Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NOTIZIE SENZA CENSURA
UGUAGLIANZIOPOLI
DI ANTONIO GIANGRANDE
UGUAGLIANZIOPOLI
L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE
L'ITALIA DELL'INDISPONENZA,
DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA
“L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati. L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. La raccomandazione nel pubblico impiego è la negazione della meritocrazia e dell'efficienza, oltre ad essere un reato impunito e sottaciuto, dato che sono gli stessi raccomandati ad occuparsene. Cultura e scienza in mani improprie. Le scuole non mi invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi.
Sia libera ogni attività economica, professionale, sociale, culturale e religiosa. Il sistema scolastico o universitario assicuri l'adeguata competenza, senza vincoli professionali di Albi, Ordini, Collegi, ecc. Il libero mercato garantirà il merito. Le scuole o le università siano rappresentate da un preside o un rettore eletti dagli studenti o dai genitori dei minori. Il preside o il rettore nomini i suoi collaboratori, rispondendo delle loro azioni.
Il lavoro subordinato pubblico e privato sia remunerato secondo efficienza e competenza.
Lo Stato assicuri ai cittadini ogni mezzo per una vita dignitosa. Sia garantita a tutti ogni garanzia di accesso al credito per meritevoli finalità economiche o bisogni familiari necessari".
di Antonio Giangrande
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
SOMMARIO
PREMESSA
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
FRANCESCO DESIDERIO. LA TESTIMONIANZA CHE VALE UNA VITA. DALLA MORTE CON SPERANZA...
SULLA PELLE DEI TUMORATI...
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
GAY E LESBICA SI NASCE.
UOMO O DONNA: CHI E’ DISCRIMINATO?
MORIRE DI PARTO.
I FURBETTI DEL 5 E DELL'8 PER MILLE.
IN ITALIA I MORTI NON HANNO LO STESSO VALORE. DUE PESI E DUE MISURE: MORTI DI SERIE A (DI SINISTRA) E MORTI DI SERIE B (TUTTI GLI ALTRI).
L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
MORIRE DI POVERTA’.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
SANITA’: TUTTI FUORI, ARRIVA IL SENATORE. FAVORITISMI ALL’ITALIANA.
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
COSE STRANE AGLI SPORTELLI ASL DI TARANTO? O COSI’ FAN TUTTI?
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).
OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.
LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.
L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.
IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO.
CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.
COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.
GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?
A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?
CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.
I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.
I LAVORATORI AUTONOMI NON POSSONO AMMALARSI.
QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.
QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.
LI CHIAMANO AFFIDI. SONO SCIPPI.
UNIVERSITA’. IL MISTERO DELL’AULA C OCCUPATA DA DECENNI.
LA MAFIA DEL 118 O DELLA SANITA'?
CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.
L'UTOPICA UGUAGLIANZA TRA I DIVERSI E LA FENOMENOLOGIA MEDIATICA TRA ABORTO, OMOSESSUALITA', FEMMINICIDIO ED INFANTICIDIO.
PARITA’ DI SESSI E FEMMINICIDIO. SLOGAN O SPECULAZIONE?
QUELLI CHE……L’ART. 18.
CACCIA AL LAVORO.
MEDICI ED AVVOCATI GLI AVVOLTOI DELLA SALUTE.
DISCRIMINARE I NORMALI. GAY POWER: IL POTERE AI DIVERSI.
DISOCCUPAZIONE E RICERCA DEL LAVORO. LO SPRECO DEI CENTRI PER L’IMPIEGO.
SOLIDARIETA’, CATASTROFI E GLI SMS. DOVE CAZZO VANNO A FINIRE LE DONAZIONI?
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
I NOSTRI VELENI QUOTIDIANI.
GLI SCANDALI CHE HANNO SPAVENTATO L'ITALIA.
ILVA, LE VERITA' NASCOSTE DELL'INCHIESTA.
LA LOTTA CON GLI IDOLI DELLA PIAZZA.
SI MUORE DI CANCRO E DI MAFIOSITA'.
CAPITOLO 1: INDISPONENZA
OSSIA, NASCERE CON LA CAMICIA
LA BUFALA DEL 1° MAGGIO? PARLIAMO DI LAVORO NERO E SFRUTTAMENTO. PARLIAMO DI VERO “CAPORALATO”.
LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI.
LICENZIAMENTO LIBERO.
PARLIAMO DI POVERI. COSA E' LA POVERTA'.
PARLIAMO DELLO SFRUTTAMENTO MAFIOSO E LEGALIZZATO.
PARLIAMO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE.
PARLIAMO DI RISCATTO. IMPOSSIBILE CAMBIAR VITA.
PARLIAMO DI CASE POPOLARI.
PARLIAMO DI CREDITO NEGATO ALLE IMPRESE.
PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO.
I PARENTI ECCELLENTI DELLA POLITICA.
PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE IN TV.
PARLIAMO DI SFRUTTAMENTO DEL LAVORO.
PARLIAMO DI CAPORALATO.
COOPERATIVE A DELINQUERE.
PARLIAMO DI INFORTUNI SUL LAVORO.
PARLIAMO DI SCIOPERI SELVAGGI.
CAPITOLO 2: INDIFFERENZA
OSSIA, NEL BISOGNO NESSUNO TI AIUTA
PARLIAMO DELLE ASSOCIAZIONI DI VOLONTARIATO.
PARLIAMO DI ABORTO.
PARLIAMO DI BARRIERE ARCHITETTONICHE.
PARLIAMO DI RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI IN ITALIA.
PARLIAMO DI EMIGRAZIONE ED IMMIGRAZIONE.
ZINGARI ED IMMIGRATI: GLI SPRECHI SOLIDALI.
PARLIAMO DI CONCORSI TRUCCATI ALL’INPS.
CAPITOLO 3: INSOFFERENZA
OSSIA, LE MALATTIE SONO UGUALI PER TUTTI, MA NON LE CURE
LA MORTE CHE VORRESTI MA NON PUOI. SEDAZIONE PROFONDA, SUICIDIO ASSISTITO, EUTANASIA.
MAFIA SANITARIA: LA CASTA MEDICA E LA LOBBY DEI DENTISTI.
GIUDICI O MEDICI?
STAMINALI: CURA MIRACOLOSA O BUFALA?
SANITA'. IL LIBRO NERO.
LA SANITA’ PUBBLICA COSTA PIU’ DELLA SANITA’ PRIVATA.
SANITA’ PRIVATA, PIU’ COMPETITIVA RISPETTO A QUELLA PUBBLICA CHE COSTA DI PIU’ E HA TEMPI DI ATTESA LUNGHI. ADICONSUM: “IL PRIVATO SOCIALE ANCHE A RAGUSA CON OTTIMI RISULTATI”.
PARTI CESAREI INGIUSTIFICATI.
SANITA’, TANGENTI E LOBBISMO.
LISTE D’ATTESA OD ESTORSIONE MEDICA?
CAMICI SPORCHI: QUANDO LA SANITA’ E’ DA CURARE.
LA GRANDE TRUFFA. IL VACCINO E L’ OMEOPATIA.
PARLIAMO DI COMPARAGGIO: LA MAFIA DELLE AZIENDE FARMACEUTICHE.
MALPRACTICE. PARLIAMO DEGLI ERRORI MEDICI.
VERGOGNA SANITA': STRUTTURE VECCHIE, SPORCHE, FATISCENTI.
LUIGI DI BELLA, UNA VITA DA PERSEGUITATO.
PARLIAMO DI PRONTO SOCCORSO?!?
PARLIAMO DI SPRECHI.
PARLIAMO DELL’ITALIA, PAESE DI VITTIME DI MALASANITA’.
PARLIAMO DI RICERCA SUL CANCRO.
PARLIAMO DI TRUFFE AL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE.
PARLIAMO DEL RACKET DELLE POMPE FUNEBRI.
PARLIAMO DI SANITA' E CORRUZIONE.
I FALSI MEDICI.
PARLIAMO DI QUOTE DI PRODUTTIVITA', DI TRAPIANTI SPA E DI MANAGEMENT DELLA MORTE.
IL BUSINESS DELLA DONAZIONE DEL SANGUE.
PARLIAMO DI DONAZIONE DI ORGANI E DI SANGUE. PARLIAMO DI SOLIDARIETA' MEDICA: DOVERE DI DONARE ORGANI E SANGUE? SOLO I PAZIENTI.
PARLIAMO DI VOLONTARIATO IN CAMPO SANITARIO.
PARLIAMO DI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI.
PARLIAMO DI CASE DI RIPOSO. ANZIANI A PERDERE.
PARLIAMO DEI PARTI CESAREI.
PREMESSA
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
FRANCESCO DESIDERIO. LA TESTIMONIANZA CHE VALE UNA VITA. DALLA MORTE CON SPERANZA...
Francesco Desiderio da Pescara, tantissimi vogliono stilata la loro biografia da me. Anche persone titolate o di eccelsi natali. Per mia regola cerco di parlare del tutto, non dell’uno, salvo che esso non sia una nota di cronaca degna di diventare storia. Per te faccio un’eccezione, essendo la tua lettera di lamento del 31 agosto 2017, con il seguito, pregna di contenuti. Essendo che dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio e non il consiglio, la pubblico, affinchè della tua vicenda rimanga un esempio di speranza per altri nella tua stessa condizione.
«Dottor Giangrande, buongiorno. Le scrivo per diversi motivi: perché disperato, per molti versi, e bisognoso d'aiuto, davanti a delle becere prepotenze di sistema; e anche per condividere, con una voce di più che degna sensibilità, per problematiche del genere, il mio più forte rammarico ed il biasimo contro la rigidità dei meccanismi scolastici, ed universitari, in una società così priva di merito, di prospettive, di incentivi. Suo figlio Mirko, ottenuto il record come il più giovane in Italia a vedersi abilitato alla professione forense, è per me un riferimento esemplare, un più che serio modello di slancio: a quel che ho avuto modo di leggere, nel documentarmi su un'esperienza di così alto profilo - malgrado storture e sordità del nostro sistema formativo. Anche a me (che di Mirko son quasi coetaneo, di poco più piccolo - sono nato nell'ottobre del 1987), per lungo tempo è occorso, in questo senso, il tono più favorevole, felice e ridente: ho trascorso la mia adolescenza, alle scuole superiori, dov'ero ben più che un liceale brillante... sino a trovarmi trattenuto, sacrificato e schiacciato, con un duro preludio all'esplosione. Il mio futuro adesso è largamente compromesso, e ricordo con ostinato rimpianto la mia carriera di studente, la quale si confermava ogni volta come molto promettente... così da finire per vedersi miseramente trattenuta. Ho attraversato i più diversi ambienti: contesti eterogenei, nei più diversi spaccati di società e di vita - oltre che di morte, dato il mio gesto estremo. Ostacolato a più riprese negli studi, a cui pure tenevo tantissimo, decisi di farla finita, nel 2008, precipitandomi sul cemento dalla finestra di casa mia, al quarto piano, a tredici metri di altezza. Mi sono dunque compromesso, una volta, essendo disperato per la trascuratezza e per gli intralci subiti. Adesso, dopo un decennio ormai dal gesto estremo, sento sbizzarrirsi in diagnosi, su qualche mia patologia o disagio psichico, taluni figuri pronti a liquidarmi, i quali peraltro vorrebbero pure presentarsi in una veste di conforto. Sono per questo screditato e ricattabile, dopo la disperazione folle del suicidio; essendo poi bloccato alle gambe, perché oramai disabile, paraplegico, ridotto in sedia a rotelle se non propriamente a letto, mi trovo quindi inerme, privo di mezzi e indifeso... e, così, pure ricattato e manovrato: come sempre, del resto, come purtroppo avviene da sempre. L'università è stata il periodo dello spreco più grave: ho quasi 30 anni, e da 3 anni a questa parte sono bloccato, agli sgoccioli, ormai ad un esame dalla laurea quinquennale, magistrale, in giurisprudenza. Gli ultimi 3 anni li ho persi per una brutta piaga (ripresomi dopo il gesto estremo, mi ero per dir così rimesso sotto nello studio, recuperando terreno e smaltendo i vari esami - ed ero alla fine degli studi, 3 anni fa come adesso); ma, poi, rieccomi bloccato per causa di una profonda lesione da decubito, risolta un anno fa con un intervento di chirurgia plastica, a riattaccare i tessuti della gamba lesionata... e poi un altro anno di abbandono, per dei polemici screzi con mia madre, ulteriori imposizioni e forzature. In precedenza, circa 5 anni tra gli ospedali, cliniche ed ospizi, senza poter né frequentare i corsi né studiare, in ambienti sperduti: sanità di provincia ai tempi della crisi. E, ancor prima del gesto disperato, l'autoprecipitazione, dal quarto piano, per cui sono ridotto paraplegico (ma ho conservato l'uso delle braccia), avevo perso un duro biennio: 2 anni smarriti, ai fini di un'auspicata carriera all'università, per cui mi colpevolizzai sino a sentirmi indegno, sino alla disperazione e all'atto suicida. Ho perso in sostanza un decennio, per atmosfere e per contesti accademici ampiamente abbordabili già allora. Vedo ora i bambini di una volta, dalle scuole medie o dalle elementari, approdare anche loro all'età degli studi accademici, come studenti all'università. Me ne compiaccio per loro, ma per me è quanto di più triste il dovermene restare bloccato, anni anni e anni, ad un passo dalla laurea. Soffocato da un clima tanto oppressivo, in famiglia come a scuola, per me l'area di provincia è stata la peggiore maledizione. Morto mio padre, ingegnere, quando avevo 13 anni, nel 2000 (ero in terza media), scelgo allora il liceo scientifico, la sua stessa sezione di una volta, proprio per seguire le orme di papà. Il liceo mi sta presto stretto, non è il mio indirizzo di studio; eppure vado più che bene, rendimento migliore della scuola. Vorrei cambiare e andare al liceo classico: come alternativa interessante, mi viene fatta la proposta di saltare un anno a scuola, restando però allo scientifico - non vogliono dunque che io vada via. Sfumano presto entrambe le possibilità, non si fa nulla: rimango così ad esasperarmi, in un liceo che non è di gran stimolo (percepito come non mio... lento e di scarso interesse). Peraltro mia madre, esperta burocrate, non volle interessarsi, con me adolescente, per poter farmi saltare l'anno al liceo: al contrario, all'università, mi cacciò di casa dopo un'invasione, dovetti cambiare ateneo, e persi così un altro anno, nel rientrare in provincia. All'università, mia madre, pur benestante (vari immobili di pregio, lasciati sfitti per trascuratezza), mi dà colpa, rinfacciando i costi del collegio a Bologna (un centro costoso, un po' da figli di papà, scelto per fregatura come ripiego dopo Pisa). Mi diplomai, senza annualità di anticipo, normalmente, per età, a diciotto anni: nel 2006 - sono dell'ottobre 1987, non avevo fatto la primina, in precedenza, perché nato in fine anno. Andavo più che bene a scuola: da sempre assai brillante, ero perciò sacrificato, in un contesto all'apparenza competitivo, ma in realtà facilotto e scarsamente motivante, al liceo; oltre ad essere trascurato ed invaso in famiglia, dove avevo recepito il senso di contenimento, tanto da limitarmi nel mangiare, magro e rachitico - arrivai in adolescenza a lasciare lo sport (quel po' di pallanuoto, in piscina, e il basket che facevo a scuola), per via degli scioperi della fame, dato il rinfaccio in famiglia del mantenimento fisico. Mi diplomo, comunque (nel 2006), con valutazione massimale; ma poi, pochi mesi dopo, a Pisa, ai centri d'eccellenza, esplodo ed esagero, sentendomi insicuro. Ripiego quindi a Bologna, giurisprudenza: pur scoraggiato, sostengo con successo i miei esami: prima sessione, tre esami in due settimane, media tra 29 e 30, pur senza gran impegno nello studio (ed era l'inizio del 2007). Cerco adesso, con difficoltà, di andare al di là delle recriminazioni, legate ad un clima provinciale, scolastico e familiare che volevo lasciarmi alle spalle, e da cui son stato mortificato e riassorbito... dopo che mai si volle credere in me, rimanendo senza investire sul serio, malgrado la mia motivazione e le mie doti; scarso lo stimolo a scuola, freddamente inquadrato, schiacciato sino ad esplodere, e con ancor più pesantezza in famiglia, contrasti materni e ripieghi di vera beffa, arrivai, ai fini dello studio, che pure a vent'anni seguivo con seria speranza, ad avere 2 anni persi: uno, non abbreviato, al liceo, senza il salto dell'anno; e un altro, all'università, smarrito tra le procedure di segreteria, dovendo cambiare ateneo per rientrare in Abruzzo. Persi 2 anni (un decimo del mio tempo, a vent'anni), mi sentii smarrito e distrutto: sino a disperarmi, a ritenermi deludente e indegno delle mie aspettative, di me stesso... sino a cercare, e a cercare sul serio, di farla finita, precipitandomi una sera dal quarto piano, su un cortile di cemento. Come sa più che bene, in chiave giuridica di fattispecie, non fu tentato suicidio, non un generico tentativo, o una minaccia eclatante: cercai sul serio la morte, e la fattispecie concreta messa in atto, per così dire, corrispondeva al cercare la morte per davvero. Fu un gesto disperato, un atto di vera atrocità: frutto di estremo coraggio, per un verso, oltre che di abbandono e di resa per l'altro. Non ne vado fiero, ed è ovvio: non do letture unicamente esternali del mio gesto, di cui mi assumo la responsabilità, e le conseguenze più pesanti, rimasto ormai paraplegico; anche se recrimino, ed è ovvio anche questo, per il carattere soffocante del contesto incontrato, nella scarsità di stimoli, in un liceo di provincia, a Pescara, e per il tono arrogante, di contenimento e poi di pronta condanna, vissuto purtroppo in famiglia, tra parenti falsamente vicini e gli enormi contrasti con mia madre, dopo la morte di papà. Con un'altra rilettura, però, diciamo che noto adesso ben altro, come motivo della disperazione. Questa lettura si presenta doverosa, adesso, perché essendo sopravvissuto al gesto estremo (un atto folle, di cui non vado in alcun modo orgoglioso) mi trovo davanti a pressioni tuttora ingiuste ed avvilenti, che fomentano ulteriormente lo sconforto e la disperazione: per di più adesso, nella dipendenza e nel blocco della disabilità motoria, sono pure ricattabile per il passato che ho addosso, come mancato suicida (sopravvissuto a un volo di quattro piani): inquadrato paziente psichiatrico, pure comodo da etichettare, e da vedere come un pazzo o un malato di mente. Di fianco ai lutti, alla desolazione e ai contrasti, vedo allora le cause principali, strutturali e di fondo: rimaste a fomentare la peggiore disperazione, sino a che arrivai purtroppo a cercare di farla finita. Diciamo che l'esplosione era nell'aria: il mio esasperarmi, così grave, fu fomentato impunemente, in modo vigliacco. Eppure, si sa, questo carattere scadente, perché di maniera, stupidamente lezioso, che troppe volte affligge i corsi a scuola ed i progetti accademici, non toglie loro un preteso tono di sapienza assoluta, non li priva cioè di una verità quasi dogmatica e dogmaticamente imposta. Chi ha la qualifica accademica si vede perciò confermato, legittimato, protetto, in un senso comodamente prevenuto, blindato, pressoché assoluto ("lo si fa perché lo ha detto il dottore" - non soltanto nell'ambito della medicina). Ad essere dottore, nei crismi della legittimazione e del decoro, ci ho tenuto pure io: senza tener conto che il risultato dipende, ben più che dal merito, in troppi casi proprio dalla rassegnazione, a rilento, nel fare i leccapiedi, davanti a una selva di vuoti formalismi, punti credito gestiti a caso, se non a capriccio, che riducono la formazione quasi a una mera formalità. La rigidità (stupida, non severa, perchè imposta in modo sordo, anziché impegnativo e stimolante) delle fredde procedure burocratiche: ho perso anni, speranze, su più fronti paralizzato - condannato in questo anche dall'oppressione ricevuta in famiglia. Questo, in effetti, fu il dramma: l'assenza di degni sbocchi, di espressione e di futuro, in un clima dove ti affermi solo se hai la pazienza, rassegnato, di startene zitto e buono al posto tuo - un clima in cui chi sgarra, chi non si accoda, si vede allora miseramente escluso. Condividiamo la cupa, fondata convinzione della devastante scarsità del merito, in Italia. Le segnalo perciò questo disagio, e quest'incubo protratto, sperando magari in un sostegno, ma confidando in primo luogo in un confronto. Le confido, peraltro, le mie vecchie, radicate e ormai sradicate posizioni, in un senso politico ed ideologico. Cresciuto (malamente) di buonismo, tirato su da docenti, diciamo pure indecenti, che dietro il manto dello spirito ispirato e alternativo imponevano programmi alla portata, banalmente inclusivi, in molti casi al ribasso, avevo recepito, e fatte mie con enfasi, con un certo vigore, delle posizioni definite progressiste, comunque riconducibili alla linea di sinistra. Mi rendo conto, in modo disperatamente tardivo, dei danni enormi recati dal vuoto buonismo; quello con cui, volendo fare gli alternativi, i più spocchiosi professori, soprattutto in provincia, si arrogano un senso di esclusività, conservano a sé il peso altezzoso del decoro, e per il resto, altezzosamente benevoli verso la massa, la massificano: seguono, e tutt'al più agitano le correnti... dimenticando però di seguire il pur sano slancio dell'individuo, mortificano ogni sacrosanto individualismo, e smarriscono il merito in un panorama di aridità e di abbandono. Ho dunque sgarrato, e non mi son voluto piegare di fronte a certe sbrigative rigidità, di spocchioso degrado. Le bandiere sono troppe volte dei falsi proclami, e delle vuote coperture: dirsi umanitari, di sinistra, o disponibili a vedute aperte, è solo un veicolo di presentazione, una carta da visita... piuttosto inattendibile, beffarda. Sul tema del livello, nei vari campi e nelle varie attività, temo francamente che, a voler imbarcare tutti, si finisce per affondare, o per calare miseramente ed in modo insidioso - ben più che sull'esodo dei migranti, lo dico proprio con riferimento all'area della formazione e al mondo della scuola, dove le energie vanno seguite e valorizzate per tempo: guidate, sì, ma lasciate degnamente esprimere, anziché vedersi riassorbite dal buio mare della calca. In breve, come posizione di dottrina filosofica, per l'umanesimo moderno, diciamo pure che, di fronte a Rousseau, sono piuttosto a preferire altre vie, e dunque ampiamente rivaluto Voltaire. L'ho annoiata più che abbondantemente, temo. Non sto oltre a dilungarmi. Le rivolgo un saluto, con sentita considerazione, e con l'auspicio di poterci ricontattare e risentire».
Francesco, come premessa, devo dire che il tuo scrivere non è banale e palesa una personalità che è un peccato sprecare. Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei. Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza. Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva. Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo. Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati. Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto. Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare. La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero! Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro. Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi. Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico. Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro. Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso. Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore. Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare. Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda. Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci. Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Quindi, caro Francesco, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita. Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle. Volere è potere. E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio. Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
«Dottor Giangrande, Le confermo difatti che io voglio vivere, e senz'altro: a cominciare da quel senso di rivalsa, dovuta e sacrosanta, che giustamente mi suggerisce, di fronte e di contro ad un'esperienza di prese per il culo, di forzature odiose. "Tutto ciò a cui sopravviviamo ci rende più forti", ricorda Nietzsche. E lo spunto filosofico, pur se suggerito in modo implicito, lo gradisco apertamente, soprattutto come spunto di riflessione e come vero incoraggiamento. È però discutibile, in linea generale, secondo diverse esperienze concrete, e lo so fin troppo bene purtroppo: cintura nera nelle arti marziali, judo e jujitsu, a vent'anni ero un bel fusto... dopo la precipitazione sul cemento, con la caduta dal quarto piano, adesso, pur solido e temprato nel morale, sono ridotto in carrozzella, e, da paraplegico, ho più limitazioni, essendo più debole su più fronti - pur magari riuscito a resistere, pur duro e deciso nel carattere. Un chiaro spunto di analisi, che pure condivido ampiamente, riguarda il trovarsi pilotati, o per lo meno condizionati in modo pesante, da una serie di fattori (citando Sciascia, diremmo allora il contesto), per cui alla fin fine ben poco dipende da noi, e ancor meno è da noi autonomamente determinato e deciso in realtà. Su questo concordo ampiamente... ma non del tutto: direi che dei due poli, ciascuno è artefice del proprio destino, e della propria fortuna, "est unusquisque suae fortunae faber", per un verso, e appunto per altro verso il condizionamento ricevuto, spesso subito, dal contesto, c'è di fatto un mescolarsi attivo: e per così dire, a grandi linee, la verità sta nel mezzo, o piuttosto l'esito finale è un contemperamento di diverse tensioni, tra due poli opposti che pure si incontrano, nel limitarsi e bilanciarsi a vicenda. È vero: le influenze subite sono pesanti, i condizionamenti avvilenti e tremendi, ma qualcosa può dipendere da noi, e di fatto dipende da noi... in questo non mi rassegno - e non limitiamoci ad un banale parametro di età, per cui sarei carico io in quanto più giovane, perché ne ho viste davvero parecchie anch'io, e lo stereotipo sarebbe dunque smentito subito. In altre parole, confermo il mio grazie per la stima, e per l'apprezzamento espressomi: mi auguro però che di fianco alla stima, pur gradita, possa magari dimostrarsi pure una vicinanza presente con un appoggio concreto. Intendo quindi che l'ostruzionismo incontrato, pur scoraggiante, di vero freno, non deve e non può imporci, né tanto meno suggerirci, di limitarci a dire "non dipende da me, e allora alzo le mani, pur nell'indignazione". Non devo dirglielo io, chiaramente. Lei lo sa benissimo, e cerca di onorarne al meglio il principio - giustamente "orgoglioso di essere diverso", di non accodarsi rassegnato, per quel margine d'azione che abbiamo con noi, pur essendo tanto manovrati, pur se generalmente sviliti ed eterodiretti. Un terzo punto mi ha colpito, nel discorso propostomi (di fianco all'esortazione a riprendermi, e al desolato riscontro del nostro essere manovrati): è l'amore genuino nutrito verso la famiglia, e verso i figli, quel senso di affetto, di empatia e di condivisione dei progetti futuri; quello per cui si accetta la durezza dei sacrifici, nell'attivarsi e nel mettersi sotto, per così dire, pur di fronte ai peggiori abusi, pur tra quelle storture che, sistemiche, sembrano imporre di scendere a compromessi, ed alle volte il compromesso lo richiedono per davvero. Quel senso di pietas, quel vero affetto... non mi perdo ovviamente in divagazioni latine, sul diritto romano della tradizione. A me questo è mancato, ed è mancato tanto: non mi dilungo nemmeno sugli sfoghi, per via delle imposizioni subite, o per le manovre imposte, per l'appunto, sin da quando ero ragazzo, nel nucleo della mia famiglia peraltro. Non mi aspettavo favoritismi o strade familistiche, come sa, è ovvio: ma di vedermi ostacolato, sino ad essere pilotato, e svilito, essendo esautorato di me stesso, questo è davvero il colmo. In questo senso, pertanto, sono a chiedere un aiuto, oltre a gradire apertamente il confronto e lo scambio di esortazioni e di idee. Non rimaniamo alle esortazioni, però. La prego. Ci sono prospettive, margini di progetti da perseguire insieme, o per lo meno da seguire. Che io sia scoraggiato, adesso, dopo 2 anni di decubito, e dopo un altro anno di indifferenza, buttato un po' così, questo è evidente - e non ci piove. Per cui mi sento un po' stranito, e un po' rinascere, al contempo, nell'essere io a fare proposte o a rilanciare slanciato motivazioni. Vorrei poter tenermi in contatto, in primo luogo, se come spero questo non reca imbarazzo o disturbo. Peraltro, sulle vie da seguire, posso pure essere maggiormente pragmatico, sino ad essere spicciolo. E dico allora che noi in larga parte siamo benestanti, qui a Pescara, con diversi immobili, diversi ormai locati ed in affitto. Il budget di fondo dovrei averlo, non mi è negato. Ho però una limitazione, a seguito di alterne vicende dopo il mio gesto suicida. Ho un amministratore di sostegno: né un curatore, per inabilitazione; né tanto meno un tutore, per interdizione e impedimento pieno. Però son limitato, in certo qual modo. Il signore che si occupa di me, dei miei principali affari, è un vecchio amico di famiglia; mi è stato vicino, e si è comportato in un modo che giudico nel complesso corretto e disponibile. Mi ha seguito, per circa 4 anni, a titolo di amicizia, ed in modo gratuito. Per questo io gli sono grato, davvero riconoscente: perché non ha inteso svilire un ruolo che io peraltro accettai, inizialmente, tenuto conto per così dire della ragion pratica, a livello di effetti concreti - non nego infatti, sarebbe disonesto, che essendo disabile, non deambulante, ho avuto diversi vantaggi dal suo poter farmi adempimenti agli sportelli, tra burocrazia pubblica, banca e posta. Eppure, negli ultimi anni, il senso di beffa, diciamo pure la fregatura, e la presa per il culo, si son presentati molto gravi, realmente indecenti. Con il decubito, brutta lesione, la gestione fu alterna, e piuttosto infelice; ne uscii dopo 2 anni, un anno fa, grazie ad un ottimo chirurgo plastico che, qui da noi, a Pescara, mi prese a cuore: su segnalazione mediata di un altro mio amico, lo avevo contattato io, questo chirurgo, rivelatosi così affabile e provvidenziale nella sua competenza. Mi prese a cuore quasi come un padre, e, in modo disponibile, affettuoso e puntuale, vagamente paterno, giammai paternalistico, riuscì a seguire l'evolversi della ferita, sino a ridimensionarla e, ridotta e ben gestita, a chiuderla con un'operazione. Mi appoggiai in ospedale, al pubblico di Pescara, grazie al suo interessamento: un appoggio con cui peraltro volle darmi stima, e ripose fiducia in me, nelle mie capacità di ripresa e di riscatto. La piaga allora era un disastro: me ne tirò fuori, in pochi mesi, in modo davvero egregio e straordinario. Ma, nel periodo appena prima, avevamo perso mesi e mesi tra consigli sbagliati e imposizioni ancora peggiori: non sto a perdermi nei vari passaggi, glieli riferirò se vorrà in un'altra occasione (anche ai fini del ristoro, per risarcimento economico, della causa che ho intenzione di intraprendere contro il centro spinale dove mi hanno distrutto). Mi limito a dire che, a parte la vena di area meridionale, capovolgiamo anche qui ogni tipo di cliché sulle latitudini e sulle aree geografiche: a Pescara ho visto risolto tutto il peso del problema, in maniera davvero esemplare; il problema aveva però avuto origine a Imola, nel famoso centro spinale di Montecatone, dove poi era stato seguito in modo carente, celato e rinviato in modo pessimo, in uno dei reparti più decaduti e trascurati, la lungodegenza. È qui il mio risentimento, ed il mio biasimo maggiore, questa volta, verso mia madre: memore forse di vecchi fasti, e dell'esperienza convincente di anni e anni fa (fui lì, dopo il 2008, dopo la precipitazione ed il danno spinale alla colonna), mia madre trovò il modo di tenermi lì pur contro il mio espresso volere, quest'ultima volta: non poteva obbligarmi, chiaramente, in maniera diretta; potevo firmare la dimissione anticipata, ed andar via, pure in anticipo, non ho limitazioni in questo senso. La limitazione subentrò, con il vero impedimento, quando disse alle mie spalle ai miei amici di non venire a riprendermi, e trovò ancora una volta il modo di manovrarmi. Io ero rimasto senza soldi, e non avevo spazi per poter attrezzare l'ambulanza o il taxi, pagando pure il conto di alloggio del mio assistente (un domestico africano, non potevo mandare avanti neanche lui); per di più essendo allettato, con una lesione scavata nella carne, piaga di quarto grado, che lì nascosero, tra alterne misure, lasciandola infine sottominata; avevo pure in vescica il catetere fisso, a dimora, con cui mi ero ferito, giorni prima, nel vano tentativo di girarmi e di cambiare postura, per non caricar troppo e non ferirmi altrove, essendo rimasto venti giorni su un materasso ad aria che pareva sì gonfio, e funzionante, ma era forato, difettoso, scarsi poi il numero e la disponibilità del personale per girare i pazienti (la notte una sola infermiera, con un oss, per una trentina di disabili, quasi tutti tetraplegici e dunque in condizioni pure peggiori delle mie). Insomma, mi son dilungato: ero lì, inerme, in preda e in balia delle peggiori carenze... e per di più si stava diffondendo e si temeva un pericolo contagio per una brutta infezione ospedaliera, che trapelò goffamente (chiamarono allora due miei amici medici, effettivamente medici, per sollecitare attenzioni e cure - ma, senza possibilità di verifiche telefoniche, si sentirono dire della klebsiella, la brutta infezione del mio vicino, non adeguatamente isolata... e, così, al centro spinale imolese, senza degnarsi di dar chiarimenti sugli improvvisi mascheroni, spifferarono al telefono i dati sensibili del mio vicino: altro indice di serietà, e di rassicurante correttezza). Mia madre mi tenne lì. Pur contro il mio espresso volere, e ci eravamo sentiti più volte, anche attraverso messaggi, in cui chiedevo deciso, e seriamente preoccupato, di poter andar via... tentennò un'altra settimana, trattenendo gli amici per il viaggio, a mia insaputa, fino alla fine del mese di ricovero: la klebsiella, brutta e pesante infezione (klebsiella pomoniae), per fortuna non la presi, non ebbi il contagio, come neppure ovviamente il mio assistente, presente assai meno di continuo nella stanza; e però mi nascosero la piaga, rimasta, senza che lo sapessi, sottominata, cioè rimarginata solo in superficie, in attesa di un rinviato intervento; e mi ferii il pene, sventrandomi con il catetere, una mattina in cui, povero me, non ce la facevo più a stare fermo, bloccato per ore nella stessa posizione (anche nove o dieci ore - ed i parametri delle cosiddette linee guida, per la postura, erano ogni volta sforati, gravemente, con le approssimazioni imposte), su un materasso che era pure forato, antidecubito difettoso. Mi aveva tenuto lì, alle mie spalle, contro la mia volontà. Che ci avessi visto più chiaro io, nel merito, a voler andar via, questo è solo un versante; perché è nel metodo, odiosamente, che aveva ancora una volta trovato il modo di manovrarmi, come pedina, come pupazzo, pilotato a mia insaputa, senza che potessi di fatto decidere sulla mia salute - pur avendo in effetti ragione (nel merito - ed è un altro punto), a voler andar via. Peraltro, dopo il precedente quadro, pessimo giro di dinamiche, per cui si era aperto il decubito, l'inverno prima (dicembre 2014), avrebbe potuto pure darmi retta, nel nutrire qualche fondato timore: se 3 anni fa mi consigliò in malo modo, quando si aprì la piaga da decubito, poi l'estate dopo (l'estate del 2015), si impose in tutta la sua arroganza, malgrado le chiare carenze del centro di Montecatone - già sperimentate nel precedente ricovero, quando ebbe origine il decubito, a dicembre dell'anno prima, e su questo stavolta non mi dilungo. Perdoni allora lo sfogo: perdoni l'indiscrezione, me ne scuso. Ai nostri fini, però, ecco che ha un suo perché, diciamo pure una sua pertinenza. Son sempre stato un più che bravo ragazzo, e mi dispiace di rivendicarlo. Da sempre serio, assiduo e diligente, non ho però avuto non dico appoggio e riconoscimento, ma nemmeno dignità minima e autonomia, verso i miei progetti e le mie pur degne scelte (all'università a Bologna, ormai un decennio fa, mi sentivo dire che costavo troppo: il problema non era dunque il patrimonio immobiliare, che mia madre scarsamente seguiva, dopo la morte di papà; il problema ero io, fuori sede, pur facendo comunque il mio dovere, e ci tenevo tanto). E questa condizione attuale, che è kafkiana, contraddittoria e beffarda, e direi anzi del tutto assurda, la devo in primo luogo alla famiglia. A questo punto un po' potrei campare a sbafo: non voglio rimanere a fare il parassita, non è da me; ma diciamo pure che ora resto un po' adagiato, essendo ormai enormemente scoraggiato, e avendo patito davvero troppo (sventrarsi il pene, nell'indifferenza, e aver perforato il glande, sino ed oltre il meato uretrale, dal palloncino di ancoramento alla vescica, per l'interno del catetere fisso, è proprio atroce: per un maschio, un ragazzo, è davvero aberrante - come per lo "scappellamento" della supercazzola, ma qui c'è poco da ridere purtroppo). Mia madre ha il suo patrimonio, ed è nutrito; pigra e autoritaria nel gestirlo, distratta su alcune manovre, che pure impone, mi deve però ad oggi il mantenimento, in condizioni tutto sommato agiate: ho una casa anch'io, piuttosto grande, tra le diverse proprietà, e vivo con un mio assistente, un ragazzo africano con cui si è instaurato un certo affiatato legame di empatia. Non voglio ritirarmi comodamente a fare il parassita, è una posizione che non mi appartiene, direi e dico giammai. Smetterò ad ogni modo di fare il bravo ragazzo, inquadrato e rassegnato: non ne ho ottenuto niente: e, al netto dei rimproveri che pure mi rivolgo, sento e so che le recriminazioni sono immense, e sacrosante, specie verso la mia famiglia. Da sempre stupidamente penalizzato, e disastrosamente messo a freno, sento così che quell'affetto, quell'empatia, quel senso di responsabilità, giustamente richiamato, in generale, verso il nucleo dei familiari, nel mio caso ha poi uno scarso motivo d'essere. Non dico di voler fare scelte precipitose, per cui sarebbe apertamente giusto il voler richiamarmi a miti consigli... e, come sa, di mettermi a fare idealistiche battaglie contro i mulini a vento non è il caso, perché nella realtà pratica non avrebbe capo né coda, e non avrebbe senso - per quanto il profilo etico di Cervantes, in don Chisciotte, sia del tutto genuino e lodevole, nei livelli ideali, oltre che sconclusionato in pratica. Bando però alle ciance, ed alle critiche letterarie... sennò finisco sconclusionato anch'io, come mi succede. Ne prendo spunto, però, per dire che le competenze più solide, le più radicate, ce le ho sin da ragazzo, ben più che uno studente brillante. Mortificato e tenuto a freno negli anni, da un sistema di piattume, vuotamente egualitario, per effetto in larga parte del falso buonismo della più falsa sinistra, sono arrivato a doppiarmi, nell'età, in termini anagrafici e diluiti: considerando che, a 15 anni, proponevo virtuosismi, provocazioni e parodie letterarie, ed ero ritenuto ed acclamato come doctor in pectore, a più livelli disciplinari; mi sono visto poi risucchiato, essendo lodato e sbrodato, messo sul piedistallo, come per zuccherino di consolazione, da quei docenti che non mi davan sbocchi, trascurando il mio estro, il mio slancio, e volendo per molti versi inquadrarlo. Giunto quasi a 30 anni, non sono ancora dottore, almeno ufficialmente (mi manca un ultimo esame, e sono fermo da 3 anni ormai): direi che, acclamato come dottore da ragazzo, mi sono oramai doppiato, dai 15 ai 30 anni, verso l'agognato titolo. Preparerò l'esame nei prossimi mesi, appena avrò un presidio antidecubito che mi consenta di poter stare seduto più a lungo: il letto che ho adesso è senz'altro accettabile, più che buono, ma resta provvisorio, dato che serve per stare tranquillamente stesi - e, invece, per star seduti, e caricare sul sedere, pressando la gamba, mi preoccupa ancora (sento confuso bruciore, non ho chiara percezione alle gambe, le quali, ferme per ore, subiscono il carico); la carrozzella, che andava rinnovata 3 anni fa (per l'usura, secondo le tempistiche ordinarie), devo in effetti ancora riprenderla, dopo l'incubo a più riprese di quest'ultimo triennio, e avrò un incontro col fornitore dell'ortopedia, la prossima settimana, anche con riguardo ad un particolare cuscino. Ho finalmente le autorizzazioni, pubbliche, ufficiali, per i rinnovi: dopo una serie di passaggi burocratici, in sé dispersivi e rivolti a scoraggiare, potrò finalmente avere dei presidi adeguati, sia a letto che sulla sedia - in questo ci son stati vari tentennamenti, e parecchi ritardi, negli adempimenti presso sportelli ed uffici... il mio amministratore di sostegno, persona da sempre genuinamente affabile, squisita, si è rivelato questa volta deludente, nel seguire a rilento i passaggi, coprendo le mancanze legate all'ostruzionismo di mia madre, risentita e indisposta, e comodamente defilata, davanti al mio giusto biasimo, pur sferzante e particolarmente deciso. Così, rimasto in una casa ampia ed ospitale, ma costretto a letto, peraltro quasi sempre da steso, ho visto perso un altro anno, dopo aver risolto il decubito l'estate scorsa, con un'operazione (e già di aver perso il biennio ero rabbiosamente indignato). Ecco, chiudo ora di netto con le divagazioni, e coi lamenti: lo dicevo in riferimento al mio approccio futuro, non più banalmente inquadrato, non più rassegnato in attesa di chi sa che. Tanto per intenderci, una volta dato il prossimo esame, non avrò difficoltà a scrivere la tesi: ma poi la scenata, il giorno dei fasti della discussione, la presenterò con foga ed in modo grintoso... un po' da guastafeste, in rapporto a quelle sordità arroganti che mi hanno guastato la vita: e, nell'argomentare sui parametri di legge, sui più alti principi, potrò mettere allusivamente in imbarazzo, via via in maniera più esplicita, un certo malcostume arrogante, arrembante, imperante. Ridottomi alla mia età, non più così giovane, a dover ottenere ancora il pezzo di carta, troppe volte miseramente svenduto, per generazioni spente e sotto controllo; in ritardo, non per difficoltà di ordine culturale, di apprendimento o di intelletto, ma solo perché smanioso di bruciare le tappe, sino a bruciare me stesso, tra storture ed ostacoli banali; sono allora, anch'io, "orgoglioso di essere diverso": e vorrei dare un impatto sistematico, globale, diffuso, un'impronta estesa a questa mia protesta. Dopo questa "orazion picciola" (cito anch'io Dante, la Commedia, giacché nella precedente risposta ne rivisitava l'incipit, con la nota apertura sul mezzo del cammin di nostra vita), spero di aver nutrito, almeno in qualche misura, le motivazioni per un appoggio, qualche profilo più lungimirante, o per tenerci in contatto. Ho le mie competenze, e le rivendico fiero: contro questo sistema formativo, deformante, che vede lo studio come sottomissione e lecchinaggio, anziché come fervore. A iniziative generali, di più ampio respiro, potrei trovarmi pronto - e qualche appoggio economico ottenerlo, anche qui in famiglia; per adesso, qualche primo atto di clamore, pur eclatante, andrebbe preventivato. Lo dico, ovviamente, per adesso, in un modo tutto sommato generico, serva riferimenti immediati e diretti: ma, pur sempre, con un chiaro e deciso proposito. Pensavo 10 anni fa (è sconcertante), nel 2008, di avviare una protesta generale, o una mobilitazione, ma poi ero disperato, e mi precipitai. Adesso ricorrerà, nel 2018, un altro anniversario tondo, cinquantenario, dal 1968 (altra esperienza deludente, a ben guardare). Ma io non mi rassegno: oltre che una svolta, uno slancio innovativo. Non includere tutti, omologando ad uno standard piatto, ma favorire il merito, anziché tagliarlo fuori. Questo è lo spirito della mia proposta - troppe volte soffocata, tenuta schiacciata e inespressa, purtroppo, sino a scoppiare. Lei si è rilanciato, si è speso attivo, e si è ripreso, a 30 anni circa, o un po' dopo, prospettive e speranze: onorando in effetti un progetto seguito con fermezza, per onestà e rettitudine, in modo più che degno, profilo a cui spero adesso di potermi accostare. Le segnalo con schiettezza, però, che per me è più difficile: ero promettente sin da piccolo, per molti versi enfant prodige, anche prima delle scuole superiori, che furono in larga parte uno spento parcheggio; ora, di ritrovarmi in questo stato, a 30 anni, mi lascia sgomento, e mi vede quanto meno in difficoltà. Spero di poter risollevare le sorti, per così dire, o piuttosto le vie (su cui possiamo incidere anche noi - perché non è solo destino, anche se siam pilotati): mie e di questo strampalato andazzo nazionale, nel martoriato mondo della scuola. Ed oggi, primo settembre, san Remigio, era una volta l'inizio dell'anno scolastico, per i remigini - ma tradizioni e coincidenze non ci interessano, le lasciamo agli almanacchi. Statemi vicino, con la dovuta gradualità, perché con una sensibilizzazione più diffusa ne caveremo qualcosa. La saluto nuovamente, con rinnovata stima e con speranza».
Francesco, non si deve riporre in me speranze mal riposte. Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso? Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato. Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere. E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata. Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga. Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu. Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali. La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi. Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso. Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
«Dottor Giangrande, Mi ha risposto ancora una volta in modo pronto, piuttosto solerte. Gliene sono grato. Non imputo la superficialità, o il tono di una linea sbrigativa, alla precedente risposta. Le rinnovo anch'io la mia stima, ed è chiaro. Come pure vorrei però che, in maniera ponderata e più calma, si soffermasse a riflettere sui miei spunti - in larga parte condivisi, per società e scuola -, cercando magari di darmi spazio, in concreto, di darmi una mano e magari riconoscermi una concreta possibilità. Non cerco spazio di fama, né una comoda vetrina di supporto. Però una maggiore fiducia, in termini concreti, è doverosa, e mi permetto di farglielo notare. E non tanto verso di me, verso i miei progetti, o per l'ardore delle mie imprese; quanto piuttosto per la linea da seguire, non solo nella società, ma, più banalmente, nella vita. Non sto a dare morali, non mi metto quindi a catechizzare: dico solo che essere rassegnati, per la vita oltre che nella vita, non solo è contraddittorio, ma è la peggiore contraddizione, soprattutto per le persone come noi - o, con toni genuini e comuni, per la gente come noi. Non cerco un facile senso della vita, e non do prevenuto la morale: dico però, e mi limito a questo, che essere rassegnati non ha senso, soprattutto per noi e nel nostro caso. Diceva, in precedenza, che "nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato". Le rispondo, su questo, citando Socrate, e mi permetto di dire, al di là della filosofia classica, "chi vuol muovere il mondo prima muova se stesso". Esortazione al dinamismo: simpatica, quasi paradossale, se lanciata da me, che gioco forza, tra decubito e problemi vari, me ne sto bloccato da 3 anni. Eppure voglio scuotermi, e possiamo farlo: scuotere me, come pure smuovere la società. Sarò un sognatore: ne vado fiero. Il filosofo più razionale dell'età moderna, o per lo meno la voce di fama ritenuta, più che autorevole, esimia e geniale nella razionalità, come personaggio del pensiero moderno (mi riferisco ad Hegel, noto per i mattoni dell'enciclopedia filosofica), si trovò però a riconoscere che "la passione smuove le montagne". Persino una mente così razionale, non dico arida, ma chiaramente non emotiva, e men che mai passionale, riconobbe alla passione un ruolo cruciale e decisivo, individuando in essa la conditio sine qua non, la strada imprescindibile per la riuscita nei propri intenti, anche negli intenti più ostici, in quelli più difficoltosi e duri. Sto facendo accademia, è vero: non è un grande slancio, come motivazione. Però "volere è potere", mi riallaccio a quel che mi ha scritto. E questo, allora, lo condivido e glielo confermo in pieno: senza dilungarmi sulla letteratura russa, che nei suoi romanzi più celebri vede vincenti gli eserciti in quanto motivati e coesi, verso un fine individuato come obiettivo, e senza stare a citare il motto di Vittorio Alfieri, che per la dedizione e lo studio si legò alla sedia (io non ne avrei bisogno, essendo oramai bloccato come paraplegico), dico però che invece il motivo è nei fatti. Il mio dilungarmi, a titolo di preterizione, sugli esempi letterari, il mio ripercorrere, senza dirlo espressamente, ed anzi affermando di volerli tacere, i più eruditi passaggi della cultura e delle lettere, non è, al fine di motivare, una scelta in sé efficace: me ne rendo conto, serve a far accademia, poco altro, ed è fine a se stessa. Ebbene, non fa niente: nel nostro caso, se è davvero vissuto, la motivazione c'è già, ed è nei fatti vissuti: se, come credo e spero, questi son sentiti in modo pieno, autentico - per la cultura come per la società. Mi perdo in polpettoni, spesso articolati e lunghi, sul tono e sul fascino della cultura... perché ne sono invaghito e preso, assorbito con passione, la più forte ed intensa. Siccome so, e so senz'altro, che chi fa scelte di vita, così decise, negli ideali, con battaglie di principio, alle volte tanto proibitive e dure, è in concreto una persona che ha già una forza di volontà, di per sé enorme, allora mi sorprendo a dilungarmi, e finisco per perdermi in chiacchiere, quasi come provocazione, per argomento a contrario - contestualmente rivendicando la più alta genuinità della scelta che ci contraddistingue, nei suoi valori ideali, magari teorici, ma vissuti in pieno ed in concreto. Non c'è da dare una motivazione, in effetti: perché la motivazione come dicevo è già nei fatti, immediati e diretti, della cultura e della vita. Si diceva, in latino, "poesia non dat panem": sapevano già, gli antichi, che non si ottiene sostentamento nel dedicarsi allo studio, che la poesia non dà il pane. Poco male, pazienza: già nell'antichità, e non solo in antico, la si scopriva e seguiva con passione, con grande pregio. Mi sto dilungando nel fare dottrina, ribadisco, e riconosco senz'altro che può essere un autogoal, almeno in generale. Le sto mostrando, però, ed anche dando a vedere, ai fini pratici, più terra terra, con che facilità, con che diretta immediatezza, all'esame di laurea, occasione illustre, formale, senz'altro ben documentata, con la sua risonanza ed il suo potenziale clamore, potrei dare sferzate verbali, via via meno allusive, a quella classe di forchettoni così ciecamente attaccata al potere. Il fatto di essere disabile, seduto in carrozzella, ed anzi costretto in sedia, potrebbe ulteriormente giocare a mio vantaggio: per buonismo imperante, come discriminazione alla rovescia, pubblicamente non la si toglie la parola a un disabile, e immagino perciò l'imbarazzo nel cercare di zittirmi o di levarmi il microfono. Cerco di fatto una prima occasione di clamore, sembro deciso, ma son tentennante anch'io. Le occasioni si presentano, per avere una risonanza amplificata e maggiore. E l'andazzo, pessimo, è nel dare strada e clamore alle banalità, alle bassezze diffuse, che pure sempre più prendono piede - soprattutto in questo periodo di banalità imperante: non è un buon motivo per arrendersi, a dir così, o per restarsene dimessi e rassegnati. Lei mi diceva pure (e concordo): "il fine dei diversi non combacia con la meta della massa", e "la storia dimostra che è tutto un déjà-vu". Le do ragione, oggi più che mai... oltre che da tempo immemore in effetti. Le do ragione in parte, anche stavolta. Sappiamo che i "diversi" hanno difficoltà, e sono osteggiati. È vero. E allora? Siamo diversi, e rimaniamo tali, con coerenza e con orgoglio (mi rifaccio anche al motto, un detto ben felice, con cui giustamente si presenta: "orgoglioso di essere diverso"): senza dover piegarci a verità di comodo, e senza arrenderci, per preteso realismo. Mi diceva, giustamente (in un senso ontologico, per analisi reale, ben più che a livello etico e in un senso morale): "essere diversi significa anche essere da soli'". Diceva qualcosa di simile anche Pasolini (era giusto - in un senso ontologico, perché purtroppo è vero, piuttosto che sul piano etico, perché non è moralmente giusto). Lei aggiunge pure: "senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga". Di questo forse avrei bisogno, di una qualche ramificata linea d'appoggio, non solo in un senso morale (di stato d'animo, oltre che nell'etica - il morale e la morale). Sulla sincerità dell'amicizia, pure qui un'enorme importanza. La contatto, e non nascondo spesso di sentirmi solo, e di esserlo, per molti aspetti, ai fini concreti, ben oltre le visite e le cortesie di facciata. Non voglio in ogni caso un esercito per una battaglia, men che mai per una battaglia di tipo personale: la mia finalità è sociale, nel progetto, e spero nel rilievo, e c'è bisogno di una think tank affiatata e sentita - non perché voglia sentirmi generale. Non sono portatore di una bandiera, e alle bandiere credo ben poco anch'io. Nel definirsi "un Uomo che scrive e viene letto", ma anche, e subito dopo, "un uomo senza Potere", ecco che lei commette il suo errore: non le do la maiuscola, stavolta, oltre che per residuo vezzo ideale (son contrario anch'io ai facili onori, e, nel riservare le maiuscole, per garbo, le faccio in genere coincidere con l'esigenza della lingua, all'inizio della frase). Lei dice, appunto, di se stesso, "Uomo", con la maiuscola, per il tono diffuso del suo lavoro, che riconosco anch'io di vero e gran rilievo, chiaro e di peso, ma poi si sminuisce, con la minuscola, per lustro ed in termini di prestigio, davanti al "Potere", con la lettera grande. E invece no: crediamoci. Lo dico con pacatezza, ma pure con determinazione. Non sto a fare proposte, in modo diretto e stringente: non le ho per me, e quindi mi mantengo anch'io sul vago, è inevitabile - o per lo meno è attuale, e reale. Eppure, senza essere precipitoso, tanto meno stringente, per l'appunto, qualche contatto comincio a prenderlo, in via non esclusiva: con lei, come con altri, come esponenti, pur degni di stima (lo so, è soggettivo, è variabile), che abbiano in certa misura a cuore la strada dell'impegno, per la tutela delle minoranze, troppe volte fagocitate e spente, come degli indifesi o degli esclusi - pur di seguire una linea alternativa, ancora in modo vago, cercando però di gettare le basi per poter costruire qualcosa. Essere frammentari, non dico divisivi, ma divisi, questo è un modo di intestarsi delle battaglie (oppure semmai delle sfide), e di intestarsene o di attribuirsene, in pratica, l'esclusività. Chi sa che non ci incontreremo, una volta, in occasioni più comuni, per così dire. Taranto non dista poi tanto, dalla mia pur controversa città, e di invitarla a pranzo, o anche ospite a stare da me (ho una casa grande, confortevole), avrei piacere ed onore. Ho stima sincera, del suo lavoro - e di condividere uno spiraglio con lei mi fa piacere, anche in termini generici. Sarò pure precipitoso, e largamente inconcludente... e di organizzare una linea comune, in una chiave alternativa, in chiave di alternativa, è magari una speranza vana e troppo remota; non mettiamo però limiti alla provvidenza, direbbe il gergo cristiano; non diamo prevenuti limiti al futuro, dico invece qui. Lei diceva a più riprese, nei suoi scritti, che far nomi e cognomi è particolarmente scomodo, espone al rischio di reazioni stizzite: esprimersi in modo allusivo, indiretto (alla "c'era una volta"), è ben più comodo, invece, ed anche per molti versi più sicuro. Se c'è qualcosa che so fare, e che mi riesce più che bene, oltre all'argomentare, è mettere alle strette, anche in modo spietato, non solo per logica. Citando dei canti sulla mafia, e contro la mafia, eccomi quindi a dire "raccoglie distratta solidarietà", citando una vecchia canzone dei Modena City Ramblers - ma in realtà questa è una vecchia vetrina, e pecca di buonismo sinistrorso. Oppure "questa vita non ha significato se hai paura di una bomba o di un fucile puntato"... altra vetrina, pure questa, persino da festival. Non lo dico per dare motivazioni, non ne ha bisogno. Lei le motivazioni le ha già, e non devo né dirgliele né dargliele io. Io per parte mia, nel mio piccolo, cerco progetti di qualche respiro, e raccolgo le energie. Spero di aver modo di risentirci, e di condividere battaglie o prospettive. La motivazione l'abbiamo già entrambi, e occorre accenderne lo spirito, se mi consente espressioni metaforiche. In un senso più diretto, e più concreto, confermo che avrei pure un capitale, da investire, e che oltre alle mie facoltà, alla mia testardaggine e alla mia grinta, potrò presto avere un gruzzoletto, da investire e da rivolgere in progetti di questo tipo, per una sensibilizzazione più diffusa e capillare: è chiaro, pensare di sostituirsi in modo ingente all'istruzione ed alla stampa di regime (per comoda e rassegnata tradizione, così orientate in modo servile) sarebbe davvero presuntuoso, oltre che concretamente assurdo. Senza perderci in progetti troppo pretenziosi, nelle spropositate battaglie di bandiera, dico però che con i mezzi attuali, in rete, sulle pagine del web in primo luogo, investire in modo diffuso può dare i suoi frutti, in termini di visibilità e d'impatto. Penso a fare le cose in grande, e mi perdo in auspici di largo respiro: per adesso sul web non sono presente, quasi nulla, né come blog, né sui social - c'è credo a mio nome un qualche riferimento di cronaca di quando recuperai la cintura, come onore, dopo aver perso tutto, per il dramma della precipitazione, e poi un lontano riferimento giornalistico sui migliori allievi della mia scuola (il liceo che tanto mi stava stretto), per i diplomati col massimo dei voti, e davvero poco altro; ho avuto fino a pochi anni fa una pagina facebook, come profilo di utente comune, ma poi l'ho rimossa, col decubito, non potendo più seguirla per via della piaga, per cui non stavo di fatto nemmeno più seduto. So bene, almeno in teoria, che per raccogliere successo, su larga scala, bisogna parlar chiaro, senza divagazioni o polpettoni, e dovrei allora limitarmi, perché i miei spunti (che mi piace condividere con chi è saggio e ispirato - "multi sunt vocati, pauci vero electi", "non licet omnibus adire Corinthum", senza tema d'élite) sarebbero dispersivi, indisponenti, e pure senz'altro controproducenti. Per la "discesa in campo", linguaggio berlusconiano, occorre innanzitutto fiducia: non in modo scriteriato, odiosamente irresponsabile, ma nemmeno forzatamente a rilento, a freno tirato, perché anche quello fa sbandare. Occorre fiducia, e non priviamocene (non diamo limiti... per provvidenza o futuro che sia). Ho un piccolo patrimonio, avrò presto un capitale da gestire (farò rimuovere l'amministratore di sostegno, che non mi ha più aiutato ultimamente): sta a me di investirlo in modo genuino, questo gruzzolo, di indirizzarne e di rivolgerne gli effetti; e come sa non ho patemi di spreco, verso la mia famiglia, perché la dilapidazione malauguratamente l'ho subita, per energie e per investimenti concreti, intralciato in modo becero, pur volendo impegnarmi al meglio, e pur essendo le mie premesse più che degne e convincenti. Non starò a recriminare su quanto ero bravo, o sul tempo perso, per trascuratezze e imposizioni - anche se la tentazione è forte, e talvolta mi avviluppo in modo sterile, nocivo. Quel che conta, però, è il margine di manovra, in termini di autonomia come raggio d'azione. Mi perdoni se l'ho tediata, nel dilungarmi sui vari patemi, oltre che sul rapporto di possibili progetti - per ora individuati in modo generico, ovviamente. Da ragazzino giocavo a scacchi, con la federazione nazionale, giunto più volte sino alle finali dei campionati nazionali: concludo allora dicendo che, ben lungi dalla rigidità più stretta della scacchiera, dove ad un certo livello il vantaggio accumulato conta, ed è quasi sempre decisivo, anche se limitato, vediamo che nella vita degli uomini, dove maggiormente diffuso è l'imponderabile, c'è sempre un margine di ripresa, di riscatto e di speranza: come gli equilibri assestati, pur tesi, si stravolgono negli scacchi (con la cosiddetta mossa del cavallo, che non è in effetti l'unica modalità di sorpresa), a maggior ragione gli spiragli ci sono (e andrebbero nutriti) nella vita, in campo umano e sociale, perché le variabili sono enormemente di più. Il tema da cavalcare, a dirla grettamente, a dirla brutta, è il fastidio e l'inadeguatezza della scuola. È un tema potenzialmente assai popolare, sentito, chiaro: se a questa cruda autorità, che rimane imposta con duro autoritarismo, a parte i vezzi radicali che, tra i peggiori pretesti, riducono lo studio a sottomissione (e demolire questo è il primo punto), riuscissimo a far subentrare una via più sottile, di vera autorevolezza (questo è senz'altro il passaggio più difficile), allora ecco che i progetti prenderebbero corpo, e l'essere ricordati per il proprio apporto, per le proprie opere, avrebbe allora una strada ed un senso più degno. Il mio discorso, sconclusionato nel suo volare così in alto ("ai voli troppo alti e repentini, sogliono i precipizi esser vicini" - già, ma chi lo stabilisce il "troppo", vogliamo lasciarlo all'andazzo attuale, di far sbandare col freno tirato?!), farebbe però l'invidia, lo dico sommessamente, dei più illustri accademici: a loro sta il potere, di diffondere messaggi analoghi, tra i soliti vuoti propositi, andando poi a rilento in nome della massa: un potere basso... di prestigioso degrado, anche se suona come una stonatura, e per molti versi lo è. Un potere, basso potere, indegno di considerazione - come pure di maiuscole, o di resa. È l'unica obiezione che le faccio. Contro gli accademici non ha scritto solo sant'Agostino, di cui alla fin fine mi importa ben poco. La contattavo, in via generica e ovviamente aperta, senza dei traguardi diretti, e meno che mai per delle mete immediate. Senza facili illusioni, cerchiamo però di mantenere una speranza: non demordiamo, non demordiamo in toto... io le mie idee ce le ho, come pure una disponibilità economica. Se avrà piacere, potremo volendo tenerci in contatto. Cercherò di dilungarmi di meno, e in questo senso mi scuso ancora. La saluto, di nuovo, con rinnovata stima».
SULLA PELLE DEI TUMORATI...
Nadia Toffa e il tumore, Filippo Facci brutale: "Coraggio? No, cazzo", scrive Filippo Facci il 13 Febbraio 2018 su "Libero Quotidiano". Vorrei spiegare perché il "caso Nadia Toffa" mi ha suscitato un moto di ripulsa, e non tanto perché lei abbia dimostrato una clamorosa faccia tosta - quella ce l'ha, amen - ma essenzialmente perché penso che conduca a una banalizzazione dei malati di tumore e nondimeno, com' è sua abitudine, a un messaggio distorto su questo tema. Ma probabilmente il mio è un caso particolare: non si spiegherebbe, altrimenti, l'apparente successo della sua rivelazione fatta a Le Iene domenica sera, quando ha detto «ho avuto un cancro, mi sono curata. Sono stata operata. I medici mi hanno tolto il cento per cento del tumore. Ho fatto una chemio e una radio preventive per evitare che rimanesse in giro qualche cellula. Non lo sapeva nessuno e ora ve ne posso parlare». Dopochè è stata celebrata sui social e sui giornali (anche da colleghi giornalisti amici e da politici come Matteo Renzi) per il suo «coraggio da leonessa», che sarebbe consistito ne «l'importanza della condivisione della malattia» perché «discuterne apertamente con gli altri e metterla in piazza serve ad affrontare la malattia con più coraggio». È sempre bello sentirsi meno soli - anche se, piuttosto che mettere in piazza il dolore e i tumori della mia famiglia, io mi sarei fatto evirare, per esempio - ma, al di là di questo, c' è qualcosa che proprio non ho capito tecnicamente. Lo dico dopo aver letto molti sinceri messaggi che si complimentavano con lei. Anzitutto: che cosa ha condiviso, Nadia Toffa? Non una malattia, ma una celerrima avvenuta guarigione. Nei mesi in cui è stata in cura (pochi, un paio) non ha condiviso una parola, mi risulta.
Servizi giornalistici - Prima di spiegarmi meglio, però, voglio onestamente chiarire che ho sempre considerato la Toffa una pessima giornalista (che poi non è una giornalista: nell' albo non compare, e comunque la trasmissione Le Iene non è una testata giornalistica, anche se lo meriterebbe) e che l'ho considerata pessima ancor prima di sentirla nominare, nel senso che ricordo bene alcuni pessimi servizi televisivi che solo successivamente ho appreso aveva fatto lei. Sono servizi che soffiavano su alcune delle campagne più false e smentite condotte negli ultimi anni: dalla Campania avvelenata ai tumori (eccoci) nel napoletano, nel casertano, a Crotone e ovviamente a Taranto, sino al capolavoro del novembre scorso quando straparlò di pericoloso esperimento nucleare tenuto nascosto nei laboratori del Gran Sasso, spiegando che «un incidente potrebbe inquinare le falde acquifere, la catena alimentare e l'intero Adriatico». Il servizio stile "L' Aquila come Fukushima" fu deriso ovunque, ma la barzelletta di centinaia di scienziati riuniti sotto terra per fare esperimenti segreti - sgominati dalla troupe di Nadia Toffa - fece comunque i suoi piccoli danni tra i più sprovveduti. Molto peggiori (rieccoci) erano stati i suoi chiassosi appoggi a medicine alternative e soprattutto al bufalesco caso Stamina, che vide Le Iene incaponirsi attorno a una manipolazione mediatica semplicemente schifosa che faceva leva sulla compassione per i bambini gravemente malati. Altri servizi delle Iene furono quello su Matteo Viviani (uno che sosteneva che il cancro andasse combattuto con l'aloe) e sui miracoli dell'Escozul (un estratto di veleno di scorpione usato a Cuba sempre contro i tumori). Ora ho letto che Nadia Toffa ha dichiarato questo: «Voglio dire un'ultima cosa (che se è ultima, forse, l'ha ritenuta meno importante, ndr), ho fatto tanti servizi di persone che dicono di guarire il cancro con pomate e acqua fresca. Ma le uniche cure sono la chemio e la radio».
