindacato in sede amministrativa e neppure di apprezzamento sotto il profilo disciplinare. Il Ministro di grazia e giustizia Flick (19 agosto 1998)

Camera dei Deputati. INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/09716 presentata da GNAGA SIMONE ENRICO (LEGA NORD PER L'INDIPENDENZA DELLA PADANIA) in data 06/05/1997. Ai Ministri dell'interno e di grazia e giustizia. - Per sapere - premesso che: dal 5 gennaio 1997, il signor Vittorio Miri, imprenditore di Prato, "risiede" davanti al Palazzo di giustizia di Prato in piazzale Falcone e Borsellino; tale "residenza" permanente è esclusivamente per protestare in modo legittimo nei confronti di una azione pretorile di sequestro della propria attività che, pur essendo stato accettato e vinto il reclamo contro il suddetto provvedimento ha causato la rovina ed il fallimento dell'attività in oggetto; risulta che il signor Miri avrebbe più volte denunciato alla procura della Repubblica manovre ed azioni poco chiare e lesive della sua stessa persona, oltre all'attività vera e propria, di soggetti che sarebbero legati professionalmente agli stessi uffici giudiziari di Prato; la vicenda è stata già oggetto di un'interrogazione al Senato della Repubblica -: se il Ministro dell'interno sia a conoscenza della suddetta vicenda e se il Ministro di grazia e giustizia abbia attivato i propri organismi interni per avviare un'attività ispettiva in ordine alle vicende segnalate dal signor Miri, relative al coinvolgimento di personaggi legati agli stessi uffici giudiziari di Prato; quali provvedimenti immediati e futuri saranno presi per venire incontro alle legittime esigenze che sono state fatte presente da un cittadino onesto (fino a prova contraria), che, se risultassero vere le sue affermazioni, avrebbe visto ledere i propri diritti civili in modo vergognoso. (4-09716)

Camera dei Deputati. INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/08984 presentata da TORTOLI ROBERTO (FORZA ITALIA) in data 04/07/1997. Al Ministro di grazia e giustizia. - Per sapere - premesso che: da oltre due mesi il signor Vittorio Miri, un imprenditore nel settore della ristorazione, vive nella propria automobile accampato di fronte al tribunale di Prato; l'azienda del signor Miri risulta sia stata posta sotto sequestro dall'autorità giudiziaria soltanto a causa di una presunta morosità per ritardato pagamento del canone di locazione di appena due milioni e mezzo, una mensilità; tale provvedimento ha provocato il totale dissesto finanziario dell'imprenditore in questione ed il conseguente discredito presso l'intera comunità in cui operava; la vicenda che ha visto protagonista il signor Miri ha avuto grande eco sulla stampa locale, suscitando l'indignazione nell'opinione pubblica; l'accaduto ha avuto ripercussioni sui rapporti economici, sociali, familiari del signor Miri; a seguito dell'apposizione dei sigilli all'azienda in questione si è provocata la perdita di posti di lavoro con danni all'economia locale -: se non si ritenga opportuno adottare iniziative ispettive volte all'accertamento dell'accaduto anche al fine di valutare la correttezza delle procedure adottate e la inevitabilità delle conseguenze. (4-08984).

Camera dei Deputati. INTERROGAZIONE A RISPOSTA ORALE 3/01925 presentata da GNAGA SIMONE ENRICO (LEGA NORD PER L'INDIPENDENZA DELLA PADANIA) in data 02/09/1998. Ai Ministri dell'interno e di grazia e giustizia. - Per sapere - premesso che: nelle date 6 maggio 1997 (4-09716) e 19 giugno 1997 (4-11038) l'interrogante presentò interrogazioni relative alla vergognosa situazione nella quale si trova un cittadino italiano, il signor Vittorio Miri di Prato, e, pur essendo intervenuti anche altri parlamentari sulla stessa vicenda, alla data odierna non è pervenuta alcuna risposta; lo stesso comune di Prato non sembra interessato a porre rimedio alla disagiata situazione nella quale vive il signor Miri, almeno nella stessa misura in cui interviene nei confronti di altri cittadini disagiati anche di nazionalità non italiana, anzi nella sua unica risposta il Comune di Prato si è limitato a contestare l'attuale "residenza automobilistica" del signor Miri; è quindi necessaria una risposta che faccia chiarezza sull'intera vicenda -: quali provvedimenti immediati si intendano intraprendere per dare una sollecita soluzione alla difficilissima situazione nella quale vive il signor Miri; se, dopo mesi di solleciti pervenuti all'attenzione dei Ministri interrogati e non solo, sia già stato previsto l'invio di ispettori del ministero di grazia e giustizia per verificare il contenuto stesso delle affermazioni contenute nelle denunce presentate dal signor Miri. (3-01925).