Terapia, s' intende. Meglio tardi che eccetera, ma par di capire che ci siano due soli modi di arrivare a questa conclusione: avere un cancro, oppure informarsi prima. Anzi no, è avere un cancro e basta: perché l'essersi informata e occupata dell'argomento negli anni precedenti (diffondendo false speranze e vera sfiducia) evidentemente non le era servito a niente: il che non coincide con la professionalità necessaria - a mio modesto parere - per poter parlare e illudere milioni di telespettatori su un tema del genere.
Dopodiché, dicevamo, Nadia Toffa non ha un cancro: l'ha avuto. Due mesi per accorgersi di avere un tumore, asportarlo interamente, fare una chemio e radioterapia solo preventive (ci fosse qualche cellula ancora in giro) e poi tornare in onda: come se - eccolo il messaggio - il cancro fosse questa cosa qui, due mesi e una parrucca e via, «non siamo malati, siamo guerrieri, chi combatte contro il cancro è un figo pazzesco».
Condivisione social - Ora, lo dico col massimo rispetto per Nadia Toffa ma anche per la storia della mia famiglia, decimata dai tumori: il cancro non è questa specie di rapido pacchetto ospedaliero, breve come un servizio delle Iene - che poi lo è diventato, un servizio delle Iene - con festa mediatica finale. Dignità personale e riserbo a parte - ma è una cosa che non si può spiegare - se qualcuno ha tratto coraggio dalla vicenda della Toffa, beh, mi fa solo piacere. Ma questa condivisione-social persino dei tumori (ma guariti) temo possa illudere altra gente malata: com' è avvenuto tutte le altre volte. Come a dire: vedete?, io ce l'ho fatta e lo condivido, uscite allo scoperto anche voi. Questo se sono guariti, certo: che poi magari l'hanno fatto pure, qualcuno è guarito, solo che non conduceva programmi televisivi. Il problema è chi non ha avuto il formidabile culo che ha avuto Nadia Toffa, il problema è chi le chemio e le radioterapie e le recidive le vive da anni. E si nasconde come la Toffa ha fatto solo per due mesi. Ma costui vede e capisce, guardando la tv, che le conduttrici televisive si beccano i tumori e ne guariscono nell' arco di due mesi. Coraggio, bambini paralizzati in un letto da anni: potete farcela, guardate me. Il cancro, e che sarà mai. Filippo Facci
LA DEGENZA.
Così si muore di cancro tra tossici, scotch e panini. Nel pronto soccorso l'agonia di un uomo che per 56 ore i parenti hanno tentato di proteggere dall'indifferenza, scrive Tiziana Paolocci, Giovedì 6/10/2016, su "Il Giornale". Morire in un letto di un pronto soccorso davanti agli occhi di una folla eterogenea di tossicodipendenti, anziani abbandonati, familiari giunti a portare panini e pizza ai parenti ricoverati. Passare le ultime 56 ore di vita nascosto dietro a un maglione fissato al muro con lo scotch quasi a fare da paravento, per cercare di nascondere la sofferenza, aggrappandosi all'ultimo scampolo di dignità. Marcello se n'è andato così, nella confusione del pronto soccorso del San Camillo, uno dei tanti ospedali di una capitale che fino a qualche giorno fa guardava alle Olimpiadi, ma nel medagliere colleziona solo vergogne da record. A denunciare quanto accaduto all'anziano, malato di cancro, è stato il figlio Patrizio Cairoli, giornalista di Askanews, che in una lettera ha chiesto l'intervento della ministra della Salute, Beatrice Lorenzin. Dopo la scoperta del tumore, per tre mesi il padre ha aspettato inutilmente di iniziare la radioterapia. Nell'attesa gli è stata proposta quella «palliativa», che è servita a poco, perché i dolori alle ossa sono aumentati così tanto da impedirgli di camminare. «Un calvario, nell'indifferenza di medici, che si limitavano solo ad aumentare la somministrazione di tachipirina - si legge nella missiva -. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare, ovvero rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantirgli, con la terapia del dolore, una morte dignitosa. Quando l'ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo papà è finito al San Camillo». A Marcello viene iniettata morfina, ma la situazione precipita. La fine è impietosa. «È morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso - scrive Cairoli -. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare». E nell'orario delle visite arrivano i parenti dei ricoverati. Altra confusione, altro caos. Il figlio protesta, chiede una stanza in reparto o in terapia intensiva, ma ottiene solo un paravento. Allora la famiglia prende un maglioncino, con lo scotch lo fissa tra il muro e il paravento, protegge la sofferenza dell'anziano formando una barriera con i corpi e attende la fine. Vergognosa. Il direttore sanitario del nosocomio, Luca Casertano, interviene sul caso spiegando che nella Regione Lazio sono operative strutture territoriali per accompagnare al termine dell'esistenza di malati oncologici presso il proprio domicilio o presso strutture residenziali protette. «I pronto soccorso di quasi tutti gli ospedali di fatto non dispongono di un'area strutturata per accogliere le persone in fine vita - ha sottolineato -. Tuttavia, a volte, accade che i familiari, di fronte all'improvviso aggravamento, accompagnino il congiunto presso il pronto soccorso più vicino per un estremo, ma purtroppo vano, tentativo di salvargli la vita. Il signor Cairoli, malato terminale-oncologico, era nell'area dei codici verdi e bianchi non per la gravità clinica, ma perché presso quel settore è consentito l'accesso dei familiari in maniera più continuativa, cosa impossibile nell'area cosiddetta critica dove ci sono i pazienti più gravi». Ma il caso ha fatto rumore e la Regione ha chiesto una relazione al manager dell'ospedale, mentre la ministra Lorenzin, secondo regolamento, ha disposto già l'invio di una task force per accertare se e in che modo siano stati lesi privacy e dignità dell'anziano paziente terminale.
Quel malato di cancro condannato al dolore, scrive Michele Bocci il 5 ottobre 2016 su “La Repubblica”. Noi stiamo qui a discutere di dati sull'incidenza del cancro e possibilità di guarigione, di nuove cure e farmaci super costosi che servono a migliorare la sopravvivenza dei malati. Parliamo di centri di eccellenza, che ci sono, e di medici che hanno dedicato la loro vita a combattere il tumore e dare speranze ai malati. Poi accadono fatti come quello raccontato dal collega di Askanews nella sua lettera al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, e siamo tutti costretti a fare un salto all'indietro di anni. La prima cosa a colpire, ovviamente, è l'ultima parte della storia, quella dell'attesa della morte nel pronto soccorso del San Camillo. E' inaccettabile che un malato terminale resti ore in quel tipo di reparto. Ma tutta la vicenda merita attenzione: le attese per la radioterapia, le scarse informazioni ricevute dalla famiglia e, per come la vedo io, anche la scarsa attenzione al dolore. Sono anni che si cerca di diffondere in Italia la cultura della terapia del dolore, un modo per alleviare sofferenze tremende e inutili. Come è possibile che nessuno abbia dato a quel malato farmaci adatti alle sue condizioni? Nella lettera si parla di tachipirina. E' mai possibile che sia questo l'anti dolorifico prescritto a un paziente così grave? Si sapeva che il nostro Paese rispetto ad altri è molto indietro nella cultura della terapia del dolore, che l'uso della morfina e di altre molecole pontenti è troppo basso, ma negli ultimi anni sembrava esserci una nuova consapevolezza. E invece la brutta storia di Roma ci insegna che anche in questo campo il nostro sistema sanitario e i suoi professionisti devono ancora raggiungere un livello accettabile di civiltà.
Roma, muore di cancro al pronto soccorso. Il figlio scrive a Lorenzin: "Nessuna privacy né dignità". Una morte nel pronto soccorso del San Camillo tra tossicodipendenti e gli sguardi indiscreti di visitatori rumorosi. È successo al padre di un giornalista di Askanews, Patrizio Cairoli, che ha deciso di scrivere una lettera alla ministra della Salute per denunciare quanto accaduto. La ministra: "Invieremo ispettori", scrive il 5 ottobre 2016 “La Repubblica”. Una morte senza dignità nella corsia di un pronto soccorso di un noto ospedale romano, tra tossicodipendenti e gli sguardi indiscreti di visitatori rumorosi. È successo al padre di un giornalista di Askanews, Patrizio Cairoli, che a qualche giorno dal pesante lutto ha deciso di scrivere una lettera alla ministra della Salute, Beatrice Lorenzin, per denunciare quanto accaduto e perché, forse, qualcuno intervenga affinché non accada più. Il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha annunciato che invierà gli ispettori nel nosocomio romano. A sollevare il caso è stata una lettera scritta al ministro dal figlio del paziente. "Sono rimasta molto colpita da questa lettera - ha affermato Lorenzin - ci sono dei punti molto gravi, ho dato mandato al mio capo ufficio stampa di reperire più informazioni dopo di che manderemo gli ispettori". Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha sollecitato con urgenza al direttore generale dell'Ospedale San Camillo una relazione dettagliata sulla vicenda. La lettera: "Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l'inizio della radioterapia, l'altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso. È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare 'anche 3-4-5 mesi'. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l'ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l'ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina. Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell'orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l'occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l'altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri "servono per garantire la privacy durante le visite"; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera. Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. E' deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c'erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, Capitale d'Italia". La risposta dell'ospedale. "L'azienda ospedaliera San Camillo - Forlanini esprime profondo rammarico e dolore umano per quanto accaduto nel suo Pronto Soccorso e raccontato dai famigliari del signor Marcello Cairoli. La scomparsa di una persona cara è la sofferenza più grande che capita nella vita di ogni essere umano. E il desiderio più grande e profondo è che questo possa succedere nel modo meno doloroso e traumatico per tutti", ha detto il direttore sanitario del nosocomio romano, Luca Casertano. "I nostri Pronto Soccorso - ricorda Casertano - gestiscono ogni anno più di 90.000 accessi. Presso il dipartimento di emergenza dove è stato ricoverato il signor Cairoli ogni giorno arrivano 150 nuovi casi che vengono presi in carico e curati dal personale medico e infermieristico. Un flusso elevato di persone che, in caso di incremento di accessi di malati - non prevedibile, ma frequente - può aver in qualche modo limitato o impedito una idonea comunicazione da parte degli operatori sanitari".
Marcello, poche ore di vita e lasciato morire in una sala di pronto soccorso. Malato terminale, si è spento dopo 56 ore di attesa al San Camillo. Non è stato rimandato a casa perché la procedura andava avviata 15 giorni prima, scrive Gian Antonio Stella il 5 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Lo sapevano. Lo sapevano, al San Camillo, che Marcello Cairoli aveva poche ore di vita. L’avevano addirittura scritto nel referto, che non c’era più niente da fare. E hanno scelto, a freddo, di lasciarlo morire lì. Nel carnaio del Pronto soccorso. Tra pianti, vomiti, insulti, risate, urla, singhiozzi… Senza ciò che più urgeva: il silenzio. La scoperta, che aggiunge vergogna a vergogna nella storia che raccontavamo ieri partendo da una lettera di denuncia scritta dal figlio Patrizio alla ministra della sanità Beatrice Lorenzin, arriva dalla rilettura della cartella clinica del pensionato. Ricoverato tra i «codici bianchi» e «codici verdi» del San Camillo alle cinque di mattina del 22 settembre scorso. All’una e un quarto, stando al referto, il percorso degli eventi era già segnato: «Parlato con i familiari del paziente che sono consapevoli delle gravi condizioni cliniche». Alle undici di sera, nuovo referto: «Condizioni gravissime. Idratazione elastomero in corso. Colloquio con i familiari presenti al letto del paziente, informati in merito alle gravissime condizioni del paziente esplicitando che in caso di ulteriore peggioramento clinico non verranno poste in essere manovre rianimatorie avanzate che non modificherebbero la prognosi quoad vitam et valetudinem. Comprendono e condividono». Traduzione: papà è spacciato. Questione di ore. In un paese normale del mondo occidentale, dopo aver scritto parole del genere, un medico dispone il ricovero dell’ammalato in una stanza dignitosa dove il morente possa incamminarsi verso la fine dignitosa. Nulla di più. Oppure a casa dove, con l’assistenza di un infermiere che somministri la dote giusta di morfina per alleviare i dolori lancinanti, quell’uomo possa vivere le ultime ore della sua esistenza tra cose, persone, fotografie, piccoli ricordi di vita quotidiana che gli diano pace. Dopo tutto, come scrisse il giornalista Stewart Alsop, «un uomo morente ha bisogno di morire come un uomo assonnato ha bisogno di dormire. E arriva un momento in cui è sbagliato, oltre che inutile, resistere». Ed è lì che zoppica la risposta data dal direttore del San Camillo Luca Casertano a «Italia sotto inchiesta» di Emanuela Falcetti su Radio1. E’ vero che «viviamo in una società che rifugge l’idea della morte», è vero che non possiamo pretendere che ogni male possa esser vinto, è vero che dopo decenni di sprechi (nel 2008 un posto letto al San Camillo costava 327.521 euro l’anno contro 166.228 degli ospedali lombardi: vale a dire 900 euro al giorno e cioè quanto una suite al mitico Plaza di New York) il nosocomio romano si trascina i problemi lasciati da un passato indecente. Ma basta, come spiegazione? E sarà vero senz’altro che non c’era una sola stanza a disposizione di chi chiedeva solo di morire in modo decente perché «il pronto soccorso è lì per salvare le vite e non per accompagnare gli incurabili alla morte». Ma l’affermazione che il poveretto non potesse essere mandato a casa con un infermiere che lo assistesse perché «questa procedura andava avviata con una quindicina di giorni di anticipo» è difficile da digerire. Non possono essere i pazienti, i mariti, le mogli, i figli, a farsi carico di queste scelte. Ma, non essendo tra i compiti del buon Dio quello di avvertire «mi presenterò il giorno tal dei tali», devono essere i medici che hanno in cura «quella» singola persona a segnalare ai parenti l’urgenza di avvertire le strutture e tenersi pronti. E qui, come ha scritto il figlio di Marcello Cairoli nel suo «j’accuse» alla Lorenzin, la sanità pubblica romana sapeva che la situazione stava precipitando in fretta: «Sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso». Possibile? «È andata proprio così», racconta Patrizio Cairoli, «La diagnosi la fecero quasi subito: era un cancro alla prostata sfociato in una metastasi ossea. Detto questo tranquillizzarono papà dicendo che, con pazienza e costanza, grazie alla radioterapia e ai bifosfonati… Dopo esserci un po’ informati, manifestammo le nostre perplessità su come fossero trattamenti pesanti… Papà peggiorava… Ci dissero che no, facendo le cose giuste poteva vivere ancora degli anni. “Diversi anni”, precisarono». La terapia palliativa, come ha scritto Patrizio nella lettera, «di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a dire di avere pazienza per ottenere i benefici della terapia, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto di attendere qualche giorno per vedere i benefici; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare “anche 3-4-5 mesi”. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre». Era necessario segnalare con qualche giorno di anticipo il doloroso declino di Marcello Cairoli, come sostengono al San Camillo? Ecco la risposta del figlio: «A mano a mano che la situazione si aggravava papà diceva a chi lo curava: “Sto troppo male”. E loro: “Ci vuole pazienza”. “Sto troppo male”. “Ci vuole pazienza”. “Sto troppo male”. “Ci vuole pazienza”. Ho portato di persona l’ultimo rapporto dei tecnici allo studio della oncologa che seguiva papà nove giorni prima che lo ricoverassimo d’urgenza. Un giorno, a funerali fatti, la signora telefona: “Ho visto il rapporto su Cairoli Marcello…”. “Non serve più, grazie: è morto”». Senza segnalare, col dovuto anticipo, l’opportunità di avviare la procedura…
Tre ore in media d’attesa, spazi ridotti e pochi posti letto. Viaggio nei pronto soccorso. L’analisi negli ospedali italiani dopo il caso choc del San Camillo, scrive il 7 ottobre 2016 mdebac su "Il Corriere della Sera". Adesso tutti commentano che «non doveva succedere», che è «inaccettabile». Eppure Marcello Cairoli è morto come nessuno dovrebbe. Dietro il paravento del pronto soccorso del San Camillo. Sarebbe bastato un pizzico di buon senso per disporre di adagiarlo in un qualsiasi posto letto, magari in uno spazio improvvisato con pietà in un reparto qualsiasi dell’ospedale più grande di Roma. Se si analizzano i dati del monitoraggio sui servizi di emergenza-urgenza svolto da Tribunale per i diritti del malato e la società scientifica Simeu, non era un azzardo aspettarsi un caso del genere. I tempi di attesa nei pronto soccorso sono ancora eccessivamente lunghi, per un ricovero i pazienti devono aspettare oltre due giorni nel 20% dei pronto soccorso, e nel 38% dei Dea, i «super pronto soccorso» ad alta complessità, suddivisi in I e II livello. La permanenza media tra l’accettazione e l’indicazione per una eventuale ospedalizzazione supera le 3 ore che diventano 5 nei Dea di 1 livello e 2.30 in quelli di secondo livello. «Però i cittadini mantengono la fiducia in questi servizi che per loro rimangono l’unico punto di riferimento, una sicurezza», sottolinea Tonino Aceti, del coordinamento Tdm. Le attese sono particolarmente prolungate quando la barella viene destinata all’Obi, l’osservazione breve intensiva. Un’area pensata per velocizzare le pratiche e che invece è diventata un vero e proprio parcheggio dove si rischia di soggiornare una settimana. Non c’è dappertutto, l’Obi, e quando manca il sovraffollamento aumenta di pari passo con le criticità. È più facile allora che il personale, sovraccarico di lavoro, commetta errori o manchi di umanità. «Non è un problema di linee guida organizzative, bastava il buon senso», dicono alla Regione Lazio a proposito della dolorosa storia del San Camillo. Gli ispettori del ministero sono attesi nelle prossime ore per ricostruire i fatti. Tra l’altro non è chiaro se il signor Marcello fosse stato seguito da un oncologo nei mesi di malattia precedenti all’arrivo in ospedale. Perché nessuno lo aveva indirizzato verso un hospice? «È frustrante per noi operatori non poter avere letti liberi nei reparti e sostenere il sovraffollamento. I malati stazionano nei corridoi, non c’è spazio fisico per garantire loro un trattamento umano», racconta la propria esperienza di responsabile dell’emergenza-urgenza del San Giovanni, la presidente di Simeu, Maria Pia Ruggieri. Il monitoraggio riguarda 98 strutture e comprende interviste a 2.944 tra pazienti e familiari. Tra i punti deboli del percorso oltre ai tempi di attesa e gli spazi, la disattenzione al dolore fisico e la comunicazione con i familiari. E a Roma? Secondo dati del monitoraggio mensile della Regione Lazio, effettuato in base a 4 indicatori fra i quali le attese, rispetto allo scorso anno la situazione nelle grandi aziende non è migliorata. Il San Camillo anche nel primo semestre del 2016 macina performance negative. La causa della sofferenza bisogna andarla a cercare a monte. I pronto soccorso costituiscono in diverse Regioni italiane l’unico «rifugio». Fenomeno più evidente dove mancano strutture intermedie sul territorio in grado di assorbire le richieste di assistenza non urgenti. In diverse realtà del Centro-Sud le cosiddette Case della Salute sono dei normali poliambulatori cui è stato cambiato nome. Il resto lo fanno il taglio dei posti letto, previsto dalle ultime manovre finanziarie, e la diminuzione del personale legata ai blocchi del turn over.
LA RICERCA.
L'INDUSTRIA DEL CANCRO: TROVATA IN CANADA UNA CURA PER IL CANCRO, MA LE BIG PHARMA FANNO FINTA DI NIENTE. LE GRANDI CASE FARMACEUTICHE NON HANNO ALCUN INTERESSE A CREARE UNA VERA CURA CONTRO IL CANCRO: LA CHEMIO È LA LORO VERA GALLINA DALLE UOVA D'ORO (a cura di Claudio Prandini). Una parte considerevole dell’industria farmaceutica vive sul business del cancro. Trent'anni fa i tumori si curavano con la chemioterapia e la radioterapia e non guarivano, adesso continuano ad essere curati con la chemioterapia e la radioterapia e continuano a non guarire. Contemporaneamente mentre la diagnostica ha fatto passi giganteschi, (basta pensare che 30 anni fa non esistevano l’ecografia, la TAC e la risonanza, mentre adesso abbiamo apparecchiature in grado di trovare neoformazioni di 1 cm o meno in qualunque parte del corpo) la terapia è rimasta ferma. La chemioterapia guarisce i tumori dei testicoli e ha discreti risultati nella terapia delle leucemie e dei linfomi. Punto. In tutti gli altri casi molto spesso ci sono risposte immediate (che fanno illudere il paziente), a volte parziali, a volte complete, a volte nulle, ma nella maggior parte dei casi non si fa altro che riproporre la chemioterapia. Successivamente, sia in caso di non risposta, sia in caso di recidiva si persevera con la chemioterapia, anche quando ormai, diventa chiaro che il risultato è nullo: non viene presa in considerazione mai, nessun tipo di terapia naturale. Ma possibile che in trent'anni non siano mai state trovate alternative? È sufficiente navigare un po' su internet e mettere le paroline giuste e trovi tante cose interessanti: si trovano tante verità. Si trovano tante terapie alternative: ipertermia (a Pavia c’è il dr Pontiggia che cura il cancro con buoni risultati). Il metodo Simoncini. Terapia Gerson. Terapia di Zora. Prodotti naturali efficaci come Essiac, cartilagine di squalo, uncaria tomentosa e molte altre. Mentre si fanno lunghi elenchi di medici catalogati come “eretici”. A questo punto, in chi ha capito come si ragiona nel mondo attuale sorge una domanda: quanto costa la chemioterapia? Tantissimo. Dipende dal tipo di farmaco ma alcuni di essi arrivano a costare fino a 1500 euro a dose giornaliera. Le terapie alternative ovviamente costano molto meno, ma, nel caso che costino 10 volte meno, la gente rinuncia perché sono troppo cari. Nel caso della chemio non sono troppo cari perché paga Pantalone, ossia lo stato, cioè noi. CHIARO IL CONCETTO? Negli anni ’90 esplode sulla scena la Terapia Di Bella: accadde giusto grazie ad un giudice di un piccolo paesino della Puglia, che ha preso in mano una causa di una persona che si rifiutava di fare le terapie tradizionali per la propria figlia, che le erano state imposte dai medici pena la denuncia. Vennero fuori decine di casi miracolati. Se ne parlò tantissimo. Non si poté fare a meno di fare una sperimentazione ufficiale: pazienti scelti tutti con un piede nella fossa, farmaci scaduti. Risultato: la Terapia non funziona. In commissione di valutazione, manco a dirlo c’era anche Sorriso Rassicurante (cioè il Prof. Umberto Veronesi). Da allora tutto fu messo a tacere. Tuttavia ci sono ancora medici che la praticano con buoni risultati. Ricordo ancora un‘intervista a Veronesi fatta allora: «professore, non pensa che le vitamine A, C ed E possano avere qualche effetto preventivo?». «Mah sì, forse la vitamina A (le altre due, che sono quelle più facilmente reperibili, per le quali non c’è bisogno di fare attenzione alla dose, cominciamo a silurarle); ma bisogna sperimentare». …. CAZZO! BISOGNA SPERIMENTARE LE VITAMINE! E’ noto infatti che le vitamine siano state scoperte nel ’98, prima non esistevano! Ponendo anche per buona questa assurdità, adesso siamo oltre il primo decennio del 21° secolo, COME E’ ANDATA LA SPERIMENTAZIONE PROFESSORE? (....)
12 GIU 2016 17:03
COSA RESTA DEL METODO DI BELLA - A 13 ANNI DALLA MORTE DEL PROFESSORE, MIGLIAIA DI PERSONE ANCORA PAGANO PER FARSI CURARE DA CHI PRATICA LA TERAPIA, SCREDITATA DALLA COMUNITÀ SCIENTIFICA - ''VICE'' RINTRACCIA I DISCEPOLI, I PAZIENTI E INTERVISTA VERONESI
Veronesi si ricorda dell'insistenza della gente, e dello scetticismo della comunità medica, tra cui, ammette, proprio lui è stato uno dei più possibilisti. Molti invece non volevano nemmeno fare la sperimentazione, considerandola uno spreco di tempo e denaro. L'opinione dell'oncologo non è così negativa: "Ci credeva, pensava che fosse una ragionevole soluzione per terapie palliative"..., scrive Giorgio Viscardini il 12 giugno 2016. È il 17 luglio 1997 e all'Hotel Excelsior di Roma si tiene l'incontro "Cancro: aspetti vecchi e nuovi di terapia", organizzato dalle associazioni contro il cancro AIFC e AIAN, e il cui relatore è Luigi di Bella. Di lui si sa che è nato in provincia di Catania, che è un medico e che conduce ricerche sul cancro da più o meno quarant'anni. Durante la conferenza parla di un metodo che promette di cambiare per sempre l'oncologia. La notizia gira e in pochi mesi è ovunque, sui giornali, ai programmi TV: in meno di un anno tra il 1997 e il 1998 Corriere della Sera, Il Giornale, La Stampa, la Repubblica e Il Secolo d'Italia gli dedicano 305 articoli. La sua terapia consiste in un mix di farmaci, vitamine e somatostatina, un ormone polipeptidico che inibisce i fattori di crescita delle cellule tumorali. Nel corso delle interviste, Luigi Di Bella dice di aver curato più di 10.000 malati di cancro, nel senso che secondo lui li ha curati definitivamente, e di essere a un passo dal trovare la cura ad Alzheimer e SLA. Ovviamente, la comunità scientifica non la prende bene: Commissione oncologica nazionale, Commissione unica del farmaco e Consiglio superiore di sanità definiscono la sua terapia "priva di alcun fondamento scientifico". Ma qui entra in gioco un fattore determinante per la storia del MDB: il sostegno delle masse. Tutti gli eventi successivi alla diffusione del metodo dipendono dall'opinione pubblica, così nettamente e ciecamente schierata dalla parte del medico che regioni come Puglia e Lombardia decidono di somministrare la terapia gratuitamente. Altre ne fanno richiesta. L'allora ministro della Sanità Rosy Bindi, mentre il Ministero è letteralmente assediato dalle folle, chiede al Parlamento di avviare una sperimentazione. E, contro i pareri della comunità scientifica, nel 1998 questa sperimentazione viene effettivamente condotta. I casi osservati sono 1.155, e a un anno dall'inizio della sperimentazione del miracolo non c'è traccia. Viene fuori che una "riduzione parziale del tumore" si è riscontrata in soli tre pazienti, e che di questi tre, due sono morti e l'ultimo peggiora. Per la comunità scientifica non c'è più motivo di discutere, ma i dibelliani non ci stanno—si ribellano, per loro è un complotto. Un anno dopo vengono diffuse ulteriori conferme: altri ricercatori hanno avuto accesso alle cartelle cliniche dei pazienti di Di Bella dal 1970 in poi. In tutto, le cartelle cliniche sono 3.076: nel 50 percento dei casi l'indicazione nella cartella clinica non è tumore, nel 30 percento non si sa se i pazienti siano effettivamente ancora vivi, e nel restante 20 gli unici quattro pazienti che si sono rivolti a Di Bella senza far ricorso ad altre terapie—come la chemio—muoiono in tre anni dalla diagnosi. Luigi Di Bella è morto nel 2003. Il suo metodo è stato bocciato da tutte le commissioni incaricate di verificarlo. La mia generazione non ne ha quasi mai sentito parlare, se non come di un avvenimento del passato che ha scosso le autorità scientifiche e ministeriali e, soprattutto, la coscienza pubblica. Eppure, facendo qualche ricerca su internet, guardando i programmi televisivi a cui gli epigoni di Di Bella si presentano per sostenere la Fondazione e la sua terapia, e a giudicare da un paio di articoli—nascosti, quasi, nelle versioni online dei quotidiani— quasi vent'anni dopo il Metodo Di Bella è ancora praticato. Per quanto la scienza ignori ormai la questione, ritenendola chiusa, ci sono migliaia di persone in Italia e nel mondo che ci vogliono credere, e che pagano per farsi guarire da chi continua a prescrivere la terapia. Umberto Eco definì la terapia Di Bella un trionfo "della fiducia magica nel risultato immediato" e oggi, a 13 anni dalla morte del professore, di questo cerchio magico resta un pugno di fedelissimi curatori, due sopra tutti: Giuseppe Di Bella, figlio di Luigi, e Domenico Biscardi, farmacista di Caserta. Ho deciso di incontrarli per capire come sia possibile che, a quasi vent'anni dalla sconfessione di ogni validità della terapia, la stiano ancora esercitando. E perché. Lo studio di Giuseppe Di Bella è a Bologna. Di Bella è un uomo di 75 anni, assomiglia al padre, "con l'età sempre di più." Prima di prendere il controllo della Fondazione Di Bella non si occupava di cancro ma di otorinolaringoiatria, e durante il nostro incontro mi ha confessato di essere stato l'otorino più quotato di Bologna per anni, e di aver guadagnato discretamente, soprattutto con gli interventi di chirurgia estetica e rinoplastica. Nel suo studio ci sono tanti libri, immagini sacre, foto, otoscopi, speculum, cuffie, cabine insonorizzate, una sedia che sembra uscita da uno studio dentistico del 1973. Mi è subito chiaro che quella di Di Bella non è solo una lotta per portare avanti il proprio metodo, ma una crociata contro la medicina tradizionale e la sua presunta "scientificità". "Gli oncologi non sanno niente di corpo umano, chimica, biochimica, biologia." Il problema, secondo Di Bella, è che il sistema sanitario è tutto incentrato sul guadagno: "diagnosi, ospedalizzazione, chirurgia, chemioterapia," e tutto il resto sarebbero un modo per spillare soldi alla gente— e qui mi vengono i primi dubbi sull'effettiva conoscenza del sistema sanitario italiano da parte del medico. "Miliardi, un volano immenso, e per cosa? L'oncologia non ha mai curato un solo caso di cancro." Quando dicono il contrario, gli oncologi mentono. Di Bella figlio non fa che parlare del padre—prendendolo a modello di "occhio clinico", cosa che poi ci hanno davvero confermato altri, meno parziali. Qualsiasi suo successo, Di Bella figlio lo deve a lui. Dormiva "tre ore a notte, su una poltrona, per non perdere tempo." A differenza del padre che però curava anche altre malattie, però, Giuseppe Di Bella ha deciso di non condurre terapie per altro che non sia il cancro, anzi, non vuole nemmeno parlarne da quando si è convinto che i poteri forti stiano cercando di boicottarlo. "La nostra società è degenerata, ci hanno tolto dignità, libertà, senso dell'onore." Gli ospedali, le cliniche, i trattamenti "sono l'imposizione di un regime che ci ha fatto sprofondare in un abisso morale." Ancora oggi come vent'anni fa la cura Di Bella consiste nello stesso mix di farmaci preparati artigianalmente da alcune farmacie selezionate. Il paziente non deve trasgredire: se non compra i farmaci dove dice la Fondazione, se non sono prescritti dalla Fondazione, se presentano una minima differenza dalla cura, "la cura potrebbe non funzionare." Per chiarimenti sulla terapia, sulle somministrazioni, sulle dosi, si passa di qui, o da alcuni medici autorizzati e selezionati da lui stesso, o dalla Fondazione, che poi è sempre lui. Sui numeri, non si riesce a fare chiarezza: i medici che portano avanti la terapia sono molti e i pazienti sempre di più. Arriva la segretaria, copre la scrivania di fogli di "decine e decine di pubblicazioni su riviste internazionali, studi che documentano una sopravvivenza col metodo Di Bella dell'80 percento, e nei tumori del polmone in stadio tre e quattro un aumento dell'aspettativa di vita del 270 percento." Dati che la comunità scientifica continua a ignorare volontariamente. Ma se la legge non rende automaticamente illegale una terapia che non funziona, resta la questione etica: se il processo di sperimentazione è fallito, e anzi molti casi hanno dimostrato un avanzamento della malattia, morte, tossicità, e il metodo è stato inserito nella casella 'metodi inefficaci'—dove sta il confine etico per continuare a usare le cure? Sembra che su quel lato ci sia un po' di impasse: secondo Di Bella solo chi non vuole vedere—i politici prima di tutto—non si fida del suo metodo: "Se una cosa è vera noi medici dobbiamo prenderla in considerazione e usarla come necessario." Ovviamente, affidarsi a una supposta "verità" non è poi così semplice, soprattutto in campo medico, e ancora di più quando si parla del cancro, una malattia che si è provata, per ora, praticamente imbattibile—al massimo contenibile. E quando manca una terapia imbattibile, la fallibilità della scienza presta il fianco al prosperare di terapie alternative, e tutte, ci puoi scommettere, proclamano di avere in mano la verità. Negli anni Sessanta Liborio Bonifacio era un veterinario di Montallegro. Era convinto che le capre non si ammalassero di cancro e per questo ha deciso di distillare un preparato ricavato da feci di capra e urina di capra, aggiungendo un terzo di acqua, filtrata e sterilizzata. La gente ci credeva. Chiedo al dottor Di Bella se ha mai pensato a una possibile comparazione tra il suo metodo e quello delle capre di Bonifacio. "Certo, mi ricordo il siero di Bonifacio—però i nostri risultati sono veri. Di noi parlano in tutto il mondo. Il metodo Di Bella è riconosciuto ovunque, come confermano le pubblicazioni." Mi mostra Neuroendocrinology Letters, me ne mette in mano otto copie. È una rivista di cui fa parte come membro del board, ma è sicuro che questo non infici le conferme alla bontà della terapia che vengono dalle sue pagine. Negli anni Giuseppe ha partecipato a "congressi in tutto il mondo." In totale sono dieci, all'estero tre. San Marino, Singapore, l'ultimo a Dailan, in Cina, nel 2011. "Mi hanno chiesto di tenere un discorso, ho parlato davanti a 300 oncologi da tutto il mondo, ho ricevuto tantissimi apprezzamenti." La questione da porsi, al di là dell'esaltazione per la propria presunta scoperta, resta una: chi ci guadagna dal "curare" persone disperate con metodi non dimostrati e, a quanto ne sappiamo, assolutamente non funzionanti. Di Bella risponde, "se l'avessi fatto per i soldi non sarei qui" e si rifi uta di aggiungere altro. L'annuale BIT's World Cancer Congress si tiene da nove anni in Cina, e i relatori provengono da tutto il mondo. Alcuni relatori vengono invitati, ma basta presentarsi per tempo e pagare la quota d'iscrizione per avere uno spazio. Per verificarlo ci provo: sul sito c'è l'indirizzo e-mail di una certa Vicky, è a lei che occorre mandare nominativo, curriculum, abstract. Le scrivo e le dico che sono un ricercatore svizzero, e che vorrei venire in Cina per parlare di qualcosa di cui non ho la benché minima idea. Firmo tutto con uno pseudonimo buffo che non riporto perché un po' me ne vergogno, e aspetto. Al ritorno dalla Cina, nel 2011, Di Bella dichiarò: "Appena tornato a Bologna ho cercato, attraverso i miei consueti canali informativi, di portare all'attenzione della stampa nazionale il risultato ottenuto. Ho potuto constatare però un immediato e inaspettato blocco, attuato attraverso intimidazioni o censure, nei confronti di quei pochi giornalisti che generalmente erano disponibili a concedermi qualche spazio all'interno delle loro testate. Il messaggio ora è chiaro." Il giorno dopo sono a Milano e ho un appuntamento telefonico con Domenico Biscardi, che somministra la cura Di Bella da diversi anni, dopo essere stato, intorno al 2006, tra gli ultimi allievi di Giuseppe Di Bella. Biscardi ha 48 anni, è nato a Caserta e si è laureato in farmacia nel 2011. Attualmente vive in Serbia dove lavora in un centro di ricerca sulle cellule staminali, ma prima di trasferircisi è stato a Capo Verde, in Russia, Bielorussia e Ungheria, "dove mi hanno dato la possibilità di curare le persone come voglio." A quanto riporta, ha frequentato università a New York—sul suo curriculum online è riportata una laurea in medicina negli Stati Uniti—Palermo, Sofia e Napoli, ha fatto l'anatomopatologo all'Ospedale San Sebastiano di Caserta e il medico all'Ospedale Civile di Caserta. Sul suo profilo Facebook scrive anche di essere stato vice-ispettore di polizia a Roma, farmacista a Bologna, istruttore di body building e di arti marziali. A questo proposito, è un utilizzatore assiduo di social network: che usa per scopi personali quanto per parlare di case farmaceutiche e della lobby del potere medico-scientifico. Da un po' ha cominciato a guardare più in là del metodo standard. La sua terapia, rispetto al Metodo Di Bella, ha delle varianti, quelle che Biscardi chiama "evoluzioni". Oggi Domenico prescrive il suo metodo, lo chiama MDB ma non è il metodo del metodo Di Bella, l'omonimia è solo una coincidenza perché per puro caso le iniziali sono le stesse. Giuseppe Di Bella di questa cosa "un po' si lamenta," però non è colpa di nessuno. Biscardi dice di avere pazienti da tutto il mondo, Dubai, Arabia Saudita, Russia, Cina, tutte persone ricche perché le cliniche per cui lavora chiedono parecchio. Però Biscardi vuole mettere in chiaro che la sua terapia è per tutti, e così anche nel tempo libero lavora, gratis, per chi non si può permettere di affrontare le spese di una clinica privata. Questo è possibile anche grazie ai suoi metodi lavorativi, che cerca di mantenere il più fluidi possibile. Molti dei suoi pazienti sono italiani, ma non essendo abilitato a esercitare in patria, Biscardi li cura da Capo Verde, dove risiede, mandandoli a fare le analisi e poi tenendosi in contatto via internet, con l'invio telematico della terapia da seguire. Se le premesse umanitarie sono lodevoli (non si fa pagare, dice, "nemmeno un soldo perché a me mandare una mail non costa niente"), il risultato non si diversifica molto da quelli dell'originale Metodo Di Bella. Secondo lui oggi il cancro si è fatto più difficile da trattare, "tossine, tecnologia, inquinamento, metalli pesanti" contribuiscono a creare quei cosiddetti tumori artificiali che hanno bisogno di cure più efficaci. Oltretutto la medicina tradizionale non fa che peggiorare la situazione: finché la case farmaceutiche non lasceranno andare il monopolio delle cure, secondo Biscardi, non ci saranno che morti. Purtroppo—dice—oggi non esiste nulla che si può curare "con un unico farmaco." Personaggi come Veronesi—dice—hanno contribuito al successo di "farmaci inutili, che servono solo a far guadagnare le case farmaceutiche" e che alla fine "uccidono tutti, nessuno sopravvive." Biscardi parla spesso di Capo Verde, dove si è trasferito nel 2005. Oggi non ci vive ma ci va spesso perché la moglie Dilma è ancora lì. Fino al 2011 gestivano assieme una clinica a Murdeira, un paesino di 248 abitanti sul lato occidentale dell'isola di Sal, e i pazienti che ci arrivavano non erano ancora stati sottoposti a quei cicli di chemio e radio che, secondo sempre Biscardi, sono la causa di complicazioni e aggravarsi di condizioni dei pazienti. Capo Verde era così favorevole che Biscardi provò a portarci anche stamina, "io e Davide—Vannoni—provammo a trasferire il progetto lì, ma ci hanno massacrato, fi no a lì, le case farmaceutiche." Stiamo parlando da 27 minuti. "Di Bella non cura nulla, Gerson non cura nulla, Tullio nemmeno, Veronesi figuriamoci, con un po' meno di presunzione e un po' più di umanità, senza pensare a un'unica metodica come ho fatto io—io ti faccio guarire." Lo ringrazio, e metto giù frastornato: quello che per me è semplicemente assurdo, è per molte persone qualcosa a cui aggrapparsi. Il giorno dopo, in un programma mattutino sulla televisione di stato, la presentatrice invita a donare alla Fondazione Di Bella—il numero in sovrimpressione. Giuseppe Di Bella mi ha detto che la terapia del padre "mette in discussione i grandi interessi globali che ruotano attorno alle terapie oncologiche", che "il metodo delegittima questi circoli di potere", cancellandone "credibilità e prestigio." Domenico Biscardi l'ha messa sulla salvezza, dell'altro, dei poveri, dei malati. Ognuno è convinto delle sue verità, e i margini di discussione non sembrano importare né l'uno né l'altro, così cerco la persona che in qualche modo negli anni li li ha accomunati entrambi come bestia nera, l'oncologo. Lo studio di Umberto Veronesi all'Istituto Europeo di Oncologia è pieno di libri e targhe. Quando entro mi stringe la mano ed è incuriosito dal fatto che qualcuno parli ancora della terapia Di Bella. "Non funziona, la terapia non era costante, Luigi Di Bella dava a ogni paziente un farmaco un po' diverso." Nel 1998 Veronesi è stato al centro del dibattito sulla sperimentazione. "Mi chiamò Prodi, e mi disse 'Vai a vedere cosa diavolo succede,' perché c'era mezza rivoluzione, avevano assediato il ministero." Veronesi si ricorda dell'insistenza della gente, che confidava in Di Bella, e dello scetticismo della comunità medica, tra cui, ammette, proprio lui è stato uno dei più possibilisti. Molti invece non volevano nemmeno fare la sperimentazione, considerandola uno spreco di tempo e denaro. Tuttavia l'opinione dell'oncologo su Di Bella padre non è così negativa— "Ci credeva, pensava che fosse una ragionevole soluzione per terapie palliative:" insomma, Di Bella, a differenza del figlio, non aveva la convinzione di curare ma quella di contenere il danno. "Luigi Di Bella non si illudeva di guarire il cancro con un po' di pillole. Soprattutto, non gli interessava dei soldi, la sua era piuttosto una fissazione di tipo scientifico: aveva questa idea dell'ipofisi, e faceva ruotare tutto intorno a questo." Dietro all'illusoria efficacia su alcuni pazienti della cura Di Bella, c'è una legge del cancro: il decorso della malattia non è una linea retta ma è piuttosto fatto di una traiettoria curvilinea. Il MDB aveva "fortuna" su quei pazienti che si trovavano nella traiettoria discendente della curva—che, insomma, avrebbero comunque avuto un miglioramento fisiologico. È su questi casi di remissione temporanea che i Di Bella hanno basato la propria fortuna—"È il potere della fede, qualunque fede," dice. Poi, quando la malattia tornava alla carica, molti pazienti che erano stati dai Di Bella si sono rivolti alla medicina tradizionale, anche a Veronesi. Veronesi è agnostico, ma questo non gli impedisce di studiare tutto quello che aiuta le persone a tenere viva la speranza, "anche Lourdes, o Medjugorje hanno i loro effetti su persone disperate. La speranza è una componente importantissima della guarigione, fa parte di ogni cura." Ma quello che più di tutto voglio chiedere a una persona che ha passato 70 anni della sua vita a trattare persone con il cancro, è perché secondo lui—dopo anni di conferme dell'inefficacia della terapia, che il sistema sanitario non passa e ricade quindi totalmente sul paziente—le persone continuino ad affidarsi al metodo Di Bella. "È dovuto all'enorme carica psicologica a cui sono sottoposti i pazienti tumorali," che si ritrovano così disposti a sopportare qualunque costo, "anche economico, per trovare un sollievo." Quando gli chiedo se la legge non dovrebbe, a suo giudizio, impedire che terapie direttamente o indirettamente lesive della salute del paziente venissero messe in atto, mi risponde di no. "Si possono provare tutte le terapie del mondo, anche quelle di pura fantasia, perché la legge ci lascia," e qui mi fa intendere di essere d'accordo, "la libertà di farlo, a chi le propone e al paziente." Ringrazio, e lascio l'istituto. Sto pensando a tutti quelli con cui ho parlato, e cerco di mettere assieme i pezzi delle convinzioni di ognuno. Poi mi arriva una e-mail. È Vicky, da Shanghai. È passata una settimana da quando le ho scritto. Mi dice che hanno preso in considerazione la mia ricerca, ma che purtroppo i tempi non sono dalla nostra parte e che hanno già pubblicato le presentazioni dell'edizione 2016 del BIT's World Cancer Congress. Però si augura che voglia portare avanti il mio progetto (di scarso, se non totalmente nullo, valore scientifico—ma questo Vicky non lo dice). Vuole che l'anno prossimo mi rifaccia vivo. Se invierò tutto in tempo mi potrebbero assegnare un talk di venti minuti. Basterà pagare 1549 dollari, poco più di 67 euro al minuto. La medicina alternativa in convegno al Senato "Vergogna pubblicizzare rimedi antiscientifici"
Il prossimo 29 settembre Palazzo Madama ospita un incontro per promuovere le terapie "non convenzionali" e farle accedere al Sistema Sanitario nazionale. Tra le proteste del Cicap e del mondo scientifico. E tra i relatori il medico antivaccini, scrive Fabio Grandinetti il 20 settembre 2016 su “L’Espresso”. Un trattamento di Ayush terapia nel centro di Bombay" Le Medicine Tradizionali, Complementari e Non Convenzionali nel Servizio Sanitario Nazionale per l’uguaglianza dei diritti di salute". È questo il titolo del convegno in programma il 29 settembre in Senato, promosso dal senatore Maurizio Romani, omeopata toscano espulso dal M5S e attualmente vicepresidente in commissione Sanità a Palazzo Madama. Un appuntamento contestato dal Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, fondato nel 1989 su iniziativa di Piero Angela e di un gruppo di scienziati) che reputa inappropriata la sede istituzionale per un evento a favore di pratiche mediche senza alcun fondamento scientifico. Un appello, quello del Cicap, raccolto dal presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, secondo cui «promuovere cure antiscientifiche significa fare un’operazione culturale che va in direzione contraria alla costruzione di un sistema sanitario equo e sostenibile, basato su terapie e metodi di provata efficacia». «Nella presentazione del simposio – dice Andrea Ferrero, membro del consiglio direttivo del Cicap – si parla esplicitamente di dare spazio alle medicine alternative nel Sistema sanitario nazionale, con il pretesto di ridurre i costi diretti e indiretti. In realtà verrebbero sprecate risorse pubbliche in medicine senza fondamento scientifico. Tra le pratiche presenti nel programma del convegno, l’unica ad aver dato chiari risultati sperimentali positivi, pur con alcune limitazioni, è la fitoterapia. Si parlerà anche della ayurveda (medicina tradizionale indiana, ndr) che è una pratica antiscientifica. La nostra segnalazione non si fonda su motivazioni ideologiche. Non siamo contrari alle medicine alternative, ma ci opponiamo alla destinazione di risorse pubbliche in pratiche inefficaci». «Non diciamo a un malato di tumore che non deve fare la chemioterapia – risponde Maurizio Romani, attualmente nel gruppo Idv al Senato –, ma suggeriamo farmaci alternativi per sopportare le cure. Casi di bufale come Stamina possono durare uno o due anni. Di omeopatia, invece, si parla da decenni. L'Agenzia italiana del farmaco registra farmaci alternativi dagli anni '90. E parla di farmaci, non di rimedi, perché riconosce queste terapie. Ma ancora non abbiamo una legge. Per questo abbiamo pensato al convegno». L'obiettivo, quindi, è arrivare a una legge, magari il testo unificato che comprenda un disegno di legge del 2013, di cui Romani è firmatario, e altri progetti legislativi depositati nelle precedenti legislature. «In Europa ci sono 145 mila medici con formazione complementare – prosegue il senatore –; in Italia sono 2 mila, per 11 milioni di pazienti. È un obbligo per gli Stati membri normare su queste medicine per informare i consumatori». Secondo il Cicap, invece, il convegno del 29 settembre è riconducibile a un gruppo di pressione ben identificato: «Non è un caso isolato – spiega Andrea Ferrero –: lo scorso anno il presidente di Omeoimprese, Giovanni Gorga, pubblicò il libro "Elogio della omeopatia" con la prefazione del ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Abbiamo segnalato l'accaduto, raccolto firme e scritto una lettera aperta al ministro. Alla fine l'autore ha annunciato che la prefazione non era stata autorizzata e l'ha esclusa dalle ristampe. Alcune regioni, tra cui il Piemonte e la Toscana, inoltre, stanno regolamentando le medicine alternative in leggi regionali. È in corso una chiara attività di lobby». Accuse respinte da Romani. Per lui la medicina alternativa non è solo "effetto placebo", ma esistono ricerche a sostegno di queste cure: «L'Oms ha realizzato uno studio renderizzato e controllato sui dolori cervicali – racconta – con valutazioni economiche oltre che mediche: il miglioramento con le terapie manuali è superiore rispetto ai trattamenti di fisioterapia e medicina generale, e i costi sono decisamente inferiori. Nei pazienti in cura presso medici con formazione complementare si riscontrano costi più bassi (meno farmaci e ricoveri) e minori tassi di mortalità. Ovviamente esistono anche imbecilli in questo settore, come ce ne sono in altri». La polemica non riguarda solo la sede e i contenuti del convegno, ma anche i partecipanti. «Tra i relatori del convegno c'è Roberto Gava – denuncia Andrea Ferrero –, un medico contrario ai vaccini. È paradossale che mentre il Ministero della Salute fa campagne per la vaccinazione, una delle più alte istituzioni pubbliche come il Senato ospiti un convegno del genere». «Parteciperanno anche personalità contrarie alla medicina alternativa – si difende Romani –. Il dottore Gava è un ottimo pediatra. Personalmente non sono contrario ai vaccini, ma penso che i metodi di somministrazione siano sbagliati e rispondano principalmente a logiche economiche: non si possono sottoporre bambini di due mesi, in allattamento e con un sistema immunitario in evoluzione, a sei vaccini contemporaneamente solo per risparmiare». Il comitato contro le pseudoscienze, riferendosi al senatore omeopata fermo a due esami dalla specializzazione in immunologia, parla di «chiaro conflitto d'interessi». «Ho 62 anni e non ho bisogno di guadagnarmi da vivere – dice lui –. Anzi, avrei da lucrare se rimanessimo senza una legge. Sono entrato in Senato con il M5S senza lobby alle spalle. Poi sono stato espulso e ne sono felice perché non ho padroni. L'industria del farmaco alternativo in Italia produce un fatturato di 300 milioni di euro l'anno. Vogliamo parlare di quanto fattura chi produce i vaccini per l'epatite? C'è un enorme conflitto di interessi, è vero, perché difendo con i denti la lobby dei pazienti». Aggiornamento ore 16.00 di mercoledì 21 settembre. La replica del presidente di Omeoimprese, Giovanni Gorga, in merito al caso della prefazione del ministro Beatrice Lorenzin.
"Quella prefazione del ministro Lorenzin. A un anno dall’uscita del mio libro "Elogio all’omeopatia" per Cairo Editore, ancora vengo chiamato in causa per la prefazione del ministro Lorenzin, poche righe, assolutamente neutre, che hanno innescato una campagna denigratoria e ingiustificata nei miei confronti e nei confronti del settore. Nonostante abbia più volte chiarito l’accaduto il Cicap, probabilmente in malafede, continua a parlare di prefazione "non autorizzata" inducendo ambiguità e mettendo in dubbio la mia onestà e onorabilità. E lo fa anche nell’articolo pubblicato da L’Espresso "La medicina alternativa in convegno al Senato: vergogna pubblicizzare rimedi antiscientifici". La prefazione a firma del Ministro della Salute mi è stata regolarmente inviata dagli uffici del Ministero e solo dopo la pubblicazione del libro mi è stato comunicato che il testo mi era in realtà stato inviato a seguito ad un errore imputabile agli uffici del Dicastero. Oggi il volume è ancora disponibile nelle librerie così com’era stato pubblicato mentre è stata data la mia piena disponibilità, in fase di ristampa, a omettere la prefazione frutto di tante polemiche. Mi auguro di aver fatto chiarezza una volta per tutte. Giovanni Gorga, Presidente Omeoimprese".
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Viaggio tra le cure alternative contro il cancro. Dall’aloe al bicarbonato, dai ceci alla dieta vegana, le cure alternative alla chemioterapia hanno gruppi di folti sostenitori online. Ma basta consultare i siti degli enti scientifici per scoprire la validità e i rischi dei diversi metodi proposti, scrive Lidia Baratta il 6 Settembre 2016 su "L'Inkiesta". Morte di cancro dopo aver rifiutato la chemioterapia. È successo a pochi giorni di distanza a Eleonora Bottaro, 18 anni, malata di leucemia, e ad Alessandra Tosi, 34enne, colpita da un tumore al seno. Entrambe avevano detto no alle terapie tradizionali, affidandosi al metodo elaborato da Ryke Geerd Hamer, medico tedesco radiato dall’albo, convinto che i tumori abbiano un’origine psichica. La sua è una delle cure alternative contro il cancro più diffuse ed elogiate in forum, blog e gruppi Facebook. La Rete pullula di soluzioni pseudoscientifiche contro i tumori: in questi microcosmi online si trovano le più svariate teorie per combattere le cellule tumorali, dai poteri curativi del bicarbonato di sodio all’aloe, dal metodo Hamer alla terapia Gerson. Ryke Geerd Hamer, medico internista tedesco, ha elaborato la sua teoria dopo essersi ammalato di tumore al testicolo. L’anno prima il figlio Dirk era morto dopo esser stato colpito per errore da una pallottola sparata da Vittorio Emanuele di Savoia in Corsica. Hamer attribuì la comparsa del cancro allo shock dovuto alla morte del figlio. Da qui è nata la sua Nuova medicina germanica, alternativa alla medicina ufficiale, che Hamer vedeva come parte di una cospirazione ebraica per decimare i non ebrei. Nel 1986 venne prima radiato dall’ordine dei medici tedeschi, e poi più volte condannato per esercizio abusivo della professione e frode. La sua teoria si basa sull’idea secondo la quale ogni malattia è causata da un conflitto di tipo psichico, per cui la guarigione passa attraverso la risoluzione di quel conflitto. In Italia il gruppo Facebook Nuova Medicina Germanica di Ryke Geerd Hamer ha quasi 19mila membri (ma esistono anche numerosi gruppi satelliti con migliaia di fan). «La loro paura è che la gente inizi ad aprire gli occhi e addio guadagno», scrivono a proposito delle terapie ufficiali. «Perché non scrivono quanti muoiono di chemio e radio», aggiunge qualcun altro. Ma, come spiegano dall’Associazione italiana di ricerca sul cancro (Airc), il metodo non ha alcun fondamento scientifico, «e anzi contraddice molto di ciò che si sa essere dimostrato sul funzionamento del corpo umano e sullo sviluppo delle patologie tumorali». Inoltre, negando l’uso dei farmaci, provocherebbe nei pazienti che lo seguono «gravi ritardi nelle terapie trasformando così tumori curabili in forme incurabili». La Rete pullula di soluzioni pseudoscientifiche contro i tumori: in questi microcosmi online si trovano le più svariate teorie per combattere le cellule tumorali, dai poteri curativi del bicarbonato di sodio all’aloe, dal metodo Hamer alla terapia Gerson. Un altro nome noto tra i medici che hanno partorito cure alternative è quello di Tullio Simoncini, ex medico italiano, anche lui radiato dall’ordine, condannato per frode e omicidio colposo. La sua teoria è che il cancro sia causato da una reazione a un fungo, la Candida Albicans. E che, poiché il tumore crea intorno a sé un ambiente acido, per curare le infezioni bisogna usare soluzioni di bicarbonato di sodio. In Rete si trovano diversi gruppi e pagine a sostegno del metodo e articoli che ne spiegano l’efficacia. Mentre nella realtà non virtuale ci sono medici che propinano la teoria ai pazienti, anche nella variante “limone e bicarbonato”. Ma anche in questo caso l’Airc fa sapere che «nessuna ricerca scientifica ha dimostrato che il bicarbonato di sodio sia una cura efficace dei tumori umani». Anzi, «l’iniezione di bicarbonato per via endovenosa è estremamente pericolosa per gli organi sani». C’è anche, poi, chi sostiene il metodo Gerson, dal nome del medico Max Gerson, secondo il quale il cancro è il risultato di uno squilibrio metabolico provocato da un accumulo di sostanze tossiche. La cura proposta è la dieta vegana, con l’aggiunta di integratori vitaminici e clisteri di caffè per depurarsi. Nonostante la teoria si basi su presupposti non scientifici che potrebbero persino essere pericolosi per il paziente, in Italia ci sono medici che propongono ancora questa terapia e si organizzano persino seminari sul metodo. Mentre in Rete si trovano numerose pagine informazione alternativa che sostengono la dieta vegana per la cura del cancro, e anche i tutorial per realizzare i clisteri al caffè prescritti da Gerson. Tra i rimedi naturali proposti, ci sono anche l’aloe, la graviola (una pianta tropicale) e l’artemisia. Fino a quella che viene definita come “chemioterapia naturale”, che punta a un controllo dei livelli di vitamina D, e al metodo dell’armeno George Ashkar, che consiste nel porre un cece in una ferita autoprovocata, di modo che il legume assorba gli agenti cancerogeni. Si chiama metodo dell’assorbimento dell’infezione neutrale, che su Facebook ha un gruppo con oltre 1.800 adepti. Senza dimenticare la cura Di Bella, che fece scalpore in Italia alla fine degli anni Novanta. Il fisiologo siciliano, scomparso nel 2003, affermò di aver messo a punto un metodo di cura dei tumori alternativo alla chemioterapia, tramite la combinazione di diverse molecole. Ma, nonostante le numerose rivendicazioni di diverse guarigioni da parte di Di Bella e dei suoi eredi, l’Airc ricorda che anche per questa cura al momento non ci sono documentazioni scientifiche che dimostrano l’efficacia della terapia come cura contro il cancro. Ma, oltre a una fondazione che propone e diffonde il metodo, esistono sui social diversi gruppi sui quali chi segue le terapie o vorrebbe seguirle scambia informazioni e consigli. Un paziente, già provato da una diagnosi di cancro, come può districarsi in questo mondo di informazioni scientifiche e pseudoscientifiche? L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) ha pubblicato un compendio di 20 pagine in cui descrive i rischi delle terapie cosiddette “alternative”. Che altro non è che la traduzione italiana di I’ve got nothing to lose by trying it, curata nel 2013 da Sense about Science, associazione inglese impegnata nella corretta informazione scientifica. Nell’opuscolo sono riportate anche diverse testimonianze di pazienti e le conseguenze vissute dopo aver provato una delle cure miracolose. Uno dei comandamenti è: “Diffidate di ogni trattamento propagandato come cura miracolosa: se sembra troppo bello per essere vero... probabilmente è perché non è vero”.
Su Stamina, vaccini e false cure contro il cancro, "Le Iene" sono anche peggio della Brigliadori. L'ex showgirl da diverso tempo propaganda teorie assurde e pseudocure pericolose. Ma queste false speranze sono esattamente ciò che in campo medico, e non solo, il programma televisivo ha diffuso per anni con servizi sensazionalistici, in cerca di qualche punto in più di share televisivo, scrive Luciano Capone il 5 Ottobre 2016 su “Il Foglio”. Il problema non è Eleonora Brigliadori, ma sono “Le Iene”. Nei giorni scorsi il programma d’intrattenimento televisivo ha denunciato le teorie pericolose e strampalate per guarire il cancro dell’ex show girl che invita ad abbandonare la “medicina ufficiale” per unguenti omeopatici e introspezione psicologica. Il servizio ha suscitato molto clamore perché l’ex presentatrice, impegnata con i suoi adepti in un rituale new age, ha aggredito fisicamente l’inviata delle Iene, che le ricordava come le sue teorie mettessero a rischio la vita delle persone malate. Purtroppo la Brigliadori, da diverso tempo, propaganda teorie assurde e pseudocure pericolose: è una sostenitrice della medicina antroposofica e dell’agricoltura biodinamica, è tra i volti più o meno noti che diffondono la bufala secondo cui i vaccini causano l’autismo ed è una sostenitrice della “Nuova medicina germanica”, teoria fondata da un medico radiato e latitante convinto che i tumori dipendano da un “conflitto” o trauma psicologico. Insomma tutta spazzatura scientifica, che però ha una sua diffusione nel variegato mondo complottista e soprattutto fa leva sulla disperazione e sulla sofferenza dei tanti malati che si aggrappano a chiunque prometta una guarigione. E queste false speranze sono esattamente ciò che in campo medico, e non solo, le Iene hanno diffuso per anni con servizi sensazionalistici, in cerca di qualche punto in più di share televisivo. Le Iene sono ricordate soprattutto per i servizi a favore del “metodo Stamina”, una terapia a base di cellule staminali priva di qualsiasi efficacia e validità scientifica, inventata in un sottoscala da uno scienziato della comunicazione. Per capire la differenza tra l’impatto della Brigliadori e quello delle Iene, bisogna forse ricordare che in seguito a quella campagna mediatica un autore di “comunicazione persuasiva” come Davide Vannoni divenne improvvisamente più credibile di scienziati come Michele De Luca dell’Università di Modena e Graziella Pellegrini del San Raffaele, i primi al mondo a produrre una cura efficace e scientificamente valida con le staminali. Si fatica a crederlo oggi, ma solo tre anni fa, in seguito alla pressione politico-mediatica innescata da quei servizi televisivi, il Parlamento ignorò le opinioni degli scienziati e si piegò alle chiacchiere dei ciarlatani. Prima del “metodo Stamina”, le Iene hanno dato credito alla falsa storia secondo la quale i vaccini sono all’origine dell’autismo. La stessa pericolosa teoria ribadita dalla Brigliadori, con l’aggravante – nel caso delle Iene – di un’esposizione più convincente. Non basta. Come la Brigliadori, le Iene hanno propagandato “cure naturali” contro il cancro. Sono andate fino a Cuba per magnificare le proprietà “antitumorali” del “veleno di scorpione”, intervistando un tassista cubano che parlava di un fantomatico “vaccino” contro i tumori inventato sull’isola. Le Iene si sono persino recate in una fattoria cubana, dove il medicamento “antitumorale” viene prodotto dall’inventore, un “artigiano locale allevatore di scorpioni”. Una storia che ricorda quella del “siero di Bonifacio”, l’estratto di pipì di capra spacciato come cura contro il cancro da un veterinario di Agropoli negli anni 60 (il padre di tutti i casi Stamina e Di Bella che sarebbero seguiti). Con i soliti servizi sensazionalistici e senza alcuna evidenza scientifica, ma basandosi soltanto sulle impressioni di alcuni pazienti, le Iene hanno diffuso l’idea che il tumore si possa guarire con una dieta vegana, come suggerito in un libro senza alcuna credibilità, “The China study”. L’autorità in oncologia interpellata era una nutrizionista e attivista vegana, presentata come medico del San Raffaele. Il servizio ebbe un tale impatto che il San Raffaele fu costretto a prendere le distanze dalla dottoressa – “L’Irccs San Raffaele osserva che non esiste alcuna dimostrazione del valore della dieta come terapia oncologica” – dopodiché la “dottoressa” si scoprì essere solo una consulente che si recava in ambulatorio ogni due settimane. Persino l’Airc (Associazione italiana per la ricerca sul cancro) si è sentita in dovere di smentire la bufala: “Le Iene hanno sostenuto che la dieta vegana può curare il cancro: un’affermazione che non ha alcun riscontro scientifico”. Le Iene hanno dedicato altri servizi a malattie rare, per alcune delle quali non si conoscono neppure le cause (come la Mcs), dando credito a cure senza validità scientifica in cliniche estere che speculano sui viaggi della speranza dei malati. “Raccontate cose con un linguaggio da piazza del paese, quando si sta parlando di malattie, di scienza e di drammi umani”, gridò ai microfoni della trasmissione, nel pieno della vicenda Stamina, il compianto Paolo Bianco, direttore del Laboratorio di cellule staminali della Sapienza di Roma. Il vero dramma è che allora le Iene consideravano Vannoni un luminare e trattavano le sfuriate del prof. Bianco come quelle della Brigliadori.
I Fatti. Brigliadori contro Le Iene: "Programma immondo, deve chiudere". A poche ore dalla messa in onda del servizio in cui l'ex conduttrice aggredisce Nadia Toffa, la Brigliadori risponde su facebook, scrive Marta Proietti, Lunedì 3/10/2016, su "Il Giornale". Nella prima puntata de Le Iene, andata in onda ieri sera, il servizio in cui Nadia Toffa viene aggredita da Eleonora Brigliadori è quello che ha fatto più scalpore. A far infuriare l'ex conduttrice televisiva sono state alcune domande della giornalista sui metodi per la cura del cancro professati e diffusi dalla stessa Brigliadori. La showgirl, non solo suggerisce ai malati di non sottoporti alla chemioterapia, ma segue il metodo Hamer, ex medico tedesco radiato dall’Albo nel 1981. Il sedicente dottore ritiene ci sia un collegamento tra l’insorgenza delle malattie e precisi squilibri psichici dei pazienti. La teoria, che non ha alcun fondamento scientifico, è stata elaborata da Hamer dopo la morte del figlio, ucciso nel 1978 nel corso di un incidente con un’arma da fuoco. L’anno dopo il medico fu colpito da un tumore al testicolo che attribuì al trauma provocatogli dalla morte del figlio. Alle domande della Toffa la reazione della Brigliadori è stata piuttosto violenta, come documentato dalle immagini mandate in onda nel corso della trasmissione. Ma l'ex conduttrice ha deciso di continuare la polemica anche sulla sua pagina facebook attaccando duramente la televisione: "Ho deciso di lasciare tutte le immondizie che la televisione, in modo particolare un programma pieno di cadaveri è capace di produrre, perché faccia da specchio a questa società sull'orlo del tracollo. Dedico questo bellissimo dipinto a tutte queste anime perse che vogliono augurare la morte agli altri esseri, che usano turpiloquio che mistificano la verità con l'arte del montaggio e con i doppiaggi, trasformando degli atti di generosità e di altruismo in qualcosa di assolutamente deformato". E ancora: "Mi auguro che chiuda presto questo programma immondo, perché quello che ha generato è visibile in questo momento sulla mia pagina che fino a pochi giorni fa era un luogo di incontro di condivisione e di informazione sana. Vi perdono anzitempo per la vostra incapacità di vedere oltre il vostro naso. Fatevi una domanda: come mai avete tutta questa rabbia in corpo? Forse perché avete paura di morire o perché con i loro veleni i medici vi hanno avvelenato anche lo spirito? E in che modo le mie parole potrebbero causare la vostra morte se siete così convinti che la chemioterapia sia una via sana? ".
Eleonora Brigliadori, nelle prime righe, fa riferimento ai numerosi messaggi di insulti che le stanno arrivando e che lei sta pubblicando sulla propria bacheca. Ma sempre in riferimento al programma di Italia 1 continua: "È facile far credere quello che si vuole quando si ha il coltello dalla parte del manico si registra e si monta quello che fa comodo per cercare di distruggere una persona nella sua integrità innanzitutto bisogna scindere ciò che io stavo facendo durante un seminario di euritmia dedicato a San Michele da tutta la questione del Cancro invece questi signori delle Iene nonostante la diffida hanno voluto confondere e far credere alla gente che questa avesse a che fare con la guarigione cosa che è falsa quindi mi hanno usato in un ruolo pedagogico attraverso l'insegnamento di un'arte come l'euritmia per fare cosa?".
QUELLO CHE NON SI DICE SUI TUMORI. «Attacchi ingiustificati alla chemioterapia, come ai vaccini. Serve solo più informazione». Il presidente degli oncologi, Carmine Pinto: «Oggi, grazie a cure sempre più efficaci, il 68% degli italiani cui viene diagnosticato un tumore sconfigge la malattia. La chemio non è più quella di 30 anni fa, non deve fare paura e controlliamo meglio gli effetti tossici», scrive Carmine Pinto, Presidente Nazionale AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), il 6 settembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Nel corso degli anni abbiamo assistito alla pericolosa diffusione di teorie pseudoscientifiche sulle cure miracolose del cancro: dal siero Bonifacio che prese il nome dal veterinario di Agropoli che usava le capre, allo squalene dei nostri giorni per cui la cartilagine di squalo funzionerebbe come una sorta di antidoto, al veleno dello scorpione cubano fino al metodo “Di Bella”. Nulla di nuovo quindi. L’attrazione per le cosiddette terapie “non convenzionali” è alimentata dal dolore e dalla disperazione causati dalla diagnosi di malattia e chi promuove queste teorie sfrutta la speranza dei malati e dei loro familiari. È inaccettabile che due giovani donne di 18 e 34 anni, come evidenziato negli episodi di cronaca di questi giorni, siano morte per aver scelto teorie prive totalmente di basi scientifiche. Oggi in Italia viviamo un’epoca di oscurantismo, di debolezza culturale, un “nuovo Medioevo” che non tocca solo l’Oncologia ma anche altre branche della Medicina. Basta pensare alla violenta campagna contro le vaccinazioni che trova nel web e nei social network i canali preferenziali. Si tratta di una tendenza molto grave, se pensiamo che queste misure di profilassi hanno consentito di debellare completamente malattie un tempo mortali come il morbillo. Internet non è controllabile, non filtra le notizie e troppo spesso attribuisce credito a messaggi fuorvianti. È compito di una società scientifica come AIOM sensibilizzare tutti i cittadini: la chemioterapia non è più quella di 30 anni fa, non deve più fare paura, sono disponibili farmaci efficaci e controlliamo meglio gli effetti tossici delle cure. Inoltre l’introduzione delle terapie target e dei nuovi farmaci immuno-oncologici ha cambiato in maniera importante le prospettive di cura e di sopravvivenza. Oggi non possiamo più parlare di male incurabile. Negli ultimi 15 anni le guarigioni degli italiani colpiti dal cancro sono aumentate in maniera significativa, oggi il 68% dei cittadini a cui vengono diagnosticati tumori frequenti sconfigge la malattia. Percentuali che raggiungono il 91% nella prostata e l’87% nel seno, le due neoplasie più diffuse fra gli uomini e le donne. Terapie innovative sempre più efficaci consentono ai pazienti di vivere a lungo, in alcuni casi più di 5 anni con una buona qualità di vita, anche se colpiti da patologie particolarmente aggressive come il melanoma avanzato che fino a pochi anni fa era caratterizzato da una sopravvivenza di 6-9 mesi. Più di 3 milioni di cittadini (il 4,9% della popolazione) vivono con una diagnosi di tumore. E circa due milioni persone possono affermare di avere sconfitto la malattia. Nel rispetto della scelte del paziente i clinici devono lavorare per fornire corrette informazioni, sapendo ascoltare i bisogni, le speranze e le paure del malato. È necessario anche disporre degli strumenti per leggere correttamente le notizie. Uno studio pubblicato in questo mese sulla rivista Lancet Oncology ha lanciato l’allarme sulla nocività della chemioterapia che in alcuni ospedali inglesi avrebbe provocato la morte anche del 50% dei pazienti dopo 30 giorni. Questi risultati in realtà non mettono sotto accusa e demonizzano la chemioterapia, ma se da una parte confermano le criticità dell’assistenza oncologica in Gran Bretagna che presenta i tassi di sopravvivenza per tumore più bassi dell’Europa Occidentale, dall’altra dimostrano ancora una volta che un’adeguata scelta e gestione delle terapie oncologiche ed in particolare della chemioterapia può avvenire in Oncologia Medica, con operatori formati e costantemente aggiornati che conoscono strategie di cura, efficacia e tossicità dei farmaci e soprattutto il malato oncologico nella sua globalità.
Quanti stecchiti dalla chemio. E dai giornalisti ignoranti, scrive Maurizio Blondet il 7 settembre 2016. Il Lancet, una delle più stimate riviste mediche, “Giorni fa ha pubblicato un lavoro firmato dal Public Health England e Cancer Research Uk, condotto su 23,000 donne con cancro al seno e circa 10.000 uomini con carcinoma polmonare non a piccole cellule: 9.634 sono stati sottoposti a chemioterapia nel 2014 e 1.383 sono morti entro 30 giorni. «L’indagine ha rilevato che in Inghilterra circa l’8,4% dei pazienti con cancro del polmone e il 2,4% di quelli affetti da tumore del seno sono deceduti entro un mese dall’avvio del trattamento. Ma in alcuni ospedali la percentuale è di molto superiore alla media riscontrata. «Ad esempio, in quello di Milton Keynes il tasso di mortalità per chemioterapia contro il carcinoma polmonare è risultata addirittura del 50,9%. …. Al Lancashire Teaching Hospitals il tasso di mortalità a 30 giorni è risultato del 28%». «Per la prima volta i ricercatori hanno esaminato il numero di malati deceduti entro 30 giorni dall’inizio della chemioterapia, cosa che indica che i medicinali hanno provocato la loro morte, piuttosto che il cancro».
Ho copiato e incollato da “Senza Nubi”, sito del professor Sandro Carlo Mela. Che è stato docente di medicina interna all’Università di Genova, ha avuto diversi incarichi scientifici al CNR, è co-autore di 583 pubblicazioni scientifiche, delle quali 212 su riviste internazionali, con 1823 citazioni da riviste internazionali. Suo anche il commento che segue: “È notevole che siano stati proprio il Public Health England ed il Cancer Research Uk a sentire il bisogno di rivedere criticamente il proprio operato, raccogliendo una casistica imponente e traendone infine le conseguenze. Ci si pensi bene. Questa è l’essenza della metodologia scientifica. Fare ipotesi. Verificarle. Accettarle se i fatti le corroborino e rigettarle se i fatti le contraddicano. Quanto è duro accettare che i fatti smentiscano le teorie!”. Poiché il professor Mela è scienziato e scrittore elegante, penso questo sia stato il suo modo di intervenire nella canea giornalistica innescata da un caso di cronaca. Regolarmente riportato dai media in questi termini: “I genitori rifiutano la chemio, lei muore a 18 anni di leucemia”. Naturalmente accusando i genitori di aver ammazzato la figlia perché credono a ciarlatani (“il dottor Hamer”), ché se invece avessero portato la figlia dal celebre professor Veronesi, che l’avrebbe sottoposta alla chemio, la fanciulla sarebbe ancora viva. A Veronesi nessun giornalista ha mai chiesto conto di quanti, nella sua lunga carriera, ne ha ammazzati con la chemio. I lavori dei due importanti istituti sanitari pubblici inglesi, riportati da Mela, dimostrano che c’è una percentuale da alta a ragguardevole di pazienti che viene addirittura stecchita dalla chemio. Nei primi trenta giorni dal trattamento. I giornalisti soprattutto, hanno colto il caso o i due casi di cronaca per lanciarsi in una battaglia morale: non solo contro di due genitori che hanno accusato di aver ucciso la figlia, ma in genere contro la diffidenza della “gente” contro tutto ciò che è scientifico, o anche solo ufficiale: c’è chi ha messo la diffidenza generale del pubblico per la chemio sullo stesso piano del “il rigetto dei partiti”; il rifiuto delle vaccinazioni alla stessa stregua del di un rigetto anarchico e cieco verso ogni autorità; il discredito verso “il celebre oncologo Veronesi” alla stessa stregua del “populismo” che “abbiamo visto emergere anche nelle elezioni in Germania”. Insomma vedono, i giornalisti, un rigurgito di passatismo, oscurantismo e pensiero magico, un ritorno al Medioevo, che si sentono in dovere di combattere con l’ironia dei loro Lumi. Invocando anche i giudici, se occorre, perché sottraggano la patria potestà dei genitori anti-chemio e affidino i figli malati per forza pubblica a Veronesi e alla sua terapia citotossica con metalli pesanti ed iprite; la libertà dei pazienti non è accettabile, se essa sfocia in superstizione e cure con vitamina C o veleno di scorpione. Il problema è la quantità di Lumi in possesso di detto giornalisti. Nell’ascoltare Radio 24, mi è capitato di ascoltare – per esempio – che per alcuni di qui valorosi redattori, la funzione di insetti impollinatori era una scoperta recentissima, dovuta alla lettura di qualche articolo sulla sparizione delle api che mette in pericolosa produzione di frutta. Alcuni erano persino increduli del processo, “finalmente anche i più testoni di noi l’hanno capito”, ha detto giulivo un giornalista. Sentito con le mie orecchie. Ora, la meravigliosa simbiosi fra le api e gli alberi da frutta è una nozione che dovrebbe essere nota già dalle elementari. Anche giornalisti radiofonici (che si ammette siano di qualche tacca sotto i colleghi “della carta stampata”) dovrebbero saperlo. A cosa serve, sapere la funzione impollinatrice, se si è giornalisti economici o dello spettacolo? Serve: è un elemento di quella che si chiama “cultura generale”, senza la quale, sfuggono le complessità del discorso scientifico. Infatti costoro, nella missione che si era dati di condannare la famigli che aveva sottratto la figlia alla chemio, e per estensione- – la loro battaglia contro “il populismo”, han rimbeccato i lettori con argomenti di mera fede: bisogna credere a Veronesi, perché egli è famoso, e rappresenta la Scienza. Nel caso, essi non sono in grado di informarsi. Ignorano che su questi temi, è utile consultare come fonte il sito del National Cancer Institute (fondato da Nixon nel ’71 per ‘sconfiggere il cancro’, e che il cancro ha sconfitto – reca onestamente tutti i dati, lo stato dell’arte della ricerca, e avverte che nessuno dei trattamenti che indica uno per uno può essere definito “cura del cancro”). Invece i media italiani hanno dato spazio al Veronesi che ha detto e ripetuto: “Il cancro non è più una malattia incurabile, e le moderne terapie possono salvare la vita”. Affermazione, così come espressa, menzognera. Gli oncologi parlano di “sopravvivenza a cinque anni” del malato trattato con la chemio, che è cosa molto meno ambiziosa che guarigione. A proposito del caso dei genitori che hanno evitato alla ragazza la chemio, qualche giornalista ha tirato fuori che la cosa era particolarmente colpevole, perché con la chemio c’è, nel caso, una sopravvivenza del 63 per cento. E’ già un miglioramento rispetto al 50% (di sopravvivenza a 5 ani) vantato fino ad alcuni anni fa. Ma come e dove si ottengono queste percentuali? L’ha spiegato il dottor Francesco Bottaccioni membro dell’Accademia delle scienze di New York, docente di psico-oncologia alla Sapienza (cito da Cancro SpA di Marcello Pamio): “Il 50% di cui parlano gli oncologi non è effettivamente la metà del numero dei malati, come si è indotti a credere, ma la media delle varie percentuali di guarigione dei diversi tipi di cancro. Per capirci: si somma, ad esempio, l’87% di guarigione del cancro del testicolo con il 10-12 di quella del polmone e si fa la media delle percentuali di guarigione, senza calcolare che i malati di carcinoma al testicolo sono 2 mila l’anno, mentre le persone che si ammalano di tumore al polmone sono attorno alle 40 mila”. Ora, chiunque vede che questo è un metodo di conteggio disonesto, indegno di un settore che si dichiara “scientifico” e di una pretesa “scienza” chiamata oncologia; un metodo truffaldino che giustifica ad abbondanza la diffidenza crescente dei pazienti, e autorizza i peggiori sospetti sui veri motivi per cui si continua ad imporre la “cura” chemioterapica. La triste verità è che la sopravvivenza a cinque anni nel caso, poniamo, di carcinoma del pancreas è il 2 percento. I l che significa che il 98 per cento dei pazienti sono morti. A cinque anni, sono trapassati il 90% dei malati di glioma cerebrale, l’80 per cento dei colpiti da melanoma maligno, il 92,5 per cento dei cancri polmonari; è scomparso il 98 per cento dei colpiti dal carcinoma del fegato, e il 100 per cento degli affetti da carcinoma della pleura. Si può dire che “il cancro oggi non è più una malattia incurabile”? E che i malati devono affidarsi ad occhi chiusi a Veronesi invece che ai “ciarlatani”? Non esistono statistiche sui pazienti di ciarlatani: c’è il fondato sospetto che i loro dati di sopravvivenza cinque anni sarebbero se non migliori, pari a quelle vantate dalle false statistiche degli oncologi. Infatti. E la prova è nella monumentale indagine clinica condotta da Dal Dipartimento di Oncologia Radiologica del Northern Sidney Cancer Center e pubblicato sul Journal of Clinical Oncology il dicembre 2004. E’ intitolato: “The Contribution of Cytotoxic Chemotherapy to 5-year Survival in Adult Malignancies”, ossia: Il contributo della terapia citotossica alla sopravvivenza nei cinque anni nei tumori maligni di adulti”. Uno studio colossale. Sono stati seguiti per 14 anni 155 mila pazienti americani ed australiani colpiti da tumore. Alla fin fine i ricercatori concludono che 3.306 di questi sopravvissuti a cinque anni possono ragionevolmente essere attribuiti alla chemio. 3,303 su 154.971 pazienti, significa un tasso di ‘guarigioni’ del 2,3 per cento in Australia e del 2,1 in Usa. A che scopo prescrivere – e obbligatoriamente – un medicinale che mette l’inferno nel corpo del paziente (come disse il professor Staudacher), per un tasso di guarigioni del 2 per cento? Qualunque cura di ciarlatano può vantare un 2%, se tenesse le statistiche dei suoi pazienti. La conclusione degli studiosi di Sidney infatti è questa: “…E’ chiaro che la chemioterapia citotossica dà solo un contributo minore alla sopravvivenza da cancro. Per continuare la prescrizione [gratuita nel servizio sanitario nazionale] di farmaci chemioterapici, si richiede con urgenza una rigorosa valutazione del rapporto fra costo ed efficacia e dell’impatto sulla qualità della vita”. Di fatto, sconsigliano il servizio sanitario nazionale di continuare a pagare per questi costosissimi “farmaci” che rendono miserabile la vita del paziente, e non fanno guarire. Chi ha pazienza di guardare le tabelle contenute nelle prime pagine dello studio, vedrà che anche la percentuale del 2.3 per cento di guarigioni a 5 anni con la chemio deve essere fortemente ridimensionata: dipende dal tipo di tumore. Vi sono tumori, al pancreas, alla milza, il melanoma – in cui la sopravvivenza è segnata da una lineetta orizzontale: significa zero. Nessun sopravvissuto, chemio o non chemio. La miglior efficacia della chemio viene attribuita per il cancro al testicolo, che come abbiamo visto è uno dei pochi di cui gli oncologi vantano una sopravvivenza dell’87% per cento. Il che significa che guarisce quasi sempre da sé. Lo studio australiano dà qui un tasso di sopravvivenza del 47%: si può dunque addirittura temere che la chemio peggiori il decorso di un tumore tutto sommato modestamente pericoloso. Ma naturalmente, bisogna consultare le fonti, saper cercare nella letteratura scientifica: cosa che evidentemente i genitori della ragazza morta hanno fatto – hanno rifiutato a ragion veduta la terapia letale – e che non hanno fatto i giornalisti illuministi senza cultura generale, che hanno accusato quella famiglia di omicidio, di irresponsabilità superstiziosa, e lanciato intimidazioni a tutti coloro (medici e pazienti) che tentato le terapie alternative, incitando i giudici ad incriminarli. Cosa che alcuni procuratori hanno pure fatto. I giornalisti non sanno e non vogliono consultare le fonti – primo dovere del giornalista. Si sono accontentati, nella loro battaglia contro l’Oscurantismo sanitario, a riportare come vangelo un articolo commissionato al professor Veronesi. Senza nemmeno rendersi conto che costui fa’ una confessione incriminante: “Bisogna liberare la chemioterapia dallo stigma di cura devastante, che fa paura più del cancro stesso. (…) Va detto che in passato è stata utilizzata in modo improprio e per molti anni è stata effettivamente prescritta a dosi altissime, senza alcuna considerazione per gli effetti che avrebbero avuto sul malato. “Allora vigeva in oncologia il principio del massimo trattamento tollerabile: si applicava in chirurgia, in radioterapia e in chemioterapia la dose (o l’amputazione) maggiore che il paziente potesse tollerare. […] Ma negli ultimi decenni è avvenuta una rivoluzione di pensiero per cui nella cura dei tumori si applica il principio del minimo trattamento efficace: si ricerca la dose più bassa o l’intervento più limitato in grado di assicurare l’efficacia oncologica. Così è sparita la chirurgia mutilante, la radioterapia ustionante e anche la chemio che devasta inutilmente l’organismo”. Veronesi dunque ammette: per decenni abbiamo dato dosi letali di sostanze velenose, alchilanti, metalli pesanti, radiazioni – ammazzando migliaia di pazienti, e devastandoli inutilmente. Adesso abbiamo imparato: quindi, cancerosi, venite a noi con fiducia. La ricerca citata dal professor Mela vi dice che ne ammazziamo solo l’8 per cento nei primi trenta giorni. In alcuni ospedali anche il 50%…Quanti ne ammazza il giornalismo presuntuosamente incompetente? Che scambia per razionalità la propria ignoranza, per progressismo il proprio superstizioso scientismo, basato sul “principio di autorità” più sbagliato? Urgono studi clinici e statistici. L’articolo Quanti stecchiti dalla chemio. E dai giornalisti ignoranti. È tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.
La Rivincita di Di Bella – Studi confermano la validità dell'Acido Retinoico e Melatonina nella cura del cancro, scrive Riccardo Lautizi. La Melatonina usata da Di Bella già nel 1969, quando nessuno ne parlava e sapeva cosa fosse, oggi è oggetto di studio e ricerca dato che si sta scoprendo le sue incredibili capacità curative tanto che alcuni scienziati l’hanno chiamata la “Molecola dell’Immortalità”. Ebbene tanto le case farmaceutiche e i conservatori della classe medica italiana erano contro che nel 1996 ne vietarono la somministrazione. Le ragioni? Possiamo immaginarle, e dato che oggi si trova anche al supermercato possiamo di sicuro dire che non era per proteggere la nostra salute, anzi. Oggi chiunque può verificare sulla massima banca dati medico scientifica mondiale PUBMED l’enorme sviluppo della ricerca sulla melatonina con 20.908 pubblicazioni che documentano effetti rilevanti in patologie cardiocircolatorie, ematologiche, oncologiche, degenerative, immunitarie e tumorali. Per chi non sapesse la storia del Metodo Di Bella per la cura dei tumori deve sapere che è basato sul fatto che tutti gli organismi viventi possiedono sia i meccanismi responsabili della differenziazione e della crescita delle cellule tumorali, sia le difese per combattere lo sviluppo delle medesime. Insomma la formazione di cellule cancerose è tanto naturale quanto la loro eliminazione. La terapia del professor di bella, agendo sulle cellule sane e sul loro metabolismo e non direttamente sulle cellule tumorali, si propone di stimolare i meccanismi “naturali” di lotta dell’organismo e, attraverso questi, di produrre attorno ad ogni cellula “degenerata” un ambiente sfavorevole ed ostile per le sue funzioni vitali, siano esse di crescita che di riproduzione. Così facendo la terapia cerca di ridurre le capacità vitali e riproduttive della cellula malata impedendogli di crescere e di proliferare in maniera abnorme. Nel contempo favorisce la “maturazione strutturale” (invecchiamento) del tessuto tumorale aumentando pertanto le possibilità che le cellule anomale vadano incontro ad una precoce “apoptosi” e cioè alla morte naturale. Come puoi ben capire è un approccio diametralmente opposto alla chemioterapia che invece distrugge sia cellule sane che cellule malate, debilitando l’intero organismo. La cura Di Bella cerca proprio di rafforzare le naturali funzioni difensive del corpo e di sottrarre nutrimento alle cellule tumorali. Qualche giorno fa è stata pubblicata una ricerca pubblicata su Stem Cells International, sulle cellule staminali che documenta l’effetto differenziante – e dunque potenzialmente antitumorale – di due sostanze della terapia Di Bella: l’acido retinoico e la melatonina. Sono entrambe molecole particolari, tossiche per le cellule tumorali e vitali per quelle sane. Soddisfatto anche Giuseppe Di Bella, figlio di Luigi Di Bella e presidente dell’omonima Fondazione che ha finanziato la ricerca: “Si è avuta un’ulteriore conferma che l’acido retinoico esercita le più elevate proprietà differenzianti e che la melatonina ne amplifica l’effetto. È la piena conferma dell’intuizione di mio padre, che oltre 20 anni fa – in assenza di tecniche di biologia molecolare in grado di evidenziare i recettori nucleari dei retinoidi e della melatonina – ne aveva previsto non solo l’esistenza ma anche l’interazione, come documentato oggi”. Prosegue Di Bella: “Le altre due sostanze, l’acido ialuronico e l’acido butirrico, sono state scelte per la loro funzione di supporto: il primo (che ha recettori diffusamente espressi nelle cellule tumorali) veicola l’acido retinoico e la melatonina all’interno della cellula, mentre l’acido butirrico agisce come decompattatore del DNA consentendo agli agenti differenzianti (acido retinoico e melatonina) di interagire con le sequenze del DNA di cui regolano l’espressione genica”. Ma questo è solo l’ultimo studio di una serie di conferme che il Metodo Di Bella, prima bistrattato e ridicolizzato, sta ora avendo dal mondo scientifico. Luigi Di Bella prima di morire nel 2003 disse: «Prima o poi dovranno sbattere il muso contro la mia terapia». Ad esempio qualche tempo fa è stata pubblicata una ricerca sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences che dimostrava come l’acido retinoico fosse utile contro il cancro. Nell’abstract si concludeva dicendo: “le cellule neoplastiche vanno incontro all’autodistruzione, attraverso un processo di morte cellulare programmata definito apoptosi, sia in vitro sia in vivo”.
LA RICERCA.
Giuseppe Di Bella il 21/09/2016: le multinazionali manipolano la sanità e almeno il 50% dei dati medici è corrotto. In questi giorni è emersa in tutta la sua gravità l’estensione della corruzione delle istituzioni sanitarie prevalentemente oncologiche con 22 indagati. In Italia la lottizzazione politica della sanità si estende dal portantino al primario, essendo ogni ASL un centro di potere, una riserva di voti di scambio, clientelari, di consistenti fatturati. I rapporti con le multinazionali sono sempre più stretti. Uno degli aspetti globali più gravi è l’ormai noto e da più parti denunciato meccanismo con cui viene chiaramente manipolato dalle multinazionali l’Impact Factor (criterio di valutazione di una rivista scientifica, paragonabile al rating in finanza). Con queste stesse finalità è stata creata, un’entità dogmatica sovranazionale, la cosiddetta “Comunità scientifica”. E’ sufficiente leggere le dichiarazioni del Nobel per la medicina Scheckman, su riviste scientifiche ai primissimi posti dall’Impact Factor, come Science, ecc, egli… dichiara che “la ricerca in campo scientifico non è affatto libera ma in mano ad una cerchia ristretta” la cosiddetta “Comunità scientifica”. Il riferimento delle istituzionali sanitarie alla tanto celebrata “Comunità scientifica” è continuo, essa pontifica con giudizio infallibile, ma è ormai talmente inquinata, da aver falsificato almeno il 50% del dato scientifico. Questa realtà, è stata documentata da Richard Horton, caporedattore del Lancet, una delle più prestigiose riviste mondiali di medicina, che ha dichiarato: “Gran parte della letteratura scientifica, forse la metà, può essere dichiarata semplicemente falsa. La scienza ha preso una direzione verso il buio.”. Anche Marcia Angell, per 20 anni caporedattore di un’altra delle massime testate scientifiche internazionali, il New England Medical Journal (NEMJ), ha dichiarato: “Semplicemente, non è più possibile credere a gran parte della ricerca clinica che viene pubblicata”. Una dichiarazione da valutare con la massima attenzione, per la competenza, l’esperienza e la cultura, il livello scientifico della Prof Angel, che come Il Prof Horton, per anni ha revisionato la letteratura scientifica internazionale. Premi Nobel e caporedattori delle massime testate medico scientifiche mondiali non sono complottisti, ma le rare, forse ultime, voci che all’onestà intellettuale associano una grande cultura e rilevanti meriti scientifici. Una rilevante quantità di evidenze scientifiche, cioè di dati scientifici definitivamente acquisiti, certificati, incontestabili, non sono trasferiti nella clinica, non sono inseriti nei “prontuari”, nelle “linee guida”, nei “protocolli”. Per questo, malgrado una vastissima e autorevole letteratura dimostri quanto la proliferazione cellulare tumorale sia strettamente dipendente dall’interazione tra PRL (Prolattina) e GH (ormone della crescita), e da fattori di crescita GH dipendenti, né il suo antidoto naturale, la Somatostatina, né gli inibitori prolattinici, sono inseriti come antitumorali nei prontuari, in quanto produrrebbero se non un crollo, un grave ridimensionamento dei fatturati oncologici. Numerosi e documentati studi certificano l’efficacia antitumorale della somatostatina, in sinergismo con inibitori prolattinici, e altri componenti del Metodo Di Bella come Melatonina, soluzione di Retinoidi in Vitamina E e vitamina D3, che hanno un ruolo ed un’efficacia determinante e documentata nella terapia e in quella prevenzione dei tumori che non sanno e/o non vogliono attuare. Il programma di azzeramento della libertà del medico di prescrivere secondo le evidenze scientifiche sta ormai rapidamente concludendosi, come chiaramente evidenziato dal nuovo codice deontologico che blocca definitivamente la libertà di prescrivere secondo scienza e coscienza, penalizza gravemente ogni medico che non si attenga scrupolosamente ai loro dictat terapeutici, indipendentemente dai risultati ottenuti sul paziente, dando ampie coperture medico legali ai medici responsabili di eventi anche gravi, fino alla morte, se questi medici si sono attenuti al prontuario. Essendo ormai evidente questo disegno, stanno manifestandosi le prime reazioni: alcuni ordini dei medici, tra cui quello di Bologna, hanno respinto e contestato questa umiliazione della dignità del medico, e il sovvertimento del millenario codice etico di comportamento del medico. Questo disegno è completato dalla fine programmata della libertà di ricerca scientifica, codificata nel decreto legge N° 158 del 13 sett. 2012 e nella legge N° 189 del 8 nov. 2012. Sono previste gravissime sanzioni disciplinari e pecuniarie ai ricercatori che, come il Prof. Di Bella, senza il benestare di comitati etici, intraprendano studi clinici e ricerche scientifiche, anche se in autonomia e autofinanziati. In pratica con questi decreti è finita la libertà non solo di cura ma di ricerca. Hanno creato le condizioni per cui solo le multinazionali saranno autorizzare a finanziare studi clinici finalizzati alla registrazione di farmaci con procedure di cui si conoscono e sono stati denunciati gli espedienti e trucchi statistici per arrivare comunque alla registrazione e relativo fatturato (vedi denunce dei Prof Angell, Horton,e del Nobel Scheckmann ). I progressi ottenuti dal Prof. Di Bella nella cura dei tumori conosciuti dal pubblico, avevano portato nel 1997 e 98, ad una mobilitazione della gente. Sotto la pressione dell’opinione pubblica nel 1998, fu approvata la cosiddetta “legge Di Bella” (articolo 3, comma 2 D.L. n. 17 del 23 febbraio 98, conv. con modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94), che consentiva al medico di prescrivere al di fuori dei vincoli burocratici ministeriali secondo scienza e coscienza, in base alle evidenze scientifiche. La Legge Finanziaria 2007 (al comma796, lettera Z), ha abrogato questa disposizione di legge in base alla quale per 9 anni i medici hanno potuto prescrivere farmaci di cui esisteva un razionale d’impiego scientificamente testato, ma ignorato dalle commissioni ministeriali, eliminando la libertà e autonomia del medico sia come ricercatore che come clinico, e impedendo così la valorizzazione e il trasferimento nella terapia medica della ricerca scientifica. Giuseppe di Bella per Dionidream su “Curiosoty".
L’ATTUALE SISTEMA STA FINALMENTE GETTANDO LA MASCHERA, MOSTRANDO LA PROPRIA FACCIA, LA SUA VERA NATURA, Scrive "Italiano Sveglia" il 03/10/2016. La dittatura sinarchica continua a fare passi da gigante verso la fine di ogni libertà. “La libertà è partecipazione” cantava al mondo il grande Giorgio (Gaberscik) Gaber. Oggi dal cantautore toscano siamo passati ad un altro Giorgio, il romanziere-futurologo George Orwell, il quale nel suo fantaromanzo “1984” descrive magistralmente quello che sarebbe accaduto al mondo in un lontano futuro, cioè l’attuale presente. Nel suo libro infatti uno dei mantra più utilizzati dal Governo dittatoriale era “La libertà è schiavitù”! Guai ad essere individui liberi, troppo pericoloso, perché la libertà fa malissimo ed è schiavitù. Oggi è esattamente così: per il Sistema la libertà degli individui è peggio di un cancro da estirpare con ogni mezzo. Miliardi di persone che rappresentano la struttura portante della società, la base della piramide del potere, non sono viste dal vertice come esseri umani aventi diritti, ma piuttosto come semplici automi privi di anima, da usare per far andare avanti la struttura societaria, per mantenere quindi viva l’illusione ottica nella quale ci hanno fatto nascere e crescere. Macchine ovviamente senza alcun diritto e senza alcun valore. L’ultimo esempio, in questo caso da parte della dittatura medica, arriva con il documento della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo) sulle vaccinazioni pediatriche. Come mai si è scomodata addirittura la Casta delle Caste? Forse perché sta dilagando qualcosa di molto rischioso e assai contagioso e non mi riferisco al virus del morbillo o al batterio alla pertosse ma alla LIBERTA’. Sempre più genitori consapevoli infatti si stanno destando dal letargo e decidono di prendersi LORO la responsabilità della salute del PROPRIO figlio e non il medico vaccinatore delle ASL (che in caso di danni non risponde di nulla). Ecco qual è il vero problema: dalle ultime rivelazioni disponibili del 2014 in Italia i bambini vaccinati calano al ritmo di 5-10 mila ogni anno. Calano i malati, calano le vendite dei farmaci, calano gli affari. Questo è un meccanismo pericolosissimo per le lobbies del farmaco! Genitori che non delegano la salute del proprio figlio ad un medico che non hanno mai visto e che non conosce nulla della storia del loro bambino; non delegano il benessere del loro figlio ad un politico della Casta che ha votato una legge (voluta e imposta dai Poteri Forti) che obbliga la vaccinazione e infine non delegano la salute alle case farmaceutiche che vogliono le persone sempre più malate. Questi genitori incoscienti non sono bravi sudditi per cui vanno fermati. Ma come? Minacciare i genitori di ripercussioni? Questa opzione è stata passata al vaglio ma al momento (non è detto che un domani non venga messa in pratica) non è realizzabile. Impedire ai bambini non vaccinati di andare a scuola? Difficile perché si parla di scuola dell’obbligo, quindi diventa un po’ troppo complesso, anche se qualche povero in spirito in Emilia ha preso posizione vietando l’ingresso al nido per i non vaccinati (cosa questa vergognosamente illegittima e assolutamente illegale). Alla fine hanno scelto il male minore, bloccare e legare le mani dei loro associati: i medici! Così dice il segretario Luigi Conte: “sono già in corso e sono stati fatti procedimenti disciplinari per i medici che sconsigliano i vaccini. Si può arrivare anche alla radiazione”. L’inquisizione moderna in camice bianco avverte quindi platealmente e mediaticamente i propri soci: state molto attenti perché rischiate la radiazione! Parola dell’Ordine. Amen. Chiamarla strategia della tensione e del terrore è un semplice eufemismo…Sconsigliare la vaccinazione ai propri pazienti va oltre la violazione del codice deontologico e quindi si rischia la professione. Così minacciano a parole. Sarebbe bello vedere cosa farebbe il Sindacato se migliaia di medici obiettori sconsigliassero le vaccinazioni! La confusione sulla questione dei vaccini obbligatori in Italia sarebbe dovuta anche alla riforma del titolo V della Costituzione del 2001, che ha dato alle Regioni poteri sulle questioni della salute. Nel corso degli ultimi 15 anni alcune Regioni hanno attenuato (in Veneto sospeso) l’obbligatorietà di quattro vaccini in vigore a livello nazionale. “I medici – si legge nel documento riportato dai media mainstream – ricordano che secondo la Costituzione della Repubblica la tutela della salute dell’individuo rappresenta un interesse della collettività”. Sono bravissimi i medici della Casta a ricordarsi, quando serve (loro), della Costituzione (senza però citare un solo articolo), ma stranamente si sono dimenticati l’articolo 32 della Costituzione della Repubblica italiana (quella che l’attuale governo golpista vorrebbe ulteriormente ritoccare): “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario”. Ricordiamo a questi eredi di Ippocrate (il quale si è consumato a forza di girarsi e rigirarsi nella tomba) che nessuno ha mai scelto e votato, ma che si arrogano il diritto di decidere per 60 milioni di persone, ciò che sancisce la Costituzione: NESSUNO PUO’ ESSERE OBBLIGATO A UN TRATTAMENTO SANITARIO. I vaccini sono o non sono un trattamento sanitario obbligatorio? Certo che sì e uno anche tra i più rischiosi, visto che viene fatto a esseri viventi piccoli e indifesi! Inoltre visto l’articolo 1 del Codice di Norimberga (1946): “Il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale (…) e prima di accettare una decisione affermativa da parte del soggetto dell’esperimento lo si debba portare a conoscenza della natura, durata, e di tutte le complicazioni e rischi che si possono aspettare e degli effetti sulla salute o la persona che gli possono derivare dal sottoporsi dell’esperimento”. Quale consenso informato viene fornito dai medici ai genitori prima di inoculare sostanze chimiche, virus attenuati, nanoparticelle, adiuvanti e conservanti vari (idrossido di alluminio, formaldeide ecc.) dichiaratamente tossici, nel corpicino del loro figlio di pochi giorni? Quali informazioni serie vengono fornite dal medico vaccinatore o dalle ASL ai genitori che volessero saperne di più? Vengono spiegati dettagliatamente gli eventuali rischi? Niente di tutto questo, perché l’Ordine dei medici afferma che i vaccini NON hanno NESSUN rischio per la salute dei neonati! NON ESISTE UN SOLO FARMACO PRIVO DI EFFETTI COLLATERALI. Nemmeno uno e questo nessun medico al mondo può negarlo! Quindi perché i vaccini non dovrebbero comportare dei rischi? Sono o non sono farmaci? Viene spiegato perfettamente dall’articolo 7 lettera A della Dichiarazione di Helsinki, firmata dall’Associazione Mondiale dei Medici: “nella pratica medica corrente e nella ricerca medica, la maggior parte delle procedure preventive, diagnostiche e terapeutiche implicano rischi e aggravi”. “La maggior parte delle procedure terapeutiche comporta rischi e aggravi” ha dichiarato l’Associazione Mondiale dei Medici. Rischi che in questo caso riguardano neonati di pochissime settimane…Infine, la cosa più inquietante del documento del Fnomceo è che i medici si rivolgono perentoriamente anche alla magistratura chiedendo di “favorire il superamento dell’evidente disallineamento tra scienza e diritto”. I medici dall’alto del loro scranno bacchettano tutti quei magistrati che si sono messi di traverso con le loro scomode sentenze. In pratica il diritto si è disallineato con la (loro) scienza e va riportato quanto prima dentro il (loro) recinto. Questi incoscienti di giudici devono recepire “nelle loro sentenze la metodologia dell’evidenza scientifica”. Come al solito si usa l“evidenza scientifica” o “evidence based”, per tappare la bocca a tutti. Cosa significa evidenza scientifica e quanto questa dipende dal paradigma e dai soldi investiti? Un esempio per tutti lo chiarirà: l’AMA, l’Associazione dei Medici Americani (il sindacato potente statunitense) ha negato per decine di anni il collegamento tra fumo e salute (cosa risaputa oggi anche dai bambini) e questo soltanto perché riceveva decine di milioni di dollari dalle lobbies del tabacco! Ecco cos’è l’evidenza scientifica! E’ il paradigma vigente che viene deciso dal più forte e influente: l’Industria del farmaco in questo caso. La storia viene scritta dai vincitori e i paradigmi scientifici dall’establishment. Il passato insegna però che anche i paradigmi crollano e quello che prima si riteneva “evidence based” oggi è finito nel cesso…Secondo il Fnmceo, i giudici non dovrebbero avere atteggiamenti tesi a “fomentare comportamenti scorretti e non compatibili con il vivere sociale”. Qui la denuncia è gravissima. Forse i medici della Casta dimenticano che le sentenze dei giudici si basano su complesse perizie mediche eseguite da loro colleghi specializzati in medicina legale! Da qui la minaccia di sollecitare il ministero e le autorità competenti a presentarsi in giudizio quando ci sono decisioni del giudice che mettono in relazione la vaccinazione con malattie come l’autismo. Avanti con le minacce. Vietatissimo parlare di collegamento tra vaccini e autismo. Quindi se anche esistono perizie fatte da medici legali che attestano senza ombra di dubbio il nesso causale tra inoculo vaccinale e autismo (o un altro danno grave), questo non si può e non si deve dire, per cui bisogna impedire alla magistratura di farlo. Punto e accapo. L’establishment non vuole sentir parlare di connessione tra autismo e vaccini, troppo rischioso per tutti, anche perché i vaccini sono obbligatori…Se per caso venisse fuori che tutti i bambini autistici (1 bambino ogni 60 nati negli States soffrirebbe di una sindrome autistica) sono stati danneggiati dallo Stato… Dio ce ne scampi e liberi. Meglio spostare l’attenzione altrove e dare la colpa a qualcun altro: alla genetica, al virus di turno, alla sfortuna o perché no anche al Padreterno nei Cieli. A tutti ma non toccate i vaccini! Poco importa se non si trova un solo bambino autistico che non sia stato vaccinato, oppure detto in altri termini tra i bambini non vaccinati è difficile trovare un bambino autistico. Quindi siamo arrivati al punto che la Casta dei camici bianchi impone alla Casta delle tuniche nere il silenzio stampa in tema di salute! I processi futuri chi li farà, l’imparziale e oggettivo sindacato Fnmceo? Se questa non è una dittatura mascherata da democrazia rappresentativa, quanto manca? Fonte: Italiano Sveglia
IL BUSINESS.
Kankropoli - la mafia del cancro. Il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella di Alberto R. Mondini - A.R.P.C. Associazione per la Ricerca e la Prevenzione del Cancro. Meraviglioso! Non ho altre parole per descrivere questo capolavoro. Sull'argomento salute ho letto diversi libri, tutti, chi più chi meno scorrevoli e/o interessanti ma questo libro di Mondini mi ha colpito particolarmente sia per la semplicità, priva delle solite nomenclatura tecnico-scientifiche, ma soprattutto per l'immensa mole di informazioni che raccoglie. Documentazioni, testimonianze, interviste, ricerche che dimostrano senza ombra di dubbio e con prove inconfutabili l'esistenza di un establishment sanitario radicato e molto potente. Il dizionario definisce establishment come: "alta gerarchia di persone che difende la struttura tradizionale". Niente di più esatto. Una gerarchia, visto che stiamo parlando di cancro, composta dalle vette più alte della ricerca medica, delle multinazionali chimicofarmaceutiche che difende con tutti i mezzi leciti e non la ricerca ufficiale da qualsiasi "altra" ricerca pur se comprovata da risultati eccezionali e testimonianze ineccepibili. Questa voglia di proteggere gli interessi di pochi e le cattedre di altri, si scontra però con un grossissimo problema sociale: le persone continuano come non mai a morire di cancro! Dopo tutti questi anni di promesse, false illusioni, nuovi medicinali, ecc. qual è la situazione attuale? "I nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea". Non sono le parole di un medico eretico come Di Bella ma di un certo John C.Balair, professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei massimi esperti di oncologia del mondo. Ma allora ci hanno preso in giro per anni e anni? Perché quelle lusinghiere dichiarazioni attraverso i media da parte dei luminari della scienza? Che sia per tutti quei centinaia di milioni di euro che ogni anno ricevono per la ricerca? Mentre loro pensano come investire tutti questi soldi, abbiamo da una parte tantissime persone che muoiono, dall'altro una folta schiera di ricercatori indipendenti che a proprie spese e molto spesso rischiando la galera e la carriera se non addirittura la vita propongono metodi alternativi, economici e molto semplici dai risultati eccezionali. Perché quasi nessuno conosce Ricercatori, con la erre maiuscola, come Alessiani, Bonifacio, Zora, Hamer, Pantellini, Gorgun, e molti altri? Medici che propongono ognuno una cura diversa, ma che avevano in comune l'amore per la ricerca, quella vera, e centinaia se non migliaia di testimonianze positive, di guarigioni incredibili, di casi senza speranza per la medicina ufficiale che "miracolosamente" regrediscono. Per tutto questo come sono stati trattati dalla "scienza"? Be', i più "fortunati" come per esempio Di Bella sono stati boicottati, messi alla gogna, derisi pubblicamente, altri come Alessiani sono stati minacciati di morte, oppure radiati dall'albo dei medici come è successo ad Hamer. Potrei continuare a lungo in questa carrellata, ma concludo battendo le mani a Mondini e ringraziandolo per essere riuscito a condensare in un libro tutte le ricerche e le disavventure di questi grandissimi scienziati, colpevoli di aver scoperto metodi semplici, indolori, naturali, e purtroppo economici che mettevano e mettono tuttora a repentaglio gli enormi interessi che si nascondono dietro le malattie "cosiddette incurabili".
"Kankropoli" - La mafia del cancro. Alcuni anni fa la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell’immensità delle sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai, inoltre, l’inutilità e l’atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell’umanità di fronte al cancro non era disperazione, era sceso ancora più in basso, fino a una specie di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l’ARPC (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e, con questo strumento, di percorrere fino in fondo e a ogni costo la strada che avrebbe dovuto mettere fine alla malattia cancro. Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto, fantasia. Pertanto, in piena coscienza di tutti i pericoli e di tutte le responsabilità che tale atto comporta, ho deciso di rendere pubblico il materiale che ho raccolto. Queste sono le sconvolgenti conclusioni a cui portano i documenti contenuti in questo dossier (Kankropoli, la mafia del cancro, ARPC, Torino, 1997): Attualmente nella pratica corrente non viene usata alcuna terapia valida per i tumori. Esistono da anni efficaci ed economiche terapie e tecniche di diagnosi precoce ideate da geniali ricercatori spesso con scarsi mezzi economici. Esiste una precisa volontà intesa a impedire che esse vengano usate. Questa volontà viene attuata, contro questi ricercatori, con tutti i mezzi possibili, siano essi legali o illegali, quali indifferenza, privazione di fondi, calunnie, diffamazione, persecuzioni (queste sono le più usuali) professionali e giudiziarie, minacce di morte, omicidio. In queste azioni criminali sono coinvolte molte persone e organizzazioni che spesso ricoprono posti di potere, quali: uomini politici, magistrati, funzionari di forze di polizia, dirigenti di case farmaceutiche, alti funzionari statali della sanita`, medici, professori universitari, ricercatori, associazioni e tanti altri. Ovviamente la responsabilità di questi individui per questa situazione è ampiamente diversificata nei ruoli e nel grado. Alcuni di essi si prodigano attivamente con qualsiasi mezzo per mantenere l’attuale situazione di inguaribilità dei tumori perchè essa permette loro di usufruire di innumerevoli fonti di guadagno, tangenti comprese, che derivano dai vari aspetti con cui oggi si presenta quel colossale affare che è il cancro: la ricerca, la diagnosi, la terapia, le associazioni per la raccolta fondi, la produzione e la vendita di farmaci e di apparecchiature, gli ospedali, le università, il Servizio Sanitario Nazionale, ecc. Essi formano di fatto un’associazione a delinquere di dimensioni internazionali. Altri conoscono bene la situazione, ma tacciono per paura di perdere i loro privilegi. Infine altri ancora, (i più) credono che si stia facendo il massimo e il miglior sforzo per debellare questa malattia; pertanto assecondano e aiutano in completa fiducia cio` che viene imposto con segreta violenza. Da L’Immensa Balla della Ricerca sul Cancro
Alberto Mondini, Kankropoli, Recensione scritta da Mirror's Chest per DeBaser il 17 ottobre 2010. Umberto Veronesi una manciata d'anni fa dichiarò, dall'alto della sua incomparabile esperienza, che la via per sconfiggere il cancro si trova nella genetica. Niente "fattore ambientale", nessun fattore psicologico, l'inquinamento poi, un'invenzione bella e buona, sono soprattutto il basilico e la patata ad avere la maggior incidenza sulla salute delle persone: non ci vuole un genio per capire che in questo discorso c'è qualcosa di assolutamente perverso. Trovai quest'informazione per caso in uno spettacolo di Grillo (2005, beppegrillo.it, proiettato nella più casinara assemblea d'istituto di sempre), dove poi si spiega, neanche troppo velatamente, che i "timidi" riferimenti a quella che ormai è una realtà bella e buona erano stati taciuti per via di un lauto compenso fornitogli dalla FIAT, e quindi, citando American Beauty, "vendiamoci tutti l'anima e lavoriamo per Satana perché è più conveniente". Da lì in poi l'interesse per l'argomento scemò col tempo, sarà per la mia allora tenera età, sarà per la naturale inclinazione dell'uomo (naturale=indotta) alla pigrizia, fino a tempi relativamente recenti, in cui il tema della "malattia del secolo" è ritornato presente nella mia playlist quotidiana per un solo ed unico motivo: osservare come parenti, amici, conoscenti alla lontana e perfino vicini di casa da un giorno all'altro finiscono beatamente sotto terra. E se la pura esperienza personale può metterti seriamente alle strette per quanto riguarda dubbi, considerazioni e conflitti interiori, un libro del genere vi potrebbe letteralmente spolpare vivo dalla portata di informazioni che contiene. Citando l'incipit: "Cinque anni fa (1993) la straziante realtà del tumore si impose alla mia attenzione. Mi resi conto dell'immensa quantità di sofferenze fisiche e mentali provocate da questa malattia. Constatai l'inutilità e l'atrocità delle terapie correnti. Scoprii, cosa peggiore di tutte, che il tono emotivo dell'umanità di fronte al cancro non era di disperazione, era sceso ancora più in basso, fino ad una sorta di rassegnata, impotente apatia. Così decisi di fondare l'A.R.P.C. e, con questo strumento, di intervenire in prima persona per portare un contributo alla lotta contro i tumori. Non avendo legami con le case farmaceutiche, né con alcuna lobby o corporazione, avrei potuto agire liberamente e raccontare i fatti senza alcuna limitazione. Costi cancro nel 1998 in Italia (stimati per difetto): -Farmaci chemioterapici L. 40 mila miliardi - Tutto il resto (operazioni, esami, radioterapia, ricerca, ecc...) L. 40 mila miliardi - Totale L. 80 mila miliardi Moltiplicate queste cifre per il resto del mondo e otterrete somme paragonabili a quelle di una guerra planetaria. In questo tremendo affare sono coinvolte centinaia di migliaia di persone e potentissime organizzazioni internazionali. Pensate che rinuncerebbero facilmente ai loro lauti guadagni?" A buon intenditore poche parole, per tutti gli altri, dico solo che "Kancropoli" è un libro-inchiesta come pochi se ne sono visti negli ultimi anni sull'argomento, uno spietato resoconto su come morte, malattia, e di conseguenza cure medico-ospedaliere, trattamenti e investimenti rappresentino un business al pari di scarpe, macchine, frigoriferi, soltanto dal piccolo particolare di avere guadagni molto più lauti con entrate che raggiungono cifre da capogiro. Insomma, un business che va salvaguardato, preservato, tenuto sotto chiave e lontano da tutti quegli scienziati "cattivi" e le loro scoperte rivoluzionarie (e a basso costo) in grado di rivoluzionare in un baleno lo stesso concetto di malattia e salute. Esempi? Il semisconosciuto Alessiani, che riuscì a curare la moglie malata terminale attraverso una cura da lui stesso brevettata a costo pari allo zero, utilizzando humus e erbe particolari: su di lui ci sta una sentenza di morte da parte della procura Italiana. Il famosissimo Di Bella, radiato dall'albo, avvelenato diverse volte, che ha dovuto subire ritorsioni professionali, attentati, congiure belle e buone per aver scoperto una cura miracolosa contro tumori ed altre malattie attraverso la melanina. Per non parlare poi di S. Seçkiner Görgün, geniale medico Turco inventore tra l'altro di un cuore artificiale perfettamente funzionante da tipo 40 anni, o di "Albert", l'inventore del tanto miracoloso quanto sconosciuto BIOTRON, fino a tantissimi altri geni della medicina e della scienza consegnati all'anonimato più totale da un'elite invisibile che mangia sulla morte dei nostri cari e su milioni di altre persone in tutto il mondo. Non mi interessa se potrete pensarla come me o avere un'idea totalmente differente, le idee qui non c'entrano assolutamente niente, qui si parla di fatti, di dati, di interviste, di articoli, informazioni di un'importanza a dir poco vitale. Spegnete la televisione, fatevi un thé (stando attenti a che ci mettete dentro...) e dedicate una serata a questo libro, facilmente scaricabile in file .pdf a questo indirizzo.
La favola della ricerca sul cancro, scrive “Napoleta”. Sono ormai anni che siamo abituati al ripetersi di eventi gestiti da organizzazioni di ogni tipo per sostenere la tanta decantata ricerca sul cancro, la quale dovrebbe consentire di sconfiggere definitivamente in un futuro sempre più prossimo malattie come il cancro e il tumore. Ogni volta che sento di questi eventi, mi sembra di vivere nel mondo delle favole, alle quali tutti o quasi tutti credono senza un minimo di giudizio critico. Sarebbe sufficiente dare un'occhiata alle statistiche per vedere che da quando si fa ricerca sul cancro, non solo le malattie di questo tipo non sono diminuite affatto, ma sono aumentate in modo spaventoso quelle che già esistevano prima e ne sono venute fuori altre, anche queste in continuo aumento. Tali statistiche ovviamente non vengono mai mostrate, vengono tenute ben nascoste dalla mafia della Sanità italiana e internazionale, e quando si è costretti a tirarle fuori vengono alterate per fare in modo che la gente possa continuare a credere alla favola che un giorno il cancro sarà eliminato dalla lista delle malattie inguaribili che ci colpiscono. La favola non può che essere tale per ovvie ragioni. Il cancro e il tumore sono malattie che non vengono fuori per puro caso, ma sono causate principalmente dal modo in cui viviamo, mangiamo, respiriamo, pensiamo, ecc. In pratica, non si potrà mai eliminare tali malattie se continuiamo a inquinare l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, il cibo che mangiamo, se continuiamo a nutrirci di alimenti tossici come la carne, i latticini e gli zuccheri, se continuiamo a vivere in modo esclusivamente materialistico, pensando solo ad accaparrare quanto più denaro possibile anche a costo di danneggiare il prossimo, se continuiamo a non capire che l'uomo vive in base al principio di semina e raccolta e che se continua a seminare male non può che raccogliere male, se continuiamo ad avere una fede cieca (ovvero non basata sull'esperienza personale) in un Essere Divino, alimentata semplicemente da religioni piene di regole e dogmi privi di ogni fondamento e utilità che servono solo a creare fedeli schiavi di istituzione di potere lontanissime dall'Essere Divino che dicono di rappresentare, se continuiamo a credere che l'uomo sia composto solo dal corpo fisico e ignoriamo gli altri corpi che lo compongono (il corpo astrale, quello eterico e l'ego), anch'essi fondamentali nel sorgere delle malattie, allora la favola della lotta al cancro resterà sempre una favola. Sostenere il business della ricerca sul cancro serve solo a far arricchire medici e scienziati ignoranti e senza scrupoli. Più mi rende conto di ciò con la mia esperienza personale, è più noto come viviamo davvero in un mondo della favole, per la creazione del quale i mezzi di informazione hanno un ruolo fondamentale. Tutto ciò che viene fuori da essi viene ingerito ormai acriticamente, si crede ormai davvero a tutto!! In occasione di questi eventi, ecco una serie di personaggi famosi della scienza, dello sport, dello spettacolo, e anche della cosiddetta cultura, che si impegnano come matti per sponsorizzarli, con quei visi contenti e allegri, che lasciano trasparire l'ignoramento della verità e l'illusione di aver fatto una buona azione per cui essere considerati grandi. L'evento che più mi viene alla mente è quello delle 30 ore per la vita, in cui una marea di personaggi dello spettacolo e della "cultura" si alternano raccontando in pratica 30 ore di favole. Ecco quindi una valanga di miliardi regalati alla mafia sanitaria, che può così continuare a fare i propri interessi anziché quelli di chi la sostiene. Mi chiedo perché tutti questi personaggi prima di fare una cosa del genere non si informano un po' su cosa stanno sostenendo, perché non danno un'occhiata alle statistiche, perché non vanno nei laboratori dove si fa ricerca per vedere le inutili atrocità alle quali sono sottoposti gli animali su cui vengono fatti gli esperimenti. È ovvio che se non lo fanno loro, che in teoria dovrebbero essere quelli più informati, figuriamoci se possono farlo coloro che in occasione di tali eventi fanno di tutto per acquistare una piantina, un sacco di arance, o un qualsiasi oggetto sfruttato per far soldi da destinare alla ricerca del nulla. Anche loro con le belle faccine allegre e contente, dopo averlo fatto se ne tornano nelle loro case mostrando a tutti il loro acquisto, raccontando la "grande" azione appena compiuta al primo che incontrano, magari spingendo anche lui a farlo, spesso regalandolo a qualche persona cara, e credendo con l'acquisto di aver contribuito ad un mondo migliore, che ovviamente non ci sarà mai. La vita non è una favola, è una gran cosa in cui niente avviene per caso e che noi non comprendiamo ormai più e comprenderemo sempre meno con il passare del tempo. Nell'articolo riportato di seguito, si può notare come le cose che ho detto non sono frutto di strane idee che vengono fuori dalla mia testa. Se è un medico di fama internazionale ad affermare che la ricerca sul cancro è stata fino ad oggi un completo fallimento, credo proprio che non possa che essere così. La mia unica speranza, e purtroppo credo resterà solo una speranza, è che sempre più gente si renda conto della verità, si svegli dal mondo dei sogni in cui vive, e smetta di sostenere una cosa meschina come la ricerca sul cancro.
La ricerca ufficiale sul cancro. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini. Iniziamo a vedere cosa realmente viene fatto a chi OGGI si ammala di cancro. Nella stragrande maggioranza dei casi si usano, dove è possibile, unicamente tre metodi: l'asportazione chirurgica, la chemioterapia e l'irradiazione. Il primo rimedio è del tutto inutile, perché il tumore non è che lo stadio finale e più visibile di una situazione patologica che coinvolge tutto l'organismo. Per tanto, dopo l'asportazione, la recidiva è quasi la regola, in quanto le difese immunitarie del paziente saranno ulteriormente indebolite dal trauma delle ferite, dall'intossicazione dell'anestesia, dagli antibiotici e dagli altri medicinali. Gli altri due metodi si basano sul fatto che le cellule cancerose sono più deboli di quelle sane, pertanto, sotto l'azione di veleni o di radiazioni ionizzanti, sono le prime a morire. Questa constatazione porta però a una delle pratiche più insensate della storia della medicina: avvelenare ed irradiare il paziente per guarirlo! Anche la persona meno informata, riesce a comprendere che guarigione significa miglioramento della salute. Nessuno pensa che l'inquinamento, gli esperimenti atomici o l'incidente di Chernobyl siano i provvidenziali vantaggi dei nostri tempi per mantenerci sani. Nei fatti, anche con la chemioterapia e l'irradiazione, dopo un iniziale, apparente successo, il malato, con il sistema immunitario massacrato, indebolito nel corpo e nella mente, svilupperà generalmente in breve tempo un nuovo tumore, questa volta ancor più difficile da curare. Eppure, specialmente negli ultimi mesi, in occasione dei vari dibattiti sulla cura Di Bella, avrete sentito fior di luminari, illustri primari, grandi ricercatori, sostenere che le critiche alle attuali terapie oncologiche non hanno ragione di esistere, che la medicina ha fatto enormi passi in avanti, che le percentuali di guarigione sono già nell'ordine del 50% e che tale percentuale è in fase di crescita. In conclusione, la medicina sta facendo il proprio dovere ed i soldi assegnati alla ricerca hanno dato i frutti sperati. Vediamo ora quali sono, in realtà, i grandi progressi che da alcuni anni la scienza sta compiendo nel campo della lotta ai tumori. Riunione del settembre 1994 del President's Cancer Panel: "Tutto sommato, i resoconti sui grandi successi contro il cancro, devono essere messi a confronto con questi dati" aveva detto Balair, indicando un semplice grafico che mostrava un netto e continuo aumento della mortalità per cancro negli Stati Uniti dal 1950 al 1990. "Torno a concludere, come feci sette anni fa, che i nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea. Grazie". Chi è questo personaggio che esprime idee così eretiche, un medico alternativo? Un ciarlatano come è stato definito Di Bella? Un guaritore che approfitta dei poveri malati? Uno che non conosce le percentuali di guarigione? Purtroppo per loro, niente di tutto questo. Risulta difficile definire ciarlatano o incompetente, John C. Balair III, insigne professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei più famosi esperti di oncologia degli Stati Uniti e dell'intero pianeta. Non parlava del resto ad una platea di sprovveduti; il President's Cancer Panel è nato in conseguenza del National Cancer Act, un programma di lotta contro il cancro, firmato dal presidente americano Richard Nixon il 23 dicembre 1971 e per cui si sono spesi fino al 1994 ben 25 miliardi di dollari. I dati relativi alla situazione delle lotta al cancro vengono forniti direttamente al Presidente degli Stati Uniti. La conclusione principale di Balair, con cui l'NCI (National Cancer Institute) concorda, è che la mortalità per cancro negli Stati Uniti è aumentata del 7% dal 1975 al 1990. Come tutte quelle citate da Balair, questa cifra è stata corretta per compensare il cambiamento nelle dimensioni e nella composizione della popolazione rispetto all'età, cosicché l'aumento non può essere attribuito al fatto che si muore meno frequentemente per altre malattie. La mortalità è diminuita per tumori quali quelli del colon e del retto, dello stomaco, dell'utero, della vescia, delle ossa, della cistifellea e dei testicoli. La mortalità per cancro nei bambini si è quasi dimezzata fra il 1973 e il 1989, in gran parte grazie alle migliori terapie. Tuttavia, dato che i tumori infantili erano comunque rari, questo miglioramento - e quello più lieve registrato nei giovani adulti - ha avuto solo un effetto assai ridotto sul quadro generale. In totale, gli incrementi della mortalità per cancro sono circa il doppio delle riduzioni. Edward J. Sondik, esperto di statistica dell'National Cancer Institute, sostiene che vi sarebbe un aumento di oltre il 100% dei casi di cancro al polmone nelle donne fra il 1973 e il 1990. Anche il melanoma e il cancro alla prostata hanno avuto incrementi considerevoli, di oltre l'80%, in quel periodo. Sondig ha concluso che l'incidenza totale del cancro è aumentata del 18% fra il 1973 e il 1990. "Nessun esperto del settore può continuare a credere che dietro l'angolo vi sia necessariamente tutta una serie di magnifiche terapie contro il cancro in attesa di essere scoperte" asserisce Balair ribadendo di averne abbastanza della continua sfilata di notizie sensazionali che fanno credere che una cura risolutiva stia per essere messa a punto. Le chemioterapie esistenti, nonostante i progressi, sono ancora armi a doppio taglio. Alcuni dei trattamenti per il linfoma e la leucemia inducono altri tumori, dopo il completamento della terapia per la malattia originaria....Non notate una leggera disparità tra i dati che avete letto ora e le statistiche trionfalistiche che avete sentito dai famosi clinici italiani? Forse può dipendere dal lasso di tempo intercorso, in fondo questi dati risalgono al 1993, magari la situazione è notevolmente migliorata. Vediamo allora cosa afferma Balair nel 1997 su New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste mediche a livello mondiale. "La guerra contro il cancro è lontana dall'essere vinta. L'efficacia dei nuovi trattamenti contro sulla mortalità è molto deludente". Il Giornale – Inchiesta sul cancro n°1
Se non siete ancora convinti, o semplicemente desiderate ulteriori dati, eccone altri due. Il primo è la vasta indagine condotta per 23 anni dal Prof. Hardin B. Jones, fisiologo presso l'Università della California, e presentata nel 1975 al Congresso di Cancerologia, presso l'Università di Barkeley. Oltre a denunciare l'uso di statistiche falsificate, egli prova che i cancerosi che non si sottopongono alle tre terapie canoniche sopravvivono più a lungo o almeno quanto chi riceve queste terapie. Come dimostra Jones, le malate di cancro al seno che hanno rifiutato le terapie tradizionali, mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da colore che si sono invece sottoposte alle cure complete. Il secondo caso riguarda uno studio condotto da quattro ricercatori inglesi, pubblicato su una delle più importanti riviste mediche al mondo: The Lancet del 13/12/1975 e che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi. La vita media di quelli trattati con chemioterapia completa fu di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 220 giorni. Tratto da Kankropoli di Alberto Mondini.
DOVE FINISCONO LE VOSTRE OFFERTE. Scrive “La Leva”. Un episodio molto interessante è la situazione che emerge da un articolo pubblicato su La Stampa nel 1994 (Ombre sulla Lega Tumori. "Fa affari, non prevenzione" p. 13). Il soggetto in questione, in questo caso, è la Lega Tumori, una di quelle associazioni che non incontrano difficoltà a reperire fondi pubblici e privati, disponibilità di personale medico e non, sponsor e benefattori, con la motivazione della necessità di sostenere la ricerca contro il cancro. Ebbene il sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, bocciò il bilancio di previsione '93 della Lega Tumori, sostenendo una grave accusa: più del 90% delle spese non veniva destinato alla ricerca o alla cura dei tumori, ma all'investimento immobiliare e mobiliare. L'accusa dell'onorevole Fiori, veniva supportata da cifre di per sé eloquenti: la sede centrale aveva destinato una minima parte dei mezzi finanziari di cui disponeva, al raggiungimento degli obiettivi istituzionali, equivalenti a 810 milioni (nemmeno un miliardo!), mentre ben 9.360 milioni (quasi 10 miliardi!) sarebbero stati spesi per investimenti patrimoniali. Fiori sottolineava che la Lega Tumori "tiene in piedi un'organizzazione che assorbe costi amministrativi ammontanti a circa 2 mila milioni, dedita per la maggior parte ad investire in operazioni finanziarie, consistenti in prevalenza in acquisto o rinnovo di titoli di Stato". Una terapia veramente innovativa per la cura del cancro, la speculazione in titoli! Bocciati come benefattori, non sembrano abili neppure come amministratori, poiché, da un cospicuo patrimonio immobiliare, riuscivano ad ottenere un rendimento annuo di soli 3 milioni. L'onorevole Fiori ha evidenziato nell'analisi che erano ben 745 i milioni di interessi attivi che la Lega Tumori era riuscita a raggiungere in un anno. Gli altri dati, come per esempio i 2,3 miliardi di immobilizzazioni tecniche ed i 10,1 miliardi di partecipazioni e valori mobiliari, comprovano la validità delle accuse mosse dal parlamentare. E dimostrano in quali amorevoli mani sia, in realtà, affidata la cura dei malati di cancro! Se dopo tutto questi fatti, che purtroppo riguardano anche altri Paesi, ci soffermiamo a confrontare i dati forniti dall'americano N.C.I. ed i finanziamenti investiti inutilmente in tutti questi anni, ne segue una valutazione immediata: non hanno ragione d'essere le lamentele di Garattini sugli scarsi finanziamenti, perché meglio sarebbe per lo Stato italiano, non solo non stanziare più di quanto non abbia già fatto finora, ma anzi esigere un reale, quanto dettagliato e costante resoconto pubblico del procedere delle ricerche e dei risultati conseguiti. Sembra però alquanto difficile pensare che possa prendere una simile decisione uno Stato succube delle multinazionali farmaceutiche. Non pare azzardata l'ipotesi di chi sospetta che, in tutta questa attività di millantata pubblica (?) utilità, ci sia quanto meno una parvenza di interesse privato. Soprattutto alla luce di alcune affermazioni che sono state fatte dalla Guardia di Finanza di Roma, quando ha scoperto persino un'intensa attività di sperimentazione clinica negli ospedali della capitale su pazienti ricoverati. Il Coordinamento per i Diritti dei Cittadini ha infatti rimarcato come "uno degli aspetti più inquietanti sarebbe quello che riguarda i finanziamenti da parte delle case farmaceutiche alle strutture pubbliche che, come prevede la legge, pagano le spese delle sperimentazioni cliniche, oltre al fatto che la ricerca è sostanzialmente orientata solo su quei prodotti che possono garantire un vasto mercato" (L'Indipendente, 19 marzo 1996). Che dire della Francia, dove la Lega nazionale contro il cancro è stata accusata di manipolazioni finanziarie, vedendo coinvolti il presidente ed alcuni ricercatori? I finanziamenti della Campagna nazionale, vanno dai 60 ai 500 franchi francesi per persona, fino alle centinaia di milioni di franchi che pervengono dai suoi tre milioni di aderenti, cittadini in buona fede, ma evidentemente male informati, che credono davvero di contribuire alla vittoria sul cancro con un'offerta, oltre tutto deducibile dalle tasse. Il presidente incriminato è Jacques Crozemarie, dottore honoris causa di una sconosciuta facoltà americana di Charleston, per giunta consigliere della Direzione generale del CNRS per la Ricerca sul cancro. Questa persona ha incassato in tre anni, dal '90 al '93, dai 600 ai 700 mila franchi annui, a titolo di onorario, da una società americana di New York, la Andara, la cui presidente è socia del presidente di un'altra società, che fornisce la carta all'ARC per le sue pubblicazioni, ora sotto inchiesta della Corte dei Conti francese. Ancora più interessante risulterebbe il fatto che il sovvenzionatore di Crozemarie, risulti essere un recapito postale, senza alcuna attività alle spalle (Orizzonti della Medicina, n. 67, giugno 1996, p. 8). Ed ecco le dichiarazioni di Ivan Cavicchi, a quel tempo coordinatore del settore Sanità della Cgil, apparse su Panorama del 14 novembre 1993 e riferite dalla pubblicazione Flash-News n° 41, in cui afferma quanto segue: "Un sistema marcio e corrotto, di cui Poggiolini era solo il guardaportone. Qui c'è la complicità dei ministri De Lorenzo in testa, ma anche del Consiglio Superiore della Sanità, dei luminari del Comitato bioetico, dei professori foraggiati dall'industria farmaceutica: un'intera organizzazione finalizzata a fare soldi sulla pelle dei cittadini". Parole pesanti come macigni; ci aspettavamo delle smentite o delle querele. In effetti Cavicchi non è più responsabile del settore: è stato promosso, è passato alla Farmindustria!
Il business delle malattie. Quando il denaro governa la coscienza, scrive il 28/11/2013 "Mediatime”. Vi siete mai chiesti come mai, dopo molti anni di investimenti dedicati alla ricerca scientifica, siamo ancora lontani dall’eliminazione di molte malattie? Il nostro modello sanitario è davvero affidabile oppure è maggiormente interessato ad incrementare i malati lucrando sulla vendita dei medicinali? Sicuramente molte vite umane sono state salvate dalla medicina ufficiale, anche se sappiamo che purtroppo, nella maggior parte delle patologie più gravi, i farmaci imposti dalle grandi industrie farmaceutiche servono a ben poco e in diversi casi danneggiano il nostro organismo. Come tutti sanno i medicinali non eliminano il problema, ma ne riducono i sintomi, spesso in maniera troppo aggressiva. Quante volte entrando in una farmacia vediamo persone in fila, come se fossero alla cassa di un supermercato, intenti a fare acquisti anche per malesseri banali… Non a caso il potere dell’industria farmaceutica fa leva proprio sulla produzione e la vendita di medicinali per curare malattie a volte persino inventate, come alcune particolari epidemie cosiddette “di tendenza”. Purtroppo non sono state del tutto smentite le voci che riguardano l’introduzione di sostanze cancerogene contenute in alcuni vaccini. Non è difficile pensare che le società farmaceutiche si arricchiscano anche inventando epidemie per vendere vaccini. Tutto questo sembrerebbe fantascienza, non è vero? Magari lo fosse. Il dominio sulla politica. Oggi si evidenzia sempre più l’influenza delle industrie farmaceutiche sulla politica, al fine di bloccare l’accesso ai rimedi naturali, caratterizzati da una letalità nulla e dal merito di aver salvato diverse persone, a differenza dei famaci ufficiali, spesso nocivi. Si potrebbero citare vari esempi, come quello di una nota azienda che, negli anni Ottanta, attraverso un altrettanto conosciuto e diffusissimo farmaco (purtroppo non possiamo fare il nome per ovvi motivi), provocò molti morti vendendo medicinali con un elevato potenziale di contagio dell’AIDS”, poiché sviluppati utilizzando il plasma di donatori portatori di HIV. Alcune di queste testimonianze sono state riportate in varie autorevoli testate giornalistiche, tra cui il Sydney Morning Herald, nel 203 e la CBS, nel 2009. Riguardo a questo, la nota emittente televisiva MSNBC ha trasmesso un video che accusa la stessa casa farmaceutica senza mezzi termini. Controllo nei mass media. Queste lobby agiscono anche influenzando i mezzi di informazione. I cittadini indifesi ogni giorno vengono bombardati da notizie terribili, sapientemente filtrate: disgrazie, attentati terroristici, calamità naturali, truffe, ecc. Nel mondo accadono anche molti episodi lieti, positivi; ma purtroppo non fanno notizia. Lo scopo principale è quello di creare, nel tempo, ansie e preoccupazioni tali da indurre i fruitori dell’informazione ad ammalarsi. Una sorta di suggestione collettiva, che colpisce prevalentemente persino quelle persone convinte di essere sveglie e vigili, ma in realtà facilmente influenzabili dai media e dall’opinione pubblica. Le malattie di origine psicosomatiche sono all’ordine del giorno e spesso diventano persino letali. Il vero guadagno dell’industria farmaceutica sta essenzialmente sulle cure contro il cancro. Se da un lato la chemioterapia risulta, senza ogni minimo dubbio, nociva per l’intero organismo umano, dall’altro rappresenta inequivocabilmente il più potente business. Al di là dei costi dei medicinali chemioterapici, in alcuni casi gratuiti grazie al Servizio Sanitario Nazionale, il costo per lo Stato è altissimo, decine di migliaia di euro a ciclo, da ripetere più volte. Vanno anche considerati i farmaci e i trattamenti addizionali per combattere gli imponenti effetti collaterali. Inoltre un paziente che ha subito una chemioterapia nella maggior parte dei casi avrà bisogno per tutta la vita di farmaci di mantenimento. Un’altra forma di manipolazione si verifica attraverso il controllo dell’alimentazione, anch’essa causa di molte malattie. Una cattiva informazione sulle reali proprietà di alcuni alimenti possono, nel tempo, indurre ad abitudini alimentari nocive. Oggi si parla molto di alimenti biologici. Ma chi certifica queste qualità sui cibi che troviamo nei negozi e supermercati? Non tutti sanno che dietro queste istituzioni-commissioni, si cela sempre il monopolio delle società farmaceutiche. Non stupiamoci allora se poi veniamo a scoprire che molti dei cibi in apparenza biologici siano stati trattati, nelle varie fasi del processo di produzione, con diversi additivi nocivi, non naturali. Sembrerebbe inoltre che la politica dalle industria farmaceutica sia costretta a ridicolizzare le varie cure alternative: non sempre risolutive ma in alcuni casi efficaci e sicuramente prive di effetti collaterali, tipici invece dei farmaci convenzionali. Aleggia sempre un aspro paradosso che fa riflettere: molti per curarsi dal cancro, vengono uccisi dai devastanti effetti della chemioterapia. Possibile che la medicina ufficiale non investa anche in ricerche orientate sulle cure alternative? Evidentemente, in caso di successo, il business verrebbe a mancare. L’ambiguità nei confronti dei farmaci naturali. Anche in virtù del fallimento riguardo l’efficacia della medicina ufficiale e alla preoccupante crescita delle patologie cronico-degenerative, sempre più persone nel mondo si sono avvicinate ai farmaci naturali. L’Italia è uno dei principali mercati europeo per i medicinali omeopatici. Una curiosa contraddizione è quella di considerare, da parte della medicina ufficiale, i prodotti omeopatici come NON farmaci, addirittura paragonandoli all’acqua fresca. Allora perché L’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, pretende tutte le analisi, come se fossero veri e propri farmaci, tra l’altro costosissime e tutte a carico dei produttori, molti dei quali costretti, di conseguenza, a chiudere? E’ ovvio che questo sistema industriale, pur di ottenere i risultati necessari, è costretto a ostacolare lo sviluppo della scienza sperimentale e clinica. Non approfondiamo inoltre gli svariati episodi di corruzione nei confronti di medici onesti ed istituzioni sanitarie. Un Premio Nobel dimenticato. Forse seconde questa filosofia industriale della medicina ufficiale dovremmo persino dimenticarci della storia: nel 1931 un prestigioso Premio Nobel per la medicina venne assegnato a Otto Heinrich Warburg, per la prevenzione del cancro. Il “difetto”, se così possiamo chiamarlo, di questa sorprendente tesi, avvalorata da un riconoscimento ufficiale, sta forse nel fatto che ai giorni d’oggi all’industria del settore la prevenzione del cancro a costo zero non porta fatturati interessanti? Fanno discutere persino alcune affermazioni della cosiddetta comunità scientifica quando ribadiscono l’assenza di prove riguardo alcune metodologie alternative: in realtà le prove ci sarebbero, ma non vengono ufficializzate sempre per il solito motivo. Purtroppo il denaro governa anche la coscienza. Alla luce dei milioni di decessi avvenuti negli anni, utilizzando diversi farmaci nocivi, sarebbe inevitabile rivalutare con più serietà e meno ipocrisia, nelle cure mediche, l’uso di rimedi naturali rispetto a quelli sintetici: la posta in gioco è la vita o la morte dell’umanità.
Intervista a Linus Pauling del 2/10/2016 di Marcello Pamio su "disinformazione.it": “la ricerca sul cancro non esiste. E’ una truffa”.
D: Dottor Pauling, lei è l’unico scienziato al mondo ad aver ricevuto ben due Premi Nobel per categorie diverse: quali sono queste categorie?
R: Ho ricevuto il Premio Nobel per la Chimica nel 1954, e per la Pace nel 1962.
D: Nonostante i numerosi studi, pubblicazioni e ricerche, ha avuto persino il tempo per codificare la cosiddetta «medicina ortomolecolare». Ci può spiegare cos’è?
R: Ho coniato il termine «medicina ortomolecolare» per indicare il mantenimento della buona salute e il trattamento delle malattie attraverso la variazione della concentrazione di sostanze che sono generalmente presenti nel corpo umano e sono necessarie per la salute. Per la Vitamina C, credo che il trattamento di una malattia attraverso il ricorso a sostanze che, come, l’acido ascorbico, sono normalmente presenti nel corpo umano e necessarie alla vita, sia da preferirsi a un trattamento che comporti il ricorso a potenti sostanze sintetiche o a estratti delle piante che possono avere, e generalmente hanno, effetti collaterali indesiderabili. L’uso terapeutico di grandi quantità di vitamine, che viene chiamato «terapia megavitaminica», è un procedimento molto importante nella medicina ortomolecolare.
D: Quindi lei sostiene l’importanza delle vitamine nella terapia di moltissime malattie: cosa ci può dire a proposito della Vitamina C?
R: La Vitamina C rafforza i naturali meccanismi di difesa, in particolar modo del sistema immunitario e aumenta l’efficacia degli enzimi nel catalizzare le reazioni biochimiche. E’ necessaria per le reazioni vitali di idrossilazione, in particolare nell’ormone adrenalina e nella sintesi della molecola del collagene. Il collagene è una delle più abbondanti proteine presenti nel corpo che va a costituire il tessuto connettivo (la materia plastica naturale del corpo: cartilagini, tendini, vasi sanguigni, ecc.). Un’elevata assunzione di Vitamina C aiuta a controllare molte malattie: non solo il comune raffreddore, ma anche altre, virali e batteriche, come l’epatite, e altre ancora, assolutamente non correlate fra loro, come la schizofrenia, i disturbi cardiovascolari e il cancro. Il dott. Claus W. Jungerblut, dell’Università della Columbia, nel 1935 riferì che la Vitamina C ad alte dosi rende inattivo il virus della poliomielite, dell’herpes, del vaiolo bovino e quello dell’epatite. Non solo, la Vitamina C rende inattivi pure i batteri e le loro tossine (difterite, stafilococco, dissenteria, ecc.)
D: Uno dei problemi più seri della nostra società sono le malattie cardiovascolari. Nonostante l’immenso bagaglio farmaceutico messo a disposizione dalle corporazioni della chimica, ogni anno muoiono moltissime persone nel mondo. In questo caso la Vitamina C può essere d’aiuto, oppure no?
R: Le patologie cardiache costituiscono la principale causa di morte nei paesi industrializzati. Sono convinto che il tasso di mortalità relativo a queste patologie a ogni età potrebbe essere diminuito in maniera notevole, probabilmente ridotto a metà, attraverso un uso appropriato della Vitamina C.
D: Viste le proprietà eccezionali di questa vitamina, non capisco perché le case farmaceutiche non s’interessano della Vitamina C! O meglio, so bene qual è il motivo, ma vorrei sentire la sua opinione!
R: La mancanza d’interesse delle multinazionali risiede nel fatto che la Vitamina C è una sostanza naturale che è disponibile a bassi costi e che non può essere brevettata! Proprio come pensavo. Sempre la solita minestra: una sostanza, nonostante le proprietà terapeutiche, non viene presa in considerazione dalle corporazioni della chimica se non produce ritorni economici enormi.
D: Dottor Pauling, la RGR della Vitamina C (Razione Giornaliera Raccomandata) consigliata dal ministero dell’Alimentazione e della Nutrizione è di 60 milligrammi al giorno. Lei invece parla di svariati grammi al giorno…
R: Le RGR relative alle vitamine, sono le dosi che hanno la probabilità di prevenire nelle persone «di salute normalmente buona» la morte per scorbuto, beri-beri, pellagra, o altre malattie da carenza vitaminica, ma non sono le dosi che fanno acquistare alla gente uno stato ottimale di salute. Per un essere umano, 2300 milligrammi (2,3 grammi) al giorno di acido ascorbico sono inferiori al tasso ottimale di assunzione di questa vitamina. Da numerosi studi risulta che l’assunzione ottimale di Vitamina C per un essere umano adulto varia da 2,3 grammi a 10 grammi al giorno. Le differenze biochimiche individuali sono tali che, su una vasta popolazione, il tasso di assunzione può essere incluso tra i 250 milligrammi e i 20 grammi, o anche più, al giorno.
D: Ma dosi così elevate non sono pericolose per la salute?
R: L’acido ascorbico nella letteratura medica è descritto come «virtualmente non tossico». Alcune persone hanno ingerito dai 10 a 20 grammi di Vitamina C al giorno per 25 anni senza che si producessero calcoli renali o altri effetti collaterali. Un ammalato di cancro ne ha presi 130 grammi al giorno per 9 anni, ricavandone beneficio. Non è mai stato segnalato alcun caso di morte per una ingestione massiccia di acido ascorbico e neppure alcuna malattia seria.
D: Ma non basta la Vitamina C contenuta negli alimenti?
R: Il ricercatore Irwin Stone, nel 1965, rilevò che gli esseri umani e altri primati come la scimmia rheus, non sanno sintetizzare la Vitamina C e la richiedono come vitamina integrativa. Una volta che una specie ha perso tale capacità di produrla autonomamente, essa dipende, per la sua esistenza, dalla possibilità di trovarla nel cibo a disposizione. Però, visto che la maggior parte delle specie animali non hanno perso questa capacità (ad esclusione dell’uomo), significa che la quantità di acido ascorbico generalmente presente nel cibo non è sufficiente a fornire la dose ottimale.
D: Quindi se ho capito bene: l’uomo, avendo perso la capacità di sintetizzare la Vitamina C autonomamente, necessità di un apporto esterno attraverso il cibo. Ma il cibo non è ricco a sufficienza per soddisfare questo fabbisogno! Come possiamo allora integrare l’acido ascorbico?
R: La Vitamina C, o acido ascorbico, è una polvere bianca cristallina che si scioglie in acqua. La sua soluzione ha un sapore acido, che ricorda quello dell’arancia. Essa può essere assunta oralmente, anche sotto forma di sali dell’acido ascorbico, in particolare come ascorbato di sodio e ascorbato di calcio. Tuttavia solo questi ultimi due, che sono sali, possono essere iniettati per via endovenosa, poiché diversamente la soluzione acida danneggia le vene e i tessuti.
D: Lei ha criticato molto lo zucchero, come mai? Ci sono evidenze scientifiche della sua pericolosità per la salute?
R: Da numerosi studi siamo portati a concludere che gli uomini che ingeriscono molto zucchero corrono rischi di gran lunga maggiori di ammalarsi di cuore, in un’età variante fra i 45 e i 65 anni, rispetto a quelli che ne ingeriscono quantità inferiori. L’incidenza di malattie coronariche, inclusa l’angina pectoris, va di pari passo con l’aumentato consumo di zucchero, e non è affatto correlata con il consumo di grassi animali o dei grassi in genere. Il metabolismo del saccarosio (zucchero) produce al primo stadio uguali quantità di glucosio e di fruttosio. Il glucosio entra direttamente nei processi metabolici che forniscono l’energia alle cellule del corpo, il metabolismo del fruttosio invece procede in parte per una direzione diversa, che prevede la produzione di acetato, precursore del colesterolo che sintetizziamo nelle cellule del fegato. In uno studio clinico della massima serietà, è stato dimostrato che l’ingestione del saccarosio porta a un aumento della concentrazione di colesterolo nel sangue.
D: Per concludere, qual è la sua ricetta, se ne ha una, per stare bene e vivere a lungo?
R: Ecco i punti fondamentali del regime:
1) INTEGRARE L’ALIMENTAZIONE CON NOTEVOLI QUANTITÀ DI VITAMINA C (DA 6 A 18 GRAMMI), VITAMINA A, E, B.
2) ASSUMERE MINERALI (CALCIO, FERRO, RAME, MAGNESIO, ZINCO, CROMO, SELENIO, ECC.)
3) RIDURRE L’ASSUNZIONE DI ZUCCHERO
4) MANGIARE CIÒ CHE PIACE, MA IN MANIERA MODERATA
5) BERE MOLTA ACQUA E POCHI ALCOLICI
6) FARE ATTIVITÀ FISICA
7) NON FUMARE
8) EVITARE OGNI FORMA DI STRESS
La caratteristica principale rimane comunque l’apporto di vitamine, soprattutto di Vitamina C!
Cancro “incurabile”, il business infinito della chemioterapia, scrive il 22/10/15 "Libreidee". Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistemagli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari». Da decenni, il cancro viene inutilmente fronteggiato con la chemioterapia: l’oncologia ospedaliera non guarisce quasi nessuno, e i tumori stanno aumentando in modo esponenziale. In parallelo, c’è il boom delle cure alternative: in questo settore si registrano guarigioni in costante aumento, ma i numeri sono ancora limitati e comunque esclusi dall’ufficialità. Ovvio, sottolineano gli “alternativi”: per il sistema è pericoloso far sapere che si può guarire anche solo con erbe, biofarmaci e dieta, cioè con quattro soldi, mentre il sistema ospedaliero (chemio e radio) costa una follia, oltre a non salvare nessuno. Di recente, Paolo Barnard ha acceso una contro-polemica, accusando di slealtà gli “alternativi” che speculerebbero sull’altrui dolore, contrabbandando soluzioni miracolose quanto irrealistiche. La riprova? I potenti della terra, a partire dal boss della Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ricorrono alla chemio. «In realtà – replica a distanza Paolo Franceschetti, autore di un sito sulle cure alternative esistenti – i super-potenti sono i primi a ricorrere a metodi alternativi: lo stesso Berlusconi ha evitato la chemio ed è guarito grazie alla terapia Di Bella». «Se sei un americano, hai una possibilità su tre di avere un cancro nel corso della tua vita», scrive Michael Snyder in un post ripreso dal blog di Maurizio Blondet. «Praticamente chiunque in America conosce qualcuno che ha il cancro o che ne è già morto». Eppure, negli anni ‘40, a sviluppare il cancro era solo un americano su 16. «Deve essere accaduto qualcosa che ha provocato questa crescita esplosiva, e che induce a ritenere che il cancro sorpasserà presto le cardiopatie diventando la prima causa di morte». Secondo l’Oms, ogni anno vengono diagnosticati 14 milioni di nuovi casi nel mondo, ed è atteso un incremento del 70% nei prossimi due decenni. «Esistono davvero poche parole capaci di fare tanta paura come la parola “cancro”, e nonostante i miliardi spesi nella ricerca e nel suo progresso tecnologico, questa piaga continua ad allargarsi e a mietere vittime. Come è possibile?». Sconcertante la débacle statistica della disciplina oncologica: a differenza di ogni altro settore della medicina, questa non riesce praticamente mai a curare efficacemente i pazienti, a cui peraltro non sa diagnosticare le cause dell’insorgenza patologica (cosa che invece fa la medicina olistica, basata anche sull’analisi dell’alimentazione). In compenso, il business del cancro va a gonfie vele: oggi, continua Snyder, in America si spende più denaro per trattare il cancro che qualunque altra malattia. Secondo la “Nbc”, solo lo scorso anno si è trattato di 100 miliardi di dollari in farmaci anti-cancro, tutti largamente inefficaci: «Mentre i prezzi delle medicine continuano a scendere costantemente, la spesa per le medicine contro i tumori hanno raggiunto un nuovo traguardo: 100 miliardi di dollari nel 2014». Un incremento di 75 miliardi di dollari in cinque anni, secondo un’indagine dell’Ims Institute for Healthcare Informatics. Cento milioni di dollari sarebbero già una cifra pazzesca, osserva Snyder, ma 100 miliardi sono mille volte quella cifra. «Non mi pare ci sia bisogno di dire che ci sono un sacco di persone, là fuori, che stanno diventando smisuratamente ricche grazie a questi trattamenti. E il costo di alcuni di essi è semplicemente assurdo. Sempre secondo la “Nbc”, due dei farmaci commercializzati più recentemente costano 12.500 dollari per un mese di terapia». Farmaci, peraltro, non risolutivi: poco più di metà dei pazienti può sperare di sopravvivere per 5 anni al massimo. «Viviamo in una società estremamente tossica, e che lo diventa ogni giorno di più», scrive Snyder. «E una volta che hai sviluppato il cancro, ai dottori non è permesso prescrivere trattamenti “alternativi”. Quello che possono fare è prescriverti terapie che il sistema gli dice di prescriverti». Idem in Italia: i sanitari devono attenersi al protocollo standar, quello che non guarisce quasi mai nessuno e si basa, ad esempio, sulla chemio. «E’ una terapia mostruosa, che spesso uccide il paziente invece di uccidere il tumore», continua Snyder. «Molti pazienti vivono un ciclo infernale dopo l’altro, sperando che possa essere risolutivo. Avete mai parlato con qualcuno che ha vissuto questo calvario? E’ straziante». Dice il dottor Ralph Moss, autore del libro “L’industria del cancro”: «Non c’è alcuna prova che la chemioterapia prolunghi la sopravvivenza nella gran parte dei casi. E questa è la grande bugia sulla chemioterapia, che ci sia in qualche modo una correlazione tra la riduzione del tumore e l’allungamento della vita di un paziente». Allora perché gli oncologi spingono tanto per la chemio? Secondo le analisi di Steven Levitt e Stephen Dubner, quelli di “Freakanomics”, «gli oncologi sono tra i medici più pagati, la media dei loro redditi cresce più di quella di qualsiasi altro specialista, e più della metà dei loro guadagni proviene dalla vendita e somministrazione della chemioterapia». Il loro modello di business «è differente da quello degli altri medici», scrive Snyder, «perché non è che tu puoi andare a comprarti la chemioterapia in farmacia». Negli Usa, «gli oncologi la comprano all’ingrosso, poi gonfiano il prezzo e mettono in conto alle compagnie di assicurazione». Questo profitto legalizzato sui farmaci contro il cancro è un caso unico, negli Stati Uniti. «Fanno soldi sulle terapie che dicono ti salveranno la vita. E’ un conflitto di interessi gigantesco. Ti vendono le terapie, e ti fanno pagare il privilegio di iniettartele. Non lo fa nessun altro medico». Il nostro sistema è profondamente guasto e corrotto, conclude Snyder. «Ma non cambierà niente nell’immediato futuro, perché grazie ad esso si guadagnano centinaia di miliardi di dollari».
Beneficenza, fondi Airc: alla ricerca solo la metà. Più di 90 milioni di entrate nel 2008, ai laboratori destinati 45 milioni e mezzo L’anno scorso quasi 23 milioni dirottati verso fondi di investimento e obbligazioni. Viaggio nel lato oscuro della beneficenza, scrive Stefano Filippi, Giovedì 13/08/2009, su "Il Giornale". La sigla è una delle più conosciute dalle famiglie italiane: Airc, Associazione italiana per la ricerca sul cancro. È il male del secolo, ed è una malattia ancora oscura. I fondi da investire negli studi non sono mai abbastanza. E la macchina per raccogliere denaro è enorme. L’associazione ha una lunga storia alle spalle: nacque nel 1965 da una costola dell’Istituto dei tumori di Milano. Conta su un milione 700mila soci in tutta Italia che ne confermano la vastissima fiducia. Ha l’appoggio di testimonial famosi (attori, campioni dello sport, intellettuali) che invitano a fare testamento a favore della ricerca. Un nome di spicco della medicina italiana, quello dell’oncologo Umberto Veronesi, senatore ed ex ministro, è garanzia di serietà. Lo staff è composto da un comitato tecnico-scientifico che vigila sull’impiego dei fondi e un gruppo di 250 scienziati stranieri che valuta i progetti di ricerca. Numerosi imprenditori di successo arricchiscono la composizione dei 17 comitati regionali. Un parterre consolidato di grandi aziende (Rai e Mediaset, Intesa e Unicredit, Tim e Vodafone, Starwood ed Esselunga) assicurano stabilità nel tempo. Gli ultimi due spot istituzionali sono firmati dal regista Ferzan Ozpetek e hanno come protagoniste Isabella Ferrari e Valeria Golino. Le iniziative promozionali entrano in tutte le case italiane: l’Azalea della ricerca, le Arance della salute, la Giornata nazionale. E ancora feste, mercatini, concerti, pubblicazioni scientifiche. E soprattutto l’Ifom (Istituto Firc di oncologia molecolare), fondato nel 1998 dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro, un centro di studio e ricerca non profit ad alta tecnologia. Dare soldi all’Airc è come metterli nel salvadanaio regalato dai nonni: sono al sicuro. Un nome, una garanzia. Infatti l’associazione raccoglie una montagna di denaro: nel 2008, informa il bilancio appena pubblicato, sono arrivati 90.542.066 euro dall’attività di raccolta fondi. Arance e azalee, quote associative e bollettini postali, auguri e donazioni hanno fruttato 58 milioni e rotti di euro cui si aggiungono oltre 32 milioni dal 5 per mille. Per avere dei paragoni, Actionaid ha proventi per 44 milioni di euro, Telethon 30 milioni, Emergency 22 milioni, Telefono azzurro 7 e mezzo. Ma quanti di questi denari raccolti finiscono effettivamente ai ricercatori che devono sconfiggere il cancro? La risposta, contenuta nel medesimo bilancio, è sorprendente: poco più della metà. Nel 2008 l’Airc ha destinato 43.892.390 euro (il 48,5 per cento) a «progetti di ricerca, borse di studio e interventi vari», altri 1.146.497 euro (1,3 per cento) ad «attività istituzionale d'informazione scientifica “Notiziario fondamentale” e sito internet», infine 577.339 euro (0,6 per cento) ad altre attività istituzionali. In totale, l’«attività istituzionale di sviluppo della ricerca oncologica e informazione scientifica» è costata all’Airc 45.616.226 euro: il 50,4 per cento delle somme raccolte presso gli italiani. Percentuale che scenderebbe al 49,4 se, invece che limitarsi ai fondi donati, considerassimo il totale dei mezzi disponibili (raccolta fondi più proventi finanziari). E l’altra metà della mietitura, dove finisce? È una ricostruzione complessa. Raccogliere soldi costa, e costa caro. Per comprare e distribuire le arance della salute si spendono un milione 373mila euro (ricavo netto due milioni409mila), i 700mila cestini delle azalee della ricerca assorbono quattro milioni 774mila (per un guadagno di cinque milioni 638mila). E poi la spedizione dei bollettini postali, l’attività dei comitati, le campagne pubblicitarie e di sensibilizzazione. Complessivamente, gli oneri direttamente legati al «fundraising» ammontano a 16.333.434 euro: come dire che per ogni euro raccolto, 18 centesimi sfumano in spese vive. A questo calcolo vanno aggiunti i costi generali, cioè quelli sostenuti per tenere in piedi la complessa macchina dell’associazione: stipendi (cinque dirigenti, 72 impiegati, 5 collaboratori), gestione soci, attrezzature, computer, telefoni, comitati regionali. Questa voce si porta via 5.864.642 euro. E fanno 22 milioni 200mila euro di spese: un quarto delle entrate. Sono cifre paragonabili al bilancio di una media azienda italiana. Ricapitoliamo. Nel 2008 l’Associazione per la ricerca sul cancro ha avuto a disposizione 92.285.542 euro, di cui 90.542.066 donati direttamente dagli italiani in varie forme. Una quantità di soldi strabiliante. I vertici dell’Airc ne hanno destinato soltanto metà alla ricerca oncologica, scopo istituzionale dell’organismo. Per pareggiare i conti, manca l’ultimo quarto: 24 milioni e mezzo di euro. Che sono stati iscritti in bilancio come «risultato gestionale dell’esercizio». Un utile accantonato e non utilizzato. Un ottimo risultato, se paragonato alla perdita di quasi quattro milioni di euro registrata nel 2007. Secondo l’articolo 20 dello statuto dell’Airc, gli avanzi di gestione «saranno destinati, negli esercizi successivi, agli scopi istituzionali»: in ogni caso non viene distribuito nessun utile. Ma nel frattempo, come vengono impiegati? Vengono investiti in titoli e fondi comuni di investimento. In attesa di tempi migliori nei quali aprire nuovi fronti di lotta al cancro, l’Airc mette in banca i soldi versati con tanta generosità dagli italiani. Il dettaglio è contenuto nella nota integrativa al bilancio. Al 31 dicembre 2008 risultavano titoli di stato italiani (20.220.000 euro contro i 698mila del 2007), fondi comuni monetari (573mila, un anno prima erano 5.802.000), obbligazioni di società italiane (20mila), titoli di Stato estero denominati in euro (5.054.000 euro). Le disponibilità liquide ammontavano a 22.965.000 euro. Tra interessi e cedole, questa serie di investimenti ha reso un milione scarso. L’Airc spiega che un avanzo di gestione di tali dimensioni è dovuto al 5 per mille sui redditi 2005, solo parzialmente utilizzato. «Il consiglio direttivo ha dato mandato alla Commissione consultiva scientifica di predisporre il piano strategico per l’utilizzo delle eccezionali risorse pervenute e che perverranno negli esercizi futuri. Possibile che l’associazione non avesse idea di quanto avrebbe incassato? E che non abbia progetti, borse di studio o iniziative pronte per essere lanciate? Il Giornale avrebbe voluto porre queste e altre domande a Piero Sierra, presidente dell’Airc, il quale però era già partito per le vacanze lontano dall’Italia dove non è stato possibile telefonargli.
La grande truffa del Telethon il professor Testard denuncia una "mistificazione". Il Telethon 2008 in Francia è terminato il 7 dicembre, dopo 30 ore di appello ai donatori. Più di 95 milioni di euro sono stati raccolti per la ricerca sulle malattie genetiche. Sono 20 anni che questa "grande fiera" televisiva continua... Ecco cosa ne pensa un ricercatore, uno specialista in biologia della riproduzione. (La grande escroquerie du Téléthon Le professeur Testard dénonce une "mystification". Traduzione di Giuditta). "E 'scandaloso. Il Telethon raccoglie annualmente tanti euro quanto il bilancio di funzionamento di tutto l'Inserm. La gente pensa di donare soldi per la cura. Ma la terapia genica non è efficace. Se i donatori sapessero che il loro denaro, prima di tutto è utilizzato per finanziare le pubblicazioni scientifiche, ma anche i brevetti di poche imprese, o per eliminare gli embrioni dai geni deficienti, cambierebbero di parere. Il professor Marc Peschanski, uno dei architetti di questa terapia genica, ha dichiarato che abbiamo intrapreso un strada sbagliata. Si stanno facendo progressi nella diagnosi, ma non per guarire. Inoltre, anche se progrediamo tecnicamente, noi non comprendiamo molto di più la complessità della vita. Poichè non possiamo guarire le malattie, sarebbe preferibile cercare di scoprirne l'origine, prima che si verifichino. Ciò consentirebbe l'assoluta comprensione dell'uomo, di una certa definizione di uomo". In un'intervista con Medicina-Douces.com. Jacques Testard, è direttore di ricerca presso l'Istituto Nazionale della Sanità e della Ricerca Medica (Inserm), specialista in biologia della riproduzione, "padre scientifico" del primo bebè-provetta francese, e autore di numerose pubblicazioni scientifiche che dimostrano il suo impegno per una "scienza contenuta entro i limiti della dignità umana". Testard scrive sul suo blog, fra l'altro: "Gli OGM (organismi geneticamente modificati) sono disseminati inutilmente, perché non hanno dimostrato il loro potenziale, e presentano un reale rischio per l'ambiente, la salute e l'economia. Essi non sono che degli avatar dell'agricoltura intensiva che consentono ai produttori di fare fruttificare i brevetti sulla Natura e la Vita. Al contrario, i test terapeutici sugli esseri umani sono giustificati quando sono l'unica possibilità, anche piccola, per salvare una vita. Ma è assolutamente contraria all'etica scientifica (e medica) far credere a dei successi imminenti di uno o di un altro farmaco. Nonostante i numerosi errori, i fautori della terapia genica (spesso gli stessi fra quelli degli OGM) sostengono che "finiremo per arrivarci", e hanno creato un tale aspettativa sociale che il "misticismo del gene" si impone ovunque, sino nell'immaginario collettivo. Il successo costante del Telethon dimostra questo effetto, poiché a forza di ripetute promesse, e grazie alla complicità di personalità mediatiche e scientifiche, questa operazione raccoglie donazioni per un importo vicino al bilancio di funzionamento di qualsiasi ricerca medica in Francia. Questa manna influisce drammaticamente sulla ricerca biologica in quanto la lobby del DNA dispone del quasi monopolio dei mezzi finanziari (finanziamenti pubblici, dell'industria e della beneficenza) e intellettuali (riviste mediche, convenzioni, contratti, man bassa sugli studenti ...). Quindi, la maggior parte delle altre ricerche sono gravemente impoverite - un risultato che sembra sfuggire ai generosi donatori di questa enorme operazione caritativa... " Per completare, ultima citazione estratta dal libro di Testard "La bicicletta, il muro e il cittadino": Tecno science e mistificazione: il Telethon. "Da due decenni, ogni anno, due giorni di programmazione della televisione pubblica sono esclusivamente riservati ad un'operazione orchestrata, alla quale contribuiscono tutti gli altri mezzi di comunicazione: il Telethon. Col risultato che, delle patologie, certamente drammatiche ma che, per fortuna, interessano relativamente poche persone (due o tre volte inferiore alla sola trisomia 21, per esempio), mobilitano molto di più la popolazione e raccolgono molti più soldi rispetto ad altrettante terribili malattie, un centinaio o un migliaio di volte più frequenti. Possiamo solo constatare un meritato successo di una efficace attività di lobbying e consigliare a tutte le vittime, di tutte le malattie, di organizzarsi per fare altrettanto. Ma si dimenticherebbe, per esempio, che:
-il potenziale caritativo non è illimitato. Quello che ci donano oggi contro la distrofia muscolare, non lo doneranno domani contro la malaria (2 milioni di decessi ogni anno, quasi tutti in Africa);
-quasi la metà dei fondi raccolti (che sono equivalenti al bilancio annuale di funzionamento di tutta la ricerca medica francese) alimentano innumerevoli laboratori che influenzano fortemente le linee guida. Contribuendo in tal modo alla supremazia finanziaria dell'Associazione francese contro la distrofia muscolare (l'AFM che raccoglie e ridistribuisce a suo piacimento i fondi raccolti), sarebbe anche e soprattutto impedire ai ricercatori (statutari per la maggior parte, e quindi pagati dallo Stato, ma anche laureati e, soprattutto, studenti, sicuramente raccomandati, post-dottorato che vivono sul finanziamento della AFM) di contribuire alla lotta contro altre malattie, e/o di aprire nuove strade;
-non è sufficiente disporre di mezzi finanziari per guarire tutte le patologie. Lasciar credere a questo strapotere della medicina, come lo fa il Telethon è indurre in errore i pazienti e le loro famiglie;
-dopo venti anni di promesse, la terapia genica, non sembra essere la buona strategia per curare la maggior parte delle malattie genetiche;
-quando delle somme così importanti sono raccolte, e portano a tali conseguenze, il loro utilizzo dovrebbe essere deciso da un comitato scientifico e sociale che non sia sottomesso all'organismo che le colletta.
Ma anche, come non domandarsi sul contenuto di una "magica" operazione in cui le persone, illuminate dalla fede scientifica, corrono fino ad esaurimento o fanno nuotare i loro cani nella piscina comunale ... per "vincere la miopatia"? Alla fine della tecnoscienza, spuntano gli oracoli e i sacrifici di un tempo che credevamo finito ... " In conclusione: non fate dei doni al Telethon! Di Olivier Bonnet
Intervista a Alberto Mondini, autore de "Kankropoli" di Marcello Pamio su “Disinformazione”.
D: Gentile Alberto Mondini racconti brevemente a tutti i lettori la sua disavventura legale, partendo però dalla sua Associazione per la Ricerca e Prevenzione dal Cancro. Cos'è, e soprattutto qual è il fine dell'ARPC?
R: L'ARPC è un'associazione no-profit fondata e regolarmente registrata il 20-2-1992. Nel suo statuto gli scopi sono così enunciati: "Effettuare la ricerca, la diffusione, la promozione e la pratica di conoscenze e tecniche non-mediche atte alla conservazione o ripristino della salute fisica e mentale, cioè di quelle conoscenze e tecniche che attualmente non vengono insegnate nei corsi di laurea in medicina e nei corsi di specializzazione universitari. Occuparsi principalmente della prevenzione e guarigione dei tumori". In quanto alla mia ultima disavventura giudiziaria, il racconto può essere molto breve. Il 7 marzo 2002, a causa di alcuni energumeni che erano entrati negli uffici dell'ARPC (io non ero presente), viene chiesto l'intervento dei carabinieri. Due agenti arrivano dopo pochi minuti e, invece di identificare ed allontanare i violenti, mettono i sigilli alla porta dei locali per sequestro e mandano la pratica alla magistratura, che convalida il provvedimento. Accusa: associazione a delinquere finalizzata alla truffa. A questo punto io mi son trovato a dover pagare migliaia di euro al mese senza poter procedere alla consueta raccolta fondi; in caso contrario avrei potuto subire un arresto cautelativo per reiterazione del reato. A fine gennaio scorso (dopo 11 mesi!) le accuse vengono archiviate, in quanto non è stato trovato alcun elemento che possa sostenerle.
D: Il suo libro "Kankropoli", che personalmente trovo eccezionale, ha praticamente scatenato e lanciato all'opinione pubblica il caso Di Bella. Oggi sappiamo come il professore modenese e il suo "pericoloso Metodo" sono stati boicottati in tutte le maniere: farmaci scaduti, pazienti allo stadio terminale, protocolli bloccati dopo pochi mesi, ecc. Lei pensa che il problema giuridico che ha avuto lei e l'Associazione ARPC sia in qualche maniera riconducibile al libro?
O più precisamente riconducibile a Di Bella?
R: Sono e sono sempre stato un "tipo scomodo", come mi ha definito un giornalista della Stampa. Purtroppo ho sempre cercato di ragionare con la mia testa e di sentire cosa suggeriva la mia coscienza, e non mi sono mai fatto inquadrare; questo non piace alle istituzioni e alle varie lobbies. L'ARPC e Kankropoli sono state due prese di posizione, forse le mie più forti, che non sono "piaciute" in particolar modo e che, quindi, hanno attirato gli attacchi. Il ruolo che Kankropoli ha avuto nel far scoppiare il caso Di Bella è certo un'aggravante. Io sono classificato tra gli "amici di Di Bella" (v. il libro su Di Bella degli Editori Riuniti).
D: Se non è così quali sarebbero le vere motivazioni, se ce ne sono naturalmente, che hanno fatto partire l'azione giudiziaria con tutto quello che ne consegue? Dava fastidio a qualcuno, a qualche organizzazione medica?
R: Certo che dò fastidio alla lobby medico-farmaceutica! So che nell'ambiente del potere medico Kankropoli è ben conosciuto e viene sussurrato in segreto. In pubblico non ammetterebbero mai di conoscerlo. La loro prima regola su questi argomenti è: "Non parliamone, ignoriamolo e facciamo in modo che tutti lo ignorino".
D: Il cancro è una malattia molto, molto redditizia. Questa cinica affermazione è inconfutabile: dietro i tumori si nascondono interessi economici enormi. Secondo lei, perché la medicina ufficiale non vuole, e fa di tutto per impedire che vengano alla luce, questi rimedi alternativi? Semplicemente perché sarebbero controproducenti per le casse, oppure perché la salute delle persone viene prima di tutto, e pertanto vogliono garantire la sicurezza nella cura?
R: Perché sarebbero controproducenti per le casse. Questa affermazione è assolutamente vera, ma non è completa. Ci sono anche fortissimi interessi personali di potere e di prestigio, oltre che economici, nel campo universitario e della ricerca. Ci sono delle persone, in questi ambienti, la cui cialtroneria sconfina spesso con un comportamento criminale. Spesso possiedono un quoziente d'intelligenza mediocre e una competenza dilettantistica. La ricerca è un pozzo senza fondo in cui vengono gettati milioni di euro in quantità senza che, per legge, sia minimamente richiesto alcun risultato concreto. Questa è una logica da manicomio, dal mio punto di vista; ma da parte dei ricercatori è una pacchia, è l'albero della cuccagna, è il paese dei balocchi! Pensate un po': "ti dò dei soldi, ma se non produci niente, non ti preoccupare: il prossimo anno te ne darò ancora". Anzi, meno si "scopre", più fondi vengono assegnati; perché ciò vuol dire che il problema è molto difficile, ci vogliono più mezzi, ecc, ecc, ecc.....
D: E' d'accordo con quei ricercatori sempre più numerosi che propongono alla medicina allopatica di cambiare totalmente strada nella cura del cancro, comprendendo che il cancro non è un virus e neppure un agente eziologico esterno, ma un qualcosa che nasce e cresce dentro, qualcosa di nostro?
R: Sono d'accordo che la medicina deve cambiare totalmente strada. Se però si intende "qualcosa di nostro" come qualcosa che ha a che fare con le ricerche sul genoma, direi che siamo ancora fuori strada. Il grande tradimento della medicina è cominciato quando i medici hanno iniziato a considerare l'uomo come un corpo, invece che uno spirito che abita un corpo. Da lì gli errori sono venuti a valanga.
D: Non è assolutamente vero che il cancro è stato sconfitto! Eppure i "luminari" della scienza medica durante le interviste si accaparrano arrogantemente il diritto di affermare ciò. La verità è che moltissime persone muoiono e stanno morendo di questo male, tantissime di loro seguiranno fiduciose le pratiche terapeutiche chimicamente devastanti della medicina ufficiale, altri imboccheranno strade alternative. Vi saranno risultati positivi e nefasti da entrambe le parti, come lo spiega? Destino, fatalità o forse non è importante in sé quale rimedio si scelga, ma semmai come lo si fa: in una parola l'atteggiamento?
R: Direi che la cosa più importante è trovare un naturopata competente.
D: Adesso Mondini, cosa ha intenzione di fare, ora che la giustizia ha fatto il suo corso? Continuerà a portare avanti l'associazione o mollerà tutto?
R: Ora devo rimettere a posto la mia vita dopo la bufera. Dato che devo ancora pagare 25.000 euro di debiti dell'ARPC, causati delle indagini giudiziarie, e dato che non vivo di rendita, dovrò darmi da fare. Per il momento continuo a dare assistenza ai pazienti che si rivolgono a me; cercherò poi (a piè pagina trovate già una prima iniziativa) di ricostruire l'ARPC con una struttura più "leggera"; inoltre sto cercando di riunire molte associazioni italiane in unico movimento anti farmaceutico e anti psichiatrico e, forse, in un partito politico: l'inizio è già piuttosto promettente.
L'eretico che lanciò il caso Di Bella "Ecco tutti i segreti di Kankropoli". Alberto Mondini è un naturopata. Si batte da anni contro la mafia del cancro; andando in cerca di medici che la pensano come lui. È stato indagato, ma poi lo stesso Pm ha chiesto l’archiviazione per insussistenza dei reati, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 05/10/2008, su "Il Giornale". Alberto Mondini sa di essere un eretico e non fa nulla per nasconderlo. «Se lei chiede in giro informazioni sul mio conto, i medici le diranno che da giovane ero dedito alla meditazione yoga, che ho fatto il croupier, che ho avuto tre mogli, che una di loro era una cantante di musica leggera. Tutto vero, o quasi. Solo che al Casinò di Venezia, un posto orribile, ho lavorato dal ’71 all’81 e quella attuale è la mia seconda moglie. Ma a loro torna comodo farmi passare per un personaggio losco o ridicolo, che adesso gioca alla roulette con le vite degli altri. Le diranno anche che a Torino sono stato indagato per truffa aggravata e associazione a delinquere. Vero anche questo. La mia colpa? Ero entrato in competizione con le varie leghe e associazioni contro i tumori, una delle quali in un anno raccoglieva offerte per 10 miliardi di lire e destinava alla ricerca appena 810 milioni, tanto che l’allora sottosegretario alla Sanità, Publio Fiori, si rifiutò di firmarne il bilancio. Però ometteranno di aggiungere che fu lo stesso pubblico ministero a chiedere e ottenere l’archiviazione per insussistenza dei reati». Da quel giorno gira col certificato penale in tasca; sopra c’è scritto che al casellario giudiziale risulta questo a suo carico: «Nulla». Mondini, 61 anni, naturopata veneziano, è diventato un eretico da quando ha fondato l’Arpc (Associazione per la ricerca e la prevenzione del cancro) e ha pubblicato il libro Kankropoli, sottotitolo La mafia del cancro, presentato in copertina come «il dossier che ha fatto esplodere il caso Di Bella». Nel capoluogo piemontese aveva aperto un ambulatorio gratuito con un medico che consigliava ai pazienti come curarsi secondo natura, «si trovava allo 0 di via Vespucci». Un numero civico vero, esistente, eppure talmente assurdo da sembrare immaginario, proprio come le teorie scientifiche propugnate da Mondini, che richiederebbero alla medicina di ripartire da zero per poter essere accolte: «L’origine del cancro non è genetica. La cellula non ha niente a che vedere con i tumori. Il cancro è provocato dalla candida, un fungo. Dieci milioni di morti per tumore all’anno nel mondo dimostrano il totale fallimento dell’oncologia. Gli errori medici, sommati ai farmaci somministrati correttamente, rappresentano col 7,58% la terza causa di decesso negli Usa e più o meno in tutti i Paesi occidentali, subito dopo le malattie cardiovascolari (47%) e il cancro (22,11%) e prima di fumo, alcolismo, incidenti stradali, suicidi, assassini. La chemioterapia non guarisce, anzi è un genocidio. Idem la radioterapia. I medici hanno piegato la conoscenza al servizio di un business colossale controllato da grandi multinazionali che dipendono dai Rockefeller negli Stati Uniti e dai Rothschild in Europa. Dieci anni fa il cancro nella sola Italia era un affare da 80.000 miliardi di lire, calcolati per difetto, di cui la metà, 40.000 miliardi, per farmaci chemioterapici». Sono teorie che Mondini non ha formulato in proprio bensì andando a trovare uno per uno una dozzina di eretici come lui. Ha soppesato le ricerche, ha vagliato i risultati, ha acquisito le cartelle cliniche, s’è mantenuto in contatto con loro per anni. Ne è uscito un altro libro, Il tradimento della medicina. Il primo medico che avvicinò fu il dottor Aldo Alessiani, ex primario plurispecialista di Roma, oggi defunto. «Era partito da un’intuizione: visto che l’incidenza dei tumori andava di pari passo con l’aumento della statura media della popolazione, poteva trattarsi di una malattia da carenza. Immagini l’uomo come un fiore: tolto dal suo habitat naturale, cresce più forte e più alto ma perde il suo profumo. Bisognava cercare il rimedio nel terreno, in profondità. L’occasione di sperimentare si presentò quando la moglie fu colpita da un cancro all’utero, che aveva presto invaso il retto, l’intestino e il peritoneo. L’addome era aumentato a dismisura, la signora sembrava incinta di otto mesi. Il professor Ercole Brunetti tentò di operarla nel luglio 1991 presso la clinica Santa Rita da Cascia: come si suol dire, la aprì e la richiuse. Niente da fare. Ma Alessiani non si arrese e di nascosto preparò una soluzione, disciogliendo in acqua dei particolari terricci, e la somministrò alla moglie. In 21 giorni la signora Alessiani lasciò la clinica, anziché nella bara, sulle sue gambe e partì per una vacanza. Guarita. Il marito fu convocato da un magistrato che gli disse: “Mi creda, ho avuto questo incarico da molto in alto. Si ricordi che l’Italia è piena di falsi incidenti d’auto”. Nell’estate 1993 il dottor Alessiani subì un incidente stradale molto strano, che aveva tutte le caratteristiche dell’avvertimento criminale».
Lei è un esperto di medicina naturale, non un medico. Che titolo ha per parlare di tumori?
«Caspita! Sono un potenziale paziente».
Che cosa le fa credere che all’origine del cancro vi sia la candida?
«Dieci anni di ricerche. Dove non c’è il fungo, non c’è tumore. L’errore di base dell’oncologia è stato attribuire un’origine genetica al cancro. Quella della cellula che a un certo punto impazzisce e si riproduce all’infinito è un’ipotesi finora indimostrata. In realtà le cellule cancerose non sono altro che l’estrema difesa dell’organismo contro il fungo: il corpo le crea affinché il fungo attecchisca solo lì e non vada a intaccare gli organi vitali. Quindi non ha senso accanirsi contro di esse. È solo eradicando la candida che scompare il tumore».
Chi lo afferma?
«Il dottor Tullio Simoncini, oncologo e diabetologo romano, secondo il quale la candida albicans è sempre presente nei malati neoplastici, può produrre metastasi, ha un patrimonio genetico sovrapponibile a quello dei tumori, riesce a invadere tessuti e organi d’ogni tipo, dimostra un’aggressività e un’adattabilità illimitate».
Ma Simoncini non è lo studioso che cura il cancro col bicarbonato di sodio?
«Esatto. L’antifungino più attivo. È con quello che le mamme hanno sempre eliminato il mughetto dalla bocca dei figli. Simoncini lo provò su una zia e la guarì da un tumore allo stomaco con un cucchiaino di bicarbonato mattina e sera. Ma il sale dell’acido carbonico deve arrivare a contatto diretto col tumore, quindi è necessario posizionare nel paziente piccoli cateteri endocavitari o endoarteriosi. Ed è il motivo per cui contro i tumori delle ossa può fare ben poco, essendo irrorati da minuscole arterie che non consentono una sufficiente diffusione del bicarbonato».
Simoncini è stato radiato dall’Albo dei medici o ricordo male?
«Ricorda bene. Però dovrebbe anche ricordare che l’Ordine non ha tenuto in alcun conto la legge numero 94 dell’8 aprile 1998. La quale stabilisce che il medico, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente, può impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di utilizzazione diverse da quelle autorizzate, purché “tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale”. Il dottor Simoncini ha dalla sua 31 studi internazionali relativi al potere antiacido del bicarbonato di sodio nei tumori».
Lei ha visto debellare il cancro col bicarbonato?
«La mia regola è questa: mostratemi tre casi di tumori guariti, documentati da Tac eseguite prima e dopo una cura, e io divento paladino di quella cura. Nel caso di Simoncini ho esaminato dieci cartelle cliniche. E ho constatato che i tumori sotto i 3 centimetri spariscono in dieci giorni. Nel cancro al seno non infiltrato la probabilità di guarigione è del 99%, al fegato dell’80%, al polmone del 60%».
Simoncini guarisce la maggior parte dei pazienti? Un po’ dura da credere.
«Sicuramente nei malati già trattati con la chemio la percentuale di successo è meno alta. Ma se venisse un tumore a me, andrei subito da lui. Prima di farsi devastare il corpo dalla chemio, perché non provare una terapia che non ha effetti collaterali negativi? All’oncologo romano non perdonano d’aver individuato un principio attivo che nei supermercati costa 80 centesimi di euro al chilo. Per un paziente trattato con i chemioterapici lo Stato spende mediamente 100.000 euro. Moltiplichi per i 250.000 nuovi casi di tumore che si registrano ogni anno in Italia e capirà il vero motivo per cui la cura Simoncini viene osteggiata».
Lei scrive: «Ciò che ho scoperto in questi anni è un’incredibile, allucinante realtà che ha superato ogni mia previsione, congettura, sospetto o fantasia». Sa di cospirazione planetaria.
«Cospirazione? No, è marketing. Per l’industria farmaceutica si tratta solo di vendere di più. Il fatto è che la chemioterapia non funziona. Quando proclamano che 50 malati di cancro su 100 guariscono, significa che 50 muoiono entro 5 anni dalla scoperta del male e gli altri poco dopo. Se un malato muore dopo 5 anni e un giorno, per loro è un morto guarito».
Non può negare che già nel 2002 la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi per tutti i tipi di tumore, esclusi quelli della cute, era del 45,7% per gli uomini e del 57,5% per le donne, con una punta dell’83% per il cancro al seno.
«Come lei dice, in oncologia non esistono statistiche di guarigione, solo di sopravvivenza a 5 anni. Una volta fornivano anche quelle a 10 e 15 anni. Ora non le presentano più, si vergognano. Lei provi a cercarle: non le troverà. La sopravvivenza media calcolata a 5 anni su tutti i tumori certi e maligni è del 7%».
Come fa a dirlo?
«Sono gli stessi oncologi a dirlo, ma solo sui manuali destinati agli studenti universitari. Ci sono tumori a lungo decorso o addirittura semibenigni, tipo quelli delle ghiandole, i baseliomi, i liposarcomi, che vengono inseriti nelle statistiche per edulcorarle. Anche le esasperate campagne di diagnosi precoce del tumore al seno servono allo scopo: dimostrare la sopravvivenza oltre i fatidici 5 anni. Ma per i tumori maligni basti un solo esempio: su 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi, la vita media di quelli trattati con chemioterapia completa è stata di 75 giorni, mentre quelli che non hanno ricevuto alcun trattamento sono sopravvissuti in media per 220 giorni. Cinque mesi di più. Non lo dico io: lo ha scritto The Lancet, il vangelo dei medici, nel dicembre 1975. E da allora non è che sia cambiato molto».
Il metodo Di Bella fu sperimentato dieci anni fa negli ospedali italiani sotto la supervisione del ministero della Sanità. Non pare che abbia dato gli esiti sperati. Nel maggio scorso lo ha bocciato persino la Cassazione.
«Quando seppi che il professor Luigi Di Bella aveva accettato la sperimentazione offertagli dal ministro Rosy Bindi, pensai: ecco, s’è fatto fregare. Le pare serio che il test sia stato affidato a oncologi che si erano pubblicamente dichiarati contrari alla multiterapia? Per onestà avrebbero dovuto astenersi».
L’oncologo Umberto Tirelli sollevò un interrogativo non da poco: «Se le cure convenzionali non sono valide, allora perché anche Di Bella le usa?». Il professor Tirelli era entrato in possesso di fotocopie di prescrizioni del medico siculo-modenese nelle quali figurava la ciclofosfamide, che viene utilizzata abitualmente in chemioterapia contro alcuni linfomi.
«Rimproverai il professor Di Bella, per questo. Mi rispose mogio mogio: “Non sarebbe necessaria, ma in piccole dosi serve per accelerare la cura...”. Assurdo. Com’è possibile avvelenare un paziente con la pretesa di guarirlo? L’Istituto superiore di sanità è stato costretto a pubblicare uno studio sui pericoli mortali cui sono esposti medici e infermieri che maneggiano i chemioterapici antiblastici. S’intitola Rischi per la riproduzione e strategie per la prevenzione. Esso documenta come tutti i 42 principi attivi più usati negli ospedali italiani contro il cancro siano cancerogeni riconosciuti o possibili cancerogeni o probabili cancerogeni. Bella contraddizione, no? Non basta: la maggior parte sono anche teratogeni, mutageni, abortivi, vescicanti, irritanti. Tant’è vero che alle infermiere in stato interessante è vietato somministrarli e in Portogallo fin dal 1990 i residui dei farmaci antiblastici vengono inceneriti a 1.000 gradi, insieme con sacche, aghi, cannule, camici, guanti e visiere».
D’accordo, però io stento a immaginare un paziente con un tumore al pancreas che decide di affidarsi al frullato di aloe vera, miele e whisky messo a punto da padre Romano Zago, frate francescano, e consigliato da Alberto Mondini.
«Sempre meno rischioso che sottoporsi a una chemio».
In Kankropoli lei descrive addirittura una «macchina per guarire i tumori solidi, il Gemm», inventata dal turco Seçkiner Görgün.
«Il professor Görgün era un mio caro amico. Purtroppo è morto d’infarto qualche settimana fa in Kosovo. Con le radiofrequenze emesse dal Gemm aveva conseguito risultati strabilianti su un paziente con metastasi ricoverato all’ospedale San Luigi di Orbassano. Ma poi un pretore sequestrò il macchinario, salvo archiviare l’inchiesta con un non luogo a procedere due anni più tardi. Io stesso non avrei accettato le teorie di questo scienziato se non mi avesse esibito una documentazione inoppugnabile. Non era un ciarlatano: aveva lavorato in cliniche, università e istituti di ricerca di varie nazioni, compresa la Galileo Avionica, società di Finmeccanica che opera nel campo della difesa».
Ma lei ha mai fatto curare qualche suo congiunto con queste terapie alternative?
«Mio cognato è in cura in questi giorni col metodo Görgün a Pristina. Invece il mio unico fratello, Luigino, non ha mai voluto saperne. Da buon iscritto al Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, fondato fra gli altri da Piero Angela, s’è fatto operare e irradiare per un tumore al retto. Dopo 90 giorni aveva le metastasi al fegato. Altri 90 giorni ed era morto. Se n’è andato in otto mesi dalla diagnosi».
Non la sfiora l’atroce dubbio d’aver dirottato parecchi pazienti verso una terapia sbagliata?
«Assolutamente no».
Non s’è mai posto la domanda: ma chi me lo fa fare?
«Qualche volta sì».
E che risposta s’è dato?
«Quando conosci la verità, aumenta la responsabilità. Non puoi tenere la verità per te».
BUSINESS NON SOLO SUI TUMORATI.
Scandalo 118, le Iene ricevono centinaia di segnalazioni su finte Onlus in tutta Italia. Il ministro della salute Beatrice Lorenzin chiede alla trasmissione di Italia1 tutta la documentazione per avviare una ispezione su tutto il territorio nazionale. L'ombra della Mafia dietro gli appalti dell'emergenza/urgenza, scrive Angelo Riky Del Vecchio su “Nurse 24” del 17 aprile 2016. Le Iene, la trasmissione d’inchiesta di Italia1, torna a parlare di finte Onlus e dei volontari pagati in nero (Infermieri, autisti e soccorritori a vario titolo), senza contributi, senza ferie e senza malattia. Nella puntata andata in onda poco fa sulla rete Mediaset è stata presa di petto anche il ministro della salute Beatrice Lorenzin che si è detta stupita di quanto scoperto dalle Iene e di essere pronta ad avviare in tutta Italia una indagine conoscitiva per scovare i finti volontari e chi li gestisce. La trasmissione di Italia1, che nei giorni scorsi aveva fatto emergere lo scandalo del 118 nel Lazio, ora torna sull’argomenti parlando di centinaia di segnalazioni piombate in redazione da tutta la nazione e avente come unico filo conduttore lo sfruttamento e il lavoro nero. Denunce alle Iene sono pervenute da tutta Italia: è uno sfruttamento diffuso e le finte Onlus del 118 sono tantissime in tutta la nazione. In pratica, con due servizi televisivi le Iene hanno dimostrato che vi è un sommerso (che poi tanto sommerso non è) dietro al servizio dell’emergenza/urgenza affidato al volontariato: lavoratori pagati con rimborsi spese fino a 1.500 euro al mese e operanti nella completa clandestinità indossando divise e firmando documenti in qualità di volontari. Volontari non lo sono e dietro il loro utilizzo si pensa che ci siano anche organizzazioni malavitose. In tutto lo Stivale è sempre la stessa melma: segnalazioni di sfruttamento sono pervenute dal Lazio, dalla Toscana, dalla Calabria, dalla Sicilia, dalla Liguria, dalla Sardegna, dalla Puglia, dall’Umbria e dal resto delle regioni italiane. Infermieri, autisti e soccorritori vengono pagati in Calabria addirittura 1 euro all’ora per 12 ore continue di attività. Nei casi più fortunati si arriva a 3,5/4,5 euro. Per questo le Iene hanno contattato ed incontrato la Lorenzin per chiederle di intervenire e mettere fine a queste situazioni scandalose che stanno distruggendo il volontariato e mortificando tantissimi neo-laureati in Infermieristica (va ricordato che lo sfruttamento continua ad avvenire sotto gli occhi di tutti e con fondi dello Stato Italiano).
Le Iene denunciano casi di lavoro nero nel 118, legati a finte Onlus, scrive il 18 aprile 2016 Michele Calabrese su “Nurse Times”. Il servizio lungo nove minuti, quello proposto dal programma televisivo in onda su Italia 1 in cui la “Iena” Gaetano Pecoraro parla dei volontari del servizio di soccorso territoriale 118. Una mera logica lucrativa da un lato ed una sinistra assenza di controlli dall’altro. Succede nel Sistema del 118 qualora il servizio venga “consegnato” nelle mani delle associazioni di volontariato: minorenni sulle ambulanze, professionisti sottopagati e/o costretti a turni massacranti, senza sorveglianza tanto garantista della propria incolumità quanto previdenziale. È quanto si evince dal servizio proposto dalle “Iene”. Può suonar strana l’equazione volontariato=contributi per fondo pensionistico. Ma non è così! In talune realtà, in barba ai turni estenuanti e alle logiche di corretta allocazione di personale idoneo al servizio, i “volontari” percepiscono gettoni di presenza, rigorosamente NON TASSSATI, mediante buoni pasto, buoni benzina e quant’altro… Ragionevole il pensiero secondo il quale il volontario che impiega il suo tempo per una associazione non deve rimetterci di spese, ma rimborsare forfettariamente di 5, 10, 30 o addirittura 40, 50 € a turno diviene tutto ampiamente distante dalla logica di una attività filantropica. Welcome nella forma legalizzata di lavoro nero! Al workshop dello scorso Febbraio 2015 sui servizi di Emergenza Territoriale 118 tenutosi presso il Ministero della salute si sosteneva di “garantire il riconoscimento del valore sociale del volontariato. Soprattutto in questa fase di riflessione sul ddl del terzo settore, bisogna dare segnali di garanzia sul sistema di accreditamento, certificazione e controllo del volontariato, per evitare le zone grigie in cui i nuovi soggetti del profit (o peggio ancora di qualche onlus), sfruttino il lavoro nero, abbassando gli standard qualitativi di un servizio “. La stima dei costi per sostenere il sistema del soccorso extra-ospedaliero è stata quantizzata, segnalando che il personale incide dal 75 all’89% sul totale dei costi. A ben vedere l’elevata spesa tenderebbe a lievitare per la mancanza del turnover del personale. Lo studio promosso dalla FIASO e con la collaborazione scientifica dell’Università di Trento, ha avuto come pionieri della ricerca i servizi di emergenza di quattro Regioni: Lazio, Lombardia, Basilicata (il cui sistema non è affidato ad Associazioni di Volontariato) ed Emilia-Romagna, per un totale di oltre 20 milioni di potenziali utenti. Ecco brevemente come funziona il sistema di pagamento del 118: si basa sulla remunerazione dei costi mediante una erogazione prospettica di denaro pubblico (Per gli altri insiemi di prestazioni le modalità di remunerazione attualmente adottate non corrispondono alla regola già definita nel D.Lgs 502/92, riconfermata nel successivo D.Lgs 229/99.). Per intenderci gli elementi caratterizzanti del sistema di pagamento prospettico sono: complessità assistenziale e costo standard. Delegare una associazione no profit alla gestione di mezzi e uomini da dedicare alla assistenza sanitaria extra-ospedaliera 118 non ha nulla di illegale, tant’è vero che la normativa quadro di istituzione del 118 avvenuta con il DPR 27 marzo 1992 prevede che “Le Regioni possono avvalersi del concorso di enti e di associazioni pubbliche e private, […] sulla base di uno schema di convenzione definito dalla Conferenza Stato-Regioni, su proposta del Ministro della Sanità”. Ciò che non quadra è che se la “Legge n. 266/1991 prevede che le Organizzazioni di Volontariato si avvalgano in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti ai quali possono essere soltanto rimborsate le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata. Tale requisito è correlato al mantenimento dell’iscrizione ai registri del volontariato”, come mai chi fornisce la propria attività filantropica percepisce rimborsi esorbitanti (RIGOROSAMENTE NON TASSATI), non ha tutele previdenziali (alcuni operatori lavorano oltre le 8 ore per turno) pur chiare e palesi le molteplicità di scenari ai quali i suddetti vanno incontro? Quanto di etico, morale e giuridicamente rilevante vi è assegnando una risorsa umana su un mezzo di soccorso sanitario senza tutelarne l’incolumità a 360 gradi e speculando sulle prestazioni di chi offre il suo tempo e le sue energie (vuoi per propensione al volontariato, vuoi per un tornaconto economico: disoccupato, cassaintegrato, depositario di salario insufficiente ecc. ecc.)? Nella mappa delle segnalazioni del “sommerso”, due arrivano dalla provincia di Arezzo, una particolarmente specifica. Una persona, finta volontaria, spiega di prestare servizio per 320 ore mensili con una paga da 2,77 euro all’ora. Il servizio delle Iene si chiude con l’inviato Pecoraro che informa delle presunte irregolarità il ministro della Sanità Beatrice Lorenzin. Quanti sono gli infermieri vittime di questa forma di sfruttamento professionale e che vista la contingenza del momento si trovano loro malgrado ad accettare proposte lavorative che hanno superato abbondantemente il limite della legge? Nurse Times si è occupata della problematica denunciando la situazione degli infermieri in partita Iva impiegati dalle cooperative anche nel servizio emergenziale 118 nella regione Lazio, producendo anche una interrogazione regionale che purtroppo non ha avuto un seguito.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un
bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte.
Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un
minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si
depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come
abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su
una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%).
Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono
disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore
inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che:
"Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano
sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John
Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in
questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
GAY E LESBICA SI NASCE.
Lo scienziato americano Simon LeVay: "Vi dimostro che gay si nasce". Omosessuale e attivista del movimento gay, lo studioso afferma che esisterebbe una differenza nella zona dell'ipotalamo in grado di determinare l'orientamento sessuale. E sulla sua teoria ha scritto un volume, ora edito anche in Italia, scrive Elisabetta Ambrosi il 5 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Essere gay o lesbiche non è una scelta, ma una predisposizione biologica sulla quale solo successivamente intervengono fattori socioambientali, culturali ed educativi. Addirittura, esisterebbe una sorta di “gene gay” situato in una zona dell’ipotalamo che determinerebbe in maniera diretta l’orientamento sessuale di uomini e donne. A sostenere la bandiera della biologia nella guerra culturale tra chi afferma che gay si nasce e chi invece crede che gay si diventi (e quindi l’omosessualità sia anche una condizione reversibile, o una patologia da curare) è uno scienziato statunitense, Simon LeVay, omosessuale e attivista del movimento gay. Nel 1991, come racconta nel suo libro Gay, Straight, and the Reason Why. The Science of Sexual Orientation (appena tradotto da Cortina con Gay si nasce, con una prefazione dello psichiatra Vittorio Lingiardi) LeVay pubblicò un breve articolo su Science intitolato “Una differenza nella struttura dell’ipotalamo tra uomini eterosessuali e omosessuali”, prendendo in esame campioni di ipotalamo di uomini e donne deceduti e sottoposti all’autopsia, di cui la metà gay (tutti deceduti per Aids). All’interno di questa regione cerebrale si trova un insieme di cellule nervose della dimensione di un chicco di riso chiamato inah3 e di solito più grande negli uomini che nelle donne. LeVay riscontrò che l’area inah3 era significativamente più piccola negli uomini gay – al pari di quella delle donne – e interpretò questo risultato come un indizio del fatto che i processi biologici di sviluppo del cervello potessero influenzare l’orientamento sessuale maschile. Lo studio suscitò un’enorme attenzione da parte dei media d’oltreoceano. Da allora LeVay ha continuato a sostenere le sue tesi, approfondendo le ricerche sempre da un punto di vista preciso, e diverso – a suo dire – da quello di molti altri studi in parte simili al suo: e cioè che l’omosessualità non è un fattore anomalo da spiegare ma un dato naturale. “Io sono gay e sono felice di esserlo. Certamente ci sono alcune differenze tra noi e il resto dell’umanità: alcune di queste sono insignificanti, altre possono influenzare la vita delle persone in modo interessante. La patologia, comunque, non ha niente a che fare con tutto ciò”. LeVay racconta anche di aver ricevuto, nel corso degli anni, ringraziamenti da persone gay, come “se i dati della mia ricerca confermassero la loro sensazione di essere nati gay; percepivano cioè la mia ricerca come una cosa buona”. Gay, Straight, and the Reason Why. The Science of Sexual Orientation fa il punto su dove sia arrivata la scienza in materia di orientamento sessuale. LeVay lo riassume così: le origini dell’orientamento vanno ricercate nell’interazione tra gli ormoni sessuali e il cervello in via di maturazione. Queste interazioni sono ciò che predispone lo sviluppo della nostra mente verso un certo grado di “mascolinità” o di “femminilità”. Più specificamente, lo sviluppo sessuale è regolato da una sequenza di interazioni, simile a una cascata, tra geni, ormoni sessuali e cellule del corpo e del cervello in sviluppo. Processi che non avvengono in completo isolamento dal mondo esterno, ma interagiscono con i fattori ambientali, sviluppandosi poi in maniera diversa nei diversi individui, portando a differenti orientamenti sessuali. Ma non è solo il cervello delle persone gay ad essere differente (e funzionare in maniera diversa): LeVay cita alcuni studi che sembrano aver individuato piccole differenze anatomiche, come la proporzione degli arti e del tronco. Differenze sottili, ma rilevabili, tra etero e omosessuali sono riscontrabili anche in comportamenti inconsapevoli come lo stile della camminata e le caratteristiche della voce. Ma lo studio contiene molte altre tesi, che confermano l’ipotesi di una predisposizione biologica all’omosessualità. LeVay fa una rassegna dei differenti orientamenti sessuali nella società occidentale contemporanea e nelle diverse culture ed epoche storiche e mostra come le persone eterosessuali, gay o bisessuali siano presenti praticamente in tutte le culture, pur ricordando come i modi di pensare l’orientamento sessuale delle donne e degli uomini influiscano successivamente sui modi in cui si esprime l’omosessualità nelle diverse società. Passa poi in rassegna le teorie non biologiche sull’orientamento sessuale (dalla tradizionale teoria freudiana basata sull’influenza di madri iperprotettive e padri assenti, alle teorie comportamentiste, che definiscono l’orientamento sessuale come l’esito di un apprendimento) dimostrandone l’incapacità di spiegare adeguatamente la diversità dell’orientamento sessuale delle persone. Buona parte del libro è infine impiegata a spiegare empiricamente la tesi della differenza biologica. LeVay si chiede se esistano differenze tra persone gay ed eterosessuali durante l’infanzia e la risposta è positiva. “Sia studi retrospettivi che prospettici che seguono i bambini fino all’età adulta concordano: i bambini che alla fine diventeranno gay sono diversi, atipici e non conformi in un certo numero di tratti rispetto al genere” e il fatto che i bambini pre-gay soprattutto siano non conformi rispetto al genere è “coerente con un modello biologico dell’orientamento sessuale”. LeVay indaga anche il ruolo degli ormoni sessuali nello sviluppo dell’orientamento sessuale, analizzando una serie di esperimenti in cui i ricercatori hanno manipolato artificialmente i livelli di ormoni sessuali di animali durante lo sviluppo, ottenendo un mutamento dell’orientamento sessuale. All’obiezione, infine, su come sia possibile, da un punto di vista biologico, che esistano persone omosessuali, in altre parole come si spieghi la trasmissione di fattori genetici che inducono un comportamento che può ridurre il successo riproduttivo dei loro portatori, LeVay e altri studiosi rispondono che questo sarebbe compensato da un aumento della fertilità delle femmine lungo la via materna. In sostanza, la maggior fecondità delle nonne e delle zie materne di maschi omosessuali bilancerebbe la trasmissione del “gene gay”. Secondo il curatore, Vittorio Lingiardi, Gay, Straight, and the Reason Why. The Science of Sexual Orientation è “un avvincente tour de force nei campi della biologia, della genetica, dell’endocrinologia, della psicologia evolutiva, della psicologia evoluzionistica”, con il quale LeVay “tenta di riunire le varie linee di ricerca in una teoria coerente dell’orientamento sessuale, in contrasto con le credenze tradizionali che hanno ascritto l’omosessualità a dinamiche familiari, apprendimenti, esperienze sessuali precoci o libera scelta”. Una teoria che forse è un aiuto contro la discriminazione mai sopita verso gli omosessuali. Non più sodomiti peccatori da sottoporre a pratiche riparative, né uomini e donne segnati da una psicopatologia da stendere sul lettino, e neanche, o meglio non solo, soggetti di diritto ma semplicemente persone che differiscono dalle altre proprio come una persona con i capelli neri è diversa da una con i capelli biondi. Ma attenzione: affermare la forza della biologia non significa rivendicare l’esistenza di una causa-effetto lineare, come lo stesso LeVay ricorda più volte nel corso del suo studio. “Abbiamo a che fare con complessità inesauribili”, conclude Lingiardi, “e la verità è che ancora non sappiamo come esattamente le forze biologiche, la regolazione affettiva nelle relazioni primarie, le identificazioni, i fattori cognitivi, l’uso che il bambino fa della sessualità per risolvere i conflitti dello sviluppo, le pressioni culturali alla conformità e il bisogno di adattamento contribuiscano alla formazione del soggetto e alla sua sessualità”.
Dal web ai seminari, la galassia delle sette che negano l'omosessualità. I gruppi di mutuo-aiuto, gli psicologi cattolici, i centri di ascolto e un’ampia letteratura per capire e «andare oltre i confini dell’identità omosessuale». Convinti degli insegnamenti della Chiesa, i negazionisti si danno da fare per pubblicizzare studi, diffondere storie di ex gay felici e rimedi pseudoscientifici per tutti gli indecisi, scrive Michele Sasso il 7 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Le strade del Signore per «salvarti» dal calvario dell’omosessualità sono infinite. I libri con le teorie riparative dell’americano Joseph Nicolosi, gli psicologi che mettono la fede davanti alla scienza, piccole comunità di mutuo-aiuto per uscire dal tunnel e tutti gli sforzi delle associazioni ultraconservatrici. Intorno ai gruppi di apostolato cattolico di Courage e degli altri fanatici come Narth, Exodus e Living Waters che pensano di curare l’omosessualità come una devianza è sorta un’ampia produzione letteraria, gruppi che si auto-convincono della bontà di teorie fuori dal tempo e dalla logica fino ad una rete di sacerdoti coraggiosi formati ad arte per rispondere alle domande imbarazzanti di chi sente attrazione per lo stesso sesso. Come combattenti moderni per la fede sul Web vengono agganciati e indottrinati (dove si trovano anche gruppi facebook di ex gay felici&convertiti) e poi trasformati in consumatori di libri, corsi e sedute ed entusiasti organizzatori del family day a Roma. Nel solco dell’insegnamento del Vaticano che impone il principio che “l’omosessualità è disordine”, quale cura migliore delle preghiere? I sostenitori delle terapie riparative e dei gruppi apostolici considerano l’identità sessuale come obbligatoriamente monolitica in cui uomini e donne sono in una relazione rigidamente eterosessuale. Come un dogma difendono l’idea che l’omosessualità sia una malattia, un arresto dello sviluppo sessuale e soprattutto un fallimento nel processo di identificazione con il proprio genere. Forti di queste convinzioni propongono trattamenti volti a cambiare l’orientamento da omo ad eterosessuale. Come? La “somministrazione” è un mix multiforme e si basa sulla terapia psicanalitica, biblioterapia, psicoterapia di gruppo fino alla terapia del sogno. Considerano fondamentale nella “cura” l’iniziazione alla mascolinità, il superamento del “falso io”, la ricomposizione del rapporto con il padre, il recupero della competizione e rapporti maschili non sessuali. Anche la castità e la preghiera sono utili alla buona riuscita della terapia. Risultati zero, ma lo sforzo di preghiere a cure fai-da-te che non funzionando ripetono sistematicamente il copione del “malato”, creando sofferenza e disagio e la convinzione di una capacità di amare "rotta", come racconta lo psicoterapeuta Federico Ferrari. Dannose e condannate dalla comunità scientifica, il lavoro di questi terapeuti non è mai pubblico e visibile e chi si cimenta lo fa con una azione multidisciplinare formata da professionisti del campo medico, filosofico e da sacerdoti, rifiutando però il confronto con altri psicologi e psichiatri. I gruppi non parlano mai esplicitamente di “cura” e “terapia” ma usano forme metaforiche come “rifioritura” o “nuovi percorsi”. La mission è praticamente impossibile: «andare oltre i confini dell’identità omosessuale verso una più completa unione in Cristo. Questa è una certezza che trova fondamento nella nostra stessa fede». L’indicazione non si presta a fraintendimenti: «Psicoterapeuti in Italia, uscire dall’omosessualità». E poi ecco l’elenco di chi può essere d’aiuto per abbandonare la propria identità "deviata". In cima il guru americano Joseph Nicolosi, fondatore dell’associazione Narth e delle deliranti teorie riparative per i gay infelici e sofferenti di questa loro condizione. Ha scritto diversi libri, tutti tradotti in italiano da Sugarco e San Paolo Edizioni: “Omosessualità maschile: un nuovo approccio”, “Manuale pratico di riorientamento”, “Oltre l'omosessualità. Ascolto terapeutico e trasformazione” e “Una guida per i genitori”. Tutti pubblicazioni tese a un unico scopo: «Non devi essere gay», spiega Nicolosi dal suo sito. «Se gay non descrive la tua vera identità noi possiamo aiutarti». Riducendo, cancellando, comportamenti e desideri omosessuali e parallelamente sviluppando il potenziale eterosessuale insito in ogni individuo. Se non basta dalla California conduce sessioni via telefono o via Skype. C’è poi il Gruppo Lot, un’organizzazione di ispirazione cattolica che organizza non solo incontri di preghiera e di riflessione, ma anche uscite collettive. Lot è il nome dell’uomo che scappò da Sodoma e Gomorra prima che Dio le distruggesse. Il seminario di "guarigione e liberazione interiore" costa 185 euro prevede cinque giorni di messe, canti, invocazioni dello spirito santo, confessioni, meditazioni con la luce spenta e lezioni. Organizzato da Luca Di Tolve (ex attivista dell’Arcigay e protagonista della canzone di Povia “Luca era gay”) l’incontro a porte chiuse è stato raccontato da Repubblica lo scorso giugno. Nell’elenco anche professionisti e sigle come Agapo Pro Life, Alleanza cattolica movimento europeo per la difesa della vita e della dignità umana, Famiglia domani confederazione italiana dei centri per la regolazione naturale della fertilità, Medici cattolici di Brescia, Associazione Obiettivo Chaire e Scienza&Vita. Tutte onlus di ispirazione religiosa che si affidano agli insegnamenti delle sacre scritture e alla potenza “trasformatrice” della preghiera. Confondendo la fede con la militanza e mischiando la professione con la politica attiva, hanno scritto a Renzi contro il disegno di legge Cirinnà (che dovrà regolare le unioni civili anche per persone dello stesso sesso) e si sono prodigati per portare un milione e mezzo di persone lo scorso giugno al family day romano. La galassia negazionista degli impulsi sessuali non pone limiti alla diffusione delle proprie idee che sfidano la logica e la scienza. Via facebook il proselitismo si mette in moto con “Ex gay world”, storie di persone che hanno cambiato il loro stile di vita e sono felici. L’equivalente italiano è diffuso da “Chiara Luca Alessio Eva”, community che diffonde il verbo con particolare attenzioni alle donne lesbiche. Per chi non vuole esporsi di persona ecco la linea di ascolto “Amico segreto” con tanto di numero verde. Un servizio «che si rivolge principalmente a giovani dall’orientamento sessuale incerto, così come ai loro familiari». Il counseling è nato grazie ad Agapo, Associazione genitori e amici di persone omosessuali e del consultorio familiare Genitori oggi che a Milano gode dell’accreditamento dell’Asl e della Regione Lombardia. Tutto sbilanciato da una parte ecco le domande che si fanno ad Agapo: «Perché i poteri forti del capitalismo transatlantico impongono la cultura gay e gender?». Ancora più spinoso il tema da trattare nel confessionale. Come rispondono i sacerdoti quando si trovano ad affrontare il tema dell’omosessualità? “Accettati per ciò che sei e trovati un amante fisso” oppure “Va tutto bene se si è in una relazione stabile”. Altri direbbero: “Sposati, stare con una persona del sesso opposto ti curerà”. Ad alcuni penitenti è stato anche detto: “Vattene dal mio confessionale”, mentre altri preti hanno alzato le braccia e detto: “Non so cosa dirti a riguardo”. Altri ancora indirizzerebbero le persone verso gruppi di “spiritualità gay e lesbica”, scarsamente preoccupati del fatto che la spiritualità e la moralità insegnata in questi gruppi sia o meno autenticamente cattolica. Per tutte queste imbarazzanti domande (raccolte nei forum degli integralisti) le risposte arrivano da “Sacerdoti coraggiosi”, una rete per aiutare le persone che si sentono combattute tra omosessualità, amore di Cristo e insegnamenti della Chiesa cattolica. La soluzione non accetta compromessi, abbracciando le idee di San Tommaso D’Aquino che scagliandosi contro la sodomia propone un’unica soluzione: «La castità, per non cadere nel peccato».
Io, per un giorno con la setta di chi vuole "guarire" gli omosessuali in Italia. Un nostro cronista ha partecipato in incognito ad un appuntamento di Courage, l’organizzazione apostolica della Chiesa Cattolica che pretende di curare i gay. Ecco come agisce: in un mix di fanatismo, auto-punizione e tecniche mutuate dai gruppi di alcolisti, scrive Michele Sasso il 7 dicembre 2015 su “L’Espresso”. «Il mio nome è Michele e sono una persona con attrazione per lo stesso sesso». La formula d’ingresso recitata come un mantra è quella usata alle sedute di "Courage", una rete internazionale di apostolato cattolico per curare l’omosessualità ed essere un buon cristiano. I gruppi sono nati nel 1980 a New York su spinta del cardinale Terence Cooke e riuniscono gay e lesbiche con un unico scopo: incoraggiare i suoi membri all’astensione dal sesso e «vivere una vita casta secondo gli insegnamenti della Chiesa cattolica». Dagli Stati Uniti la diffusione è stata immediata: Canada, Gran Bretagna, Sud America, Filippine e Vietnam. Oggi conta un network di 125 squadre di Dio in quindici paesi. Sbarcando anche in Italia. Si ritrovano a Roma, Torino e Reggio Emilia (presto anche a Milano dove il cardinale Angelo Scola ha lodato l’iniziativa) con un format di «dodici passi per il recupero», copiato dagli alcolisti anonimi. Circoli di pochi, convinti ultracattolici che con la guida di un prete messo a disposizione dalla Curia si convincono che possono “guarire” e tornare eterosessuali. Sfidando il buonsenso e facendo leva sul proprio credo, i partecipanti si sottomettono con pignoleria alle indicazioni della congregazione per la dottrina della fede: «Come accade per ogni altro disordine morale, l'attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio». Queste parole sono tratte dalla lettera sulla cura pastorale vergata da Joseph Ratzinger nel 1986, quando il futuro papa era il gran capo dell’istituto nato nel 1542 per vigilare sulle spinose questioni della morale e del credo i difendere la Chiesa dalle eresie. Dopo quasi cinquecento anni nessun passo in avanti, nonostante l’apertura di Jorge Bergoglio che al primo viaggio ufficiale da pontefice ha spiegato: «Se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Il catechismo dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte». Dietro l’astensione forzata e le “teorie riparative” per curare l’omosessualità non c’è nessun fondamento scientifico né tantomeno psicologico, ma una sorte di sindrome di Stoccolma che affonda le sue radici nella teologia e affascina le gerarchie cattoliche. Dagli anni Novanta hanno preso piede associazioni come Courage, Narth, Exodus, o l’europea Living Waters. Si danno da fare organizzando conferenze, offrendo consulenze, sedute psicoterapeutiche e seminari. Non è solo un fenomeno pittoresco americano. Fedeli, fedelissimi che con la forza di Cristo hanno la presunzione di guarire ogni male vero o presunto. Per confrontarsi e fare proselitismo si sono ritrovati a Roma all’Università Pontificia San Tommaso. Ospiti d’eccezione due cardinali ultraconservatori: il guineano Robert Sarah (membro della congregazione per il culto divino) che alla vigilia del Sinodo sulla famiglia ha attaccato le aperture di Francesco con queste parole: «Le unioni omosessuali sono un regresso di civiltà». Seduto accanto a lui l’australiano George Pell, capo della nuova segreteria economica per dare trasparenza ai conti del Vaticano e finito nello scandalo Vatileaks con l’accusa di di aver speso mezzo milione di euro in sei mesi in voli business class e vestiti su misura. Insieme ai due big porporati c'è monsignor Livio Melina, ciellino di ferro, teologo e guida di uno dei più autorevoli think tank vaticani, l’istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia. Ad ascoltarli in prima fila i seguaci italiani di Courage. Nella Penisola non operano vere e proprie filiali ma piccoli gruppi, legati alla Curia che approva e mette a disposizione una guida spirituale. Un leader diffonde il verbo attraverso blog, media cattolici o il passaparola. Si ritrovano ogni quindici giorni e formano delle piccole comunità. Per entrare in uno di questi gruppi è stato sufficiente aprire un account di posta elettronica, inviare qualche mail, andare a Roma al seminario dell’università Pontificia San Tommaso e chiedere di partecipare ad un incontro. A Torino ci ritroviamo il 17 ottobre. È sabato sera e i dieci componenti arrivano da tutto il Piemonte, la Liguria ed anche Milano. L’appuntamento è all’istituto Maria Ausiliatrice, non lontano da Porta Palazzo, dove Don Bosco fondò il primo gruppo dei salesiani. Prima di entrare mi tocca un colloquio di un’ora con il giovane coordinatore che mi svela la sua ricerca della felicità: «Solo quando mi sono svegliato una mattina con la pienezza di Dio ho capito che avevo un vuoto: non ero appagato dal mio compagno e dalle vita che facevo. Sesso, pornografia mi inquinavano la mente. Così ho deciso di liberarmi dalla “genitalità” dei miei gesti con la conversione alla castità. Ora sono guarito e tra due mesi mi sposerò con la mia fidanzata continuando però a vivere senza fare l’amore». Io, con la mia storia inventata di represso ed ingenuo che solo alla vigilia del matrimonio decido di fare coming out supero “l’esame di ammissione” e posso partecipare alla serata. Il programma prevede la visione del film “Desire of the everlasting hills ”: un documentario-verità di tre cattolici che «cercano di navigare le acque della comprensione, fede e omosessualità». Finita la proiezione ci mettiamo in cerchio. Primo atto: la recita della formula in cui si confessa l’attrazione per lo stesso sesso; poi, spiega il neo-casto, «si riflettere sui comuni motivi che ci hanno condotto qui e su chi ancora lotta dentro e fuori questa stanza». La parola gay è bandita, mi spiegano, si usa solo per indicare la lobby che ci sta dietro. Per me, novizio, il primo compito è quello di leggere i documenti ufficiali di Courage e accettare le preghiere, la cura pastorale, il metodo e gli obiettivi, senza appello né tantomeno critiche: castità, preghiera, fratellanza, sostegno e testimonianza sono le uniche chance di salvezza. Un particolare mi colpisce tra i fogli che mi mettono in mano: «Courage non è un posto per rimorchiare e la riunione è chiusa, riservata e c’è il divieto assoluto di effettuare registrazioni audio e video». Il pericolo è che gli attivisti della comunità Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender) possano intrufolarsi per contestare questa “cura pastorale” degna del Medioevo. O peggio: con la scusa della preghiera cercare compagnia maschile. Devo tenere tutto a mente e appena posso andare in bagno a segnare gli appunti sul taccuino. Iniziano a parlare i presenti: siamo otto uomini e due donne. Dai venticinque ai sessant’anni. C’è chi si sente «disconnesso da Dio» e confuso, chi ha letto tutti i libri di Joseph Nicolosi (lo psicologo americano autore delle deliranti teorie riparative per tornare ad essere etero) ma ancora si sente solo. Le ragazze vorrebbero mettere ordine nella propria vita ma vanno in crisi alla vista di un vecchio amore femminile. Chi partecipa alle sedute naviga a vista tra le onde dell’istinto e degli impulsi sessuali e il porto sicuro della fede. Hanno dubbi e interrogativi giganti che non trovano nessuna risposta. L. ha 52 anni e il suo primo approccio è stato la confessione: «Dopo anni di ammissione di colpa ho collezionato le risposte più varie: chi mi diceva: “Vieni a casa mia e ne parliamo stasera”, oppure “Sposati e non dire nulla” o mi identificavano con il demonio. Poi ho trovato un padre benedettino che mi ha messo davanti ad un aut aut: “Non ti assolvo più se non fai un passo in avanti per essere casto”. Io mi chiedevo da tempo il senso del mio stare al mondo: i miei coetanei si godevano i nipoti io avevo ancora relazioni che mi lasciavano addosso solo disagio». Per lui, come per tanti, la soluzione fai-da-te è arrivata via Web, sposando appieno le teorie di Courage: «Non serve la psichiatria, serve curare le spirito» mi dice ammiccando. A fare la sintesi finale è don Livio, portavoce dell’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia e “consulente” spirituale: «La castità che sperimentiamo ci permette di vivere appieno i rapporti umani. È la forza di questo apostolato che dobbiamo portare nel mondo come una forte testimonianza del nostro successo. Io qui ho imparato l’ascetismo: solo grazie alla sofferenza si può raggiungere la salvezza». Nel solco della dottrina cattolica intende l’uomo unicamente come peccatore. L’unico modo di essere accettato agli occhi del Signore per chi è lesbica, gay, bisessuale o transgender e allo stesso tempo credente. Nessuna indicazione concreta per chi soffre e reprime i propri istinti. Per chi cerca parole di conforto, amore e compagnia. La serata si chiude con una preghiera comune mano nella mano. Le dinamiche sono simili a quelle delle sette. Nei giorni successivi scatta un bombardamento continuo di sms, telefonate e inviti per non mollare il gruppo. La risposta ai chiarimenti richiesti da “l’Espresso” al Pontificio consiglio per la famiglia - che gestisce questi temi e dà il suo ok per avviare i gruppi locali – arriva dal reverendo Andrea Ciucci. Ed è senza appelli: «Non siamo disponibili per questa intervista». Il coming out di monsignor Krzysztof Charamsa è lontano anni luce. Membro della Congregazione per la dottrina della fede, due mesi fa ha fatto una rivelazione choc: «È il momento che la Chiesa apra gli occhi: la soluzione che propone ai gay, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana. Sono orgoglioso di esprimere finalmente la mia identità, libero da disumani pesi psicologici, ingiustificati sensi di colpa, accuse di malattia e di deviazione».
Sette che vogliono curare i gay, lo psicologo: «Fanno danni incredibili. Fino al suicidio». Parla Federico Ferrari, terapeuta e autore del libro che demolisce le terapie per "riparare gli omosessuali", scrive Michele Sasso il 7 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Federico Ferrari è psicoterapeuta e co-fondatore della società di psicoterapia per lo studio delle identità sessuali. Ha scritto un saggio “Curare i gay?” (Cortina Editore), in cui si evidenziano l’inconsistenza, l’inefficacia e la dannosità delle pseudo-terapie che vorrebbero curare l’omosessualità.
Quando sono spuntati i gruppi di apostolato cattolico?
«Dopo la cancellazione dell’omosessualità dai manuali di psicopatologia nel 1973 molte associazioni fondamentaliste si sono sostituite alla scienza nel proporne una “cura”. La cattolica Courage è degli anni Ottanta. Reclamano il diritto di chi soffre per un'indesiderata attrazione per lo stesso sesso condividendo l’idea che sia un peccato e una deviazione dal progetto di Dio, che avrebbe creato tutti eterosessuali».
Perché la “cura” di Courage non ha senso dal punto di vista scientifico?
«Prendono persone sane e le trattano come malate. Promettono di “cambiarle”, ma la cura consiste nell'evitare “le tentazioni”, forzandosi in relazioni eterosessuali, senza poter mai cancellare i desideri verso il proprio sesso. Sono dannose e anche l’ordine degli psicologi le ha condannate».
Come pensa lo psicologo americano Joseph Nicolosi di curare l’omosessualità con le sue terapie riparative?
«L’omosessualità sarebbe un'incompiuta identificazione con il maschile o il femminile causata da una “ferita psichica”, riparando la quale l'individuo tornerebbe a identificarsi pienamente e ad essere eterosessuale. L'omosessualità non esisterebbe in sé, ma solo come deficit. Concepiscono erroneamente come unico scopo della sessualità la procreazione».
Castità e “riparazione” vanno a braccetto?
«Non necessariamente. La castità può essere legata all'idea di un valore positivo dell'astinenza a prescindere dall'orientamento sessuale. Quando invece diventa un modo di reprimere una parte di sé creduta indegna, allora diventa auto-punizione e denigrazione di sé».
Perché le persone ci credono?
«Spesso chi richiede questi interventi parte da un profondo senso di inadeguatezza. Pensa che la sua stessa capacità di amare e desiderare sia “rotta” e di non poter per questo essere amato dalla sua comunità di cui ha bisogno e a cui si affida. Può persino scambiare le tensioni con la propria famiglia che non lo accetta con il “disagio familiare” che questi gruppi dicono sia la causa della sua omosessualità, convincendosi ancor più delle loro teorie».
Che danni producono?
«Un danno prima di tutto esistenziale: tramandano l’invalidazione di persone cresciute già sentendosi sbagliate, spingendole a far dipendere il proprio valore da un'eterosessualità che non arriva mai. Ripetendo costantemente come i loro sentimenti siano segno di devianza, incoraggiandole nella costruzione di un “falso sé”, l'auto-convinzione di essere eterosessuali a prescindere dai sentimenti reali. E poi un danno clinico: un tunnel di perenne disagio dei propri sentimenti che sfocia spesso in sintomi ansioso-depressivi e talvolta nella disperazione che può portare al suicidio».
POVIA: SE CANTASSI "LUCA E’ TORNATO GAY" DIREBBERO CHE HO SCRITTO UNA CANZONE BELLISSIMA. Intervista di Davide Maggio. Con le sue canzoni ha fatto parlare spesso di sè negli ultimi anni. Prima “I bambini fanno oh” poi “Luca era Gay”, passando per “Vorrei avere il becco”, Giuseppe Povia è un cantautore che sa come colpire l’opinione pubblica. In occasione del suo impegno a I Migliori Anni, abbiamo fatto una lunga chiacchierata con lui e ne è uscita fuori l’immagine di un cantautore con le idee chiare, che crede molto nel suo lavoro, consapevole del fatto che le critiche siano parte del gioco. L’importante, dice, è essere intellettualmente onesti.
Stai ricevendo consensi di pubblico a I Migliori Anni. Essere popolare ti lusinga o ti infastidisce perché allontana la tua immagine da quella del cantautore di nicchia?
«Quando hai qualcosa da dire devi essere popolare, perché a più persone arrivi e più puoi aiutare, altrimenti è inutile che fai arte, inutile che fai musica. Ci sono invece personaggi di nicchia che vogliono rimanere nella nicchia… ma se la raccontano. Io guardo fissa la telecamera perché la gente deve riconoscere in me uno che canta delle canzoni che possono aiutare a vivere meglio. La musica può cambiare tantissime cose. I bambini fanno oh ha aiutato dei bambini a uscire dal coma».
In Italia esistono dei cantautori di serie A e di serie B?
«Sono gli addetti ai lavori che ti accreditano o screditano. Ogni artista ha un consenso da una parte e poco consenso dall’altra. Io, per esempio, vengo attaccato da varie fazioni per le tematiche che tocco, da altre invece vengo acclamato. E’ chiaro però che mi sento cantautore a 360 gradi e non posso parlare solo d’amore. De Gregori fu attaccato dalla critica velatamente perché lo accusarono di aver offeso le persone obese con La Donna Cannone, oppure De Andrè fu criticato perché istigava alla prostituzione con Bocca di Rosa. Non mi sto paragonando a loro, dico solo che la strada che seguo nella musica è quella del cantautore. Se scrivo “Luca era gay” o “La verità”, ispirata alla storia di Eluana Englaro, ci sono dei motivi che vanno oltre la furbizia per far parlare di me. Ma poi chi non è furbo in questo ambiente? (ride) E meglio esserlo su argomenti intellettualmente onesti che per le movenze o per i vestiti».
Conosci Pierdavide Carone?
«Si, l’ho sentito a Sanremo dove ha portato un pezzo che mi piaceva con Dalla e poi ha cantato “Di Notte”, una canzone che andava su parecchie radio. So che è un autore giovane e gli autori giovani servono in Italia. E poi è uno dei pochi che scrive pure per gli altri e non solo per sé».
Il tuo rapporto con i talent, dunque?
«Non ce l’ho con i talent. Da una parte è positivo perché parla di musica e dall’altra parte è deleterio perchè su 40 persone che partecipano non ce la possono fare tutti. Se hai una squadra di persone che ti stanno dietro e che fanno un progetto per te come è stato fatto per la Amoroso, Giusy Ferreri o Marco Mengoni può funzionare. Se fai il primo singolo che magari non va tanto bene e ti abbandonano, vai in crisi psicologica».
Sottolinei spesso l’importanza del cantautorato.
«I cantautori, dal dopoguerra in poi, hanno fatto la storia della musica italiana attraverso filosofie di pensiero e emozioni nuove. Attraverso le loro canzoni hanno parlato di satira, di politica e di tante tematiche sociali. La figura del cantautore dovrebbe tornare a essere qualificata perché negli ultimi dieci anni è stata un po’ sorpassata. Oggi si tende più ad omologare la musica a un unico genere, a un unico suono. Io ho la sensazione di sentire sempre la stessa canzone cantata da cantanti diversi. Il suono deve essere quello, altrimenti radiofonicamente sei penalizzato. Voglio togliermi dalla testa la parola radiofonico».
Hai inaugurato anche una scuola per cantautori.
«Sì, la scuola è il CMM di Grosseto che è aperta dal 1994 e si occupa di musica a 360 gradi. Al suo interno ho aperto la sezione cantautori che non ha la presunzione di insegnare a scrivere le canzoni, perché le emozioni non si insegnano da nessuna parte. Arrivano molti ragazzi giovani che hanno del talento insegno loro quello che Giancarlo Bigazzi, che per tre anni è stato il mio maestro, ha insegnato a me».
Nel tuo inedito, Siamo Italiani, presentato a I Migliori Anni, avresti potuto essere più cattivo con la nostra descrizione. C’è una strofa che avresti voluto inserire ma poi hai preferito tagliare?
«A essere cattivi ci pensano agli altri, io sono il buonista. Dicono che “siamo italiani è populista”. Populista è un termine nobile, a parte che finisce per ista. Dovrebbe essere populesimo che è ancora più bello. E’ un termine patriottico, popolare e poi in questo caso è un termine che parla al cuore degli italiani. “Siamo italiani” è una canzone che parla dei nostri pregi e dei difetti. Siamo uno stivale al centro del mondo e tutti ci vogliono mettere i piedi dentro, anche se ci criticano».
Una strofa della tua canzone dice: “siamo italiani, ed è ora di cambiare questa storia. ci meritiamo di vivere in un mondo che abbiamo inventato noi”.
«Gli italiani sono positivi, sono quelli che si rialzano. Non è una canzone cattiva, ma positiva. Sono tutti bravi a fare gli oratori, ma alla fine l’ipocrisia non paga. Se uno riesce a dire le cose che pensa veramente fa più bella figura anche se ci si brucia una parte di pubblico. Quindi “siamo italiani… su le mani”».
Su le mani, perché?
«Qualcuno intende su le mani perché ci stanno puntando una pistola, invece qualcun altro intende su le mani perché possiamo conquistare pure il cielo. E questo è vero».
Già deciso per chi votare?
«Non ancora, non c’è una faccia nuova. Mi piaceva molto Renzi, l’ho conosciuto e avrà tempo per farsi strada. Non è che io sia politicamente disilluso, perché un pensiero ce l’ho, che è quello che va a favore di famiglia, di ricerca, sanità, strutture, di cultura, però alla fine dentro un partito ci sono tre leader che litigano… ti sembra una cosa un po’ una comica e la prendi a ridere. Probabilmente, credo che non andrò a votare perché non mi sento stimolato».
Luca era gay è del 2009. A cantarla oggi le polemiche sarebbero state le stesse di allora?
«Si, certo. Se cantassi: “Luca non sta più con lei ed è tornato gay” tutti direbbero che ho scritto una canzone bellissima. Io ho cantato “Luca era gay e adesso sta con lei” e sono stato accusato di aver detto che un gay è malato. Io ho rispetto per la parola malattia che credo sia una parola con cui nessuno voglia avere a che fare: nella canzone c’è una strofa che dice “Questa è la mia storia, solo la mia storia, nessuna malattia, nessuna guarigione”. Parlavo della storia di una persona che se non si trova in una condizione può cambiare perché – al di là del fatto che la storia sia vera – è vero che si può. Non ho cantato la parte che avrebbero voluto sentire quelli che fanno i finti paladini difensori. Ho raccontato una storia e non pensavo che succedesse tanto casino. La racconterò tutta la vita. Ad avercene di “Luca era gay”, anche perché è una canzone intellettualmente onesta».
Cosa ne pensi delle adozioni gay?
«Secondo me, un bambino dovrebbe avere una figura paterna e una materna. Questa è pedagogia. Poi da una parte ci sarà la gente che ritiene che sia meglio affidare i bambini a una coppia omosessuale che si vuole bene piuttosto che abbandonarli in un bidone o affidarli ad una casa famiglia. Secondo il mio pensiero personale, e quindi condivisibile o meno, nelle case famiglia lavorano persone preparate e che conoscono i bambini e poi ci sono tantissime coppie eterosessuali in attesa inutilmente che gli venga affidato un bambino».
A differenza che in quello della musica, nel mondo del calcio, l’omosessualità è ancora un argomento tabù.
«Si arriverà anche nel calcio a parlarne. perché il mondo sta andando in quella direzione. Bisogna riuscire ad accettare una persona nella condizione in cui sta bene. Io sono stato scambiato per quello che ce l’ha con i gay, e se fosse così lo direi. Mi hanno dato dell’ omofobo e adesso quando faccio i concerti spiego cosa significa davvero omofobia. Io non ho paura degli omosessuali. Credo che nessuno ne abbia. Omofobia è un termine politicamente inventato negli ultimi anni. Forse il nuovo termine è “poviafobia.” A Firenze (dove vive, ndDM) non ho nessun problema a entrare in un locale gay, ma in quel momento sento di esser guardato male e allora chi è che discrimina?»
Al posto di Morgan a XFactor o al posto di Grazia Di Michele ad Amici?
«Morgan è uno che giudica e ha il suo carattere, è un cantautore e non ha mai scritto una canzone che ha scalato le classifiche. E’ molto stimato perché ha una grande cultura. Vorrei avere la cultura di Morgan e il buon senso di Grazia Di Michele».
Parliamo di televisione, qual è il programma che proprio non riesci a guardare?
«La pubblicità (ride). Non lo so, non c’è un programma. A parte il calcio, la televisione non la guardo tanto. Guardo Violetta, a cui mi ha fatto appassionare mia figlia Emma. E’ la storia di una ragazzina che canta. Quando verrà in Italia, le ho promesso che la porterò al concerto».
Vasco Rossi o Ligabue?
«Io son cresciuto con Vasco Rossi, con i suoi testi, con il suo stile di vita. Sono stato due anni in comunità perché ho fatto delle cavolate ai tempi in cui avevo venti, ventidue anni. Vasco l’ho ascoltato perché le sue canzoni mi davano la speranza di vivere in una condizione migliore. Cosa che poi è accaduta. Ligabue è molto più preciso. Ha dei testi ultimamente molto più forti..Scrive cose tipo “l’amore conta – conosci un altro modo per fregar la morte” che è una cosa che avrei volto scrivere io».
Devi scegliere un cantante con cui fare un tour. Chi sceglieresti?
«Non sopporto i duetti e queste operazioni discografiche. Forse con Baglioni, ma a cantare i suoi pezzi. Se dovessi fargli da corista, allora sì».
Il prossimo brano che interpreterai a I Migliori Anni?
«Tanta voglia di lei dei Pooh. E’ la prima canzone che ho cantato…e non è detto che la canti bene».
Sei nella condizione di poter invitare a cena fuori una tua collega de I Migliori Anni, chi scegli?
«Alexia. Non che ci sia qualcosa, per carità (ride). E’ una ragazza intelligente, piacevole, con la quale puoi parlare di tantissime cose. Ha un cervello, è mamma e a me piacciono le donne mature di testa».
Guarderesti Italia’s Got Talent se non fossi impegnato con I Migliori Anni?
«A me di solito piacciono i programmi di cose inedite. Gli darei un’occhiata per curiosità, ma poi non so».
Hai mai detto in un’intervista qualcosa di cui poi ti sei pentito?
«Si, ma alla fine bisogna dire quello che si pensa. Certo, un cantautore o un personaggio di spettacolo deve stare attento a pesare le parole. Qualunque cosa io dica vengo sempre catalogato in una casella politica. Non mi piace che ogni volta alcuni giornalisti facciano il gioco della collocazione politica dell’editore».
Quando uscirà il tuo disco?
«Esce il 19 novembre che è il giorno del mio compleanno e si chiamerà Cantautore. E poi nel 2014 porterò in giro per i teatri uno spettacolo. Parlerà di tutto, d’amore, di politica, di ironia, di satira, tematiche sociali. Sono 90 minuti di chitarra e voce per rilanciare il concetto del cantautore, far capire, più a me stesso che alla gente, che una canzone resta in piedi anche se è solo chitarra e voce. Una volta fatto questo si può riarrangiarla come vuoi. Oggi invece si fa un po’ il contrario».
Guarderai Sanremo?
«Si. Fazio, bisogna rendergliene merito, ha fatto un Sanremo rischioso, secondo i suoi gusti e con un cast apparentemente di nicchia Con un cast così il rischio è che anche questo Sanremo sarà costruito più sul contorno che sulla musica. Sono curioso di sentire la canzone di Marco Mengoni che mi piace un sacco. Secondo me potrebbe vincere. E’ uno, che non so come faccia, ma canta come Freddy Mercury».
Hai un look ben distinguibile, all’apparenza sembri uno di quelli che non ci pensa tanto e invece…
«L’abito fa il monaco (ride). Non mi vesto mai in maniera distratta. Sabato scorso ai Miglior Anni ero vestito di bianco, che dà sempre l’idea di pulito… e poi bianco fuori un po’ sporco dentro. Quando mi vesto di nero, metto una collana che fa luce, mi piacciono gli accessori, i capelli lunghi e lo scegliere le scarpe intonate».
EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.
Eppure Che Guevara organizzò il primo campo di concentramento per gay, scrive Enrico Oliari su “Quelsi”. Il medico argentino che condusse la rivoluzione cubana organizzò i lager per i dissidenti e gli omosessuali. Questi ultimi furono da lui perseguitati in quanto tali: il “Che” non fu secondo nemmeno ai nazisti. Ecco un ritratto che Massimo Caprara, ex segretario di Palmiro Togliatti, ha descritto del rivoluzionario. Con la fuga del dittatore Fulgencio Batista e la vittoria di Fidel Castro, nel 1959, il Comandante militare della rivoluzione, Ernesto “Che” Guevara, ricevette l’incarico provvisorio di Procuratore militare. Suo compito è far fuori le resistenze alla rivoluzione. Lasciamo subito la parola a Massimo Caprara (*), ex segretario particolare di Palmiro Togliatti: “Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: ai religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, agli omosessuali, perfino ad adolescenti e bambini”. Nel 1960 il procuratore militare Guevara illustra a Fidel e applica un “Piano generale del carcere”, definendone anche la specializzazione. Tra questi, ci sono quelli dedicati agli omosessuali in quanto tali, soprattutto attori, ballerini, artisti, anche se hanno partecipato alla rivoluzione. Pochi mesi dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale”, ossia di lavoro forzato. È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Poi, sempre quand’era ministro di Castro, approntò e riempì fino all’orlo quattro lager: oltre a Guanaha, dove trovarono la morte migliaia di avversari, quello di Arco Iris, di Nueva Vida (che spiritoso, il “Che”) e di Capitolo, nella zona di Palos, destinato ai bambini sotto ai dieci anni, figli degli oppositori a loro volta incarcerati e uccisi, per essere “rieducati” ai principi del comunismo. È sempre Guevara a decidere della vita e della morte; può graziare e condannare senza processo. “Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino – prosegue Caprara, sottolinenado che Guevara sarebbe legato al giuramento d’Ippocrate – fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e “pericolosi” incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle “quadrillas” di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri”. Sono solo alcune delle sevizie da lui progettate, scrupolosamente applicate ai dissidenti e agli omosessuali. Il “Che” guiderà la stagione dei “terrorismo rosso” fino al 1962, quando l’incarico sarà assunto da altri, tra cui il fratello di Fidel, Raoul Castro. Sulla base del piano del carcere guevarista e delle sue indicazioni riguardo l’atroce trattamento, nacquero le Umap, Unità Militari per l’Aiuto alla Produzione (vedi il dossier di Massimo Consoli in queste pagine), destinati in particolare agli omosessuali. Degli anni successivi, Caprara scrive: “Sono così organizzate le case di detenzione “Kilo 5,5″ a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite “tostadoras”, ossia tostapane, per il calore che emanano. La prigione “Kilo 7″ è frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di 40 prigionieri. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate “tapiades”, nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere “Tres Racios de Oriente” include celle soffocanti larghe appena un metro, alte 1.8 e lunghe 10 metri, chiamate “gavetas”. La prigione di Santiago “Nueva Vida” ospita 500 adolescenti da rieducare. Quella “Palos”, bambini di dieci anni; quella “Nueva Carceral de la Habana del Est” ospita omosessuali dichiarati o sospettati (in base a semplici delazioni, ndr). Ne parla il film su Reinaldo Arenas “Prima che sia notte”, di Julian Schnabel uscito nel 2000″. Anni dopo alcuni dissidenti scappati negli Usa descriveranno le condizioni allucinanti riservate ai “corrigendi”, costretti a vivere in celle di 6 metri per 5 con 22 brandine sovrapposte, in tutto 42 persone in una cella. Il “Che” lavora con strategia rivolta al futuro Stato dittatoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, della Sicurezza dello Stato, parecchie migliaia di persone hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Il “Che”, soprannominato “il macellaio del carcere-mattatoio di “La Cabana”, si opporrà sempre con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei “criminali di guerra” (in realtà semplici oppositori politici) che pure veniva richiesta da diversi comunisti cubani. Fidel lo ringrazia pubblicamente con calore per la sua opera repressiva, generalizzando ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori. Secondo Amnesty International, più di 100.000 cubani sono stati nei campi di lavoro; sono state assassinate da parte del regime circa 17.000 mila persone (accertate), più dei desaparecidos del regime cileno di Pinochet, più o meno equivalente a quelli dei militari argentini. La figura del “Che” ricorda da vicino quella del dottor Mengele, il medico nazista che seviziava i prigionieri col pretesto degli esperimenti scientifici.
UOMO O DONNA: CHI E’ DISCRIMINATO?
Colonia: a Capodanno donne aggredite da mille uomini ubriachi “di origini arabe o nordafricane”. La notte si è conclusa con oltre 90 denunce, una delle quali per stupro, anche se la polizia crede che aumenteranno nei prossimi giorni. Il sindaco Reker: "Quello che è accaduto è inaudito". E anche a Monaco si sono verificati episodi simili nella notte di San Silvestro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 gennaio 2016. Circondate, palpate, molestate e derubate la notte di Capodanno. A Colonia un migliaio di uomini ubriachi tra i 15 e i 39 anni e “di origini arabe o nordafricane” hanno aggredito decine di donne la notte di San Silvestro nei pressi del Duomo e della stazione dei treni. Il risultato: 90 donne che hanno denunciato furti e molestie, incluso uno stupro, anche se la polizia ritiene che le segnalazioni aumenteranno nei prossimi giorni. “Quello che è accaduto è inaudito”, ha detto il sindaco di Colonia Henriette Reker, accoltellata in ottobre alla vigilia delle elezioni per il suo atteggiamento favorevole all’accoglienza dei rifugiati siriani. Un suo portavoce ha assicurato che il sindaco non intende tollerare che nella sua città vi siano aree dove la legge non è rispettata. Allo stesso tempo vi è il timore che la vicenda venga strumentalizzata da gruppi razzisti o anti migranti. La Reker vuole anche predisporre un piano di sicurezza per il Carnevale, che ogni anno richiama oltre un milione di visitatori nella città renana e oggi coordinerà l’unità di crisi che dovrà varare misure per tutelare in futuro le donne da violenze di questo genere. E anche Angela Merkel, secondo quanto riferito dal suo portavoce Steffen Seibert, ha chiesto una dura risposta dello Stato di diritto. In una telefonata al sindaco di Colonia, la Cancelliera ha espresso il suo sdegno per le violenze, ha aggiunto Seibert, e ha chiesto che ogni sforzo venga indirizzato per indagare e condannare al più presto i colpevoli, senza riferimento alla loro origine. La dinamica – Gli uomini si sono radunati in piazza per poi dividersi in gruppi più piccoli, di 5 persone circa ciascuno, che hanno proseguito la caccia alle donne e hanno lanciato, secondo quanto raccontato dalla polizia, una quantità fuori dall’ordinario di petardi e fuochi d’artificio. E gli aggressori non si sono fatti impressionare neppure dall’intervento della polizia, sempre più massiccio. Intanto alcune vittime hanno raccontato ai media tedeschi la loro notte dell’orrore. La 27enne Anna ha descritto così allo Spiegel online il suo arrivo con il fidanzato alla stazione centrale: “L’intera piazza era gremita di soli uomini. C’erano poche donne isolate, impaurite, che venivano fissate. Non posso descrivere come mi sono sentita a disagio”. Ma Colonia non è stata l’unica città in cui si sono verificati questi episodi. Anche la polizia di Amburgo sta indagando su reati simili, sempre avvenuti nella sera di Capodanno. Nella città anseatica, luogo delle aggressioni è stata la Reeperbahn, la via nel quartiere St. Pauli famosa per i locali a luci rosse. Anche qui gruppi di uomini hanno circondato e molestato sessualmente donne che festeggiavano l’inizio del nuovo anno, derubandole di soldi e telefonini. Un portavoce della polizia ha spiegato che si indaga su 9 casi.
Stranieri e rifugiati siriani fra gli assalitori di Colonia. Il rapporto: «Le donne hanno dovuto attraversare delle forche caudine». Denunciate altre aggressioni sessuali dalla Finlandia alla Svizzera, scrive Elena Tebano l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. A sera la piazza tra la stazione e la cattedrale di Colonia è quasi vuota, pochi lampioni a illuminarla mentre i passanti si affrettano sul selciato battuto dalla pioggia e sfilano tra i quattro poliziotti in tenuta antisommossa che presidiano l’ingresso principale ai binari. Un tentativo di mostrare che lo Stato c’è, mentre montano sempre di più le critiche per la risposta insufficiente delle forze dell’ordine alle aggressioni che la notte di Capodanno hanno trasformato il cuore della città in un inferno per «le donne che - come si legge in un rapporto della polizia - sole o accompagnate hanno dovuto attraversare delle vere e proprie forche caudine formate da masse di uomini pesantemente ubriachi». Intanto sono salite a 121 le denunce: «In tre quarti dei casi - ha affermato un portavoce della polizia - si tratta di reati a sfondo sessuale spesso avvenuti in concomitanza con furti o borseggi». Due denunce sono per stupro, le altre per «furti o lesioni». Sedici i sospetti identificati, «in gran parte uomini di origine nordafricana». Secondo il settimanale Der Spiegel ci sarebbero inoltre 4 fermati: due nordafricani accusati di furto e arrestati già a Capodanno, e altre due persone, in cella da quattro giorni, su cui le autorità non hanno dato informazioni e che sono invece accusate di molestie sessuali. La polizia assicura adesso di aver messo al lavoro sulle aggressioni ben 80 agenti (una task force chiamata senza nessuna ironia «Neujahr», «anno nuovo»), ma dal rapporto interno pubblicato ieri da Der Spiegel e dal quotidiano Bild emerge che gli uomini dispiegati l’ultimo dell’anno erano invece del tutto insufficienti ad affrontare il «caos» di «risse, furti, assalti sessuali alle donne» e che «le forze presenti non hanno potuto controllare tutti gli avvenimenti, gli assalti e i reati, perché erano troppi contemporaneamente». In alcune fasi non è stato possibile, scrive il funzionario rimasto anonimo, neppure verbalizzare tutte le denunce. Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto. Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti: «Non potete farmi niente - avrebbero commentato sprezzanti - domani vado a prendermene uno nuovo». Le molestie di Colonia non sono un fatto isolato: altre 70 aggressioni a sfondo sessuale sono state denunciate ad Amburgo, 12 a Stoccarda, sei nella vicina Svizzera, a Zurigo. Anche a Helsinki, in Finlandia, nella notte di Capodanno ci sono state molestie sessuali diffuse nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. In quest’ultimo caso i presunti aggressori sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Al momento non risultano legami tra quanto successo nelle diverse città, ma ci sono stati contatti tra le polizie europee e tra le ipotesi al vaglio degli investigatori c’è quella di una comune regia: forse da parte di gruppi xenofobi che potrebbero aver aizzato gruppetti di immigrati per poi cavalcare l’indignazione causata dagli assalti. Di certo a Colonia il problema furti e molestie non è nuovo: «Nella zona della stazione si aggirano bande di giovanissimi che sono arrivati da adolescenti in Europa da Tunisia, Algeria e Marocco, si spostano spesso da un Paese all’altro e vivono di espedienti - dice al Corriere un volontario che lavora con i migranti e chiede di rimanere anonimo -. È possibile che fossero tra coloro che hanno agito a Capodanno. In generale quando ci sono gruppi di soli uomini fatti o ubriachi, non conta da quale Paese arrivino, facilmente ne fanno le spese le donne. Di solito qui succede a Carnevale, che attira sempre una grossa folla. La polizia lo sa e arriva con gli autobus per arrestarli. A Capodanno però nessuno se lo aspettava».
Colonia, gli immigrati dopo le violenze: "Da qui non potete cacciarci, ci ha invitati Frau Merkel". "Persone di origine straniera hanno lanciato molotov". In un rapporto choc gli agenti di Colonia smascherano le violenze degli immigrati: "Capodanno fuori controllo". Ed emerge tutta l'arroganza degli stranieri nei confronti delle forze dell'ordine, scrive Andrea Indini Giovedì 07/01/2016 su “Il Giornale”. Il caos e il clima di violenza della notte di Capodanno, a Colonia, dove un centinaio di donne indifese sono state aggredite, molestate e derubate da un migliaio di immigrati ubriachi, avrebbero potuto "anche provocare dei morti". Il rapporto choc della polizia tedesca, di cui la Bild pubblica alcuni stralci, svela senza più ombra di dubbio le gravissime colpe degli immigrati che la notte di San Silvestro hanno tenuto in ostaggio Colonia. Nel dossier si descrivono fra l'altro gli attacchi con bottiglie molotov e oggetti contundenti contro la polizia a cui è stato del tutto "impossibile" identificare gli aggressori delle violenze denunciate da donne in lacrime a fatti ormai avvenuti. Mentre il bilancio dei sospettati sale a sedici, le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio. I principali sospettati non sono ancora stati identificati per nome, ma gli inquirenti li avrebbero già chiaramente riconosciuti attraverso le immagini video. Per vittime e testimoni oculari gli aggressori erano per lo più di origine nordafricana e araba. "Se emergesse che fra i responsabili ci sono anche dei richiedenti asilo - ha assicurato il ministro della Giustizia Heiko Maas - questi potrebbero essere espulsi". Anche per la cancelliera Angela Merkel è necessario trarre estese conseguenze da quanto accaduto. "Ad esempio - ha detto - dobbiamo valutare se finora sia stato fatto abbastanza per le espulsioni di stranieri macchiatisi di reati". Nel rapporto della polizia di Colonia ci sono, poi, le voci provocatorie di alcuni immigrati. Voci che provano il fallimento delle politiche buoniste della cancelliera. Ascoltarle è un ulteriore affondo a tutte quelle donne che, durante i festeggiamenti di Capodanno, sono state molestate e aggredite. "Sono siriano - ha urlato in faccia un profugo a un agente che lo aveva fermato - dovete trattarmi bene, mi ha invitato Frau Merkel". Un altro straniero, dopo aver stracciato il permesso di soggiorno "con un ghigno", ha sfidato il poliziotto deridendolo:"Non puoi farmi niente. Ne prendo un altro domani". Anche se non vi è alcun collegamento con i drammatici fatti di Colonia, a Weil am Rhein quattro siriani sono stati arrestati per aver violentato due adolescenti la vigilia di Capodanno. Le ragazze si trovavano nell'appartamento di uno degli immigrati quando sono arrivati il fratello 15enne e altri due 14enni e la situazione è degenerata. Le giovani sono state ripetutamente stuprate, per tutta la notte.
VIOLENZA SU 80 DONNE A COLONIA DA PARTE DI 1.000 “INTEGRATI”! IL SILENZIO ASSORDANTE DEI NOSTRI MEDIA, DELLA NOSTRA POLITICA RADICAL-CHIC E DELLA NOSTRA “INTELLIGHENTIA” (di Giuseppe Palma il 7 gennaio 2016). Circa 1.000 uomini (di origine nord-africana ed araba) hanno abusato, molestato e in alcuni casi violentato circa 80 donne! Al di là dei pesanti aspetti criminosi, che ovviamente riceveranno – si spera – un’adeguata risposta da parte della giustizia tedesca, il problema è tutto politico: la totale assenza dell’UE e l’ipocrisia della classe dirigente della maggior parte degli Stati europei, soprattutto di quella italiana. La nostra intellighenzia radical-chic (che poi è quella che vota Partito Democratico, SEL e Scelta Civica), sempre pronta a lavarsi la bocca con le parole “integrazione” e “ci vuole più Europa”, dopo i fatti di Colonia tace vigliaccamente! Su tutti, Laura Boldrini & Co., cioè quel manipolo di finte femministe, finte europeiste e finte sostenitrici dei diritti civili che – di fronte alle violenze poste in essere dai 1.000 immigrati di Colonia su 80 donne indifese – si sono nascoste dietro un silenzio assordante! Ma la storia è vecchia! Il manovratore (UE e capitale internazionale) e i politici che ne sono a libro paga non vogliono che il popolo si renda conto delle bestialità che stanno accadendo! L’immigrazione selvaggia serve all’€uro per poter abbassare i salari e le garanzie contrattuali/di legge del lavoratore! Quindi, bisogna a tutti i costi tacere! Vero, Laura Boldrini? Di fronte alle cene di Arcore (che Berlusconi pagava coi soldi suoi e dove mai nessuna violenza – di nessun tipo – fu fatta) tutte queste ipocrite femministe, ben appoggiate dalla solita e sporca intellighenzia di casa nostra, si scagliarono contro il “degrado” in nome della “moralità” e dell’ “immagine internazionale”. Oggi tacciono! Di fronte a qualche offesa verbale di qualche politico nostrano verso il problema dell’immigrazione, quelle stesse femministe e quegli stessi intellettuali (si fa per dire!) non si tirano indietro dall’etichettare tali episodi con parole come xenofobo, razzista, fascista etc…Il doppio-pesismo della sinistra italiana (e soprattutto dei post-comunisti e dei falsi buonisti) è qualcosa di vergognoso! Dove sono la signora Kyenge (eurodeputata PD) e il signor Chaouki (deputato PD)? Dove sono questi ipocriti benpensanti? Dov’è Niki Vendola (SEL)? Dov’è Gennaro Migliore (PD)? Dov’è Marianna Madia (PD)? Dov’è Simona Bonafè (PD)? Dov’è Anna Ascani (PD)? E soprattutto, dov’è Laura Boldrini? In tutto questo, anche i media hanno taciuto! Del resto, si sa: le linee editoriali dei giornaloni e delle TV italiane sono a favore dell’immigrazione selvaggia e dei crimini €uropei! Siamo rappresentati dalla peggiore politica e dalla peggiore intellighenzia!
Colonia: staccate la spina a questo schifo di Europa, scrive il 7 gennaio Emanuele Ricucci su "Il Giornale". Barbari! Barbari approdati nella terra di nessuno, nella terra di niente, solo un corridoio per l’avvenire, solo una capanna per la pioggia, niente più. “Le donne che hanno denunciato di essere state aggredite nella notte di San Silvestro sono già 121. Due terzi delle denunce riguardano anche molestie sessuali. In due casi, invece, si tratta di stupro vero e proprio”. Capodanno, Germania. Uomini contro donne. Prima di imparare ad essere altro, dovremmo ricordarci di essere noi stessi. Dove sono i cortei di sdegno del regime dei benpensanti? Non vedo Laura Boldrini ed accoliti, piangere, fissare un angolo silenziosamente, ansimare di dolore durante le dichiarazioni pubbliche post accaduto. Non sento il tonfo dei “buoni per davvero” del mondo omologato cadere a terra, svenuti. Non sento gridare alla fine, alla barbarie, al dramma più epocale nella storia del femminismo e dell’umanità. Non sento la rabbia, la voglia di cambiare, per davvero. Calano – gentilmente oggigiorno – i barbari, si ammosciano gli attributi. Che sia abbia il coraggio di ammettere che la situazione è fuori controllo, per Colonia? Non soltanto. Da un mese? da ben più di qualche mese. Mentre i sinistri nostrani scoprono che il dolore e l’errore provengono anche da dove non gli conviene guardare, risalgono gli echi delle “marocchinate”, dei marocchini deI Corps expéditionnaire français en Italie agli ordini del generale Alphone Juin, barbari immondi colpevoli – durante la Campagna d’Italia nella Seconda Guerra Mondiale – di migliaia di violenze ed omicidi compiuti ai danni di uomini, bambini, anziani e soprattutto, delle nostre donne, madri dei nostri figli. Colonia come le “marocchinate”, quando cominciò la vigliacca genuflessione dell’Occidente, mascherata da progresso. Tra Arabia ed Iran ai ferri corti, Schengen schifato da Paesi “liberalissimi”, tra gli esperimenti atomici koreani e l’impazzimento generale, abbiamo fior fior di ragazzoni, ipertecnologici tra le fila dell’esercito. Armi di quarantaquattresima generazione, addestrati al judo, al pugilato, al Krav Maga, finanche al Monopoly da competizione; abbiamo testate, contro testate, iper Consigli di sicurezza, abbiamo tecnologia come se piovesse. Poi miliardi di Euro di fondi da spendere in aerei supersonici, guerre, guerrette, democrazia in scatola e a domicilio ancora fumante. Abbiamo, abbiamo, abbiamo. Abbiam tutto, non abbiamo nulla. Abbiamo due guerre mondiali sulle spalle, svariate guerre di indipendenza, ribelli e ribellioni, anni di terrorismo interno, ancor prima che esterno, paure e crisi, rivoluzioni e tentate rivoluzioni e poi, e poi non riusciamo neanche ad evitare l’impensabile, a difenderci dalla brutalità di strada, come a Colonia, dopo non essere riusciti a difendere le nostre sovranità, i nostri figli, le nostre tradizioni, le nostre culture, genoma delle nostre identità. Non occorre scrivere quale sia il rimedio e neanche quale trattato invocare, quale linea di politica estera da seguire. Quale iniziativa, a mo di legge speciale stilare, né descrivere dettagliatamente a quale disastro totale stiamo assistendo. Viene solo da pensare che non ci sia più da star, poi, così tranquilli, a fermare il vomito, ormai incastrati in una marea fangosa di bulimia di informazione, si passa oltre, alla prossima notizia, con freddezza, come uno stupro. C’è tanta nausea, lo stupro è duplice. Fisico e spirituale. Come anime del purgatorio (per chi avrà la bontà di crederci) lagnanti, spaventate, inutili ed invisibili, ormai, irrinunciabilmente connesse all’orrore, dettaglio dopo dettaglio, con gli occhi aperti, come quel mattacchione di Alex nel capolavoro di Kubric, Arancia Meccanica, costretto a tenere gli occhi aperti di fronte a scene maligne, zeppe di massacro, così da provocarne rigetto. Colonia si poteva prevenire? Inutile dirlo, certamente. Colonia non si doveva neanche immaginare. Non occorre stare a dire chi aveva ragione e chi torto, capire che ne ha fino in fondo, non occorre stare a soppesare la dichiarazione minchiona del politico di turno, UE e non UE, Italì o non Italì. Fa solo venire il voltastomaco questo ragazzino presuntuoso, sciocchino e immaturo che l’Occidente, versante Europeo, è diventato. Da castrare, chimicamente, artificialmente, spiritualmente. Senza orgoglio civile, né appartenenza. Rabbia stoppata in petto, l’Occidente è politicamente corretto. Neanche alla calata dei Lanzichenecchi. Io non credo in questo, non voglio questo. Questa Europa fa schifo, senza mezzi termini. Dunque, che tramonti, si spenga pure l’Occidente insipido, ipocrita, malato di Alzheimer; vigliacco e guerrafondaio, che ha rinnegato la propria identità, che sputa sulla linearità della propria storia, che calpesta la purezza delle proprie culture genitrici. Che tramonti, questo Occidente, così da esser pronti a generarne un altro, senza sprecare neanche una vita, un’altra vita ancora. Che si plasmino le parole di Oswald Spengler, questo forse il più grande augurio da fare alla marmaglia di coinquilini ai lavori forzati che siamo oggi: “Questo è il senso di ogni tramonto nella storia, il senso del compimento interno ed esterno, dell’esaurimento che attende ogni civiltà vivente. Di tali tramonti, quello dai tratti più distinti, il «tramonto del mondo antico», lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell’Occidente”.
Le misure antimolestie sdi Colonia che penalizzano le vittime, scrive il 7 gennaio 2016 Giovanni Giacalone” su "Il Giornale. Le misure anti-molestie annunciate dal sindaco di Colonia, Heriette Reker destano serie perplessità in quanto non soltanto non risolvono il problema sicurezza ma paradossalmente sembrano penalizzare le stesse vittime degli abusi. E’ plausibile credere che la Reker voglia continuare a sostenere ad oltranza le sue politiche di accoglienza, ma davanti ad episodi del genere è necessario prendere immediati provvedimenti che facciano rispettare la legge e che tutelino l’incolumità del cittadino e non l’ideologia. Le linee guida del Primo Cittadino sembrano invece andare in ben altra direzione per sfociare addirittura nel contraddittorio, ad esempio: “Mantenersi a distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero”. La frase potrebbe far trasparire un certo razzismo, quasi a voler lasciar intendere che “straniero” equivalga a “molestatore”, paradossale per la ultra-tollerante Reker; oltre a ciò, il “consiglio” implica che la potenziale vittima debba girare per strada guardandosi continuamente intorno per scongiurare possibili molestatori. In poche parole, è la vittima che deve guardarsi le spalle e possibilmente evitare di girare sola, come suggerito da un altro consiglio, quello di “muoversi per le strade possibilmente in gruppo”. Fondamentale risulterebbe poi “evitare di assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di altre culture”. Decisamente agghiacciante! In questo modo non soltanto le vittime vengono colpevolizzate a discapito degli aggressori che, poverini, apparterrebbero a “culture” dove certi comportamenti “sarebbero ammessi”, ma limita palesemente la libertà di movimento della donna. Sono legali tali direttive? Qualche dubbio ce l’ho. Cosa significa poi quel “monitorare persone che potrebbero agire di nuovo”? Elementi sensibili e recidivi dovrebbero essere preventivamente messi in condizione di non nuocere, mentre sembra che diversi soggetti resisi responsabili delle aggressioni di Capodanno fossero già noti alle autorità. Davanti a episodi di questo tipo, che non dovrebbero neanche accadere, lo Stato ha il dovere di fornire risposte immediate ed efficaci per tutelare il cittadino, attraverso misure preventive e cautelative, ma nei confronti degli aggressori, non delle vittime. Segnali di debolezza e di non curanza da parte delle Istituzioni non fano altro che incentivare episodi come quelli di Colonia; speriamo di non dover assistere ad altri fatti del genere.
Germania, prove di sharia: immigrati islamici violentano, ma puniscono le donne, scrive “Riscatto Nazionale” il 6 gennaio 2016. Il sindaco della città annuncia una serie di regole per evitare il ripetersi delle violenze di Capodanno: vietato girare da sole e dare confidenza agli stranieri. L’amministrazione della città di Colonia ha annunciato che, a seguito delle violenze della notte di Capodanno, introdurrà un codice di comportamento per le donne e le bambine per scongiurare la possibilità che queste siano vittime di stupri o violenze. Ad annunciarlo è il sindaco della città Henriette Reker, che si è riunita ieri con i massimi esponenti delle forze dell’ordine locali, con i quali ha stabilito di introdurre nuove misure di sicurezza e dichiarato lo stato d’emergenza. La decisione è stata presa dopo che, durante la notte di San Silvestro, la stazione della città è caduta sotto il controllo di circa mille persone di origine mediorientale, che hanno importunato e derubato oltre 100 ragazze. “E’ importante prevenire questi incidenti” ha detto il sindaco. Il nuovo pacchetto sicurezza prevede anche l’introduzione di un codice di comportamento al quale le donne si devono attenere. Esso verrà presto reso disponibile su internet e le esorterà a mantenersi a “distanza di sicurezza da persone dall’aspetto straniero, di non girare per le strade da sole ma sempre in gruppo, di chiedere aiuto ai passanti in caso di difficoltà, di informare immediatamente la polizia in caso notino persone sospette e di non assumere in pubblico atteggiamenti che possano essere fraintesi da persone di culture altre (andere Kulturkreise)”. Durante le celebrazioni del Carnevale, uno degli eventi più celebri e tradizionali della città che si terrà a febbraio, verrà aumentata la presenza delle forze dell’ordine sul territorio, il cui compito principale sarà quello di monitorare le persone che si ritiene possano agire nuovamente come a Capodanno. Un occhio di riguardo verrà dato alle persone di origini mediorientali. Il sindaco ha sottolineato che le misure introdotte non hanno alcuno sfondo razzista o xenofobo. “Non tutti gli aggressori sono dei rifugiati giunti da poco in Germania. Alcuni di loro erano già da tempo conosciuti alle forze dell’ordine. Se alcuni richiedenti di asilo sono colpevoli verranno presi provvedimenti, ma ciò non deve indurre a reazioni discriminatorie nei loro confronti”. Heriette Beck è da sempre un’attiva sostenitrice e fautrice delle politiche di accoglienza dei migranti. Per questo lo scorso ottobre era stata gravemente ferita da un estremista di destra, che l’aveva accoltellata alla gola lasciandola in fin di vita per diverso tempo.
Crolla la tesi buonista della sinistra: tra gli stupratori anche rifugiati siriani, scrive Guglielmo Federici venerdì 8 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. Vi ricordate la tesi buonista della sinistra che invitava a una distinzione quasi filologica tra rifugiati in fuga da paesi in guerra come la Siria, migranti e clandestini? Da non confondere, per carità, da non mettere tutti in unico calderone ad uso e consumo della propaganda “xenofoba”, sostenevano con le chiavi della verità in mano. Anzi, secondo le tesi di chi gettava e getta acqua sul fuoco sui pericoli di un’invasione migratoria dagli effetti che abbiamo potuto constatare, gli illuminati della sinistra spiegavano che proprio i clandestini erano quelli che con i loro comportamenti gettavano fango su chi aveva lo status di rifugiato. Insomma, secondo il buonismo dilagante la maggior parte degli italiani sarebbe stata vittima di una cattiva comprensione del fenomeno immigrazione. Distinguere e non condannare, era la loro parola d’ordine di civiltà. Sorpresa! Questa tesi crolla, si è sbriciolata sotto i nostri occhi. A Colonia (e non solo) c’erano anche dei rifugiati all’interno del branco di un migliaio di nordafricani e mediorientali che hanno seminato panico e paura a San Silvestro. Lo riporta il Corriere on line: «Ma a suscitare polemiche sono anche i particolari che emergono sui presunti aggressori: molte vittime hanno confermato che erano stranieri, all’apparenza immigrati. E persino rifugiati: «Sono siriano, dovete trattarmi amichevolmente, mi ha invitato la Signora Merkel!» avrebbe detto uno dei sospetti citato nel rapporto della polizia», si legge sul quotidiano. Allora, contunuiamo a distinguere, a capire, a minimizzare? «Altri avrebbero strappato i loro permessi di soggiorno di fronte agli agenti – si legge – «Non potete farmi niente – avrebbero commentato sprezzanti – domani vado a prendermene uno nuovo», riporta l’inviato. I fatti di Colonia, purtroppo, stanno diventando un caso europeo. Non solo a Stoccarda e ad Amburgo si sono registrati episodi di violenze analoghi, sempre a Capodanno, ma altre denunce sono arrivate dalla Svizzera – sei da Zurigo – e anche dalla Finlandia: anche Helsinki la notte di Capodanno è stata funestata da casi di molestie sessuali nella piazza centrale, che ospitava circa ventimila persone per i festeggiamenti, e sono stati denunciati tre stupri nella stazione centrale, dove si erano radunate circa mille persone, per lo più iracheni. Brutta sorpresa anche qui per i “professionisti” dei flussi migratori, perché anche in quest’ultimo caso tra i presunti aggressori ci sono tre richiedenti asilo, che sono stati arrestati. Insomma, le quisquilie dialettiche della sinistra, le distinzioni terminologiche tra immigrati bravi e cattivi, profughi, richiedenti asilo, rifugiati fanno ridere, non reggono alla prova dei fatti, non reggono alla prova di una realtà colpevolmente sottovalutata e minimizzata.
La Boldrini rompe il silenzio sugli stupri di Colonia ma non nomina i migranti, scrive Roberta Perdicchi giovedì 7 gennaio 2016 su “Il Secolo d’Italia”. In un tweet del 15 ottobre 2015, Laura Boldrini solidarizzava con il nuovo sindaco di Colonia, fresco di accoltellamento xenofobo, salutando il nuovo corso “accogliente e tollerante” della cittadina tedesca. Il tutto con la solita enfasi della donna di sinistra che riconosce i semi di un mondo migliore, fatto di buoni che aiutano poveri disperati, e vuole darne notizia al mondo con i toni del messìa. Peccato che le cose, a Capodanno, siano andate in maniera un po’ diversa e che l’accogliente Colonia sia passata alle cronache per le violenze e i tentati stupri di massa degli immigrati ai danni di decine di donne tedesche. Dopo alcuni giorni di silenzio, il presidente della Camera ha finalmente sentito il bisogno di esprimere solidarietà, alle donne violentate, stavolta, non agli immigrati. Ma dimenticando di citare quel tweet nel quale la Boldrini spargeva demagogia ed enfasi sulla presunta convivenza multietnica e culturale di Colonia. «I fatti di Colonia sono molto gravi: quello che è accaduto è veramente inaccettabile e da parte nostra c’è la più ferma condanna», ha finalmente detto la Boldrini dopo che per giorni, sui social, era girato quel tweet imbarazzante e ridicolo, col senno di poi. «Io mi auguro che le autorità tedesche riescano quanto prima a fare chiarezza e le persone che si sono permesse questi atti di mancanza di rispetto, anche violenti – ha concluso – ne rispondano davanti alla giustizia». Mai, però, ha pronunciato la parola “immigrati”: come se quel termine, associato a una qualsiasi forma di violenza, fosse da nascondere, da occultare.
Il silenzio delle femministe dopo i fatti di Colonia. La paura di essere definite razziste ha fatto tacere tante attiviste di sinistra in prima linea contro la violenza sulle donne. Ma questo atteggiamento fa bene all'accoglienza? Scrive Claudia Sarritzu giovedì 7 gennaio 2016 su “Globalist”. Bisogna chiedersi cosa significa essere femminista, come significa essere di sinistra e cosa significa essere per l'accoglienza e per la libera circolazione di idee e persone, per capire cosa sta accadendo dopo i fatti di Colonia, tra le attiviste occidentali che difendono la dignità delle donne. La paura di essere marchiate come razziste, in questa occasione, a mio avviso ha fatto mettere in secondo piano la battaglia più importante per il genere femminile: quella per la nostra libertà, quella di poter circolare liberamente per le nostre città senza la paura di essere molestate o addirittura stuprate. Questo nostro inviolabile diritto non può certo essere messo in discussione solo perché si sospetta che tra i mille aggressori ci siano uomini di origine araba. Il razzismo sta proprio in questa differenza di trattamento. Un criminale, un violento, è violento qualsiasi sia il colore della sua pelle o la religione in cui crede. Siamo tutti uguali non solo nelle cose belle e onorevoli, ma anche in quelle meschine e orride. Altra questione. I fatti di Colonia non sono del tutto chiari, e solo le indagini potranno chiarire se si è trattato realmente di un attacco programmato e organizzato contro i costumi occidentali delle donne. Ma se così fosse, proprio in nome dell'integrazione, non dobbiamo venir meno alla difesa dei nostri valori, solo per paura di apparire meno "pro-immigrazione". L'immigrazione è sempre positiva quando porta pluralismo, non quando impone violenza in nome di una falsa identità culturale. Non è cultura molestare una donna. In fine credo che noi donne di sinistra dobbiamo assolutamente intraprendere un dibattito che abbia come tema l'equilibrio tra il nostro modello di vita e quello di tante donne immigrate. Tentare di trovare una conciliazione tra libertà e tradizione, senza ledere la libertà di espressione delle donne straniere, ma anche la nostra. Magari potremmo partire da una semplice distinzione tra burqa e velo. Dovremmo smetterla con l'ipocrisia tutta di sinistra di considerare il velo integrale (il burqa appunto) una scelta. Nessuna donna libera sceglierebbe di andare in giro per strada ad agosto con un telo nero che non le permette di respirare e di vedere se non da una retina. Essere dunque femminista e di sinistra e per un mondo accogliente e solidale, significa essere sempre e comunque per la libertà delle donne, libere dalla paura di etichette inutile e pericolose.
Colonia, il silenzio delle femministe sulle violenze degli immigrati. Dalla Boldrini alle femministe del Pd, tutte hanno paura a dire che i violenti erano immigrati. Per timore di dare ragione alla destra, scrive Giuseppe De Lorenzo Mercoledì, 06/01/2016, su "Il Giornale". Nemmeno il numero elevato di donne violentate nella loro intimità, nemmeno l'indignazione della pubblica opinione, niente di quello che è successo a Colonia è riuscito a scalfire il muro dell'incoerenza delle femministe nostrane. Mille uomini, di origine mediorientale, hanno violentato e derubato oltre 100 ragazze nella notte dei Capodanno. Ma loro non parlano. Anzi, è bene specificare. A farlo sono stati 1000 immigrati, profughi, clandestini. Bisogna essere chiari, perché le femministe italiane vivono in questi giorni un dramma interiore che le distrugge. Sono divise tra l'accoglienza-a-tutti-i-costi e la difesa dell'integrità delle donne, dell'emancipazione, della libertà femminile. Su questi bei propositi hanno fatto una legge, quella sul femminicidio, di dubbia utilità ma dal forte impatto mediatico. Eppure, si dimenticano di condannare ad alta voce gli stupri degli immigrati. Perché? Cosa le ferma? Semplice, il buonismo. O chiamatelo come volete. Ovvero il rischio di dar ragione ai beceri della destra, ai populisti che da anni mettono la politica di fronte al problema - evidente - dell'integrazione degli altri popoli, delle culture diverse. Di quella islamica in particolare. Che in molti casi ha con la donna una relazione offensiva, lesiva dei diritti, barbara. Come si può scindere le violenze di Colonia dagli stupri di Boko Haram, dalle violenze dell'Isis, dalle schiave Yazide e dall'imposizione del burqa? Non si può. Sono principi e modi di comportamento che superano le barriere e arrivano sulle nostre coste. Immutati. E poi si manifestano nelle nostre strade, nelle nostre periferie. Pur di non dire che a mettere le mani sui seni e tra le gambe di quelle ragazze tedesche sono stati degli immigrati, le attiviste tutte preferiscono cucirsi la bocca. Quando invece occorrerebbe raccogliere gli avvertimenti di chi dice da tempo che ad integrarsi deve essere lo straniero e non un intero popolo adattarsi ai desideri di chi arriva in Occidente. Tace la Boldrini, che nel discorso di insediamento da Presidente della Camera aveva ricordato il suo impegno contro la violenza sulle donne. Quella volta era scattato l'applauso unanime dell'Aula. Oggi, invece, la Presidente ha scelto l'oblio. Dire che aveva ragione Salvini fa male. Essere d'accordo con la Meloni, pure. E' dalla parte del giusto anche la Santanché, che ha definito i fatti di Colonia "un atto di terrorismo contro le donne". "Hanno dimostrato bene il loro concetto del femminile - ha aggiunto - e cioè che non sono persone ma oggetti. Come si può dialogare con chi non rispetta le persone? Dove sono le donne del Pd e le femministe? Il loro silenzio è assordante". L'unica ad uscire dal coro del silenzio è stata Lucia Annunziata. Che sul suo blog ha riconosciuto come "il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica", ha messo in dubbio che tutti i migranti arrivati in Europa siano davvero in fuga dalle guerre, ha chiesto "barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di integrazione". Peccato che il suo sia un risveglio tardivo. Le aggressioni di Colonia, per l'Annunziata, sarebbero il "primo episodio di scontro di civiltà". Ma non è così. Ce ne sono stati altri. Solo che sono rimasti fuori dalla porta dei salotti radical-chic. La direttrice chiede alle femministe di iniziare una discussione sull'immigrazione per "evitare che la giustissima accoglienza di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza". Ma è già tardi. Oggi sarebbe bastato stigmatizzare le violenze degli immigrati. Condannare quello che è un attacco non solo alle donne, ma al modo di essere dei Paesi che accolgono, cioè dell'Europa. Invece è prevalso il silenzio. Colpevole.
Sul corpo delle donne no pasaran, scrive Lucia Annunziata su L'Huffington Post. Non c'è molto da dire ma va detto. E nel più semplice dei modi: noi donne, noi donne europee, abbiamo bisogno di cominciare una discussione vera su quello che l'immigrazione sta portando nei nostri paesi; sul disagio, e sulle vere e proprie minacce alla nostra incolumità fisica che avvertiamo nelle strade, sui bus, nei quartieri delle nostre città. Una franca discussione su come evitare che la giustissima "accoglienza" di chi ha bisogno diventi la vittoria di Pirro della nostra sicurezza e indipendenza. Mi pare che qualcosa si muova in questo senso fra le donne tedesche. E se è così saremo con loro. Sull'Europa che si è riunita per affrontare la caotica situazione della immigrazione, le ripetute sospensioni di Schengen, pesa l'emozione di quanto è accaduto nella notte di Capodanno a Colonia: l'aggressione sessuale inflitta da "un migliaio di giovani arabi e nordafricani" a tutte le donne che hanno incontrato sul loro cammino. Una violenza le cui modalità rivelano un episodio ben più grave della notte di follia, della frustrazione estrema ed ormonale di maschi frustrati. Quel migliaio di giovani erano preparati, il loro assalto è stato organizzato ed eseguito come una operazione semi-militare. Assalto per altro ripetuto in altre due città. Erano tanti, usavano il numero come arma di annientamento, e l'accerchiamento come trappola: le donne prese in mezzo, inclusa una donna poliziotto, sono state toccate e passate dall'uno all'altro, senza nessuna cura di proteste e reazioni. "Urlavamo, picchiavamo con quello che potevamo, ma inutilmente" raccontano le testimonianze (incluse quelle di uomini che hanno cercato di intervenire). Una madre e la figlia quindicenne sono state bloccate e "palpate ripetutamente al seno e in mezzo alle gambe". Un'operazione di molestie così vasta, continuata e determinata non può essere vista solo come un gesto contro le donne; si configura come un atto di scontro, umiliazione e dominio esercitato nei confronti delle donne sì, ma mirato a inviare un segnale di disprezzo e di sfida all'intero paese che quegli uomini ha accolto. Cioè noi, l'Europa tutta e non solo la Germania. La notte che ha inaugurato il 2016 nel paese che ha generosamente aperto le porte al maggior numero, circa un milione, di profughi dal Medioriente e da altre zone di guerra, è stata macchiata da quello che possiamo definire il primo episodio di scontro di civiltà, la prima sfida consapevole dei nuovi arrivati al nostro mondo. Un annuncio gravido di molte cose a venire. Tanto più grave perché qui non si tratta di Isis, qui non siamo di fronte a nessuna motivazione religiosa: anzi i giovani immigrati arrivati a migliaia di migliaia in Europa in questi mesi e generosamente accolti in Germania sono tecnicamente in fuga dalla guerra. Il pericolo dell'episodio di Colonia si nasconde proprio nelle pieghe della "normalità" di chi ne è stato protagonista. La verità di cui dobbiamo discutere è proprio questa: il rapporto dell'Islam con le donne è un tema devastante, intriso di violenza e di politica, e non è tale solo nelle forme più estreme, nelle terre più bruciate del Medioriente, nelle esperienze più allucinate e militanti delle guerre dell'Isis o del terrorismo. Tutto questo lo sappiamo, ci conviviamo da anni, è stato al centro di tante nostre analisi e battaglie civili a favore delle donne in tanti e altri paesi. Ma negli ultimi venti anni, proprio sotto la spinta di guerre e rotture interne al mondo islamico, il rapporto fra Islam e donne si è metamorfizzato in una agenda culturale e politica di dominio, usata come arma, o anche solo espressione di potere, in una vastissima area sociale, la cui linea di rottura passa dentro lo stesso mondo mussulmano. Quel che voglio dire è che tutti ricordiamo gli stupri e le violenze in Iraq durante la conquista da parte dell'Isis, e i rapimenti di Boko Haram, la schiavitù sessuale imposta alle donne cristiane, yazide. Ma val la pena qui di cominciare a ricordare anche che il maggior numero di violenze viene usato nei confronti delle stesse donne musulmane. Vogliamo ricordare le condizioni in cui progressivamente stanno scivolando all'indietro tutte le società musulmane. Ricordiamo qui, ad esempio, il trattamento subito da centinaia di donne egiziane al Cairo durante la "primavera araba", come punizione per una partecipazione, o anche solo come occasione da non perdere. Ma andrebbe ora prestata più attenzione al fatto che questo modo di rapportarsi dell'Islam alle donne proprio perché deriva dalla politica non si ferma alle frontiere. Ci sono storie che solo le organizzazioni dei diritti umani seguono: nei campi profughi europei ci sono casi di violenze, e stupri. Queste violenze sono per altro la ragione per cui i cristiani quasi mai si sono uniti alle grandi migrazioni collettive di questi ultimi mesi. Ma è anche tempo di mettere in questo elenco l'aggressività, la mancanza di rispetto, che denunciano molte donne giovani ed anziane nei quartieri delle varie città europee, incluse quelle di molte città italiane: ricordate Tor Sapienza, la disperazione e la rabbia delle donne che raccontavano (inutilmente) le offese che subivano dai gruppi di giovani immigrati illegali parcheggiati in tutte le case di accoglienza? Tutto questo non è destinato a finire. L'attuale immigrazione non è un flusso ordinato. È il frutto di eventi traumatici, multipli e contemporanei, di guerre che hanno un'espansione globale e di lungo periodo. Non sarà aggiustabile secondo la logica di un progressivo assorbimento. La gestione di questa immigrazione è già da oggi uno dei maggiori problemi economici e sociali in Europa, il motore di uno sconvolgimento politico il cui impatto è già visibile. La sospensione di Schengen da parte di due degli stati da sempre più disponibili, la Danimarca e la Svezia, segnala che davvero si sta raggiungendo un livello di guardia. E indica anche come su questo tema la socialdemocrazia (e la sinistra) sia da tempo in difficoltà a mantenere una posizione "aperturista" a tutti i costi. Le formule con cui abbiamo fin qui vissuto si rivelano inefficaci di fronte alle nuove dimensioni. Ma dentro il problema di tutti con l'integrazione, c'è un problema specifico per noi donne, come stiamo vedendo. E credo tocchi anche a noi trovare una voce in merito. La prima idea su cui lavorare per il futuro non è forse difficile da individuare perché è un po' nelle cose: costruire un doppio percorso nella accoglienza. Dare priorità e immediata accettazione alle famiglie, ai bambini, alle donne, agli anziani. In qualunque condizioni e per qualunque ragioni arrivino. Costruire invece un percorso più lungo e approfondito per le migliaia di giovani uomini che per altro costituiscono la stragrande maggioranza anche degli illegali e clandestini. Davvero tutti questi giovani uomini sono in bisogno immediato e irreversibile di rifugio? Sono tutti alla ricerca di una nuova vita? Sono tutti decisi a non ritornare nei loro paesi d'origine? Domande scomode, ma realistiche. Le regole attuali, e possono essere migliorate, forniscono già la definizione per distinguere coloro che hanno diritto all'asilo politico; ugualmente esistono chiari requisiti necessari per poter invece entrare in un paese come immigrato. Intorno a queste definizioni vanno costruite barriere successive per fare dell'ammissione in un paese un lavoro di "integrazione" che cominci ben prima della stessa entrata. E se questo processo porta a prevedere più controlli, e dunque anche a una formulazione più elastica di Schengen, va ricordato che questo è già nelle cose. È un momento delicato, in cui l'opinione pubblica deve uscire dalle emozioni, dalle rabbie per cercare di capire davvero quale sia la strada migliore per il futuro. Le donne, anzi i diritti delle donne, devono essere una delle pietre miliari di questa chiarezza. In maniera uguale e contraria al modo come questi diritti negati vengono usati come un atto di aggressione nei nostri confronti. Non voglio pensare che mia figlia, le nostre figlie, vivranno in un mondo in cui abbiamo perso i diritti che avevamo conquistato per loro. Integrare e integrarsi con le tante diversità è la più dinamica opzione della nostra società per crescere. L'accoglienza è un valore supremo. Ma senza definizioni, senza regole e senza domande è possibile che diventi la semplice riproduzione al nostro interno delle disperate periferie del mondo, la ricreazione di permanenti masse di profughi, senza che noi sappiamo cosa far né di loro né di noi stessi.
Colonia e l’attentato di massa: quanto è ancora depredabile il corpo femminile? Scrive Andrea Pomella il 7 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano. Nella notte di Capodanno, mille uomini – la maggior parte dei quali giovani e stranieri – si sono radunati nei pressi della stazione ferroviaria di Colonia e hanno dato il via a un feroce attacco di massa. Un centinaio di donne sono state sessualmente molestate, aggredite e derubate, vittime di una strategia tanto coordinata da costituire, secondo il ministro della Giustizia tedesco Heiko Maas, una forma di crimine “di una dimensione completamente nuova”. Sui giornali italiani tuttavia la notizia ha assunto una certa rilevanza solo a partire dalla mattina del 6 gennaio. I primi cinque giorni dell’anno li abbiamo passati a discutere di una bestemmia passata in sovrimpressione sulla Rai e dei sette (poi diventati ventidue) milioni di euro incassati dal nuovo film di Checco Zalone. C’è da farsi qualche domanda. Perché la notizia di mille uomini che in una sola notte aggrediscono cento donne in un luogo ristretto di una città che sorge nel cuore funzionale dell’Europa non suscita clamore né choc collettivo? Perché un evento di questa portata non riceve lo status giornalistico di “attentato di massa”? E perché la notizia non sfonda sui social network, ossia perché non fruisce neppure di quella spinta dal basso che nella contemporaneità spesso dà voce a fatti omessi dai media tradizionali? Faccio due considerazioni.
La prima: due mesi fa, a seguito degli attentati di Parigi, in mezzo al diluvio di notizie laterali, approfondimenti che approfondivano dettagli insignificanti (SkyTg24 il 15 novembre mandò in onda per tre ore, quasi ininterrottamente, un filmato che mostrava il panico a Place de la Republique, anche una volta appurato che si era trattato di un falso allarme), opinionismi più o meno autorevoli, più o meno centrati, ho impiegato tre giorni a capire – per dire – la dinamica dei fatti allo Stade de France. In pratica, la ricostruzione dei fatti non catturava l’interesse, non dico dello spettatore, ma degli stessi giornalisti che erano chiamati a farne una ricostruzione. Per chi appartiene a un pubblico d’antan e chiede semplicemente di essere informato, la vendita sentimentale delle informazioni sta diventando un problema. Così, in assenza di una ricostruzione emotiva, cento donne molestate in una notte non scaldano il pubblico dei lettori, e quindi non fondano una notizia degna di primo piano. La gravità di un fatto non è più data dal fatto in sé, ma da ciò che suscita.
La seconda: viviamo in un’era in cui è ancora radicato, anche a livello inconscio, lo stereotipo patriarcale secondo cui la molestia sessuale è il semplice risultato della natura umana. Se in uno strato più o meno profondo di coscienza collettiva l’idea del dominio maschile sulla donna non fosse ancora così consolidata, l’assalto di Colonia monopolizzerebbe l’attenzione dei lettori e quindi imporrebbe ai direttori di giornale, agli elzeviristi e ai divulgatori culturali di trattare la notizia con la rilevanza che merita. Il disinteresse generale, lo sbadiglio, la freddezza rappresentano invece l’agghiacciante risultato di un involontario test sulla coscienza popolare del cittadino europeo del Ventunesimo secolo posto di fronte al tema del corpo femminile, e alla provocatoria questione di quanto esso sia “ancora depredabile”. Credo che, anche per questo primo ventennio di secolo, ci stiamo assicurando una discreta riserva di mostruosità.
Zanardo: «No al silenzio sulle violenze di Colonia». La scrittrice e autrice de Il corpo delle donne sulle aggressioni nella città tedesca: «Pericoloso che le mie compagne siano intimorite nel prendere posizione dalla strumentalizzazione delle destre xenofobe», scrive Antonietta Demurtas il 07 Gennaio 2016 su “Lettera 43”. Hanno attraversato la piazza della stazione centrale di Colonia nella notte di San Silvestro. E per loro è iniziato l'inferno: circondate, molestate sessualmente (uno stupro già accertato), palpeggiate, derubate di soldi e telefonini da circa mille uomini di origine nordafricana, ubriachi. Le vittime sono un centinaio di donne che nella città tedesca volevano solo festeggiare il Capodanno e che sono rimaste vittime di un attacco che ora le indagini iniziano a definire «premeditato» e messo in atto da «un'organizzazione proveniente dalla vicina Düsseldorf». Il ministro della giustizia Heiko Maas ha parlato di una «dimensione completamente nuova per la criminalità organizzata». C'è chi si è concentrato nel sottolineare che l’obiettivo delle aggressioni fosse il furto, e che le violenze sessuali fossero «solo un diversivo». Resta il fatto che le donne molestate e violentate a Colonia non hanno sinora ricevuto la solidarietà che in altri casi è stata manifestata alle vittime di violenza. Si è scritto: succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul, si è cercato di mantenere un basso profilo sull'accaduto per non alimentare razzismo, intolleranza e violenza nei confronti dei migranti, proprio in un momento in cui la politica dell'accoglienza si sta rivelando il più grande fallimento dell'Ue, incapace di gestire flussi migratori e spinte discriminatorie. Con il risultato che però, alla fine, «per l'ennesima volta le donne vengono strumentalizzate, comunque vada, ci violentino o meno», dice a Lettera43.itLorella Zanardo, scrittrice e autrice del documentario Il corpo delle donne, che da anni si batte contro la mercificazione della dignità femminile. «Una reazione che definirei miserabile», dice riferendosi al modo in cui sono stati racconti i fatti di Colonia, in alcuni casi silenziati dall'opinione pubblica politically correct e dall'altra esacerbati a soli fini xenofobi. E «per rendersene conto, basta vedere come si sta raccontando nel nostro Paese».
DOMANDA. Forse po' troppo a voce bassa?
RISPOSTA. Come viene gestita la questione in Italia è vergognoso. Se diciamo: siamo donne libere e così vogliamo restare, improvvisamente leggo sul web una serie di voci critiche secondo le quali se non vogliamo dare manforte alla destra razzista e xenofoba, dobbiamo in un qualche modo stare zitte. Lo trovo un consiglio mostruoso, miserabile.
D. Che cosa si dovrebbe fare: urlare e scendere in piazza?
R. Non è una questione di femminismo, credo che un certo modo di interpretare i diritti in Italia sia superato. Indignarsi è però un diritto e un dovere, e questo non vuol dire essere xenofobi: io sono assolutamente dalla parte dei profughi, sono per l'apertura delle frontiere, voglio un'Europa accogliente.
D. Ma?
R. Ciò non toglie che davanti ai crimini di Colonia, fossero essi stati compiuti da svedesi, cinesi o marocchini, la mia condanna è comunque fortissima. Io sto dalla parte delle donne. Questa è la prima cosa.
D. Non per tutte è così, c'è chi preferisce tenere un profilo più basso per paura di essere tacciata di razzismo.
R. In questo momento trovo molto pericoloso che le mie amiche e compagne siano un po' intimorite nel prendere posizione per la paura della strumentalizzazione delle destre xenofobe. Se noi non ci facciamo sentire questo nostro silenzio può essere penalizzante non solo verso le donne ma verso i profughi stessi.
D. Che cosa si aspettava?
R. Che dicessimo tutte forte e chiaro: noi donne condanniamo assolutamente gli episodi di Colonia, e condanniamo quanto detto dalla sindaca di Colonia.
D. Henriette Reker si è spinta a dettare un 'codice' di comportamento alle donne, invitandole a tenere «a un braccio di distanza» gli sconosciuti.
R. Io sono solidale con Reker, è stata persino accoltellata proprio a causa delle sue posizioni favorevoli all'immigrazione. La sua può essere stata una uscita mal meditata, detta in un momento di tensione ma comunque pericolosa.
D. Il suo decalogo è suonato come un'inversione della colpa a carico delle donne.
R. Per questo sono preoccupatissima: noi donne abbiamo lottato secoli, rischiando anche la vita, per essere libere di autodeterminare i nostri corpi, di metterci una minigonna, di uscire a mezzanotte, per quanto, purtroppo, sappiamo bene quanto questo nel nostro Paese non sia poi così facile.
D. Ora invece il consiglio è tenere gli uomini a distanza, diffidare, temere.
R. Sì purtroppo, e se non ci alziamo tutte insieme ora per dire: al nostro territorio di libertà non rinunceremo, la situazione diventerà ancora più pericolosa. Ma dobbiamo essere abili a non farci strumentalizzare: fuori la destra da questo dibattito, da chi ci vuole dare ragione solo per fini politici.
D. Al posto del decalogo che cosa avrebbe preferito sentire?
R. Tenere gli uomini a «un braccio di distanza» è quello che mi diceva mia nonna 50 anni fa. Dobbiamo fare più attenzione alle parole, al mondo che stiamo preparando per le nostre figlie.
D. Che cosa propone?
R. La politica giusta è apertura totale e allo stesso tempo condanna verso chi non ci rispetta. Se il criminale è marocchino, siriano, turco o svedese non ci deve interessare. Non prendere posizione ora sarebbe davvero come dire che siamo un po' delle imbranate, donne impotenti.
D. In che senso?
R. Dato che non ci vogliamo far strumentalizzare, tacciamo, minimizziamo? No, dobbiamo essere fortemente dalla parte delle donne di Colonia, che questo non avvenga mai più.
D. Insomma, essere politically correct non porta a niente?
R. No, inoltre che le violenze accadono tutti i giorni non rende meno grave l'accaduto. Il fatto è che sul corpo delle donne si sono fatte le guerre, anche molto recenti se pensiamo a quanto accaduto nella ex Jugoslavia. Per questo dobbiamo difendere il nostro territorio conquistato faticosamente.
D. Sta facendo discutere un articolo del quotidiano tedesco Die Tageszeitung e riportato da Internazionale, dove si legge che: «In tutte le grandi manifestazioni in cui l’alcol abbonda, le donne devono affrontare una triste realtà...; che per certi maschi tedeschi, il carnevale o l’Oktoberfest non sono divertenti senza qualche palpatina; che succede a Colonia come in piazza Tahrir al Cairo o al parco Gezi di Istanbul». Un modo per riportare l'attenzione al fenomeno generale della violenza e minimizzare l'accaduto?
R. Spero di no, anche perché se già queste cose succedono all'Oktoberfest o in altre manifestazioni, è gravissimo, non è che perché già accaduto è meno grave. Così come sarebbe grave se si scoprisse che i fatti di Colonia sono stati resi pubblici solo 5 giorni dopo solo per non strumentalizzarlo.
D. Così a essere strumentalizzate e dimenticate sono ancora una volta le donne.
R. E non solo a Colonia. In questi giorni arrivano appelli di nuove formazioni che stanno per nascere in Italia, partiti, partitini, associazioni, tra i nomi dei futuri leader papabili non c'è una donna. E in questi momenti si spiega perché.
D. Perché?
R. Noi donne non abbiamo coraggio. Arrivano uomini di ultima categoria che senza vergogna si propongono come sindaci, amministratori, ministri, ma non c'è una italiana che faccia lo stesso. Questo dimostra la nostra incapacità di essere concentrate sui nostri interessi di donne e su chi verrà dopo di noi, e il terrore di scontentare qualche formazione di sinistra racconta questa nostra incapacità. C'è un silenzio preoccupante.
D. Silenzio che si rompe per difendere le donne solo per ribadire che «non c'è posto in Europa per chi non rispetta le nostre leggi e la nostra cultura», come ha fatto Giorgia Meloni.
R. Eppure c'è una terza via. Io temo questo popolarismo italiano ignorantissimo che si basa su: o chiudiamo le frontiere o ci violentano. Dobbiamo rifiutare questo modello, basta guardarsi intorno.
D. Dove?
R. In Norvegia, un piccolo Paese di 4 milioni di abitanti che ha avuto un flusso migratorio importante e si è trovato persone che venivano da Stati dove obiettivamente la realtà e il rapporto uomini-donne è molto diverso; così hanno creato un progetto di introduzione al Paese dove gli immigrati vengono formati agli usi e costumi del posto. Una parte è dedicata a come viene vissuto il femminile e il maschile, l'altra alla sessualità nel Nord Europa.
D. Crede che questo sia sufficiente?
R. Io credo alla possibilità che le persone cambino, si trasformino, quindi per chi viene in Europa ci deve essere un percorso di introduzione e integrazione culturale. E c'è un compito anche per noi.
D. Quale?
R. Continuare a essere molto duri e dure nel condannare la violenza contro le donne, altrimenti nessuno ci garantisce che non avverrà ancora. Ma per fare questo non c'è bisogno di conoscere la nazionalità dei violentatori.
D. Anche perché, frontiere aperte o meno, nell’Unione europea una donna su due è stata vittima di violenze fisiche o sessuali e nella maggior parte dei casi sono conoscenti e famigliari a commettere questi reati dentro le mura domestiche...
R. Esatto. Inoltre facendo finta di niente potremmo anche alimentare uno stereotipo al contrario, ovvero: nel timore che la nostra critica venga stigmatizzata dalle destre, quando questi criminali sono immigrati stiamo zitte. Se fossero stati tutti tedeschi ubriachi ci sarebbe stata una sollevazione popolare da parte delle donne europee.
D. Una discriminazione al contrario...
R. Sì, dato che sei africano ti ritengo inferiore e chiudo un occhio. Per questo bisogna fare chiarezza e non farne un fatto di razza o etnia, ma condannare per i fatti in sè che sono gravi indipendetemente da cosa c'è scritto nel passaparto di chi li ha commessi.
Germania, una epidemia di stupri da parte dei migranti, scrive Soeren Kern il 21 settembre 2015. Traduzioni di Angelita La Spada pubblicata su Imola Oggi l’1 ottobre 2015. Dove sono le donne? Dei 411.567 rifugiati/migranti che sono entrati nell’Unione Europea via mare nel 2015, il 72 per cento è costituito da uomini. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai migranti e profughi perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Una 13enne musulmana è stata violentata da un altro richiedente asilo in un centro di accoglienza a Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco sono uomini (…) il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. – L’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk). La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata stuprata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi”. “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. – Un politico bavarese citato da Die Welt. Durante un raid in una struttura di Monaco che ospita rifugiati la polizia ha scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Nel frattempo, gli stupri delle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono sempre più dilaganti. Sempre più donne e ragazze ospiti dei centri di accoglienza per profughi, in Germania, vengono stuprate, molestate sessualmente e costrette alla prostituzione dagli uomini richiedenti asili, secondo quanto asserito dalle organizzazioni di assistenza sociale tedesche. Molti degli stupri avvengono nelle strutture che ospitano uomini e donne dove, a causa della mancanza di spazio, le autorità tedesche costringono i migranti di entrambi i sessi a condividere i dormitori e i servizi igienici. Le condizioni per le donne e le ragazze presenti in queste strutture sono talmente pericolose che le donne vengono definite “selvaggina”, occupate a respingere gli assalti dei predatori maschi musulmani. Ma gli assistenti sociali affermano che molte vittime tacciono, per paura di rappresaglie. Allo stesso tempo, un numero crescente di donne tedesche di tutta la Germania viene violentato dai richiedenti asilo provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente. Molti di questi crimini sono minimizzati dalle autorità e dai media tedeschi, a quanto pare per evitare di alimentare sentimenti contrari all’immigrazione. Il 18 agosto, una coalizione composta da quattro organizzazioni di assistenza sociale e di gruppi per i diritti delle donne ha inviato una lettera di due pagine ai leader dei partiti politici del parlamento regionale dell’Assia, uno stato federato della Germania centro-occidentale, informandoli di come la situazione delle donne e dei minori sia peggiorata all’interno dei centri di accoglienza. La lettera diceva: “L’afflusso sempre più crescente dei rifugiati ha complicato la situazione per le donne e le ragazze ospiti nel centro di Giessen (HEAE) e nelle strutture succursali. “Il fatto di fornire alloggio in grandi tende, la mancanza di servizi igienici separati maschili e femminili, di locali in cui non ci si può chiudere a chiave, la mancanza di rifugi sicuri per le donne e le ragazze – tanto per citare solo alcuni fattori spaziali – aumenta la vulnerabilità delle donne e dei minori dentro queste strutture. Questa situazione gioca a favore di quegli uomini che assegnano alle donne un ruolo subordinato e trattano le donne che viaggiano sole come se fossero selvaggina. “Di conseguenza, si verificano numerosi stupri e molestie sessuali. Stiamo ricevendo sempre più segnalazioni di casi di prostituzione coatta. Va sottolineato che questi non sono episodi isolati. “Le donne e le ragazzine raccontano di essere state violentate o molestate sessualmente. Pertanto, molte donne dormono vestite. E raccontano anche di non usare i servizi igienici di notte, per paura di essere stuprate o derubate. Anche di giorno, attraversare l’accampamento è una situazione terribile per molte donne. “Molte donne – oltre a fuggire dalla guerra – scappano per evitare i matrimoni forzati o le mutilazioni genitali. Queste donne che affrontano rischi particolari, scappano da sole o con i loro figli. Anche se sono accompagnate da parenti maschi o da conoscenti, questo non sempre garantisce loro una protezione dalla violenza, perché ciò può portare a specifiche dipendenze e allo sfruttamento sessuale. “La maggior parte dei profughi di sesso femminile ha vissuto una serie di esperienze traumatizzanti nel loro paese di origine e durante la fuga. Esse sono vittime di violenze, rapimenti, torture, stupri ed estorsioni – a volte per anni. “Essere arrivate qui sane e salve e poter muoversi senza paura, è un dono per molte donne. (…) Vi invitiamo pertanto (…) a unirvi al nostro appello per creare urgentemente delle strutture protette (abitazioni o appartamenti muniti di serrature) per donne e minori che viaggiano da sole…“Queste strutture devono essere attrezzate in modo tale che gli uomini non vi abbiano accesso, ad eccezione degli operatori del soccorso e del personale addetto alla sicurezza. Inoltre, le camere da letto, i salotti, e cucine e i servizi igienici devono essere interconnessi in modo da formare un’unità completamente autonoma e che può essere raggiunta solo attraverso un accesso dotato di serratura e monitorato”. Dopo che diversi blog hanno richiamato l’attenzione sulla lettera il LandesFrauenRat (LFR) Hessen, un gruppo di pressione che si batte per i diritti delle donne, ha reso pubblico il documento politicamente scorretto sul proprio sito web, per poi rimuoverlo all’improvviso il 14 settembre, senza spiegarne il motivo. In Germania, il problema degli stupri e delle molestie sessuali nei centri di accoglienza dei profughi è un problema a livello nazionale. In Baviera, le donne e le ragazze ospiti della struttura di Bayernkaserne, una ex base militare a Monaco, ogni giorno rischiano di essere stuprate e indotte alla prostituzione coatta, secondo i gruppi per i diritti delle donne. Sebbene la struttura disponga di dormitori femminili, le stanze sono prive di serrature e gli uomini controllano l’accesso ai servizi igienici. Circa l’80 per cento dei profughi/migranti accolti a Monaco è costituito da uomini, secondo l’emittente radiotelevisiva pubblica della Baviera (Bayerischer Rundfunk), che ha riportatola notizia che il prezzo per fare sesso con una donna richiedente asilo ammonta a 10 euro. Un assistente sociale ha definito così la struttura: “Noi siamo il più grande bordello di Monaco”. La polizia continua a dire di non essere in possesso di alcuna prova che nel centro si commettono stupri, anche se in un raid è stato scoperto che gli addetti alla sicurezza erano implicati in un traffico di droga e armi e chiudevano un occhio sulla prostituzione. Il 28 agosto, un 22enne eritreo richiedente asilo é stato condannato a un anno e otto mesi di carcere per tentata violenza sessuale ai danni di una donna curda irachena di 30 anni in un centro di accoglienza della città bavarese di Höchstädt. Il giovane ha avuto una riduzione della pena grazie agli sforzi dell’avvocato della difesa, che ha convinto il giudice del fatto che la situazione dell’imputato nella struttura era disperata: “Da un anno, egli se ne sta con le mani in mano senza pensare a niente”. Il 26 agosto, un 34enne richiedente asilo ha tentato di stuprare una donna di 34 anni nella lavanderia situata in un centro di accoglienza a Stralsund, una città nei pressi del Mar Baltico. Il 6 agosto, la polizia ha rivelato che una 13enne musulmana era stata violentata da un altro richiedente asilo in una struttura di Detmold, una città situata nella parte centro-occidentale della Germania. La ragazzina e la madre avevano abbandonato il loro paese di origine per sfuggire a una cultura di violenza sessuale; e a quanto pare, lo stupratore era un loro connazionale. Anche se lo stupro è avvenuto a giugno, la polizia ha taciuto per quasi tre mesi, fino a quando i media locali non hanno pubblicato un articolo a riguardo. Secondo un commento editoriale espresso nel quotidiano Westfalen-Blatt, la polizia si rifiuta di rendere pubblici i crimini commessi dai profughi e migranti perché non vuole conferire legittimità agli oppositori delle migrazioni di massa. Il capo della polizia Bernd Flake ha ribattuto dicendo che il silenzio era finalizzato a tutelare la vittima. “Noi continueremo con questa politica [di non informare l'opinione pubblica], quando i reati sono commessi nelle strutture temporanee per profughi”, egli ha detto. Durante il fine settimane del 12-14 giugno, una ragazza di 15 anni ospite di un centro di accoglienza di Habenhausen, un quartiere della città settentrionale di Brema, è stata ripetutamente violentata da altri due richiedenti asilo. La struttura è stata descritta come una “casa degli orrori” a causa della spirale di violenza perpetrata da bande rivali di giovani provenienti dall’Africa e dal Kosovo. Il centro, che ospita complessivamente 247 richiedenti asilo, ha una capacità di accogliere 180 persone, e una caffetteria con 53 posti a sedere. Nel frattempo, gli stupri sulle donne tedesche da parte dei richiedenti asilo sono dilaganti. Qui di seguito alcuni casi di stupro commessi solo nel 2015. L’11 settembre, una 16enne è stata violentata da uno sconosciuto “uomo dalla pelle scura che parlava un tedesco stentato” nei pressi di un centro di accoglienza della città bavarese di Mering. L’aggressione è avvenuta mentre la ragazza si stava recando dalla struttura alla stazione ferroviaria. Il 13 agosto, la polizia ha arrestato due richiedenti asilo, di 23 e 19 anni, per aver stuprato una 18enne tedesca dietro una scuola di Hamm, una città del Nord Reno-Westfalia. Il 26 luglio, un ragazzino di 14 anni è stato molestato sessualmente nel bagno di un treno regionale, a Heilbronn, una città situata nella parte sudoccidentale della Germania. La polizia sta cercando un uomo “dalla pelle scura” tra i 30 e i 40 anni e “dall’aspetto arabo”. Lo stesso giorno, un 21enne tunisino richiedente asilo ha stuprato una ragazza di 20 anni, nel quartiere di Dornwaldsiedlung a Karlsruhe. La polizia ha taciuto sul crimine fino al 14 agosto, quando un giornale locale ha reso pubblica la notizia. Il 9 giugno, due somali richiedenti asilo, di 20 e 18 anni, sono stati condannati a sette anni e mezzo di carcere per aver violentato una 21enne tedesca a Bad Kreuznach, una città della Renania-Palatinato, il 13 dicembre 2014. Il 5 giugno, un somalo di 30 anni richiedente asilo chiamato “Ali S” è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 20enne di Monaco. Ali aveva già scontato una condanna a sette anni per violenza sessuale, e cinque mesi dopo il suo rilascio aveva colpito ancora. Nel tentativo di proteggere l’identità di Ali S., un quotidiano di Monaco ha fatto riferimento a lui chiamandolo con il nome più politicamente corretto di “Joseph T.”. Il 22 maggio, un marocchino di 30 anni è stato condannato a quattro anni e nove mesi di carcere per aver tentato di stuprare una 55enne a Dresda. Il 20 maggio, un 25enne senegalese richiedente asilo è stato arrestato dopo una tentata violenza sessuale ai danni di una ragazza tedesca di 20 anni, nella piazza Stachus, nel cuore di Monaco. Il 16 aprile, un iracheno di 21 anni richiedente asilo è stato condannato a tre anni e dieci mesi di carcere per aver stuprato una 17enne al festival della città bavarese di Straubing, nell’agosto 2014. Il 7 aprile, un 29enne richiedente asilo è stato arrestato per la tentata violenza sessuale ai danni di una ragazzina di 14 anni, nella città di Alzenau. Il 17 marzo, due afgani richiedenti asilo, di 19 e 20 anni, sono stati condannati a cinque anni di carcere per lo stupro “particolarmente aberrante” di una 21enne tedesca aKirchheim, una città nei pressi di Stoccarda, il 17 agosto 2014. L’11 febbraio, un eritreo di 28 anni richiedente asilo è stato condannato a quattro anni di carcere per aver violentato una 25enne tedesca a Stralsund, sul Mar Baltico, nell’ottobre 2014. L’1 febbraio, un somalo di 27 anni richiedente asilo è stato arrestato per aver tentato di stuprare una donna nella città bavarese di Reisbach. Il 16 gennaio, un immigrato marocchino di 24 anni ha violentato una 29enne a Dresda. Decine e decine di altri casi di stupro e tentata violenza sessuale – casi in cui la polizia sta cercando specificatamente stupratori stranieri (la polizia tedesca spesso li chiama Südländer ossia “meridionali”) – restano irrisolti. Qui di seguito è riportata una lista parziale di episodi commessi nell’agosto 2015. Il 23 agosto, un uomo “dalla pelle scura” ha tentato di violentare una donna di 35 anni a Dortmund. Il 17 agosto, tre uomini “meridionali” hanno cercato di stuprare una 42enne a Ansbach. Il 16 agosto, un uomo “meridionale” ha violentato una donna a Hanau. Il 12 agosto, un uomo “meridionale” ha stuprato una 17enne a Hannover. Lo stesso giorno, un altro uomo “meridionale” ha mostrato i genitali a una donna di 31 anni a Kassel. La polizia ha detto che un episodio simile si era verificato nella stessa zona l’11 agosto. Il 10 agosto, cinque uomini “di origine turca” hanno tentato di violentare una ragazza a Mönchengladbach. Lo stesso giorno, un uomo “meridionale” ha stuprato una 15enne aRintein. L’8 agosto, un altro uomo “meridionale” ha violentato una 20enne a Siegen. Il 3 agosto, un “nordafricano” ha stuprato una bambina di 7 anni, in pieno giorno, in un parco di Chemnitz, una città della Germania orientale. L’1 agosto, un uomo “meridionale” ha tentato di violentare una 27enne nel centro di Stoccarda. Intanto, i genitori sono stati avvertiti di tenere d’occhio le loro figlie. La polizia della città bavarese di Mering, dove una 16enne è stata violentata l’11 settembre, ha avvisato i genitori di non permettere ai loro figli di uscire da soli. La polizia ha inoltre consigliato alle donne di non recarsi da sole alla stazione ferroviaria essendo quest’ultima nelle vicinanze di un centro di accoglienza per rifugiati. Nella città bavarese di Pocking, gli amministratori del Wilhelm-Diess-Gymnasium hanno avvertito i genitori di non fare indossare abiti succinti alle loro figlie, al fine di evitare “malintesi” con i 200 profughi musulmani ospitati in alloggi di emergenza in un edificio vicino alla scuola. La lettera diceva: “I cittadini siriani sono per lo più musulmani e parlano arabo. I profughi hanno la loro cultura. Poiché la nostra scuola si trova proprio accanto la struttura in cui essi risiedono, le vostre figlie dovrebbero indossare abiti modesti per evitare malintesi. Camicette e top scollati, pantaloncini corti o minigonne potrebbero creare malintesi. Un politico locale citato dal quotidiano Die Welt ha detto: “Quando gli adolescenti musulmani si recano nelle piscine all’aperto, sono turbati nel vedere le ragazze in bikini. Questi giovani, che provengono da una cultura dove non si approva che le donne mostrino la pelle nuda, seguiranno le ragazze e le infastidiranno senza rendersene conto. Naturalmente, questo genera paura”. L’aumento dei reati sessuali in Germania è alimentato dalla preponderanza di uomini musulmani nel mix di profughi/migranti che entrano nel paese. Una cifra record di 104.460 richiedenti asilo è arrivata in Germania ad agosto, facendo salire, nei primi otto mesi del 2015, il numero complessivo a 413.535. Il paese prevede di accogliere quest’anno 800.000 arrivi tra profughi e migranti, una cifra che si è quadruplicata rispetto al 2014. Almeno l’80 per cento dei migranti e profughi arrivati è musulmano, secondo una recente stima fornita dal Consiglio centrale dei musulmani in Germania (Zentralrat der Muslime in Deutschland, ZMD), un gruppo musulmano di copertura, con sede a Colonia. Anche i richiedenti asilo sono prevalentemente di sesso maschile. Dei 411.567 migranti e rifugiati che finora quest’anno sono entrati nell’Unione Europa via mare, il 72 per cento è costituito da uomini, il 13 per cento da donne e il 15 per cento da bambini, secondo i calcoli dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Le informazioni sull’identità sessuale di chi arriva via terra non sono disponibili. Secondo le statistiche tedesche sulla migrazione, dei richiedenti asilo arrivati in Germania nel 2014, il 71,5 per cento di quelli di età compresa tra i 16 e i 18 anni era costituito da uomini; lo stesso dicasi per il 77,5 per cento di coloro che avevano tra i 18 e i 25 anni, così come per il 73,5 per cento di chi aveva tra i 25 e i 30 anni. I dati per il 2015 non sono ancora disponibili.
Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale? Scrive "gotquestions.org". Domanda: "Dio e la Bibbia sono caratterizzati da discriminazione sessuale?" Risposta: La discriminazione sessuale avviene quando un genere sessuale, di solito quello maschile, domina sull’altro genere, di solito quello femminile. La Bibbia contiene molti riferimenti a donne che, visti dalla nostra mentalità moderna, sembrano discriminatori nei confronti delle donne. Dobbiamo tuttavia ricordare che, quando la Bibbia descrive un’azione, non necessariamente la Bibbia sta dicendo che quell’azione sia giusta. La Bibbia descrive uomini che trattano le donne come se fossero mera proprietà, ma ciò non significa che Dio approva quel modo di agire. La Bibbia ha più interesse a riformare le nostre anime e meno a riformare le nostre società. Dio sa che un cuore cambiato produrrà un comportamento cambiato. Ai tempi dell’Antico Testamento, quasi ogni cultura nel mondo aveva una struttura patriarcale. La condizione storica di quei tempi è molto chiara, non solo nella Scrittura ma anche nelle regole che governavano la maggior parte delle società. Quando quelle condizioni sono giudicate dai valori moderni e dal punto di vista del mondo, sono etichettate come sessualmente discriminanti. Dio ha stabilito l’ordine nella società, non l’uomo, e Lui è l’autore dei principi costitutivi di autorità. Tuttavia, come in ogni altra cosa, l’uomo caduto ha corrotto questo ordine. Ciò ha provocato l’ineguaglianza tra la posizione degli uomini e delle donne in tutta la storia. L’esclusione e la discriminazione che troviamo nel nostro mondo non sono una novità. Sono il risultato della caduta dell’uomo e dell’ingresso del peccato nel mondo. Quindi, possiamo giustamente dire che la terminologia e la pratica della discriminazione sessuale sono il risultato del peccato. La rivelazione progressiva della Bibbia ci porta alla cura della discriminazione sessuale e a tutte le pratiche peccaminose della razza umana. Per poter trovare e mantenere un equilibrio spirituale tra le posizioni di autorità volute da Dio, dobbiamo guardare alla Scrittura. Il Nuovo Testamento è l’adempimento dell’Antico e in esso troviamo in principi che ci indicano la giusta linea di autorità e la cura del peccato, che è il male dell’umanità, e che include la discriminazione sessuale. La croce di Cristo è il grande fattore equalizzante. Giovanni 3:16 dice “Chiunque crede” e questa affermazione inclusiva non lascia fuori nessuno a causa di posizioni sociali, capacità mentali o genere sessuale. Anche in Galati troviamo un brano che parla delle pari opportunità riguardanti la salvezza: “Perché siete tutti figli di Dio per la fede in Cristo Gesù. Infatti voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è qui né Giudeo né Greco; non c'è né schiavo né libero; non c'è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3:26-28). Non c’è discriminazione sessuale alla croce. La Bibbia non fa discriminazioni sessuali nella sua attenta presentazione dei risultati del peccato sia negli uomini che nelle donne. La Bibbia parla di ogni tipo di peccato: tanto la schiavitù e i legami quanto i fallimenti dei suoi più grandi eroi. Eppure ci dà anche la risposta e il rimedio per quei peccati contro Dio e contro il Suo ordine stabilito – un giusto rapporto con Dio. L’Antico Testamento anticipava il supremo sacrifico, e ogni volta che veniva fatto un sacrificio per il peccato, esso insegnava quanto fosse importante la riconciliazione con Dio. Nel Nuovo Testamento, “l’Agnello che toglie i peccati del mondo” nasce, muore, viene sepolto e risuscita e poi ascende al Suo posto in cielo da dove intercede per noi. Credendo in Lui si trova la cura per tutto il peccato, incluso quello della discriminazione sessuale. L’accusa che nella Bibbia c’è la discriminazione sessuale si fonda su una conoscenza superficiale della Scrittura. Quando uomini e donne da ogni epoca hanno rispettato i loro ruoli stabiliti da Dio e hanno vissuto in base al “così dice il Signore”, allora c’è stato un meraviglioso equilibrio tra i generi sessuali. Quell’equilibrio corrisponde a come Dio aveva stabilito le cose nel principio e a come Egli le stabilirà alla fine. C’è troppa attenzione dedicata ai vari prodotti del peccato e troppa poca attenzione alle sue radici. Solo quando c’è una riconciliazione personale con Dio attraverso Gesù Cristo troviamo vera uguaglianza. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8:32). E’ anche molto importante comprendere che, sebbene la Bibbia attribuisca ruoli diversi a uomini e a donne, ciò non equivale ad una discriminazione sessuale. La Bibbia rende molto chiaro che Dio si aspetta che siano gli uomini a condurre la chiesa e la casa. Ma ciò non rende inferiori le donne? Assolutamente no! Significa che le donne sono meno intelligenti, meno capaci o che sono considerate inferiori agli occhi di Dio? Assolutamente no! Significa è che, nel nostro mondo contaminato dal peccato, ci deve essere una struttura e delle autorità. Dio ha stabilito i ruoli di autorità per il nostro bene. La discriminazione sessuale è l’abuso di questi ruoli, non l’esistenza di questi ruoli.
L'ISLAM CONSIDERA LA DONNA INFERIORE ALL'UOMO: ECCO LE CONSEGUENZE PER CHI SPOSA UN MUSULMANO. Una ragazza che si innamora di un islamico dovrebbe tenere a mente le 7 differenze giuridiche che priveranno della libertà lei e i suoi figli (anche se abitano in Occidente), scrive Gianfranco Trabuio. Un approccio corretto alla conoscenza della antropologia culturale di popolazioni diverse da quelle occidentali, deve necessariamente fare riferimento alla religione di quelle popolazioni. La dimensione religiosa è certamente quella più importante e più pervasiva presso tutti i popoli, per l'Islam addirittura è la religione che regolamenta anche la vita civile, il diritto civile e penale, la politica. [...] La concezione occidentale dei diritti universali dell'uomo, come deliberati dall'ONU, non trova riscontro nelle legislazioni dei paesi musulmani. Tanto meno dopo le recenti rivoluzioni popolari che hanno portato al potere i partiti di ispirazione fondamentalista, rigidamente ancorati alla legislazione di derivazione coranica. [...] E' opportuno illustrare, anche se brevemente, cosa si trova nei testi sacri dell'Islam, per esempio negli Hadith (sentenze) del profeta. La considerazione di Muhammad per le donne: dagli hadith (editti) del profeta: [...] Sahih Al Bukhari, Hadith 3826, narrato da Abu Said Al Khudri Il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "Sì". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". [...] L'AFFERMAZIONE SULLA INFERIORITÀ DELLA DONNA RISPETTO ALL'UOMO, HA CONSEGUENZE IMPORTANTI PER LA VITA DI TUTTI I GIORNI. Non ci si riferisce qui alle disuguaglianze che possono esistere a livello sociologico tra uomo e donna, queste sono purtroppo diffuse in tutte le società, nel mondo musulmano come in altre culture o civiltà. È necessario parlare della disuguaglianza giuridica, che ha delle conseguenze durature perché è normativa, spesso impedendo o comunque ritardando qualunque adeguamento alla mentalità dei musulmani e delle musulmane di oggi. [...]
1. LA DONNA HA SOLO IL RUOLO DI OGGETTO DI PIACERE E DI RIPRODUZIONE. C'è anzitutto una disparità nella possibilità di contrarre il matrimonio. All'uomo viene riconosciuta la possibilità di avere contemporaneamente fino a quattro mogli (poligamia), mentre alla donna viene negata la facoltà di sposare più di un uomo (poliandria). La poligamia legalmente sancita significa una differenza radicale tra uomo e donna. All'uomo dà la sensazione che la donna è fatta per il suo piacere e, al limite, che è una sua proprietà che può "arare" come vuole, come afferma letteralmente il Corano (sura della Vacca II, 223). Se ha la possibilità materiale, ne "acquista" un'altra. La donna si trova in una condizione di sottomissione nel ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione; questo ruolo è confermato dal fatto che non viene mai chiamata con il suo nome, ma sempre in relazione a un uomo: figlia di…, moglie di…,
2. I FIGLI NATI DA UN MUSULMANO SONO AUTOMATICAMENTE MUSULMANI (LA RELIGIONE DELLA MOGLIE NON CONTA). La donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede, a meno che questi non si converta prima all'Islam. Il divieto è dovuto al fatto che, nelle società patriarcali orientali, i figli adottano sempre la religione del padre. Ma è anche giustificato dal fatto che il padre è il garante dell'educazione religiosa dei figli, e quindi solo se è musulmano può assicurare la loro crescita secondo i principi islamici. Ricordo a questo proposito che i figli nati da un musulmano sono considerati a tutti gli effetti musulmani, anche se battezzati. Perciò ogni matrimonio misto (tra un musulmano e una cristiana o un'ebrea, gli unici due casi contemplati nella sharia) accresce numericamente la comunità musulmana e riduce la comunità non musulmana. Non mi soffermo in questa sede per approfondire questo argomento così tragico per le conseguenze delle mogli cristiane sposate a un musulmano. I fatti di cronaca sono lì a dimostrare quanta leggerezza, e ignoranza, ci sia da parte delle nostre donne e da parte della Chiesa cattolica nel contrarre e nel concedere la dispensa per questi matrimoni misti.
3. L'UOMO PUO' RIPUDIARE LA MOGLIE QUANDO E COME VUOLE (LA DONNA NON PUO'). Il marito ha la facoltà di ripudiare la moglie ripetendo tre volte la frase «sei ripudiata» in presenza di due testimoni musulmani maschi, adulti e sani di mente, anche senza ricorrere a un tribunale. La cosa più assurda è che se il marito dovesse in seguito pentirsi della sua decisione e intendesse "recuperare" nuovamente sua moglie, quest'ultima dovrebbe prima sposarsi con un altro uomo che dovrà a sua volta ripudiarla. La donna passa in tal caso di mano in mano per rispettare formalmente la Legge. La moglie invece non può ripudiare il marito. Potrebbe chiedere il divorzio, che però diviene per lei motivo di riprovazione e la mette in una condizione sociologica molto fragile. Il ripudio è comunque vissuto come un'umiliazione per la donna e si presume sempre che lei abbia qualche problema a livello fisico o morale. Infine, la facilità con la quale il marito può ripudiare la moglie senza dover giustificare la decisione, la rende totalmente dipendente dal suo stato d'animo, con il costante timore di essere allontanata. È come una spada di Damocle che pende sulla sua testa: se non si comporta secondo il desiderio del marito potrebbe essere ripudiata, e allora dovrà cercarne un altro che accetti di prenderla con sé.
4. DIVORZIO FACILE SENZA TRIBUNALE. In quarto luogo c'è da considerare la facilità con cui si ottiene il divorzio, che avviene quasi sempre su richiesta dell'uomo. Tradizionalmente, non c'è neppure bisogno di andare in tribunale. È vero che un hadith di Muhammad, il Profeta, dice che «il divorzio è la più odiosa delle cose lecite», ma comunque è permesso.
5. I FIGLI SONO CONSIDERATI DI PROPRIETA' DEL PADRE (ANCHE IN CASO DI DIVORZIO). L'affidamento della prole, in seguito al divorzio, è un altro esempio di disuguaglianza. I figli "appartengono" al padre, che decide della loro educazione, anche se sono provvisoriamente affidati alla madre fino all' età di sette anni. Solo il padre ha la potestà genitoriale.
6. ANCHE NELL'EREDITA' LA DONNA E' CONSIDERATA INFERIORE. C'è poi la questione dell'eredità. Alla femmina ne spetta la metà del maschio, un provvedimento che trova fondamento nella situazione socio-economica in cui la famiglia viveva anticamente: dato che, secondo il Corano, è l'uomo che ha l'obbligo di mantenere la donna e l'intera famiglia, era logico che dovesse disporre di un piccolo fondo a cui attingere. Anche in questo caso una disuguaglianza fissata dalla legge divina aumenta la dipendenza della donna dall'uomo.
7. LA TESTIMONIANZA DI UN UOMO VALE COME QUELLA DI DUE DONNE. Una settima differenza a livello giuridico è che la testimonianza del maschio vale come quella di due femmine. Questo si basa su un hadith di Muhammad, molto diffuso negli ambienti musulmani nonostante la sua autenticità sia piuttosto discussa, in cui si afferma che «la donna è imperfetta nella fede e nell'intelligenza». Quando si chiede ai fuqaha, agli esperti della legge, di spiegare il motivo rispondono che la donna è imperfetta quanto alla fede perché, in certe situazioni, ad esempio durante le mestruazioni, la sua preghiera e il suo digiuno non sono validi e la sua pratica religiosa è dunque imperfetta. Riguardo la seconda parte dell'affermazione – l'"imperfezione" nell'intelligenza- forse un tempo questo poteva essere spiegato sociologicamente tenendo presente che le donne studiavano meno, che erano meno coinvolte nella vita sociale e dedite soltanto ai lavori domestici, ma da tempo tutto ciò non vale più. Eppure nella maggioranza dei tribunali dei Paesi islamici vige ancora questo principio nonostante le proteste delle associazioni femministe. In alcuni Paesi i fondamentalisti chiedono anche che alle donne sia vietato di fare da testimoni nei processi in cui sono previste le pene coraniche.
Nota di BastaBugie: il Corano prevede esplicitamente che le mogli non ubbidienti vadano picchiate. Si potrebbe obiettare che ci sono anche cristiani che picchiano la moglie, ma il paragone non regge. Infatti il Nuovo Testamento prevede che non si possa mai picchiare la moglie. La lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini (Ef 5,25.28) nei rapporti tra moglie e marito afferma: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. (...) Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso". Dunque il cristiano che picchia la moglie è un cattivo cristiano, mentre un musulmano che picchia la moglie è un buon musulmano. Anzi il musulmano che non picchiasse la moglie ribelle sarebbe un cattivo musulmano che non applica il Corano. Consigliamo la lettura di un articolo pubblicato in BastaBugie n.170 del 10 dicembre 2010: IL CORANO PERMETTE AL MARITO DI PICCHIARE LA MOGLIE - Allah ha onorato le donne istituendo la punizione delle bastonate, che però vanno date secondo regole precise: senza lasciar segni visibili e solo per una buona causa (ad esempio se lei si nega a letto). Fonte: Io amo l'Italia, 07/09/2012 Pubblicato su BastaBugie n. 262
La parità uomo-donna è ancora una meta da raggiungere, non un fatto acquisito. Nella realtà, toccano spesso alle donne compiti gravosi e poco gratificanti. Le loro possibilità di coltivare i propri interessi e seguire le proprie inclinazioni possono essere fortemente limitate. Sul lavoro, una donna trova spesso più difficoltà di un uomo. L'obiettivo di tutelare i diritti delle donne è perseguito dai movimenti femministi e fatto proprio da alcuni soggetti politici. A livello di leggi, l'Italia può vantare un ordinamento fra i più avanzati del mondo. La parità di diritti e di dignità fra uomo e donna è affermata senza mezzi termini, nella famiglia come nella società. Poiché le discriminazioni esistono di fatto, è a volte necessario prevedere garanzie speciali per le donne, ma è auspicabile che queste diventino inutili con l'evoluzione del costume. Leggi che riguardano espressamente le donne si giustificano solo in casi particolari, per esempio per la tutela della maternità. Il cammino verso un'effettiva parità è in pieno svolgimento e i progressi nell'arco dei decenni sono evidenti. La emancipazione della donna dai soli compiti familiari e la partecipazione alla vita pubblica e al lavoro esterno è realizzata da un numero crescente di donne. Nelle scuole di ogni livello il numero di studentesse e studenti è uguale. Abbiamo buon numero di donne nella magistratura, nell'insegnamento, nella medicina, alla guida di autobus, operaie, commercianti. In campi come la politica, l'ingegneria, la dirigenza burocratica e industriale, il numero delle donne è ancora minore di quello degli uomini, ma la loro presenza non è vista come un fatto eccezionale. Sono state eliminate norme odiose, come il delitto d'onore o l'obbligo per la moglie di "seguire il marito" per la residenza. Oggi ogni donna ha realmente la possibilità di scegliere il tipo di vita che vuole intraprendere. Trova ancora, però, maggiori difficoltà di un uomo, e in particolare rischia spesso di dover scegliere fra realizzazione familiare e realizzazione sul lavoro. Gustavo Avitabile.
"Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". A parole progressisti, a casa sessisti. Dossier Istat sugli stereotipi di genere, scrive "L'Huffington Post" il 09/12/2013. La maggioranza schiacciante degli italiani (77,5%) è convinta che non debba toccare all'uomo prendere le decisioni più importanti della famiglia, e sempre una percentuale altissima (80%) è sicura che gli uomini non sono affatto dirigenti o leader politici migliori delle donne. Allo stesso tempo, nonostante per quattro cittadini su dieci le donne subiscano evidenti discriminazioni di genere, un italiano su due ritiene che gli uomini siano meno adatti ad occuparsi delle faccende di casa e la metà della popolazione in fondo trova giusto che in tempo di crisi i datori di lavoro debbano dare la precedenza ai maschi. Non solo: nelle coppie - anche in quelle che litigano per decidere chi carica la lavatrice e porta il bambino dal dottore - sia le donne che gli uomini arrivano alla conclusione che il carico di lavoro casalingo sia equo. E' il ritratto di una nazione ancora intrappolata negli stereotipi di genere quello presentato oggi dal dipartimento Pari Opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri e dall'Istat che ha curato lo studio "Stereotipi, rinunce e discriminazioni di genere". "Sebbene una parte cospicua della popolazione sembra aver lasciato perdere la convinzione che gli uomini debbano prendersi maggiori responsabilità delle donne, continua a esistere uno zoccolo duro che resiste al cambiamento", commenta la curatrice dello studio Linda Laura Sabbadini, capo dipartimento dell'Istat. Gli stereotipi contro le donne - più diffusi al Sud, negli anziani e nei ceti sociali meno istruiti - sono maggiormente cari agli uomini: il 60,3% e' convinto che una madre lavoratrice non possa stabilire un buon rapporto con i figli come una madre che non lavora. E, in generale, quattro uomini su dieci stima che non esista alcuna discriminazione di genere nei confronti delle donne. Sorprendentemente sono anche le donne a nutrire gli stereotipi su se stesse oppure a negarli: se per la maggioranza degli italiani (57,7%) gli uomini godono di una situazione migliore, il 50,6% delle italiane pensa che le donne in Italia non patiscano alcuna discriminazione. Gli svantaggi riconosciuti sono legati al lavoro: le donne sono maggiormente svantaggiate nel trovare una professione adeguata al titolo di studio, nel guadagnare quanto i colleghi maschi, nel fare carriera e conservare il posto di lavoro. Ecco perché moltissime donne (il 44,1% contro il 19,9% degli uomini) ammettono di avere fatto rinunce in ambito lavorativo perché hanno dovuto occuparsi della famiglia e dei figli. "La politica non può intervenire proponendo una misura legislativa per cambiare l'immaginario degli italiani", afferma Maria Cecilia Guerra, viceministra al Welfare con delega alle Pari Opportunità. Meglio "fare in modo che la società si faccia carico dei soggetti deboli come i bambini, gli anziani, i disabili" liberando le donne da quel tradizionale compito di cura. Non esiste invece alcuna differenza di genere nelle discriminazioni che gli italiani (25%) dicono di avere subito, specialmente a scuola e nel lavoro, e legate secondo gli intervistati alla condizione sociale originaria e alla provenienza territoriale (Sud). Una scarsissima mobilità sociale che secondo Lucia Annunziata "e' accentuata dalla crisi economica e racconta la rabbia delle persone che sentono di essere escluse dalla possibilità di riscatto", un senso di impotenza specialmente avvertito nelle regioni del Meridione "che sta anche alla base del grillismo". Quanto alle donne, la direttrice dell'Huffington Post sente che "ancora faticano a proporsi con sicurezza nel campo delle professioni poiché si sentono in difetto e invece dovrebbero pensare che il lavoro non ha genere". E' ancora la parte economicamente più debole del Paese a colpire la curatrice Sabbadini: "nonostante la condizione delle donne nel Sud sia peggiore dal punto di vista lavorativo e sociale, la percezione degli stereotipi e delle discriminazioni subite sia molto meno evidente". Il segno che "la presa di coscienza degli stereotipi e' ancora lenta nelle regioni meridionali". In definitiva, conclude, servirebbe "un barometro delle opinioni" curato dall'Istituto di Statistica per misurare le idee e le percezioni degli italiani sui fenomeni sociali politici. Uno strumento che darebbe il polso del Paese sulle questioni fondamentali.
Parità uomo donna: a che punto siamo. La quota di donne che lavorano è cresciuta incessantemente in Europa negli ultimi anni, e il livello d'istruzione delle donne è oggi superiore a quello degli uomini. Ciò nonostante, la maggior parte delle donne sono ancora escluse dai vertici della vita sociale, economica e politica. La differenza media di retribuzione tra uomini e donne, ad esempio, si è stabilmente assestata sul 15% dal 2003, scendendo di un solo punto dal 2000, e la maggior parte delle donne recentemente affacciatesi sul mercato del lavoro sono entrate in settori e professioni dove si riscontrava già una forte presenza femminile. La presenza di donne dirigenti nelle imprese ristagna al 33%, mentre progredisce assai lentamente in campo politico; infatti appena il 23% dei parlamentari nazionali ed il 33% degli eurodeputati sono donne. Lo stesso dicasi quanto alla presenza delle donne nei governi nazionali, che da alcuni anni viene regolarmente monitorata dalla Fondazione Robert Schuman per tutti i paesi dell'UE. Un recente studio della CES mostra come anche tra le organizzazioni dei lavoratori la presenza delle donne nei posti di responsabilità sia ancora troppo debole, nonostante sia in crescita l'affiliazione delle donne ai sindacati di tutta Europa. Il Rapporto dell'Organizzazione mondiale del lavoro (OIL) sulle tendenze del lavoro delle donne nel mondo, pubblicato in occasione della Giornata internazionale della donna, mostra chiaramente come i progressi che pure si sono realizzati in questi ultimi anni hanno ridotto in maniera ancora insufficiente le disparità tra uomini e donne. In occasione della Giornata internazionale della donna, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro ha raccolto tutti i suoi lavori più recenti sul tema della parità uomo-donna. Il Consiglio d’Europa invita invece gli Stati membri e i loro cittadini a rafforzare l’impegno contro la violenza nei confronti delle donne. Si stima infatti che una percentuale compresa tra il 20% e il 25% delle donne abbia subito violenze fisiche almeno una volta nella loro vita e che oltre il 10% ha subito violenza sessuale. Anche l'Unesco celebra in questi giorni la giornata internazionale della donna, mettendo l'accento sul ruolo delle donne nella scienza. Per quanto riguarda l'Italia, il Consiglio dei Ministri del 27 febbraio scorso ha approvato lo schema di decreto legislativo di recepimento della Direttiva comunitaria 2006/54/CE concernente l'attuazione del principio delle pari opportunità fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. Con questo decreto si introducono anche nel nostro paese molte novità nel codice delle pari opportunità. Ad esempio: il principio generale del "mainstreaming di genere", che obbliga a tener conto dell'obiettivo della parità tra uomini e donne in tutti gli atti legislativi e amministrativi; si ampliano le nozioni di discriminazione, rendendo più forti e omogenee le tutele, s'include la discriminazione legata al cambiamento di sesso, si vieta di discriminare attraverso i criteri di selezione e nelle condizioni di assunzione, si vietano trattamenti economici differenziati a parità di lavoro, si vietano discriminazioni in caso di licenziamento e di sospensione temporanea, si assicura il diritto di beneficiare, dopo congedi parentali, degli eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero spettati alla lavoratrice o al lavoratore durante il periodo di assenza. (Marzo 2008 Osservatorio Inca).
Donne, carriere in trappola. Colpa di discriminazioni e pregiudizi. Troppo carina per far l’ingegnere. Troppo emotiva per decidere. Troppo dolce per comandare. Sono tutti stereotipi: che danneggiano anche le aziende, scrive Francesca Sironi su "L'Espresso" il 03 gennaio 2016. Quanto può dire una foto. È il 9 novembre, sul palco parla Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario, il suo nome saldato alla legge che dal 2011 impone la presenza femminile nei board delle società quotate (allora le donne erano il 6 per cento, ora sono il 23). In prima fila, ad ascoltarla, siedono Giuseppe Vegas, presidente della Consob, e Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato della Borsa italiana. Dormono, entrambi. O per lo meno, se ne stanno a capo chino, occhi chiusi, mani in grembo. Istantanea casuale di un rapporto che resta burrascoso: cosa devono fare le manager, le parlamentari, le funzionarie, le impiegate, le ingegnere, per essere prese sul serio dai colleghi? Cosa devono dimostrare, ancora, per farsi arruolare, assumere, riconoscere e ascoltare, alla pari degli uomini? È solo una foto, certo, ma il problema è globale. Isis Anchalee, una sviluppatrice che ha prestato il proprio sorriso a una campagna pubblicitaria per l’azienda informatica in cui lavora, è stata coperta di insulti sul web, perché considerata “falsa”, “troppo carina” per essere davvero una programmatrice. Uno stereotipo, validato da stuoli di smanettoni nerd rappresentati in occhialoni e jeans nelle serie tv. Uno stereotipo, comune anche ad altri universi, secondo il quale c’è chi è “adatto” e chi no a un mestiere solo a seconda del suo aspetto, o del suo sesso. Su un forum che raccoglie storie di donne occupate in ambienti tecno-scientifici, un’ingegnera nucleare scrive del suo primo incontro con un nuovo capo: «Io non ti avrei mai assunta», le dice lui. «Perché so che le donne non hanno la stessa conoscenza intuitiva dei meccanismi che servono per avere successo in questo campo». Le discriminazioni di genere dentro e intorno al lavoro, insomma, nonostante tutte le lotte, restano radicate, soprattutto nei campi tecnici. Ma forse - forse - in Italia meno che altrove. Almeno ad ascoltare le due “cacciatrici di teste” contattate da “l’Espresso”. La domanda nasceva dalle storie di cui sopra: il corpo delle donne è tutt’ora un “problema” nei colloqui, in ufficio? Le colleghe sono meno rispettate? La loro risposta è che possiamo forse ritenere finalmente fuori gioco almeno i preconcetti più banali. «Non mi è mai capitato di ascoltare una valutazione che pesasse l’essere “carina” fra i candidati proposti», sostiene Francesca Contardi, amministratore delegato di Page Personnel: «Gli stereotipi restano, ma quelli più profondi o inconsci. Come i pregiudizi verso le leader donna, ad esempio: ingiustificati eppure ancora saldi. Anche perché ci sono pochi modelli da seguire». Concorda Beatrice Roitti, partner associato di Key2People: «Molto raramente ho percepito distinzioni dovute al genere o alla bellezza quando ho presentato dei professionisti», spiega: «È vero però che la donna è considerata “più complessa da gestire” rispetto a un uomo; oppure “più debole” e quindi meno adatta a certi impieghi, nonostante la nostra esperienza ci dica esattamente il contrario: siamo altrettanto resistenti noi ai lunghi orari e alla fatica, se non è muscolare». Gli stereotipi però mantengono la loro forza perché si specchiano in una realtà che non cambia. Isis Anchalee risultava tanto “falsa” a chi la insultava quanto rare sono le ragazze nelle imprese hi-tech e nelle startup della Silicon Valley. E non è una questione solo californiana, ovviamente. I dati dell’osservatorio di Key2People sui contatti da loro avviati confermano la stessa polarizzazione in Italia: nel settore “Ict” (ovvero strutture d’informazione, comunicazione, tecnologia), le donne impiegate oggi sono solo il 15 per cento del totale. Ancora meno se ne trovano nei ruoli che riguardano “Direzione tecnica, ricerca e sviluppo, o produzione”: il 13 per cento. E poco meglio va nel commerciale (22 per cento) e negli uffici legali o fiscali: 24 per cento. Ognuno di questi numeri potrebbe avere una spiegazione diversa. Quella più evidente riguarda un divario che si annuncia già prima, nel corso degli studi. La sporadicità della presenza femminile fra hardware, server, reti e computer, infatti, è ereditata direttamente dall’università: su 3.824 iscritti maschi a “Ingegneria dell’informazione”, le donne sono 686. Gli immatricolati in “Scienze e tecnologie informatiche” sono divisi fra 17.910 ragazzi e 2.564 femmine. Poco più di una su 10. E lo stesso vale per l’ingegneria industriale: 56mila maschi, 14mila iscritte. Va meglio che in informatica - due su 10 - ma è sempre un abisso che si rispecchia poi nel lavoro. Da qui si potrebbe poi risalire ulteriormente seguendo quella che per molti è in fondo la linfa del problema: la mancanza d’attrazione verso codici, algoritmi, tavole o sistemi meccanici delle giovani sarebbe essa stessa tara di un lungo stereotipo, che fin da piccole alleva le bambine a non amare i numeri, a preferir le bambole da accudire e curare (nell’area sanitaria le donne sono il 63 per cento del totale, in università) - ma allora forse è dai colloqui per un impiego che bisogna ripartire. Le stesse statistiche però mettono in dubbio altre percentuali. Per esempio nella “Ricerca di nuovi prodotti”, o nelle squadre di esperti fiscali o legali, perché le donne sono così poche? Nelle discipline che inviano a quei mestieri, ormai, le laureate sono infatti pari o superiori ai compagni. Cosa le tiene allora lontane dalla realizzazione dei loro studi? «Per quanto riguarda le “direzioni tecniche” e i reparti produttivi può essere una questione di flessibilità», spiega Francesca Costardi. «Sono ruoli che richiedono spesso una presenza 7 giorni su 7, o turni il sabato e la domenica. E l’Italia è ancora ferma, statica, quando si parla di conciliazione familiare. Se sul lavoro stiamo dimostrando moltissimo, infatti, nessuno ci ha insegnato come essere anche, allo stesso tempo, delle buone madri; come seguire la carriera e la maternità insieme. Che rappresenta però anche il futuro demografico del paese». Mentre su altre posizioni resistono vecchi stereotipi: «Come appunto quello secondo cui, in quanto “sesso debole” le donne non potrebbero reggere i chilometri percorsi in auto dai venditori o le notti passate sui documenti dai consulenti», aggiunge Beatrice Roitti: «Mentre molte nostre colleghe stanno dimostrando ogni giorno il contrario». Qualcosa sta cambiando, dicono loro. Anche se il tasso di occupazione femminile resta inchiodato in Italia al 50,3 per cento, 13 punti sotto la media europea. Le donne, con la crisi, hanno perso meno posti rispetto agli uomini, è vero, ma per le giovani la strada è in salita. Soprattutto perché i segnali positivi di “parificazione” - minor divario negli stipendi, ad esempio - stanno arrivando, anche se al ribasso: sono peggiorate le condizioni degli uomini, non migliorate quelle dell’altro sesso. E se nei consigli di amministrazione delle società presenti in Borsa il vento rosa è stato imposto per legge - portando, è stato dimostrato, a board più giovani e preparati, oltre che paritari -, ai vertici delle aziende le donne sono ancora poche. Il “top management” monitorato nel 2015 da Key2People è femminile soltanto al 21 per cento. Il “middle management” al 34. «La settimana scorsa abbiamo incontrato un grande imprenditore che sta cercando un manager», racconta Roitti. «Aspettando le quattro persone proposte, due candidate e due candidati, ha detto: “Ah, vediamo finalmente cosa possono fare queste donne”». “Finalmente”. Nel 2015. È tardi, tardissimo. Ma forse è almeno un inizio.
Donna e uguaglianza di genere: tra discriminazione e diritti negati, la strada è ancora lunga, scrive il 7.03.2015 su "Ibtimes". Se le parole sono importanti (e lo sono), non è un caso che si dica "dietro ad un grande uomo c'è sempre una grande donna". Un'affermazione certamente ad effetto, sia chiaro, ma che nasconde un'interpretazione del mondo che da decenni e decenni - seppur tra molte migliorie - rimane nella sostanza immutata: le donne (per quanto grandi), fanno grandi gli uomini nell'ombra, in sordina. Dietro, appunto. E proprio in questi giorni, quando siamo alla vigilia dell'8 marzo, Giornata internazionale della donna, è giusto chiedersi quanto altro tempo sarà necessario affinché tutte le donne possano giustamente ritrovarsi non più dietro agli uomini, ma accanto, fianco a fianco. (Dis)Uguaglianza di genere: dalla Piattafroma di Azione di Pechino (1995) ad oggi. Sono passati esattamente vent'anni dall'adozione della Piattaforma di Azione di Pechino, progetto ratificato da 189 Paesi in tutto il mondo con l'obiettivo di ridurre in modo costante e sensibile i numerosi gap esistenti tra uomo e donna. In questo lasso di tempo la situazione globale è indubbiamente migliorata sotto numerosi aspetti, dalla salute all'istruzione, dalla presenza in politica e ai vertici delle grandi aziende internazionali. Tuttavia, affinché si possa vedere realizzato in futuro quanto la Conferenza mondiale sulle donne di Pechino ha messo sulla carta nel 1995, molto rimane ancora da fare. Non a caso, intervistata dall'Associated Press a pochi giorni dall'8 marzo, il direttore esecutivo dell'Ente delle Nazioni Unite per l'uguaglianza di genere e l'empowerment femminile (abbreviato in inglese con UN Women), Phumzile Mlambo-Ngcuka, è stata lapidaria sul tema: nessun Paese del mondo ha raggiunto ad oggi una piena uguaglianza tra uomo e donna, ha spiegato, ricordando inoltre che tanto la sotto-rappresentanza di donne nei processi decisionali quanto la violenza di genere sono "fenomeni globali" tristemente di grande attualità. Un po' di numeri sulle differenze globali tra uomo e donna. Dato spesso tra i più riportati per sottolineare la disuguaglianza di genere che divide il sesso maschile da quello femminile, stando alle Nazioni Unite a parità di lavoro le donne hanno in media una remunerazione inferiore rispetto agli uomini che varia tra il 10 e il 30%. Alla luce di queste cifre, secondo l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, dall'inglese International Labour Organization) gli stipendi delle lavoratrici rimarranno più bassi rispetto a quelli degli uomini per almeno altri 70 anni, riporta il The Guardian. Significativo, nel determinare tale lasso di tempo, è il lento, lentissimo migliorare della situazione: negli ultimi 20 anni, spiega ancora l'ILO, il rapporto globale tra le remunerazioni di uomini e donne è migliorato di soli 3 punti percentuali. Altro aspetto da non sottovalutare nell'analisi del divario tra uomo e donna riguarda la presenza femminile ai vertici delle grandi aziende. Secondo l'ONU, ad oggi sono 25 le donne che ricoprono il ruolo di amministratore delegato in altrettante compagnie inserite tra le 500 più importanti dalla rivista Fortune. Un passo in avanti non indifferente, se si considera che al 1998 ne venina contata solamente una. Tuttavia, sottolinea ancora l'UN Women, sul totale di tutti gli amministratori delegati ai vertici delle compagnie nella lista Fortune, solo il 5% è donna. Particolarmente simile a quest'ultimo caso, inoltre, è la questione della partecipazione delle donne alla politica. Stando alle Nazioni Unite, infatti, la presenza femminile globale nei parlamenti è pressoché raddoppiata negli ultimi 20 anni. Ma, nonostante tutto, tale aumento si traduce con una poco incoraggiante presenza media (sul totale dei parlamentari) del 22%. La situazione degli stipendi in Europa e in Italia. Secondo i dati relativi al 2013 Eurostat pubblicati il 5 marzo in occasione della Giornata internazionale della donna, nel Vecchio Continente le lavoratrici, a parità di impiego, guadagnano il 16,4% in meno rispetto agli uomini. Un gap che è migliorato rispetto alle più recenti rilevazioni dell'agenzia europea (nel 2008 le donne ricevevano stipendi inferiori del 17,3%), ma che comunque dimostra quanto sia ancora lontana una vera e propria uguaglianza. Entrando nello specifico, le differenze più profonde sono registrate in Estonia, Austria, Germania e Repubblica Ceca, rispettivamente con un gap salariale uomo-donna del 29, del 23, del 21,6 e del 21,1%. Al contrario, il divario appare decisamente più contenuto in Croazia (7,4%), Polonia (6,4%), Malta (5,1%) e Slovenia (3,2%). E l'Italia? Guardando semplicemente al dato finale del 2013, la Penisola si annovera certamente tra i virtuosi, facendo registrare un gap pari al 7,3%. Tuttavia, guardando più da vicino le cifre snocciolate dall'Eurostat, è impossibile non notare come proprio l'Italia abbia avuto uno dei declini (quindi aumento della differenza) peggiori tra il 2008 e il 2013, arrivando alla percentuale già accennata partendo dal 4,9%. Inoltre, stando al Global Gender Gap Report stilato annualmente dal World Economic Forum (WEF), la situazione è ulteriormente in peggioramento. In tal senso, l'Italia si è classificata per quanto riguarda il gap salariale al 129esimo posto su 142 Paesi analizzati: nel 2014, infatti, a parità di lavoro una donna ha guadagnato in media il 48% dello stipendio di un uomo. Non solo disuguaglianza: la strada è lunga anche per quanto riguarda i diritti. Così come per i numerosi gap esistenti tra uomo e donna, il mondo è ancora ben lontano da una situazione in cui i diritti di quest'ultime siano pienamente e globalmente rispettati. E se è vero che in molti Paesi del Medio Oriente (e non solo) si può parlare sostanzialmente di segregazione - in Arabia Saudita è ad esempio fatto divieto alle donne di guidare -, è altrettanto vero che anche il mondo Occidentale ha ancora grandi passi in avanti da compiere. Innanzitutto, è necessario pensare ed implementare un argine efficace alla piaga della violenza sulle donne in ogni sua forma, dall'arma dello stupro usata nel corso di conflitti passati e attualmente attivi, sino alle brutalità domestiche che molte donne subiscono ogni giorno - contro tale realtà è stata ratificata nel 2011 da 32 Paesi la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. In secondo luogo, sarebbe necessario che i Paesi del mondo adottassero sistemi di assistenza alla maternità più efficaci, permettendo così alle donne di non essere svantaggiate nei confronti degli uomini nella scelta tra famiglia e lavoro, spesso una discriminante non indifferente incontrata dalle donne che vorrebbero portare avanti entrambe. Ancora, una maggiore attenzione globale dovrebbe essere dedicata al tema dell'istruzione, con molte giovani ragazze in tutto il mondo impossibilitate dalla povertà, dalla famiglia o dal pregiudizio a proseguire gli studi dopo un certo livello. Da non sottovalutare, inoltre, è anche la questione relativa al diritto all'aborto, una decisione che in molti casi e in molti Paesi del mondo viene espressamente negata facendo si che un gran numero di donne ricorra ad aborti clandestini e in condizioni igieniche al limite del disumano, rischiando spesso la vita. In ultimo, proprio a partire da questo aspetto, di primaria importanza è il diritto alla salute, messa a rischio ad esempio anche dalle mutilazioni genitali femminili - o dal matrimonio precoce, altra piaga cui moltissime ragazze sono costrette ogni anno -, pratiche purtroppo ancora oggi molto diffuse.
"I camionisti sono tutti maschi" e altre scuse grottesche contro le quote rosa, scrive Laura Eduati, Giornalista de "L'Huffington Post" l'11/03/2014. Il dibattito sulla parità di genere ha stimolato nei (tanti) uomini contrari alle quote rosa un florilegio di ragionamenti che spesso sconfinano nel grottesco. A partire dal bollettino di informazione di Forza Italia, Il Mattinale, che nei giorni scorsi spiegava con orgoglio di avere introdotto nel 2003 grazie a Stefania Prestigiacomo una modifica all'art. 51 della Costituzione per promuovere normativamente proprio le quote rosa. Tuttavia, spiegavano contriti gli estensori della nota forzista, non era possibile votare gli emendamenti sulla parità di genere perché il partito di Silvio Berlusconi ora crede fermamente nel "merito delle donne". Abbiamo cambiato idea: quelle brave prima o poi arrivano. Soprattutto quando c'è un capo (maschio) che sa sceglierle, come spiega Gian Marco Chiocci sul quotidiano romano "Il Tempo": "Non ci piace questa storia della parità di genere perché a voi, come a noi, dà soddisfazione soltanto il merito". E per confermare che questa opposizione ai meccanismi di genere non nasce dal maschilismo, cita la lettera che una sua redattrice gli avrebbe spedito parlando della propria esperienza: "Non sono favorevole alle quote rosa perché un editore ha tutto il diritto di scegliere chi mettere alla guida del suo tg o del suo giornale, e un direttore come te ha tutto il diritto di scegliere a chi dare fiducia". Per grazia ricevuta. E se non è nella redazione di un giornale, capiterà a un professore (maschio) applicare le quote rosa a suo piacimento. Lo ha spiegato in aula Rocco Buttiglione: "Se io sono in una commissione di laurea faccio passare i più bravi. Ma se mi capitasse di far passare sette maschi e tre femmine mi porrei il problema se inconsciamente non sto discriminando". L'onorevole Pino Pisicchio invece ha spiegato seriamente ai cronisti che il problema delle quote rosa stava tutto nell'assenza delle preferenze all'interno della legge elettorale. Fintantoché l'Italicum prevede liste bloccate, ha detto, "non c'è modo" di garantire una adeguata parità tra maschi e femmine, ma nessuno gli ha chiesto quale fosse la straordinaria qualità magica delle candidate donne per la quale risulta quasi impossibile aumentare la loro presenza in Parlamento attraverso una legge. Filippo Facci su Libero non comprende come mai si faccia tanto baccano: "I camionisti, anche nei paritari Stati Uniti, in genere sono uomini. E anche gli agricoltori, gli operai edili, gli addetti alle trivellazioni e i tagliaboschi: mestieri che vantano il primato mondiale dei morti sul lavoro". Senza un solo lamento. Non si dica, però, che gli uomini poco amanti delle quote rosa non vogliano bene alle donne. L'onorevole Gianluca Buonanno (leghista) ha indossato una giacca bianca da cameriere per scimmiottare le novanta deputate che avrebbero voluto la parità di genere nell'Italicum: "Io sono contro a queste quote di genere ma non sono contro le donne, anzi dico: viva le donne e per fortuna che esistono". Di più: "Le donne sono migliori. Non hanno bisogno di riserve indiane costruite per legge. Non servono, soprattutto in una stagione come questa", è l'editoriale odierno de Il Giornale. Non sono mancati i parlamentari femministi come Mario Sberna, appartenente a una delle formazioni più maschili del Parlamento (gli ex montiani) e che improvvisamente vorrebbe abbandonare lo scranno pur di favorire una collega donna: "Signor Presidente, sono di quegli uomini di questo partito che è convinto di essere di troppo qui dentro; di troppo perché siamo in troppi eletti, tanto è vero che, se mi dimettessi, prima di trovare un'altra donna dietro di me bisognerebbe scorrere addirittura cinque posizioni". Come ha ben sintetizzato la deputata Gea Schirò (Scelta civica): " Rimane solo una cruda verità, quella di perdere un po' di "potere"". Eppure alla Camera non c'è stata una riproposizione della guerra dei sessi: molti uomini si sono schierati a favore delle quote rosa, e alcune donne invece si sono proclamate contrarie. Irene Tinagli (PD) è stata l'unica ad ammettere di non aver mai pensato alla questione: "Io fino a pochi mesi fa non ne ero consapevole, devo essere sincera, e quindi non mi ero mai posta il problema di una parità di genere e della rappresentanza". Un pugno di sue colleghe di partito hanno voluto, purtroppo, puntare sul vittimismo: "Ma noi non siamo casta, siamo cittadini, madri di famiglia che ogni sera sentono i figli e li sentono piangere perché siamo qui e non siamo a casa" ha esclamato Marilena Fabbri. Perché le donne, è risaputo, sono emotive: "In casa si prendono tutti i compiti, sul lavoro tutte le responsabilità, soffrono di più ma tengono botta, hanno ansie e picchi di angoscia, ma non si arrendono" (Luisa Botta). Un valzer degli stereotipi.
La discriminazione che non fa scandalo: le quote rosa, scrive il 19 febbraio 2014 su "avoiceformen.com". In un era in cui quotidianamente vengono affrontati i temi dell’uguaglianza e delle pari opportunità, il femminismo radicale trova il suo fertile terreno di coltura. Utilizzando argomentazioni populistiche che fanno presa sull’interlocutore medio, esso sta attuando, silenziosamente e con la complicità dei poteri forti, un profondo mutamento culturale e sociale che nei sui sviluppi futuri potrebbe mettere seriamente in pericolo la libertà e le opportunità del genere maschile. Il lettore superficiale e frettoloso, lobotomizzato da anni di dottrina femminista, esercitata attraverso slogan, campagne mediatiche d’effetto e finti dati snocciolati in tv, potrebbe sorridere di fronte a questa affermazione. Ma la realtà, se ci si sofferma qualche minuto, è più drammatica di quel che si pensa. In nessun’ epoca storica, il mondo occidentale ha mai dato tanto valore alle donne e alle loro problematiche come in quella contemporanea, al punto che oggi, se di discriminazione si vuol parlare, essa sta colpendo gli uomini, divenuti il capro espiatorio dei fallimenti del gentil sesso e valvola di sfogo delle sue frustrazioni. L’ideologia femminista, abusando del principio delle pari opportunità, ha finito per scavalcarlo, facendo apparire addirittura legittimo e positivo il suo superamento. Essa non solo ha imposto coattivamente la partecipazione femminile in alcuni settori lavorativi e in politica, ma si è fatta promotrice di iniziative finalizzate alla tutela di genere che, paradossalmente, si sono tradotte in vere e proprie discriminazioni nei confronti del mondo maschile. In ambito nazionale e internazionale, conseguenza diretta della propaganda femminista sono state le quote rosa. Introdotte con la legge 120/2011, cosiddetta Golfo-Mosca, esse hanno imposto alle società quotate in borsa, sia pubbliche che private a partecipazione statale, di rinnovare i propri organi sociali, riservando una quota pari al 30% dei propri membri alle donne. Successivamente, questo vero e proprio privilegio d’ancien regime è stato esteso alle liste elettorali comunali, (aumentando la percentuale a un terzo e introducendo addirittura la doppia preferenza in lista), e alle commissioni esaminatrici pubbliche. In totale spregio del principio di uguaglianza e della meritocrazia, di cui oggi se ne fa un gran parlare, questo strumento è una vera e propria corsia preferenziale che consente a qualsiasi persona di occupare un posto di rilievo, in un Consiglio di Amministrazione societario o in politica, solo perché di sesso femminile. A prescindere dalle reali ed effettive capacità, una donna dovrebbe avere un posto riservato solo perché tale, per l’unico motivo che una legge, ideologicamente orientata, ne imponga coattivamente la presenza. Il merito, per le femministe, dovrebbe valere per tutti tranne che per le donne, al punto che, ancora oggi, riguardo alla recente riforma della legge elettorale di cui si discute in Parlamento, sono state avanzate proposte di imporre nelle liste elettorali il 50% di presenze femminili. Addirittura, con legge cost. del 30 maggio 2003 è stato modificato l’art 51 della Costituzione, per rendere legittima questa vergognosa pratica discriminatoria, giudicata incostituzionale già nel 1995, perché le quote: «non si propongono di “rimuovere” gli ostacoli che impediscono alle donne di raggiungere determinati risultati, bensì di attribuire loro direttamente quei risultati medesimi» (Corte Costituzionale, sent. n. 422 del 1995). Sfruttando strumentalmente il principio di uguaglianza, si è arrivati ad attribuire alle donne veri e propri privilegi di genere, con la grave compiacenza delle Istituzioni che sul rispetto effettivo di tale principio dovrebbero vigilare. Vorremmo però chiedere alle lobbies femministe e a coloro che le rappresentano, per quale motivo tali battaglie ideologiche non vengono intraprese per garantire il rispetto della parità di genere in quei settori in cui a prevalere è la presenza femminile, ad esempio nelle scuole, nelle pubbliche amministrazioni o nei servizi sociali. Oppure perché non si impongono quote rosa anche in quei settori lavorativi usuranti e pericolosi che sono totalmente appannaggio del genere maschile. Le pari opportunità non fanno comodo in questo caso? Recentissima è la notizia dell’esplosione di una miniera in Ucraina il cui bilancio è di sette morti, ovviamente tutti di sesso maschile. Non abbiamo sentito nessuna femminista impegnata mostrare sdegno per le condizioni pietose in cui sono costretti a lavorare migliaia di uomini quotidianamente, correndo seri pericoli per la propria incolumità e rischiando la morte, né visto sventolare lo spauracchio dell’uguaglianza di genere in nome di un effettiva parità. La logica deduttiva femminista è la seguente: dove le donne sono in minoranza, la causa è del maschilismo che impedisce loro l’accesso, ad eccezione dei settori in cui conviene non essere affatto presenti (cantieri, pescherecci, miniere, ecc.). Laddove, invece, esse sono in maggioranza, il merito è tutto personale e conseguenza della loro capacità, tenacia e intraprendenza.
Le oche del Campidoglio, scrive il 10 luglio 2015 su "avoiceformen.com". Narra la leggenda che i Romani assediati vennero salvati dalle oche sacre a Giunone. Queste si misero a strepitare mentre i Galli stavano scalando le mura e così misero in allarme i difensori che reagirono in tempo e salvarono la città. Lo strepito delle oche sacre è una similitudine assai appropriata per quanto è accaduto di recente in tema di alienazione parentale. L’associazione Doppia Difesa ha presentato una proposta di legge per rendere reato l’alienazione parentale. Per promuovere questa proposta di legge Michelle Hunziker ne ha parlato con Fabio Fazio a Che Tempo che Fa, ed è scoppiato un putiferio sulla rete dei blog pseudo femministi. Nel giro di pochi giorni, dopo una noiosa e sussiegosa lettera aperta del blog Ricciorno, molte commentatrici si sono esercitate nell’arte del monito e dell’intimidazione a tornare sulla retta via del politicamente corretto. Un noto avvocato delle madri alienanti ha addirittura cercato di cogliere l’occasione per salire alla ribalta mediatica ed ha intimato a Fazio di concedergli il diritto di replica: Chiediamo al Direttore di Rai Tre, Andrea Vianello, a Fabio Fazio, che ha ospitato la Hunziker alla trasmissione che “Tempo che Fa”, a prendere le distanze dalla PAS (menzionata in trasmissione dalla Hunziker) e rettificare l’informazione anche invitando esponenti […] in grado di spiegare la pericolosa mistificazione in atto. Per dare un’idea della tempesta in un bicchier d’acqua scoppiata su questo caso basta cercare con Google le tracce dei rilanci della notizia che sono veramente numerose, e tutte più meno ispirate dalla più sfrenata isteria, tanto da far pensare allo strepito delle oche del Campidoglio. Ma se ci concentriamo sui mass media ufficiali vediamo subito che il clamore su Internet è in realtà andato a vantaggio delle proponenti. Proprio in seguito alle reazioni isteriche della rete, infatti, l’avvocato Giulia Bongiorno ha potuto spiegare pacatamente a La Stampa e a L’Espresso la fondatezza della sua proposta e la scarsa ragionevolezza degli oppositori. La campagna intimidatoria quindi si è ritorta contro chi la ha promossa ed ha fatto conoscere il termine alienazione parentale anche al grande pubblico. E quelli che speravano ardentemente di ottenere un invito da Fabio Fazio per spiegare che “la PAS è una falsa malattia inventata da un attivista della pedofilia rifiutata dalla comunità scientifica” (sic!), stanno ancora aspettando… Le oche sacre a Giunone avevano il genio della chiaroveggenza, le blogger femministe invece si sono dimostrate per quelle che sono, delle semplici e normali oche.
Il nazi-femminismo ed il gender entrano nella scuola, scrive il 10 luglio 2015 su "avoiceformen.com". In base all’articolo 16 della nuova legge sulla scuola, femministe saranno assunte a spese nostre per indottrinare i bambini alla falsa e calunniosa ideologia secondo cui esisterebbe una «violenza di genere». Tale ideologia, secondo cui le donne sarebbero vittime e gli uomini violenti, è sostenuta dai centri anti-violenza per sole donne spesso coinvolti in false accuse contro i papà finalizzati ad aiutare donne separate a sottrarre i figli e ad abusarli alienandoli a credere che i papà siano cattivi. Il tutto ebbe inizio negli anni 70, quando donne per bene come Erin Pizzey e Anne Cools fondarono i primi centri anti-violenza, che aiutando sia uomini che donne ebbero enorme successo. Le femministe, in cerca di una falsa buona causa con cui mascherare il proprio progetto criminale di distruggere le famiglie arricchendosi con false accuse, si impadronirono di tali centri cacciando con la violenza chi li aveva fondati. Dopo aver tentato di resistere alle minacce di morte contro i suoi figli, all’uccisione del suo cane, Erin Pizzey fuggì in America abbandonando i centri anti-violenza alle femministe, che avviarono «l’industria multi-milionaria delle false accuse». In Italia, per ottenere soldi pubblici per i loro centri le femministe hanno nel 2011 usato la stampa per montare la calunnia del “femminicidio”, quando in realtà l’Italia è uno dei paesi al mondo più sicuri per le donne. Un parlamento di pecore, sentendo parlare di “violenza sulle donne”, approvò la Convenzione di Istanbul senza accorgersi che era un cavallo di Troia che nascondeva l’ideologia gender ed il nazi-femminismo. La crisi economica ha per ora rallentato i finanziamenti di stato alle calunnie contro i papà separati, ma appoggiandosi a tale Convenzione, le femministe hanno ora ottenuto di entrare nelle scuole. Questa volta numerosi parlamentari hanno tentato di opporsi alla nuova legge, che sta costando molti voti al Partito Donnista che la ha imposta. E, per fortuna, la società civile sta capendo cosa si nasconde dietro a queste manovre: centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza contro l’ideologia gender, e sentinelle promettono di vigilare per proteggere i bambini da uno stato che vuole usare le scuole per indottrinarli ad una falsa ideologia dell’odio. Una famiglia può proteggere i figli iscrivendoli ad una scuola privata che prometta di non indottrinare i bambini.
Come alcune femministe hanno innescato il fenomeno dell’isteria sugli abusi, scrive il 14 febbraio 2015 su "avoiceformen.com". Debbie Nathan è una giornalista e scrittrice americana, vincitrice di vari premi, ha scritto sul tema dell’isteria collettiva degli abusi sessuali. Nel corso degli anni 80 negli Stati Uniti si verificò un fenomeno definito in inglese Day-care Sex Abuse Hysteria, che successivamente è stato oggetto di vari studi. (si veda a questo proposito la pagina di Wikipedia). Gli italiani sanno benissimo che cos’è perché ne hanno sperimentato gli effetti con venti anni di ritardo, l’ultimo episodio è stato quello di Rignano Flaminio. Per ragioni non facili da spiegare per un lungo periodo di tempo, sia negli USA che in altri paesi si è prestato fede a denunce di abusi sessuali collettivi che sarebbero avvenuti in scuole o altre istituzioni per la cura dei minori che non avevano nessun altro fondamento che le dichiarazioni dei minori stessi, ottenute da sedicenti esperti con tecniche di intervista particolari. Le caratteristiche delle denunce erano tali che una persona comune dotata di normale buon senso avrebbe dovuto rendersi conto immediatamente del fatto che erano inventate, invece investigatori, magistrati e consulenti dei tribunali le hanno considerate degne di essere credute e portate a processo. L’esito di questi processi è stato nella maggior parte dei casi l’assoluzione, in alcuni casi persone innocenti sono state incarcerate ingiustamente. Una lunga scia di vite rovinate, suicidi e altre tragedie ha caratterizzato lo svolgersi di questo fenomeno, che, vale la pena di ripeterlo, si è verificato anche in Italia con vent’anni di ritardo. La giornalista americana Debbie Nathan ha seguito alcuni di questi processi e ha pubblicato un libro che ancora oggi è considerato un classico del giornalismo investigativo. Il libro pubblicato nel 1995 si intitola Satan’s Silence, scritto assieme a Michael Snedeker, analizza il fenomeno del panico morale americano che è sfociato nella catena di processi per abusi sessuali collettivi. I primi capitoli del libro sono i più interessanti perché ricostruiscono gli antefatti del fenomeno. Meritano di essere letti attentamente perché tra gli apprendisti stregoni che hanno innescato l’isteria collettiva compaiono anche i seguaci dell’ideologia femminista nella variante radicale. La Nathan spiega come si debba retrodatare l’avvio del fenomeno ai primi anni 70, quando i servizi sociali cominciarono a occuparsi seriamente del tema dei bambini maltrattati in famiglia. Erano spesso le madri della famiglie povere che picchiavano i figli, ma la spiegazione che veniva data dalla psicologia era che il problema non era la povertà ma che si trattava di una psicopatologia, un disturbo trattabile con la terapia o con la partecipazione a gruppi di mutuo aiuto ispirati al modello degli alcolisti anonimi. Vennero concessi fondi in tutti gli Stati Uniti per promuovere questo approccio e risolvere finalmente il problema dei bambini maltrattati, e anche alcuni gruppi di femministe radicali appoggiarono attivamente il programma. Successivamente il focus dell’attenzione dei servizi sociali venne spostato sul tema dell’incesto. Come per il maltrattamento il fenomeno era prevalente nelle famiglie povere, ma visto il successo ottenuto con il programma per “curare” i genitori che picchiavano i figli gli ambienti che avevano promosso il programma pensarono di giocare la carta terapeutica anche in questo caso. Il tema però si prestava ad interpretazioni radicalmente opposte, alcune femministe ritenevano che la famiglia fosse la causa dell’incesto e che non ci fosse nessuna cura. Tuttavia per un complesso insieme di circostanze si creò una coalizione tra gli ambienti politici conservatori e le femministe radicali. Ad ambedue i fronti ideologici conveniva sostenere che c’era la necessità di un programma per “aiutare” i padri incestuosi ad uscire dal tunnel, perché da un lato apparentemente ciò serviva a “salvare le famiglie” e dall’altro ciò metteva in evidenza il ruolo negativo svolto dal predominio maschile nella società. Il programma per il trattamento dell’incesto venne sperimentato con grande successo in California nella Silicon Valley. I casi denunciati aumentarono del 90%. La ragione di questo impressionante incremento delle denunce è semplice. Il programma di trattamento era basato sul modello della “proposta che non si può rifiutare” del film Il Padrino. Il caso standard prevedeva che le notizie sulla possibile esistenza dell’incesto venissero dal contesto ambientale in cui viveva la ragazzina (scuola, vicinato ecc.). A quel punto i servizi sociali sentivano altre fonti di informazione e poi facevano la proposta in stile Don Corleone al padre sospettato di incesto. Se ammetteva il fatto e accettava di sottoporsi alla terapia non ci sarebbero state conseguenze penali e nessuno lo avrebbe saputo, in caso contrario poteva attendersi un trattamento molto punitivo. Anche la figlia e la moglie dell’accusato ricevevano una proposta dello stesso tenore, se non avessero collaborato confermando le accuse, la loro famiglia sarebbe stata rovinata economicamente perché il padre che portava i soldi a casa sarebbe finito in carcere, magari all’ergastolo. Con questo meccanismo i padri reclutati per la terapia contro l’incesto aumentarono in modo vertiginoso in tutti gli Stati Uniti e la coordinatrice del programma Kee MacFarlane (una lobbista per conto della organizzazione femminista National Organization of Women) guadagnò fama ed influenza. Quindi, ricapitolando, un’alleanza opportunistica tra politici conservatori (che volevano dimostrare di salvare le famiglie con la terapia psicologica senza toccare le condizioni economiche alla base dei problemi) e femministe radicali (che volevano dimostrare che moltissimi padri sono pericolosi per i loro stessi familiari), mise in piedi un sistema che costrinse molti padri della classe media a confessare crimini non commessi per cavarsela con una serie di sessioni di terapia ed evitare la prigione. I frutti avvelenati della vicenda dei programmi per “curare l’incesto” furono molteplici:
un abnorme aumento dei poteri inquisitori degli assistenti sociali, che operavano come una polizia speciale non dissimile dai servizi segreti dei regimi totalitari;
l’accettazione dell’idea che per questo tipo di crimini non servivano prove, perché il solo fatto che l’accusato negava era una prova della sua colpevolezza;
l’utilizzo di metodi di intervista sui minori che miravano non a conoscere la verità ma a suggestionarli e costringerli a dire quello che l’inquisitore pensava di conoscere già.
Ma questo fu solo l’antefatto di una tragedia ben più grave che prese l’avvio negli anni ottanta. E come nei film dell’orrore una delle attrici del prologo degli anni settanta ebbe un ruolo da protagonista nel sequel. Kee MacFarlane condusse personalmente le interviste alle presunte vittime della McMartin preschool. Il modo come vennero fatte queste interviste è descritto in Satan’s Silence (tradotto in “Abusi sessuali collettivi sui minori” di Angelo Zappalà, Franco Angeli 2009) e non necessita di commenti. Ultimo dettaglio (non il meno significativo): il metodo delle interviste ai minori inaugurato negli anni settanta con la benedizione delle femministe radicali per inguiare i padri, venne usato poi per accusare ingiustamente un gran numero di donne (maestre di asilo e bidelle) che vennero coinvolte nei successivi decenni nei numerosi casi di isteria da abuso, come si è visto in Italia nel caso di Rignano Flaminio.
La discriminazione nei confronti dell’uomo, scrive il 13 ottobre 2014 Irene Facheris su "Bossy”. Classe 1989. Laureata in Psicologia, ha frequentato corsi sull'influenza sociale e sulla psicologia delle disuguaglianze. Ora lavora come formatrice e coordina il progetto Bossy. Ma tanto tutti se la ricordano per aver parlato male di "50 sfumature di grigio" su internet.
L’uomo vero non deve piangere.
L’uomo vero non deve parlare dei propri sentimenti.
L’uomo vero non deve mostrare le proprie debolezze.
L’uomo vero non deve curarsi più di tanto. Ti metti la crema in faccia? Spero tu stia scherzando.
L’uomo vero non subisce violenze da parte delle donne. Mai. Violenza sugli uomini? Ma di cosa stiamo parlando? Esiste? No, giusto? Ah ecco, dicevo.
L’uomo vero non deve sapere cucinare, a meno che non sia il suo lavoro.
L’uomo vero deve avere uno stipendio più alto della sua compagna.
L’uomo vero non può commuoversi vedendo un film. (Il mio fidanzato ha pianto per una puntata di Game of Thrones, adesso cosa faccio?)
L’uomo vero non può ballare. Di sicuro non può fare danza classica, ma se evita proprio di muoversi è meglio. Vedetela così, se le persone fossero dei film, l’uomo vero sarebbe Footloose.
L’uomo vero non può dire che si è fatto male. Anche se si vede l’osso.
Ma perché?
Perché un uomo non può mostrarsi emotivo, incapace di difendersi o sofferente?
Perché l’uomo non può piangere?
Fateci caso: l’emozione, il pianto, la manifestazione dei sentimenti… Tutti questi comportamenti definiti “deboli”, a quale universo fanno riferimento? A quello femminile. Se dei membri del gruppo “forte” attuano dei comportamenti tipici del gruppo “debole”, cominceranno ad essere trattati come deboli. Un leone che sviene dalla paura come le pecore, non avrà vita lunga nel branco. La discriminazione nei confronti dell’uomo è estremamente legata alla convinzione che la donna sia inferiore e così anche i suoi comportamenti “classici”. Quando dico che l’uguaglianza conviene a tutti, mi riferisco proprio a questo. Finché alle donne non sarà concesso di essere Persone degne della stessa stima degli uomini, agli uomini non sarà concesso piangere. È per questo che parliamo di uguaglianza e abbiamo il simbolo della donna nel logo. Statisticamente è la donna che viene penalizzata nella società, ma non vuol dire che all’uomo non accada. E accade quando ha dei comportamenti tradizionalmente associati all’universo femminile. Tra l’altro, un uomo che ha degli atteggiamenti tipicamente femminili come viene chiamato? Esatto, “gay”. Perché i gay nell’immaginario comune sono quegli uomini che scimmiottano le donne perché vorrebbero essere come loro. Ci rendiamo conto della pericolosità di questi ragionamenti? Se piangi sei per forza gay e se sei gay sei “meno uomo”. La cosa più sconvolgente è che ci sono moltissime DONNE che pensano che un uomo che manifesta le proprie emozioni sia “meno uomo”. E questo è – per tutti – un buon motivo per piangere.
Uomo, discriminato e solo. La Cecla commenta il nuovo sessismo, scrive Bruno Giurato su “Lettera 43” il 4 Giugno 2012. È possibile che il maschio, il «fallocrate», il «grande oppressore», quello che indossa lo stivale che ogni donna vorrebbe avere sulla faccia (come scriveva Sylvia Plath) rappresenti il sesso debole della nostra epoca? A quanto ne ha scritto il filosofo sudafricano David Benatar è così. Nel mondo anglosassone è già polemica dura sul suo ultimo libro intitolato The second sexism. Discriminination against men and boys (Wiley Blackwell, 2012). Secondo Benatar, che insegna all'università di Città del Capo, nella cultura contemporanea il genere maschile soffre di una discriminazione tanto diffusa quanto inespressa. Una forma di sessismo latente, e per questo più violento, opprime i maschi, in particolare nel mondo occidentale. Statistiche alla mano, Benatar fa notare che «un più alto numero di ragazzi rispetto alle ragazze lascia la scuola, un numero maggiore muore giovane e viene incarcerato». Tra barboni e homeless, poi, la popolazione maschile è prevalente. Certo, ovunque si ricorda come per le donne sia più difficile accedere a posizioni dirigenziali, ma ci sono ricerche Usa che evidenziano come agli uomini siano riservati i lavori più umili (dal netturbino al manutentore delle fognature) e come, sempre gli uomini lavorino, in media, più ore alla settimana delle donne (in Inghilterra in media 39 contro 34). Si aggiunga il fatto che gli uomini tendono a suicidarsi 10 volte più delle donne. La questione dei padri separati, che praticamente non riescono quasi mai a ottenere la custodia dei figli, e a volte devono corrispondere cifre insostenibili per gli alimenti, è un problema conosciuto anche in Italia. Ma Benatair va oltre. Anche nell'immaginario il genere maschile è spesso oggetto di un'ironia sottilmente «razzista». Ne è un esempio la figura di Peter Pan, un monumento all'inaffidabilità che ritroviamo continuamente tra film e tivù. Attenzione, però. Benatar, che è anche noto per posizioni piuttosto radicali (è un esponente dell'anti-natalismo, e nel suo precedente libro ha argomentato come per l'uomo e la donna sia decisamente meglio non nascere), non si sogna nemmeno di contestare che esista una discriminazione verso le donne. Non è, insomma, un negazionista del femminicidio, e nemmeno del fatto che la violenza verso le donne sia una infamia pura. Non a caso il libro si intitola Il secondo sessismo, lasciando intendere che il primo è, appunto, quello nei confronti delle donne. Nonostante questo, il libro di Benatair ha ricevuto solenni schiaffoni polemici, per esempio da parte dell'editorialista del Guardian Suzanne Moore, e poi dall'Observer, dal New Statesman e dall'Independent. Lettera43.it sul tema ha sentito l'antropologo Franco La Cecla, autore della ricognizione sulla condizione del maschio contemporaneo Modi Bruschi (Eleuthera). Secondo La Cecla il problema della discriminazione maschile, in particolare nei Paesi anglosassoni esiste. «Una volta c'era la dominazione maschile», ha spiegato, «ma al suo venire meno è emersa la guerra tra i sessi. Semplicemente si tende a sostituire alla dominazione maschile quella femminile. Non c'è una vera dialettica, un vero confronto, fra uomo e donna». Secondo l'antropologo ci sarebbe bisogno «di un nuovo Contratto sociale, sulla scia di Rousseau». «Sarebbe necessaria una nuova negoziazione civile e politica tra uomo e donna», ha aggiunto. «Il femminismo estremo ha semplicemente sottratto la donna dalla società, incasellandola in una categoria a sé». «Chi sostiene che gli uomini provino invidia del vittimismo femminile», ha aggiunto riferendosi alle accuse rivolte a Benatar dalla stampa inglese, «identifica il femminile con il vittimismo, con il senso di rivalsa». Secondo Benatar la violenza sugli uomini non viene considerata soprattutto perché il maschio è per natura meno incline a chiedere aiuto, a manifestare la sua condizione di disagio. «E a chi potrebbe chiedere aiuto, anche volendo?», ha risposto La Cecla. «Qui non ci sono psicanalisti o strutture culturali che possano aiutare: il mondo femminile è altrettanto confuso del maschile». Mal comune nessun gaudio, quindi. E se la cultura di riferimento e il dialogo vengono meno, emergono spinte identitarie, fondamentaliste, puramente ideologiche». «Leggendo certe prese di posizione polemiche sembra che gli uomini siano cattivi per il solo fatto di essere uomini», ha continuato l'antropologo. «In Francia ci sono stati casi di donne infanticide a cui sono stati affidati gli altri figli, perché la matenità sarebbe più naturale della paternità. Come se la natura potesse da sola garantire il risultato educativo, indipendentemente dai comportamenti». Anche in questo caso, insomma, si tratta di pure prese di posizione ideologiche, del tutto staccate dalla realtà. Ma a giudicare dalle reazioni internazionali al libro di Benatar (in Italia per ora tutto tace), la via attraverso cui uomo e donna dovrebbero affermare la loro «fratellanza» (parola usata da un'icona della liberazione femminile come Simone De Beauvoir) sembra quantomeno accidentata.
MORIRE DI PARTO.
Morire di parto in Italia, come stanno le cose. Si tratta di dieci casi ogni centomila bimbi nati vivi. Sono pochi? Sono tanti? Difficile dirlo, perché è la prima volta che abbiamo a disposizione dati così chiari, scrive il 13 marzo 2015 Valentina Murelli su "Oggi scienza". L’ultimo, drammatico caso arrivato alle cronache è quello di Elisa, una donna di Orvieto morta lo scorso febbraio per complicazioni insorte durante il travaglio. Una tragedia immensa per la famiglia, e non solo. Perché la mortalità materna – cioè quella per cause legate a gravidanza, parto e post-partum – è un dramma sociale sia per i professionisti sanitari sia per la comunità intera, che non riesce a rassegnarsi all’idea che un evento del genere sia ancora possibile, oggi, nel nostro paese. E invece, purtroppo, succede: in circa 10 casi ogni 100 mila nati vivi, secondo i dati conclusivi di un progetto pilota dell’Istituto superiore di sanità (ISS) sulla sorveglianza della mortalità materna in Italia, presentati lo scorso 5 marzo a Roma. È molto? È poco? Per cominciare, è un dato che prima non c’era. «Sapevamo già che i certificati di morte dell’Istat non bastano da soli a quantificare il fenomeno» sottolinea Serena Donati, del reparto di Salute della donna e dell’età evolutiva dell’ISS, responsabile del progetto. «E però i dati servono. Non per fare una conta fine a sé stessa, ma perché la mortalità materna è un indicatore cruciale della performance dei servizi sanitari di un paese. E perché un sistema di sorveglianza adeguato può essere molto importante per migliorare l’appropriatezza di tutto il percorso nascita». Così, Donati e il suo gruppo di lavoro si sono rimboccati le maniche, dando vita a un progetto di sorveglianza che risponde anche a un’antica ambizione di Donati stessa – il suo “sogno nel cassetto” – cioè conciliare la ricerca nell’ambito della salute pubblica con riflessioni generali sulla cultura della maternità. Due le componenti del sistema pilota messo in piedi dall’ISS in sei regioni, rappresentative del variegato quadro sanitario nazionale (Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia). Primo metodo: una rilevazione retrospettiva, fatta incrociando i dati dei registri di mortalità con quelli delle schede di dimissione ospedaliera, che ha fornito informazioni affidabili sul numero dei decessi e qualche informazione sulle cause. «La mortalità materna comprende i decessi avvenuti durante la gravidanza e fino a 42 giorni dopo la sua conclusione» spiega l’esperta. «Con questa rilevazione, però, abbiamo considerato anche le morti tardive, tra 43 e 365 giorni dall’esito della gravidanza». Una scelta che ha permesso, per esempio, di cominciare a far luce anche sul tema del suicidio. Secondo metodo: una rilevazione prospettica, mediante segnalazione dei casi da parte dei presìdi sanitari coinvolti, che ha consentito di indagare meglio sulle cause e sugli eventuali punti deboli dell’assistenza. Niente a che vedere con la segnalazione degli eventi al Simes, il Sistema informativo per il monitoraggio degli errori in sanità del Ministero della salute, previsto per legge ma di fatto poco efficace. Qui si è trattato di una vera e propria sorveglianza attiva costruita nel tempo, coinvolgendo direttamente una vasta rete di professionisti. «Abbiamo censito, nelle regioni del progetto, tutte le strutture pubbliche o private nelle quali una donna può morire per cause legate a gravidanza e parto, cioè tutti i presìdi di ginecologia e ostetricia, ma anche le terapie intensive e le stroke unit» spiega Donati. «Per ciascuno abbiamo individuato un referente, che ha partecipato a una giornata di lavoro comune a livello regionale, nella quale abbiamo condiviso la metodologia, gli obiettivi, la modulistica da utilizzare, gli eventuali aspetti critici del progetto. Ogni referente, poi, ha fatto una formazione a cascata dei colleghi nel proprio presidio». Il primo risultato di tutto questo lavoro è un quadro abbastanza definito della mortalità materna nel nostro paese. Dieci casi ogni 100 mila nati vivi, dicevamo. Con la natalità attuale, significa all’incirca 50 casi all’anno. Un rapporto paragonabile a quello presente in altri paesi socialmente avanzati, come Francia e Regno Unito. Come c’era da aspettarsi, il dato complessivo nasconde una certa variabilità regionale: si va dai 4,6 casi ogni 100 mila della Toscana ai 13,4 della Campania. Le morti materne sono state classificate per il 44% come dirette, cioè legate a condizioni esclusive della gravidanza e per il 46% come indirette, cioè legate a cause indipendente e preesistenti, complicate o aggravate dal fatto di aspettare un bambino. Tra le cause di mortalità diretta si trovano l’emorragia del post partum – in assoluto la prima causa di morte materna – i disturbi ipertensivi della gravidanza, come eclampsia e preclampsia, la trombosi e la sepsi, in lieve aumento nei paesi avanzati. Tra le cause indirette si trovano invece malattie cardiovascolari o cerebrovascolari, tumori – in generali tutti quelli ormone-dipendenti si aggravano in gravidanza – e suicidi. «Secondo la rilevazione retrospettiva, si contano in media due casi di suicidio ogni 100 mila nati vivi, ma in Sicilia il dato raddoppia, salendo a 4,2» spiega Donati. «Una situazione che di sicuro merita un approfondimento». In secondo luogo, l’analisi dei dati ha permesso di fare qualche considerazione sui fattori di rischio, permettendo quel collegamento con la cultura della maternità di cui si parlava. Di sicuro l’età è uno di questi: le donne con più di 35 anni hanno un rischio di morte tre volte più alto di quelle più giovani. «È’ chiaro che stiamo parlando di numeri molto piccoli, però è un dato sul quale riflettere, se si considera che nel nostro paese c’è una buona fetta di donne che partorisce dopo i 35 anni e in alcuni casi dopo i 40» commenta Donati. Altro fattore di rischio è il basso livello di istruzione (sotto la licenza media). «Sono donne con meno conoscenze, meno capacità di accedere ai servizi giusti e di recepire e seguire le indicazioni fornite e spesso anche con uno stile di vita meno sano e con meno tempo per occuparsi della gravidanza, perché ci sono già altri figli o situazioni lavorative difficili». E ancora, c’è il parto cesareo. Ovviamente va considerato che se la donna ci arriva per indicazioni mediche appropriate, potrebbe essere già di per sé più a rischio, però c’è anche una componente inerente al cesareo stesso. E in un paese come il nostro, nel quale il numero di cesarei supera di molto quello considerato appropriato (36,3%, contro il 15% previsto dall’Organizzazione mondiale della sanità), anche questo è un dato importante. «Oggi le donne pensano che il parto cesareo sia più sicuro di quello vaginale» commenta Donati. «Invece deve essere ben chiaro che è proprio il contrario. Certo, in assoluto anche qui parliamo di numeri piccolissimi, ma il rischio relativo di morte è tra 1,5 e 3 volte superiore per chi partorisce con cesareo». Altre informazioni molto interessanti sono quelle emerse dai 39 casi segnalati dalla rete di sorveglianza attiva. «Per esempio, 6 sono risultati legati a complicazioni in gravidanze indotte da tecniche di procreazione medicalmente assistita» racconta Donati. «Attenzione: questo non significa che siano pericolose le tecniche, ma che va fatta una selezione più accurata delle donne che vi accedono». In effetti, 3 decessi hanno riguardato donne con più di 42 anni e 5 donne obese. «Ecco: a una donna obesa con più di 42 anni, magari con il diabete, vanno spiegati molto, molto bene i rischi ai quali va incontro con una gravidanza». Altre 3 morti sono dipese da complicazioni dell’influenza (virus H1N1). «Questo ci insegna che dovremmo offrire la vaccinazione antinfluenzale alle donne in gravidanza, e invece lo facciamo davvero poco». Considerato che il vaccino esiste e poteva essere fatto, queste morti potevano probabilmente essere evitate. Il che ci porta alla domanda dalla quale siamo partiti: ma i decessi registrati sono tanti o sono pochi? In altre parole: potevano essere evitati? «Considerazioni di questo tipo sono state possibili solo rispetto a 29 dei casi segnalati, quelli sottoposti a indagine confidenziale» spiega Donati. «I risultati dicono che, su 29 morti, 12 in effetti potevano essere evitate». Un campione troppo piccolo per fare stime definitive, ma va detto che, secondo la letteratura scientifica, oggi nei paesi socialmente avanzati la mortalità materna non può ancora essere azzerata (e forse non lo sarà mai), ma si potrebbe evitare un caso su due. Un numero, ci pare, ancora altissimo. «Rispetto alle morti evitabili, i punti critici emersi dalla nostra analisi sono soprattutto due: la mancanza di un’adeguata comunicazione tra professionisti, soprattutto quando la donna richiede trasferimenti tra strutture diverse e l’incapacità di apprezzare la gravità del problema, che porta a un ritardo nella diagnosi e nel trattamento» spiega Donati. «Ma guardi che non sto parlando di malasanità, non sto dicendo che i nostri operatori sanitari non sono capaci di assistere. Il punto è che l’emergenza ostetrica, anche perché, per fortuna, molto rara, è un fenomeno estremamente complesso, che richiede grande prontezza di reazione e grande affiatamento dei team. La cosa importante è che tutto il lavoro fatto ci dice proprio da dove cominciare per migliorare le cose». Qualcosa si è già mosso con lo stesso progetto di sorveglianza. «Per esempio, abbiamo cominciato una raccolta dei casi dei cosiddetti near miss, le donne che sono quasi morte per eventi di emorragia del post partum, rottura d’utero, placentazione anomala o isterectomia, ma ce l’hanno fatta. Capire bene che cosa è successo in questi casi può dare informazioni preziose per migliorare l’appropriatezza clinica». Inoltre, è stato prodotto un corso di formazione a distanza sull’emorragia del post partum – alla quale per altro verrà presto dedicata una Linea guida nazionale – che ha avuto un grande successo tra i professionisti. Il pilota si chiude qui. La sorveglianza, però, prosegue nelle regione già coinvolte ed è pronta a partire in Lombardia e Puglia, arrivando così a coprire il 75% dei nati italiani.
Morire di parto in un Paese di cui vergognarsi. Che nel nostro tempo si possa ancora morire di parto è qualcosa di inaccettabile, eppure sono diversi i fattori che possono portare all'intollerabile epilogo e non sempre riescono a essere evitati, scrive Melissa Panarello Domenica 3/01/2016 su "Il Giornale". Nei giorni in cui migliaia di famiglie collocavano il Bambin Gesù nel presepe, protetto da Maria, Giuseppe e omaggiato da Re magi, in diverse città italiane quattro donne in stato di gravidanza sono morte insieme ai figli che portavano in grembo. Maria, anche quest'anno, ce l'ha fatta, loro no. Nonostante fossero al sicuro in un ospedale circondate da medici e l'altra in una stalla da un bue e un asino, nonostante siano passati più di duemila anni da quel primo 25 dicembre, queste donne sono rimaste vittima di un sistema sanitario inefficiente ancora oggi incapace di evitare le morti in sala parto. Chi è donna sa che ogni gravidanza è un viaggio che non assomiglia a quello di nessun'altra, così come il nostro corpo è una mappa con terre, oceani e confini diversi da quelli di chiunque: sappiamo muoverci bene nei nostri territori, sappiamo soprattutto che la gravidanza non è una malattia e che se stiamo male non è perché siamo incinte, ma perché qualcosa non funziona. Chiediamo aiuto, sperando che il medico che ci assiste sia abbastanza abile da leggere la nostra mappa, capisca dov'è il problema e intervenga salvando la nostra vita e quella di nostro figlio e la maggior parte delle volte lo fa e la vita, per fortuna, continua. Che nel nostro tempo si possa ancora morire di parto è qualcosa di inaccettabile, eppure sono diversi i fattori che possono portare all'intollerabile epilogo e non sempre riescono a essere evitati. Ci si chiede allora perché gli ospedali non siano attrezzati a fronteggiare questi rischi, perché non ci sia una diversa attenzione verso una donna che presenta patologie pregresse o non strettamente collegate alla gravidanza o verso una donna che ha superato una certa età e che può andare incontro a un parto più difficile. Se ogni gravidanza, come si diceva, è un viaggio a sé, diverso dovrebbe essere il trattamento verso ciascuna, seguendo appunto il percorso tracciato sulla sua mappa. Sorge però il sospetto che alcuni parti si rivelino tragici perché appare forse così remota l'eventualità di un errore, che non si presta la dovuta cura all'evento. Se fino a non moltissimi anni fa morire di parto era una possibilità e lo è anche oggi, allora cosa è davvero cambiato fra il passato e il presente? Sembrerebbe solo la drastica diminuzione di decessi, che avvenivano soprattutto perché i parti erano condotti in casa, seguiti nei migliori dei casi da un'ostetrica e nei peggiori dalla vicina di casa. I fattori di rischio, inoltre, non sono diminuiti, si sono semplicemente modificati e semplificati: se un tempo morire di parto dipendeva molto dalle scarse condizioni igieniche o dall'età molto giovane delle madri, dal tipo di alimentazione insufficiente a garantire un corretto funzionamento dell'organismo soprattutto in stato di gravidanza, oggi i rischi sono legati al tipo di vita che conduciamo, che porta molte donne a dovere lavorare nonostante lo stato avanzato della gravidanza (l'inesistenza di una legge seria che permetta alle donne di mantenere il posto di lavoro durante la maternità in questi casi si sente moltissimo), a rimandare il momento in cui decidono di fare figli prediligendo età sempre più avanzate e a sottoporci a stress, tensioni e pressioni continue non più da un punto di vista fisico, ma psicologico. Questo, appunto, non significa che i rischi non esistano più e ci si augura che le strutture siano pronte a intervenire laddove richiesto.
Morire di parto, i casi in Italia. Dieci decessi ogni 100 mila nati vivi. Ma la sorveglianza copre solo il 73% dei casi e i dati ufficiali non sono aggiornati. Per Angela Nesta la procura di Torino ipotizza l'omicidio colposo, scrive il 28 Dicembre 2015 “Lettera 43”. La procura di Torino indaga per omicidio colposo sul decesso di Angela Nesta, morta durante il parto con la sua bambina all'ospedale Sant'Anna. Angela Nesta è morta in sala parto, al Sant'Anna di Torino, assieme alla sua bambina. Per capire perché, il ministero della Salute ha deciso di inviare i suoi ispettori. Martedì 29 dicembre si farà l'autopsia e la procura del capoluogo piemontese ha aperto un'inchiesta per omicidio colposo, al momento a carico di ignoti. Il Sant'Anna è un ospedale ostetrico e ginecologico considerato all'avanguardia, nel 2014 è risultato al primo posto in Europa per numero di parti con esito felice. Ma le cifre e le cronache dicono che in Italia, purtroppo, di parto si muore ancora. Per quanto rara, la mortalità materna è un importante indicatore della qualità dell'assistenza sanitaria. Nel nostro Paese, ogni 100 mila bambini che nascono, ci sono 10 donne che muoiono per la gravidanza o il parto. L'Istituto superiore di Sanità si occupa di coordinare la Sorveglianza sulla mortalità materna. Nel 2015 il progetto è stato esteso alle Regioni Lombardia e Puglia, portando la copertura delle rilevazioni al 73% dei nuovi nati. Sul sito internet dell'Italian Obstetric Surveillance System, tuttavia, i dati ufficiali più aggiornati riguardano il periodo 2006-2012, quando la sorveglianza comprendeva soltanto sei Regioni (Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia) e copriva solo il 49% dei casi. Sulla base delle informazioni parziali disponibili, risulta che nel periodo considerato le morti materne, avvenute cioè entro 42 giorni dal parto, sono state 141. Limitando l'analisi agli ultimi due anni, prima del caso di Angela Nesta, secondo il quotidiano La Stampa le donne morte di parto in Italia sono state 39, la maggior parte delle quali a causa di complicanze ostetriche. La prima causa nazionale di mortalità materna è l'emorragia ostetrica, che ha ucciso due donne su 10. La sepsi ha causato cinque dei 39 decessi, altri cinque sono stati causati da malattie infettive, tre delle quali dovute a influenza H1N1. Sei dei 39 decessi sono avvenuti per complicazioni di gravidanze indotte mediante tecniche di procreazione assistita. Su 29 casi di morte sottoposti a indagine, infine, 12 sono risultati associati ad assistenza inadeguata. Il rischio di mortalità materna, secondo lo stesso Istituto superiore di Sanità, è quasi tre volte superiore nelle donne che hanno superato i 35 anni d'età rispetto alle più giovani, più di due volte superiore nelle donne con un basso livello d'istruzione e tra quante vengono sottoposte a parto cesareo rispetto al parto spontaneo. Il referto di Angela Nesta afferma che la giovane donna, 39 anni, è stata uccisa da un arresto cardiocircolatorio e che la piccola Elisa, la sua primogenita, è nata morta poco prima. Un evento «improvviso e impossibile da prevedere», ha dichiarato Chiara Benedetto, direttrice del reparto al Sant'Anna. Il padre della donna, Pietro Nesta, ha raccontato una versione diversa: «L'ultima volta l'ho vista nel pomeriggio del 26 dicembre. Aveva un dolore all'addome. Pensavo fosse normale per il parto, che era previsto per il 27. Poi i medici ci hanno detto, prima a me e poi al suo compagno, Francesco, di andare a casa. Da allora ho solo saputo che è morta, con la bambina, e nessuno mi ha dato uno straccio di spiegazione». Angela era arrivata al Sant'Anna il 23 dicembre. Dall'ospedale fanno sapere che «erano state fatte tutte le analisi, non era emerso niente che non andasse». Sarebbe quindi accaduto qualcosa di imprevisto, forse una «dilatazione improvvisa». Angela è stata portata in sala parto, dove «c'erano non meno di sette specialisti, fra i migliori dell'ospedale». L'anestesista «ha tentato in ogni modo di defibrillare e rianimare la paziente, sfortunatamente senza risultati positivi», ha detto ancora la direttrice Chiara Benedetto. Circostanze che l'autopsia e la procura di Torino intendono chiarire.
Di parto si muore ancora: in Italia 39 decessi in due anni. L’emorragia ostetrica è la prima causa, ma ci sono anche sepsi, malattie infettive e complicazioni dopo la procreazione assistita. Progetto di sorveglianza coordinato dall’Iss, scrive il 18 marzo 2015 Valentina Arcovio su “La Stampa”. Ogni volta che nel nostro paese vengono messi al mondo 100mila bambini, ci sono 10 donne che muoiono per la gravidanza o il parto. Un evento raro, è vero. Ed è in linea con la media dei paesi europei, come Regno Unito e Francia. Ma non per questo più accettabile, specialmente oggi dopo gli straordinari progressi compiuti in medicina. Eppure, in questi due anni in Italia sono morte 39 donne, la maggior parte delle quali a causa di complicanze ostetriche della gravidanza e del parto. E forse potrebbero essercene di più. Poche o molte: questo non lo sappiamo. Perché il progetto pilota di sorveglianza della mortalità materna, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità (iss), ha coinvolto solo 6 regioni (Piemonte, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania e Sicilia). In particolare, la sorveglianza attiva, messa in piedi da due anni dal Centro Nazionale di Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Iss, grazie a un finanziamento del Centro Controllo Malattie (CCM) del Ministero della Salute, ha creato una rete di circa trecento presidi sanitari pubblici e privati, che coprono il 49% dei nati nel Paese. Il fatto di non aver raggiunto una copertura ottimale, non ha reso di certo il lavoro più facile. Anzi, il progetto rappresenta un lodevole tentativo di rilevare, nel dettaglio, i percorsi assistenziali in modo da identificare eventuali criticità cliniche o organizzative e indicare le strategie di prevenzione delle morti evitabili. Per farlo sono state seguite due metodologie diverse: da una parte incrociando attraverso procedure di record-linkage i registri di mortalità con le schede di dimissione ospedaliera, dall’altra attivando una sorveglianza attiva per identificare e analizzare nel dettaglio tutti i casi di morte materna che avvengono nelle regioni partecipanti. Il record linkage ha permesso di rilevare anche le morti materne tardive avvenute tra 43 e 365 giorni dall’esito della gravidanza. Il 12 per cento delle morti tardive, avvenute tra 43 e 365 giorni dall’esito della gravidanza, sono causate da un suicidio (più che altro depressione post partum). Avviene in due casi ogni centomila nati vivi delle regioni partecipanti. Due donne su 10 sono morte a seguito di un’emorragia ostetrica che rappresenta la prima causa di mortalità e grave morbosità materna in Italia. La sepsi ha causato 5 dei 39 decessi e altri 5 sono stati causati da malattie infettive, 3 delle quali dovute a influenza H1N1, mentre 6 dei 39 decessi sono avvenuti per complicazioni di gravidanze indotte mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita. Delle 29 morti sottoposte a indagini confidenziale 12 sono risultate associate ad assistenza inappropriata ed esito evitabile. Quindi vite che potevano essere salvate. “Il rischio di mortalità materna - sottolinea Serena Donati, del reparto Salute della donna e dell’età evolutiva dell’Iss - è quasi tre volte superiore nelle donne sopra i 35 anni rispetto alle più giovani, oltre due volte nelle donne di istruzione bassa e tra quelle che si sono sottoposte a taglio cesareo rispetto al parto spontaneo. Le morti rilevate a seguito di gravidanze indotte mediante procreazione assistita mettono in luce l’importanza di un’appropriata selezione delle donne che possono accedere a tali tecniche per quanto riguarda la variabilità tra le regioni, si registrano esiti migliori al Nord rispetto al Sud del Paese come accade anche per la mortalità neonatale». Tra le regioni partecipanti, infatti, il rapporto più basso (4,6 ogni centomila nati vivi) è stato rilevato in Toscana, il più alto (13,4 ogni centomila nati vivi) in Campania. Ora l’Iss punta ad allargare la rete dei presidi sanitari monitorati. Entro quest’anno si prevede l’ingresso di altre due Regioni, la Lombardia e la Puglia, in modo da arrivare a una copertura pari al 75 per cento dei nati in Italia. Nel frattempo l’Iss ha offerto ad oltre 5000 operatori sanitari, medici e ostetriche, una formazione a distanza sulla prevenzione, diagnosi e trattamento delle emorragie del post-partum. È stato inoltre attivato uno studio sugli eventi morbosi materni gravi da emorragia del post-partum per ampliare la casistica sugli eventi gravi relativi al parto e analizzare in maniera ancor più approfondita le criticità assistenziali o organizzative oltre che facilitare l’aggiornamento dei professionisti. Infine, entro quest’anno l’Iss ha dichiarato di voler produrre una Linea-Guida specifica per l’emorragia del post-partum.
Perché si muore ancora di parto, scrive Vanity Fair” il 2.01.2016. Purtroppo sì: in Italia si muore ancora di parto. Si tratta di una possibilità molto rara - anzi, da questo punto di vista il nostro Paese è assolutamente all'avanguardia, con tassi di mortalità molto bassi - ma, come dimostrano alcuni fatti di cronaca degli ultimi giorni, non è un'eventualità che siamo riusciti a cancellare del tutto. Il caso di Angela Nesta, morta al Sant'Anna di Torino la notte di Santo Stefano assieme a sua figlia, ha riportato (giustamente) il tema al centro dell'attenzione. Anche se, sfogliando in questi giorni siti di informazione e giornali, sembra che improvvisamente le tragedie in sala parto (o quelle legate comunque a una gravidanza) si siano moltiplicate. Dopo Torino, Verona e Bassano del Grappa. Adesso (forse) anche Brescia. Ma come stanno le cose? Premessa indispensabile: se ogni vita va tutelata e difesa in ogni modo, a maggior ragione deve esserlo quella di una madre e del figlio (o figlia) che porta in grembo. Morire di parto è qualcosa di intollerabile, inaccettabile. E ogni Paese, come impone anche l'Onu, deve impegnarsi per ridurre il più possibile queste tragedie. Ogni anno, nel mondo, 303 mila donne muoiono di parto. Dal 1990 a oggi, il numero è stato quasi dimezzato. Le Nazioni Unite avevano chiesto una riduzione del 75%. Progressi, a livello globale, ne sono stati fatti eccome. Ma non basta. E in Italia? Negli ultimi cinquant'anni si sono fatti notevoli passi in avanti. Secondo i dati Istat, il tasso di mortalità materna è diminuito notevolmente passando da 133 su 100.000 parti nel 1955 a 3 su 100.000. Per l'OMS, la media europea si attesta (dati 2008) a 21 decessi per 100.000 nati vivi. Come ricorda l'Istituto superiore di sanità, «la mortalità e la morbosità materna grave correlate al travaglio o al parto sono eventi sempre più rari nei Paesi socialmente avanzati, ma non possono essere definiti come un problema del passato». Se è vero, infatti, che uno studio pubblicato su Lancet nel 2010 colloca l'Italia all'ultimo posto al mondo per mortalità materna (e questa, una volta tanto, è una buona notizia), è però possibile che il valore considerato (4 casi su 100.00 nascite) sia sottostimato. Tanto che il Ministero della Salute, nel 2012, ha lanciato il Sistema di Sorveglianza delle Morti Materne, coordinato dall'Istituto superiore della Sanità. E proprio uno studio dell'ISS presentato nei mesi scorsi rivela che il numero reale di morti materne, a seconda delle regioni, è da 2 a 7 volte superiore rispetto a quello stimato dall'Istat (vale a dire 3 morti su 100.000 nascite). Il rapporto più basso (4,6) è stato rilevato in Toscana, il più alto (13,4) in Campania (anche se non tutte le regioni sono state monitorate). Si tratta, nel peggiore dei casi, di numeri in media con i valori degli altri Paesi europei. Ma che si debba ancora fare qualcosa lo sostiene lo stesso Ministero della Salute, che in una raccomandazione del 2008 afferma che «la morte materna rappresenta un evento drammatico che può essere determinato anche da standard assistenziali inappropriati». Lo studio dell'ISS rivela che le cause di morte diretta più frequenti sono emorragie, tromboembolie e disordini ipertensivi. Vengono monitorate anche le cause indirette che possono portare alla morte della madre entro 42 giorni dal parto: tra queste ci sono patologie cardiovascolari, patologie cerebrovascolari e neoplasie. Il rischio di mortalità raddoppia se la mamma ha più di 35 anni (bisogna leggere i dati senza allarmismi: si tratta comunque di eventualità rarissime anche per le over 35). Le morti materne per taglio cesareo sono tre volte superiori a quelle registrate nei parti naturali (anche qui: non è tanto l'intervento chirurgico in sé ad accrescere il rischio, quanto le possibili patologie che lo hanno reso necessario). Il dato, inoltre, appare superiore alla media per le cittadine straniere e per le donne con un basso livello di istruzione. Il fattore povertà, anche nel nostro Paese, ha una certa incidenza.
I FURBETTI DEL 5 E DELL'8 PER MILLE.
Il trucco del 5x1000: beneficio, ma non per tutti. Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 aprile 2010 si è previsto per il 2010 la possibilità per i contribuenti di destinare una quota pari al 5 per mille dell'Irpef a finalità di interesse sociale. Associazioni ed enti pronti a rimpinguare le loro misere casse con l'adesione di cittadini seguaci delle loro attività. Sarebbe bello se non fosse tutto un trucco, così come ha constatato l'Associazione Contro Tutte le Mafie, che avrebbe investito quei contributi nei suoi siti web: d'inchiesta www.controtuttelemafie.it e di promozione del territorio www.telewebitalia.eu . L’Agenzia delle Entrate ha imposto la presentazione delle richieste di ammissione al beneficio entro il 7 maggio 2010 e solo in forma telematica, nei modi e nelle forme previste dall’ufficio. Per farlo vi è l’obbligo dell’abilitazione ai servizi telematici. Dal 23 aprile al 7 maggio ci sono 14 giorni, di cui solo 10 lavorativi. In questi 10 giorni, molti richiedenti hanno provato ad inoltrare la richiesta, ma il sistema non ha riconosciuto la password e il pincode dell’anno precedente. I contatti telefonici con l’agenzia (a pagamento) sono stati impediti dalla lunga lista d’attesa, (fino a 70 contribuenti). La richiesta del nuovo pincode e password è rimasta disattesa nei termini, se non riceverla dopo 12 giorni dall’istanza. Le comunicazioni dell’Agenzia delle Entrate non hanno alcuna data, per cui inutile contestare il ritardo, non avendo prova, né te la fornisce il servizio postale, che interpellato sull’apposizione della data di ricezione, ti dice: “noi non mettiamo alcuna data, altrimenti i ritardi dell’Agenzia delle Entrate ricadono su di noi”. In questo modo gli enti pubblici fanno ricadere le colpe sui contribuenti, che non possono provare il disservizio. Comunque, se pur in palese ritardo, la richiesta del beneficio non si può inoltrare, in quanto avere il pincode e la password non basta. Dopo tutto il casino, nel momento in cui attivi i servizi telematici, ti comunicano sul portale web dell’Agenzia che bisogna rivolgersi ad un incaricato terzo abilitato (a pagamento). Cosa che a saperla, si sarebbe potuta fare dall’inizio, senza aver percorso tutta la trafila burocratica inutile. Risultato: in tempi ristretti e per i disservizi dell’Agenzia delle Entrate non tutti hanno potuto accedere al beneficio. Ed è solo una semplice istanza. Il problema è che la prassi si ripete ogni anno e nessuno vi pone rimedio, mentre i contribuenti ignari pensano di aver donato una quota di tasse alla loro associazione, mentre i contributi, in realtà, vanno ad altri sodalizi. Inutili sono state le interrogazioni parlamentari presentate a porre rimedio all'ingiustizia che ha colpito l'Associazione Contro Tutte le Mafie e tanti altri sodalizi ONLUS. Nonostante un'interrogazione Parlamentare nessun ristoro vi è stato per il diritto leso.
L’evasione colpisce anche il volontariato. Onlus che truffa, scrivono Gianni Del vecchio e Stefano Pitrelli su "L'Espresso il 15 ottobre 2007. Entri in un locale, ha tutta l'aria di un normalissimo pub, e ti portano una tesserina da riempire coi tuoi dati. Una firmetta et voilà: ne sei diventato socio e nemmeno te ne accorgi, perché bevi e mangi spendendo più o meno lo stesso degli altri locali in zona. Ma ad accorgersene è il proprietario, che sui tuoi soldi non paga le tasse perché in realtà ha travestito il suo pub da Onlus, ossia Organizzazione non lucrativa di utilità sociale. È solo un esempio, come ce ne sono tanti, di associazioni che fanno da paravento ad attività assolutamente profit, spaziando da palestre a prezzi vantaggiosi mimetizzate come circoli sportivi; a cinema che si presentano come centri culturali o circoli ricreativi per persone sole, anziani o stranieri che lucrano sul bar. Altri mascherano l'assistenza prezzolata alla terza età, le agenzie matrimoniali e persino case d'appuntamenti. Insomma, benvenuti nel lato oscuro del Terzo Settore, un sottobosco dove le eccezioni viziose abbondano. Vere truffe ai danni dello Stato o ai danni degli ignari cittadini, che fanno loro donazioni. Oppure organizzazioni che l'etichetta Onlus la sfruttano semplicemente a fini elusivi. Perché il riconoscimento permette di godere di notevoli agevolazioni fiscali: una concessione che premia le tante associazioni sane, punto di forza del volontariato nel nostro Paese. Le Onlus infatti non pagano l'imposta sul reddito, perché i proventi non sono soggetti all'Ires. Poi ci sono molte operazioni senza Iva e l'esenzione da altre tasse, minori ma ugualmente onerose. Insomma, un bouquet di vantaggi per sostenere chi ha un reale impegno sociale. Ma che diventa un'occasione prelibata per i malintenzionati. Un ristorantino travestito da Onlus può battere sul prezzo qualunque concorrente in regola, oppure (a listino invariato) far più profitti. Per non parlare, infine, del 5 per mille cui queste associazioni hanno titolo, e c'è il rischio che finiscano per attingervi, nonostante i controlli. Aggiungendo al danno la beffa. Ma quello delle Onlus che nascondono un'attività puramente commerciale è solamente una delle tipologie fraudolente. Altre truffe, grandi e piccole, vengono ordite attraverso la raccolta di donazioni, che è più informale e lascia meno tracce, da parte di finti enti solidaristici.
"I parassiti del 5 per mille" è il titolo di un'inchiesta dell'"L'Espresso" a firma di Gianni Del Vecchio e Stefano Pitrelli. L'Associazione Cercatori d'oro. I sedicenti Cavalieri templari. I cultori del rito di Misraim. Sono solo alcune delle più incredibili Onlus che si spartiscono la torta dei denari pubblici. Sottraendo fondi a chi fa vera solidarietà. Io ti creo, e io ti distruggo. Avrà pensato questo il ministro dell'economia Giulio Tremonti quando ha massacrato il 5 per mille, una delle sue più riuscite invenzioni, dissanguandolo con il taglio dei fondi da 400 a 100 milioni di euro. Eppure nei suoi anni di vita, il meccanismo creato per rimpiazzare i soldi pubblici per il sociale con quelli provenienti dalle tasche dei contribuenti era stato apprezzato dal mondo del volontariato. Nonostante i suoi evidenti limiti: in assenza di una legge, naturalmente si è scatenato il Far West. Con tanto di assalto alla diligenza. Un mucchio selvaggio di associazioni che saranno anche non profit, ma che di socialmente utile fanno ben poco, hanno ingrossato gli elenchi tenuti dalla Agenzia delle entrate. Cosa che se in tempi di vacche grasse già era un problema, ora che sono anoressiche è diventata intollerabile. Il fatto è che i confini di ciò che lo Stato italiano considera di "utilità sociale" sono evidentemente vasti, e spesso piuttosto fantasiosi. A volte l'utilità sociale c'è, ma gode di un "doppio fondo": le regioni, ad esempio, i soldi li prendono dalle tasse dei cittadini, ma attingono comunque al 5 per mille dal canale della ricerca sanitaria. I comuni, che attraverso le pro loco fanno man bassa. E poi le associazioni di protezione civile, che già godono dei fondi provenienti dalla protezione civile nazionale. Altre volte, invece, l'utilità sociale è decisamente questione di punti di vista. Così sulle liste del 5 per mille, fra le infinite associazioni che si prendono cura degli amici a quattro zampe - cani, gatti, cavalli - ne trovi una d'importazione che i randagi vuole castrarli, così come fanno a Bucarest: Lamento Rumeno. Il loro sogno è attrezzare un piccolo camper a mo' di clinica mobile, in cui sterilizzare le povere bestie per sconfiggere il randagismo. E un'altra che invece gli animali li prende in considerazione solo quando ormai non esistono più (Associazione per lo studio degli animali estinti). Non è ancora del tutto estinto, a quanto pare, l'esperanto - il fallito esperimento di lingua artificiale - tanto che dalla Esperanto Radikala Asocio partono strali contro "l'oppressione linguistica" dell'inglese: «Follia del Ventunesimo secolo, fenomeno divenuto ormai religioso». Un po' rétro lo sono anche a Biella, dove non solo esistono ancora cercatori d'oro, ma si son riuniti in un'apposita associazione. E come loro cercano pepite, in Sicilia si aggirano uomini armati di registratore che passano al setaccio i suoni del territorio, per catalogarli e salvaguardarli (è il Sicilian Soundscape Research Project). Sembrano, insomma, i personaggi di una commedia all'italiana - come quella tutelata da un apposito centro studi del comune livornese di Rosignano Marittimo. Altri, invece, paiono fuoriusciti da un libro di Dan Brown, in un profluvio di scudi, spade, compassi e grembiuli: le pagine del 5 per mille raccontano infatti numerose storie di cavalieri templari e fratelli massoni. C'è l'Ordo templi hierosolymitani equites templares (cioè ordine dei templari di Gerusalemme), a fianco dei Cavalieri templari onlus, e alla Milizia del tempio - ordine poveri cavalieri di Cristo. C'è il Gran priorato dei Santi apostoli e il Priorato di San Martino. Da una parte ci sono gli Amici del sovrano militare ordine di Malta - delegazione di Venezia onlus, dall'altra la Knights of Malta Osj foundation. Infine, oltre alla scuola esoterica della Associazione archeosofica, troviamo Stupor mundi, seziona barese dell'Accademia dei filaleti. Il presidente dell'Accademia, Giancarlo Seri, è Gran ierofante dei riti egizi della massoneria, e in un filmato su YouTube spiega: «Il mio ruolo all'interno del Grande Oriente d'Italia è sovrintendere i lavori dell'antico e primitivo rito di Memphis e Misraïm». Il 5 per mille oltre a essere esoterico, tocca punte di misticismo New Age. Folte le schiere di guru, santoni, e predicatori di dottrine varie che poco o niente hanno a che vedere con le grandi religioni. Partiamo dalla Fondazione l'Albero della Vita, al sedicesimo posto fra le onlus più premiate, con oltre un milione e mezzo di euro. L'organizzazione, che si propone a tutela dei diritti di bambini, adolescenti e donne in situazioni di disagio sociale, è presieduta dal napoletano Patrizio Paoletti (esiste anche l'Associazione Patrizio Paoletti onlus). Nel dizionarietto del Cesnur sui culti in Italia, il suo nome salta fuori alla pagina sui centri "El Are" per lo «sviluppo armonico dell'uomo», dove lo si scopre erede spirituale del guru armeno Gurdjeff. Secondo Paoletti, quindi, «non tutti hanno un'anima, solo chi riesce faticosamente a costruirla può aspirare al risveglio. Paoletti propone una «via delle perle di cristallo, fatta di piccoli insegnamenti che partono dal quotidiano e che, come nelle favole, aiutano a ritrovare la propria strada». Decisamente New Age è l'approccio della comunità di Damanhur, l'autoproclamata "città-Stato" piemontese dove si scavano templi sotterranei e si sposa un politeismo spinto. Sia la loro sezione fiorentina, Damanhur Firenze, che l'Associazione di protezione civile Damanhur trovano spazio nelle liste. Insieme ad altri volontari di protezione civile, quelli del Nuovo Rinascimento di Scientology. Gli appassionati lettori di Ron Hubbard ce li ritroviamo in fila per il 5 per mille anche con i quattro centri Narconon per la disintossicazione, e col Comitato dei cittadini per i diritti umani. Pure il Movimento umanista, che segue il verbo dell'argentino Silo, può vantare una nutrita presenza: l'associazione di volontariato La svolta umanista, la Dimensione umanista onlus, e Pangea per una nazione umana universale. Senza contare quelli del Movimento raeliano italiano, che si fanno portatori del messaggio di angeli alieni e nel frattempo predicano la clonazione dell'uomo. Passando per i devoti di culti indiani, come l'Associazione Amma (dal nome della donna dalla quale anche Dario Fo e Franca Rame fanno la fila per farsi abbracciare), e dall'Osho meditation center (ispirato all'omonimo fondatore). Per arrivare agli Hare Krishna, e tanti altri. Né basta a tranquillizzare, di fronte a tutto questo, neanche la consapevolezza di avere destinato il proprio 5 per mille a una organizzazione di (vera) utilità sociale. Non tutti i milioni vanno a finire direttamente nelle casse degli enti prescelti: il meccanismo infatti prevede una parte proporzionale da distribuire a pioggia a tutti quelli in elenco. E non si tratta di bruscolini. I dati 2008, gli ultimi diffusi dal fisco, sono chiari: sui 415 milioni complessivi, 328 sono finiti direttamente alle onlus designate dal cittadino, e 87 sono stati divisi fra tutti i partecipanti. Una bella fetta (circa il 21 per cento) va quindi a chi non se l'è conquistato, motivo per cui far parte degli elenchi, comunque, conviene. Del resto, entrare nelle liste è tutt'altro che impossibile. I controlli più rigidi sono quelli formali, cioè sulla correttezza dei documenti presentati, fatti dall'Agenzia dell'entrate. Ma se non si sbaglia a segnare il codice fiscale o l'indirizzo dell'associazione, il più è fatto. Sui controlli di merito, invece, ecco che si moltiplicano le competenze. Al fisco spettano quelli sulle onlus, ai ministeri quelli sugli enti di ricerca scientifica e sanitaria, al Coni quelli sulle associazioni sportive dilettantistiche. E ad aumentare i dubbi c'è un altro indizio: i colori della politica partecipano al banchetto del 5 per mille. A partire da chi tutti i giorni spara contro Roma ladrona e gli sprechi del palazzo, il verde leghista. Negli elenchi si trova la Guardia Nazionale Padana, che tempo fa s'era messa in testa di organizzare su tutto il territorio del Nord le ronde padane, con tanto di uniforme. Oggi però, con Bossi al governo, la Guardia ha "deposto le armi" e, come si legge sul sito, dedica il tempo «alle popolazioni in pericolo, indipendentemente da razza, religione o credo politico». Duri e puri invece sono rimasti quelli dell'Associazione Nord autonomo, negli ultimi tempi trasformati in partito politico. Il loro programma non è che combaci esattamente con i valori della solidarietà sociale: vogliono il carcere duro («Le prigioni sono ormai alberghi»), i lavori forzati per i detenuti («Così possiamo ripulire Napoli»), e sono contro i clandestini («Rispediamoli a casa subito, così ci costano meno»). Nelle liste del fisco, poi, ci sono tante "armi culturali" che servono ai politici per darsi battaglia. C'è la Fondazione Italiani Europei del pd Massimo D'Alema, la Fondazione Magna Carta dei forzisti Marcello Pera e Gaetano Quagliariello, e il Meeting Amicizia fra i popoli targato Comunione e liberazione. A queste bisogna aggiungere tutte le fondazioni che perpetrano il pensiero dei leader politici del passato, da quella Enrico Berlinguer a quella Alcide De Gasperi, passando per Sandro Pertini e Bettino Craxi (quest'ultima fondata e guidata dalla figlia Stefania). Passando dal Novecento all'Ottocento, prendono soldi anche l'Associazione marxista lucana, l'Associazione mazziniana e perfino gli irredentisti della Lega nazionale Trieste. Anche la Chiesa non disdegna attingere al denaro pubblico. All'undicesimo posto fra le Onlus che dal 5 per mille escono con le tasche piene c'è l'Associazione world family of Radio Maria, che riceve oltre 2 milioni di euro per far funzionare una radio che serve a diffondere il messaggio evangelico. Per non parlare di una folta schiera di parrocchie, oratori, monasteri e diocesi. Neanche le imprese rinunciano alla possibilità del 5 per mille. E lo fanno attraverso una miriade di fondazioni. Obiettivo primario, fare beneficenza vera (e allo stesso tempo nobilitare l'immagine del proprio marchio). Nel lungo elenco ci sono aziende di abbigliamento e di accessori (Ermenegildo Zegna, Diesel, Luxottica), sportive (Ducati, Milan), acciaierie e cementifici (Falck e Buzzi-Unicem). S'incontra, poi, l'interminabile sfilza di club che impiegano il 5 per mille per finanziare una passione. Ce n'è per tutti i gusti: i collezionisti possono donare alla Società numismatica italiana o al Centrostudi araldici, i radioamatori all'European radioamateurs association e alle miriadi di filiali locali, gli astrofili alle tante piccole associazioni regionali, tra cui ad esempio The planetary society - Sicily. Non si contano poi le bocciofile o i circoli degli scacchi (Associazione sportiva scacchistica in testa). Così come non sono poche le scelte per chi ama l'avventura: l'Associazione speleologi piemontesi, il Club alpinistico triestino, la Confederazione italiana campeggiatori, il Caravan camping club e la Federazione italiana amici della bicicletta. Ovviamente non poteva mancare la coppia più famosa nel campo degli hobby, caccia & pesca. Così il 5 per mille va a chi agli animali gli spara (Federazione della caccia, nazionale e sedi locali) ma anche a chi cerca di tutelarli (Lega abolizione della caccia). Meno fortunati i pesci, che non hanno nessun santo che li tuteli: i fondi vanno solamente alle numerose associazioni dei pescatori, e alla Federazione italiana della pesca sportiva. La rassegna di enti che usano i soldi degli italiani per l'utilità dei propri soci è lunga. Nel 2008 la Fondazione italiana per il notariato ha incassato quasi 800 mila euro, e 150 mila l'Associazione nazionale consulenti tributari. Vanno poi aggiunte tutte quelle organizzazioni che rappresentano i maestri di ballo, i fisioterapisti, gli informatici, i biotecnologi, i seniores d'azienda e via elencando. Senza dimenticare due simil- sindacati come il Movimento italiano casalinghe e il Comitato per i diritti civili delle prostitute. C'è poi lo strano caso dell'Associazione nazionale italiana farmacisti: strano perché automaticamente si pensa all'ente di categoria, e invece si tratta della Nazionale di calcio degli speziali. Magari se la battono coi rivali dell'Associazione nazionale calcio medici onlus, che su Facebook vantano le simpatie dei senatori pidiellini Gentile e Quagliariello. Infine, le mille e più associazioni sportive dilettantistiche, tra cui spiccano soprattutto squadre di calcio, basket, pallavolo o rugby, e che spesso di sociale hanno ben poco. Addirittura negli elenchi si trova una società a responsabilità limitata: è l'Ac Isola Liri che gioca nel campionato di calcio Lega Pro di seconda divisione. Per non parlare dell'infinita lista delle Federazioni sportive, da quelle che rappresentano gli sport maggiori a quelle più sconosciute, come bocce, tennistavolo, dama e tamburello. Magari avranno pure bisogno di fondi, per sopravvivere. C'è un solo problema: se tutto è di utilità sociale, ma i soldi sono pochi, allora niente sarà di utilità sociale.
Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio.
I furbetti del cinque per mille: così la scelta del cittadino viene cambiata. L’Agenzia delle Entrate ha spulciato le dichiarazioni degli italiani trovando numerose irregolarità e cambi di firma per le donazioni a onlus e ricerca. Sotto osservazione i centri di assistenza fiscale del mondo cattolico che cambiano la destinazione dei fondi all'insaputa dei propri assistiti, scrive Michele Sasso il 01 ottobre 2015 su "L'Espresso". I cambi di firma, le segnalazioni, gli errori e i raggiri del cinque per mille sono una realtà. La conferma arriva dall’Agenzia delle entrate: cinquecento modelli irregolari su 5.603 controllati nel 2014. È solo la prima campagna di verifiche che accende un faro sulla gestione nei Caf – i centri di assistenza fiscale - delle scelte della misura fiscale con cui i cittadini possono destinare una parte delle imposte al sociale, ricerca e cultura con la loro dichiarazione dei redditi. L’Agenzia ha risposto così all’invito arrivato dalla Corte dei conti a controllare il comportamento degli intermediari che abbiano un potenziale conflitto di interessi: sotto la lente ci sono i Caf collegati a un’organizzazione beneficiaria del contributo o che ne siano diretta emanazione. In cima alla black list le Acli (associazioni cristiane dei lavoratori italiane), il Movimento cristiano lavoratori, Acai (collegato all’associazione cristiana artigiani italiani), Caf Servizi di base (collegato a Rete Iside Onlus), e Anmil(dell’associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro). Tutti enti che godono di una posizione di favore. Gestendo direttamente i centri, in fase di compilazione hanno la possibilità di "indirizzare" a proprio favore le donazioni dei contribuenti. Quelli considerati "a rischio" di poter incidere sulla scelta degli utenti sono stati selezionati in base all’andamento delle opzioni nelle dichiarazioni dal 2006 in poi: da quell’anno sono aumentate costantemente le scelte del cinque per mille effettuate dai contribuenti assistiti da determinati Caf ed è aumentato anche il numero delle scelte specifiche a favore delle associazioni collegate a questi centri di assistenza fiscale. Inoltre, è emerso che le scelte provenienti dagli utenti rappresentano una fetta molto consistente (in alcuni casi la quasi totalità) delle scelte complessive a favore dei beneficiari collegati. Messi sotto osservazione ecco che emergono irregolarità nell’8,9 per cento dei casi. Praticamente, quasi un modello su dieci degli oltre cinquemila controllati. Tutto questo non stupisce l’Uaar (l’unione degli atei e degli agnostici razionalisti) che ha raccolto decine di segnalazioni con destinatari "distratti" da altre confessioni, firme cambiate e campagne per dirottare scelte verso l’universo della chiesa cattolica. «È scandaloso. Noi da anni riceviamo denunce del genere, ma avere ora la conferma ufficiale che si tratta di un vero e proprio "sistema" non ci fa piacere», commenta il segretario Uaar Raffaele Carcano: «Facciamo fatica a digerire la notizia che per 207 dichiarazioni il codice fiscale del destinatario del 5 per mille risulta diverso da quello indicato nel modulo cartaceo dal contribuente. E che nell’otto per cento dei casi, le scelte trasmesse in modo errato all'Agenzia delle Entrate sono a favore di associazioni collegate al Caf stesso. Non è reato consigliare un contribuente la destinazione del cinque per mille, ma modificare la sua scelta sì». Un balzo in avanti registrato anche dai dati disponibili diffusi dall'Agenzia delle Entrate (relativi al 2013), nella distribuzione dei fondi 5 per mille le Acli si attestano al 12esimo posto con 200mila firme a loro favore (che si traducono in quasi 3 milioni e 500mila euro) e il Movimento cristiano lavoratori al 22esimo posto con poco più di 100mila firme (pari a 1 milione e 800mila euro). Ecco come il volere dei contribuenti viene aggirato. Mario due anni fa ha scelto un centro del quartiere romano di Primavalle per la dichiarazione dei redditi. Ha presentato il Cud scegliendo di destinare l’otto per mille allo Stato e il cinque all’Uaar, mettendo le firme e il codice fiscale negli appositi spazi. Tornato a casa la scoperta: nella copia del modello 730 risultava l’otto per mille dato alla Chiesa cattolica e il cinque per Mille a un’altra associazione, l’organizzazione Operatori di Misericordia Onlus, con un codice fiscale molto diverso da quello dell’Uaar, che non risulta nemmeno negli elenchi dell’Agenzia per le Entrate tra i soggetti che hanno chiesto di beneficiarne per il 2014. Mario si fa correggere gli errori e sulle motivazioni del cambio in corsa dei moduli ecco la risposta: «È il programma stesso per la compilazione ad avere impostato in automatico "Chiesa cattolica" per il campo otto per mille e l’associazione Operatori di Misericordia Onlus per il cinque per mille. Vengono compilati diversamente solo su esplicita indicazione del contribuente». Mario non è il solo. Anche ad Anna, sempre a Roma, è successo lo stesso: «Tre anni fa ho chiesto assistenza per la compilazione della mia dichiarazione dei redditi al Caf sotto casa. Come sempre avevo scelto di destinare il mio 8 per mille alla Chiesa valdese. Per cui grande è stata la sorpresa quando sono andata a ritirare la documentazione e ho visto scritto, nero su bianco, che avevo scelto di destinarlo alla Chiesa cattolica. Infuriata ho subito chiamato chiedendo spiegazioni, che non mi hanno fornito. Per fortuna ero ancora nei tempi per modificare la dichiarazione». Per accalappiare nuovi contribuenti e convincerli a versare l’otto per mille alla Chiesa cattolica la conferenza episcopale italiana si è inventata " I feel Cud ". Un concorso per sguinzagliare i giovani delle parrocchie a caccia di dichiarazione dei redditi e metterli in competizione per ottenere in cambio contributi, da un minimo di 1.000 fino a 15.000 euro, per la realizzazione dei migliori progetti selezionati. È una trovata per allargare il sistema dei contributi volontari, che da anni registra un calo di consensi ma che veleggia intorno al miliardo di euro. Ecco come funziona: per partecipare al concorso il responsabile parrocchiale ed i componenti del gruppo devono raccogliere le schede allegate al modello Cud (Certificazione Unica) delle persone che non hanno l’obbligo di fare la dichiarazione dei redditi, compilate con la firma per destinare il contributo volontario. In genere si tratta di anziani in pensione, giovani al primo impiego e lavoratori dipendenti che non hanno altri redditi e persino pensionati senza altri redditi, ovvero coloro che, percependo solo l’assegno dell’Inps – si tratta di una larga fetta di pensionati italiani –, non sono tenuti a presentare la dichiarazione dei redditi, e di conseguenza non fanno nessuna scelta di destinazione dell’otto per mille. Ogni pensionato al minimo, con 500 euro al mese, vale quasi 50 euro all’anno di otto per mille: moltiplicando la cifra anche solo per un milione di anziani, fanno 50 milioni all’anno. E qui entrano in gioco i giovani delle parrocchie: organizzati in squadre vanno a caccia dei pensionati, li convincono e aiutano a compilare il Cud che attesta i loro redditi per firmare nella casella collegata alla Chiesa cattolica (non si tratta di una tassa aggiuntiva, perché l’otto per mille è comunque dovuto: anche coloro che non indicano alcuna destinazione lo pagano) e poi si consegnano i modelli al più vicino Caf. Lanciato nel 2011, per l’ultima edizione nove squadre hanno ricevuto contributi economici per 50mila euro. Lo slogan: «Cerchiamo un progetto serio, che porti il sorriso tra la gente».
Sprechiamo i soldi del cinque per mille. Il welfare scricchiola o peggio. Ma ci sono 70 milioni di euro di donazioni già erogati che non vengono distribuiti. Così le onlus oneste non ricevono i soldi, mentre diminuiscono i controlli per 'beccare' chi truffa, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso” del 7 ottobre 2013. Moduli bancari compilati in maniera sbagliata. Intoppi burocratici. Associazioni che nascono e poi si sciolgono in un battito di ciglia. Sedicenti organizzazioni no-profit che promettono di aiutare i bambini africani ma poi, ottenuti i soldi, si dissolvono come fantasmi. Enti regionali che si propongono di formare i giovani in cerca di lavoro ma in realtà vogliono solo accaparrarsi una succulenta fetta di fondi europei. Il mondo delle onlus è il preda al caos. Le associazioni continuano a nascere e a moltiplicarsi nonostante manchino i soldi: le donazioni sono in calo del 35 per cento. Eppure ogni anno a causa di truffe, contabilità sbagliata o banali errori di modulistica, circa otto milioni di euro versati dai cittadini con il cinque per mille rimangono bloccati nelle casse dello Stato. Secondo quanto risulta a l’Espresso dal 2006 ad oggi siamo arrivati a quasi 70 milioni di euro: fermi e inutilizzabili. Un tesoretto che rappresenterebbe una risorsa importantissima per il mondo del volontariato. Facendo un rapido controllo all’Anagrafe unica delle onlus ci si fa un’idea dei numeri: le associazioni no-profit iscritte sono arrivate a 235 mila, danno lavoro a 488 mila dipendenti e possono contare sull’aiuto di 4 milioni di volontari. Il volume delle entrate, invece, rappresenta all’incirca il 4,3 per cento del Pil italiano. La maggior parte delle onlus svolge un lavoro importante e dignitoso, soprattutto in questo momento di feroce crisi economica in cui sempre più famiglie attraversano momenti di difficoltà. Però nel calderone del volontariato continuano a nascondersi anche molti “parassiti” che si mascherano da enti umanitari per trarne vantaggi. Quali? Innanzitutto l’agevolazione fiscale: le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, infatti, non pagano l’imposta sul reddito. Mentre molte operazioni possono essere condotte senza Iva e sono esenti da altre tasse minori: ecco perché il settore del volontariato continua a fare gola anche a chi non è esattamente animato dalle più nobili intenzioni. Il picco di onlus fasulle si è avuto nel periodo dal 2007 al 2011: l’Agenzia per il Terzo Settore – incaricata di compiere i controlli – aveva cancellato dall’Anagrafe unica delle onlus 3.313 associazioni che non avevano rispettato i criteri di iscrizione. Il trucco preferito dai finti benefattori era simile al “gioco delle tre carte”: i fondi percepiti venivano utilizzati per il pagamento delle spese di altre società di cui erano parte le stesse persone che costituivano la onlus. Secondo i dati dell’ultima relazione del ministero del Lavoro sul Terzo Settore, nell’ultimo anno e mezzo le onlus “sospette” riscontrate e segnalate sono state solo 92. Molte di meno, rispetto alle cifre stellari degli anni precedenti. Non perché ci sia stato un picco di onestà ma perché, come spieghiamo qui sotto, è cambiato il sistema dei controlli. Fra le segnalazioni di irregolarità c’era di tutto. Dall’associazione incaricata di assistenza domiciliare ai non vedenti, malati tumorali e cardiopatici che non aveva mai erogato nessun servizio, a quella che dopo aver raccolto più di un milione di euro di fondi per non meglio precisati fini umanitari è poi svanita nel nulla. Dal 2012 l’Agenzia per il Terzo Settore, fra i malumori generali, è stata cancellata per volere del governo Monti all'interno della spending review. E così oggi, al suo posto, sul mondo del volontariato vigila direttamente il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. La guardia però deve restare alta, dato che per i prossimi sei anni (2014-2020) l’Unione Europea ha deciso di stanziare il 20 per cento del suo intero budget per il settore sociale e le truffe sono dietro l’angolo. L’ultima è stata scoperta pochi mesi fa a Palermo: un’associazione regionale nata con lo scopo di aiutare i giovani a trovare lavoro si era inventata fantomatici corsi di aggiornamento e lucrava alle spalle dei disoccupati: era riuscita a incassare centinaia di migliaia di euro di fondi europei. Che rappresentano, va detto, la maggior parte della linfa vitale della quale si nutre il volontariato italiano. Ma il problema più rilevante, al momento, è quello delle donazioni bloccate. Dal ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per la prima volta ammettono l’esistenza del “tesoretto congelato”. E lo quantificano. «Ancora oggi abbiamo soldi fermi da sette anni», fanno sapere a l’Espresso. In totale, dal 2006 al 2011 sono rimasti bloccati nelle casse dello Stato 66 milioni e seicentomila euro del 5 per mille. Se si considera anche il periodo 2012-2013 si arriva a 70 milioni. Tanto per fare un esempio: nel 2010, su quasi 253 milioni e mezzo di euro raccolti con le donazioni, 7 milioni sono stati bloccati. Nel 2011, su quasi 262, quelli fermi sono 11 milioni e 964 mila euro. Solo nel 2007 erano invece venti. La colpa di questa débacle non è imputabile solamente alle onlus. A mettere in difficoltà l’Agenzia delle Entrate incaricata di effettuare i controlli, infatti, sono soprattutto le imprecisioni nei documenti o le continue “metamorfosi” delle associazioni che cambiano nome, scopo e destinazione dei fondi. Errori ingenui, spesso, che quando si scontrano con la lentezza dell’apparato burocratico provocano conseguenze disastrose. «Basta compilare in maniera errata un modulo o persino l’Iban e tutto si blocca», ammette Danilo Giovanni Festa, direttore generale per il Volontariato al ministero: «Se un cittadino, insomma, decide di destinare il suo 5 per mille a un’associazione, e poi noi scopriamo che questa non esiste, o è fasulla, o è sospetta, o non ci ha fornito una documentazione corretta, non possiamo essere noi a decidere a chi “dirottare” quei soldi. E così rimangono congelati». Ibernati, dunque, per più di dieci anni. Prima che – da normativa - lo Stato possa decidere se e come riutilizzarli. Fra i nodi da sciogliere per il Terzo Settore c'è anche il tetto massimo di 400 milioni di euro per il settore del volontariato, fissato dalla legge di Stabilità del 2011, che avrebbe sottratto cinque milioni di euro di donazioni solo nell’ultimo anno. Un caso che è già stato fatto notare durante una recente interrogazione parlamentare sollevata dal Pd. A denunciare il problema è anche direttore del settimanale “Vita” Riccardo Bonacina, che parla di “scippo” del 5 x mille e, meditando una class action contro lo Stato da parte di tutte le associazioni, ha fatto partire una raccolta firme che ha già raggiunto oltre seimila adesioni. «Ormai il 5 per mille è ridotto al 4 per mille», denuncia: «E nel 2011 sono stati sottratti al mondo del volontariato 172 milioni».
Così le società sportive rubano il 5 per mille. Le srl dilettantistiche non possono partecipare alla ripartizione. Ma oltre 300 sono riuscite a ottenere soldi come se fossero onlus. Grazie alla mancanza di coordinamento e comunicazione fra Coni e Agenzia delle entrate, scrive Paolo Fantauzzi l'8 dicembre 2015 su “L’Espresso”. Non ci sono soltanto i centri di assistenza fiscale truffaldini, che cambiano la destinazione dei fondi all'insaputa dei propri assistiti. Nella riserva di caccia in cui si sta sempre più trasformando il 5 per mille, anche le attività di promozione sociale possono essere facilmente aggirate grazie ai buchi nella normativa e all'insufficienza dei controlli. Il caso è quello delle associazioni dilettantistiche, che dal 2008 sono state ammesse tra i beneficiari del prelievo fiscale destinato al volontariato e alla ricerca. Un universo fatto di oltre 100 mila piccole realtà che hanno come scopo la diffusione dei valori dello sport e che possono trarre linfa vitale da questo strumento. Solo che in più casi i fondi sono stati prosciugati da furbetti interessati unicamente al profitto. Più di 300 negli ultimi anni, secondo le rilevazioni. Il caso è da manuale: quando una onlus sportiva intende essere ammessa fra i beneficiari del 5 per mille, non deve far altro che andare sul sito dell'Agenzia delle entrate e inviare la domanda telematica. Solo che non c’è alcuna verifica delle informazioni trasmesse: il codice fiscale non viene sottoposto ad alcun controllo informatico incrociato. Può accadere così che fra quanti si iscrivono ci sia anche chi non abbia i requisiti necessari. Come le società sportive, che già godono di numerose agevolazioni: la detassazione delle iscrizioni dei tesserati, l’esonero dall’obbligo di rilasciare scontrino o ricevuta, base imponibile ridotta e via dicendo. «Va da sé che enti di tale natura non possano accedere al beneficio del 5 per mille, perché hanno una intrinseca natura commerciale sotto il profilo fiscale» spiega Stefano Bertoletti, esperto di no-profit e consulente: «Senza contare che spesso si assiste alla nascita di srl sportive più per gli indubbi vantaggi fiscali che per gli scopi ideali alla base delle agevolazioni e che molte sono senza scopo di lucro solo in linea teorica». Eppure è esattamente quello che accade. Perché in base a un cervellotico frazionamento delle competenze il Coni, che riceve le autocertificazioni e deve verificare l’attività sportiva svolta dalle associazioni, non ha accesso alla banca dati dell’Agenzia delle entrate. Quindi in realtà non può controllare davvero. Risultato: vengono pubblicati elenchi “spuri” dei beneficiari, le società sportive fanno campagna fra i tesserati per farsi destinare il 5 per mille e alla fine riescono a ottenere quel denaro cui non hanno diritto. Sottraendolo agli altri. Perché una volta che il meccanismo è in moto, non si riesce più a fermarlo: la legge infatti non prevede nemmeno accertamenti prima dell’erogazione di contributi, solo in seguito. Impossibile sapere con esattezza quanti soldi siano stati “regalati” in questo modo. Di certo, si tratta di cifre consistenti: nel 2014, su 8.192 associazioni sportive iscritte nelle liste dell’Agenzia delle entrate, a seguito di controlli a campione svolti dal Coni ne sono state scoperte 303 con una natura giuridica diversa da quella dichiarata. Adesso, dopo averle escluse, l’intenzione dell’Ufficio per lo sport di Palazzo Chigi è far intervenire la Guardia di finanza per perseguire penalmente i furbetti e provare a recuperare il denaro ricevuto illecitamente. L’unico vero rimedio contro gli imbrogli sarebbe un database unico contenente le varie e spezzettate informazioni in possesso di Entrate, Comitato olimpico e Camere di commercio. Ma per il momento ancora non si vede.
8 per mille, tu lo sai dove finiscono i soldi? Scopri come i fondi vengono divisi e spesi. Si avvicina il momento della dichiarazione dei redditi ed è ripartito il martellamento pubblicitario. Perché in ballo c'è un tesoro da un miliardo e duecento milioni, che in gran parte finirà alla Chiesa cattolica. Ecco come viene distribuito tra i culti il prelievo dall'Irpef, per cosa viene usato tra edilizia, stipendi al clero, spot e carità, scrive Mauro Munafò l'8 maggio 2015 su “l’Espresso”. Maggio, tempo di dichiarazione dei redditi. E, come da tradizione, compaiono sulle reti televisive, su internet e sulle pagine dei giornali le pubblicità della Chiesa cattolica. L'obiettivo è molto chiaro: spronare i contribuenti a decidere di destinare il loro 8 per mille alla Chiesa di Roma, raccontando come quei soldi sono stati utilizzati fino ad oggi in opere di bene e iniziative sociali. Campagne pubblicitarie milionarie che possono decidere il destino di un fondo davvero ricco: solo nel 2014 l'8 per mille è stato superiore al miliardo e duecento milioni di euro, di cui oltre un miliardo e 50 milioni sono finiti alla Chiesa Cattolica. Per lo Stato e gli altri culti sono rimaste solo le briciole. Ma come vengono utilizzati davvero questi soldi, come vengono ripartiti e quanto finisce veramente nelle campagne caritative e quanto nella gestione, nell'edilizia e nelle pubblicità? Le cifre e la gestione dei fondi sono molto diversi da culto a culto. La Chiesa Cattolica spende un terzo dei fondi nello stipendio del clero e poco meno della metà in "culto e pastorale", una voce che al suo interno include la costruzione di nuove chiese e la ristrutturazione di quelle esistenti, i finanziamenti alle diocesi e la tutela dei beni ecclesiastici. Meno di un quarto dei fondi vanno in opere di carità, sia nazionali che internazionali. Manca nei rendiconti della Chiesa qualunque riferimento alla spesa pubblicitaria che, tuttavia, emerge da altri dati e da sola supera l'intero ammontare dell'8 per mille di quasi tutti gli altri culti. Molto diverso l'uso dei fondi da parte di Avventisti,Assemblee di Dio e Valdesi, che impiegano la quasi totalità del loro 8 per mille in interventi caritativi. Più concentrata sui progetti culturali è la Comunità Ebraica, mentre i Luterani sono gli unici insieme alla Chiesa Cattolica a usare questa fonte di entrate per pastorale e stipendio del clero. E lo Stato? Nei grafici su come vengono usati i fondi e in quelli sulla pubblicità manca uno degli attori principali: lo Stato italiano, che dovrebbe usare questi soldi "a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati e conservazione di beni culturali". In realtà nel corso degli anni lo Stato "mostra disinteresse per la quota di propria competenza, cosa che ha determinato, nel corso del tempo, la drastica riduzione dei contribuenti a suo favore, dando I'impressione che I'istituto sia finalizzato - più che a perseguire lo scopo dichiarato - a fare da apparente contrappeso al sistema di finanziamento diretto delle confessioni", denuncia la Corte dei Conti. Il governo ha infatti usato i fondi dell'8 per mille di sua competenza per sistemare buchi del bilancio, aggiustare le leggi di stabilità, finanziare le pensioni degli esuberi Alitalia e chi più ne ha più ne metta. Tanto è stata folle la gestione della quota statale che negli anni 2010, 2011 e 2012 il fondo è stato del tutto azzerato e nel 2013 appena 4 progetti sociali sono stati finanziati su oltre 900 presentati per una spesa complessiva di 400mila euro: i restanti 169 milioni del fondo sono stati infatti destinati ad altre voci di bilancio. Ma la mancanza di pubblicità da parte dello Stato e la sua volontà di "frustrare l'intento di fornire una valida alternativa ai cittadini che, non volendo finanziare una confessione, aspirino, comunque, a destinare una parte della propria imposta a finalità sociali ed umanitarie" (Corte dei Conti 2014) è solo una delle storture ormai croniche di questo sistema. Il meccanismo di ripartizione ha infatti delle caratteristiche uniche: le firme espresse (meno della metà del totale) decidono infatti il destino dell'intero fondo, fornendo un effetto "moltiplicatore" quasi triplo, come il grafico sotto aiuta a capire. Inutili sono stati negli anni i richiami della Corte dei Conti per rivedere il sistema, magari adottando il "modello spagnolo" che, come succede per il 5 per mille italiano, lascia allo Stato la quota di 8 per mille su cui non si è espresso il contribuente. In questo modo le casse statali risparmierebbero 600 milioni l'anno e si metterebbe un freno all'incremento record di soldi finiti ai culti, soprattutto alla Chiesa Cattolica.
8 per mille, i 600 milioni che lo Stato non vuole. Così abbiamo regalato 10 miliardi alla Chiesa. Grazie al particolare meccanismo della ripartizione dell'Irpef lo Stato ha lasciato una cifra monstre ai vescovi italiani. E, nonostante anche la Corte dei Conti abbia segnalato la stranezza del sistema, nessun governo lo tocca. Anche se farebbe guadagnare più dell'abolizione del Senato, scrivono Paolo Fantauzzi e Mauro Munafò il 22 maggio 2015 su “L’Espresso”. L’abolizione del Senato è da sempre uno dei cavalli di battaglia di Matteo Renzi. La Camera alta costa agli italiani oltre mezzo miliardo l’anno (541 milioni l’anno scorso) e per il premier si tratta di uno di quei costi della politica da tagliare con l’accetta. Eppure, malgrado la continua difficoltà di trovare risorse, è come se lo Stato italiano pagasse ogni anno un Senato aggiuntivo rispetto a quello esistente. Come? Rinunciando a circa 600 milioni di gettito Irpef, che in un momento economicamente tanto difficile avrebbero un effetto balsamico sulla casse statali. È una delle conseguenze della legge che nel 1985 ha istituito l’8 per mille, che all'articolo 47 prevede che “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”. Tradotto: anziché essere incamerati dal bilancio dello Stato, vengono distribuiti anche i soldi di chi non barra la casella. Un po’ come accade alle elezioni, dove i seggi sono ripartiti a prescindere dalla percentuale di astensionismo. “I soli optanti decidono per tutti” come ha osservato la Corte dei conti, criticando il sistema. Il fatto è che, forse perché non sono a conoscenza di questo meccanismo, i contribuenti che non indicano alcuna destinazione dell’8 per mille sono la maggioranza: fra il 55 e il 60 per cento del totale. Eppure tutti quanti, in questo modo, “regalano” senza volerlo la loro parte di Irpef. La principale beneficiaria è ovviamente la Chiesa cattolica, che essendo la destinataria numero uno delle opzioni porta a casa più del doppio di quanto le spetterebbe sulla base delle scelte effettuate. Lo scorso anno, ad esempio, con il 38 per cento di firme raccolte sul totale dei contribuenti, la Cei ha ottenuto l’82 per cento dei fondi. Ovvero oltre un miliardo anziché 485 milioni. Ripartendo anche i soldi dei cosiddetti “non optanti”, negli ultimi 15 anni - ha calcolato l’Espresso - lo Stato ha sborsato circa 10 miliardi di euro. In media 600 milioni l’anno, al netto delle risorse aggiuntive che lo stesso Stato italiano ottiene, essendo fra i destinatari del finanziamento. In realtà, eccependo su questo automatismo che non rispetta la reale volontà dei contribuenti, alcune confessioni religiose si sono rifiutate di ricevere il denaro extra. Le Assemblee di Dio e la Chiesa apostolica, ad esempio, rinunciano alla quota relativa alle scelte non espresse, che rimane per loro volontà di pertinenza statale. Anche i valdesi fino al 2013 hanno osservato questa condotta, ritenendo giusto gestire soltanto i fondi che gli italiani, in modo esplicito, attribuivano loro. Poi però, considerata la discutibile gestione dell’8 per mille statale, anche loro hanno deciso di accettare pure quelli “aggiuntivi”. D’altronde da anni la quota a gestione pubblica viene usata come bancomat dai governi, dal finanziamento delle missioni internazionali alla riduzione del debito pubblico. Una truffa che ha raggiunto il culmine lo scorso anno, quando su 170 milioni solo 405 mila euro sono stati utilizzati per gli scopi previsti dalla legge: lo 0,24 per cento. È proprio necessario che il meccanismo dell'8 per mille funzioni a questo modo? Non si direbbe, a giudicare dai casi analoghi che prevedono la possibilità di destinare parte del prelievo Irpef. Il neonato 2 per mille, che ha sancito il flop dei contributi volontari alla politica, per il 2014 aveva a disposizione 7,75 milioni. Ma avendo raccolto appena 16.518 firme, ha assegnato solo 325 mila euro. All’atto di stendere la legge, in pratica, nessuno si è sognato di ripartire i fondi calcolando anche i contribuenti che non avrebbero indicato un partito. E difatti i soldi non distribuiti sono stati riversati nel bilancio dello Stato. Che cosa sarebbe accaduto se il Partito democratico - che si è piazzato primo con 10 mila destinazioni espresse in suo favore - avesse incassato il 61 per cento della torta, ovvero quasi 5 milioni? Lo stesso discorso vale per il 5 per mille, destinato alle onlus. Anche qui c’è un tetto che viene fissato anno per anno dal governo (500 milioni nel 2014) e pure in questo caso la ripartizione si calcola solo sulla base delle scelte espresse. La ridistribuzione totale operata dall’8 per mille è insomma una generosa eccezione, pensata appositamente per la Chiesa cattolica quando si trattò di mettere mano al Concordato mussoliniano. Fino ad allora la Santa sede veniva finanziata infatti dallo Stato tramite i cosiddetti supplementi di congrua, con cui veniva assicurato il sostentamento del clero. Temendo di non raggiungere quella cifra, il ministero delle Finanze effettuò delle proiezioni ad hoc per stabilire il livello di prelievo necessario. E aggiunse anche la ripartizione basata sul totale dei contribuenti. Deus ex machina dell’ingegnoso sistema, un poco noto docente di Diritto tributario a Pavia, all’epoca consulente del governo Craxi e destinato a una luminosa carriera politica: Giulio Tremonti. Dal 1990, anno dell’entrata in vigore, il gettito Irpef è salito esponenzialmente per effetto dell’aumento della pressione fiscale. Non a caso già nel 1996 la parte governativa della commissione paritetica Italia-Cei osservava che “la quota dell’8 per mille si sta avvicinando a valori, superati i quali, potrebbe rendersi opportuna una proposta di revisione” e che “già oggi risultano superiori a quei livelli di contribuzione che alia Chiesa cattolica pervenivano sulla base dell'antico sistema”. E dire che all’epoca il gettito era di 573 milioni di lire, circa 800 milioni di euro rivalutati ai giorni nostri. Attualmente sfiora 1,3 miliardi di euro, il 60 per cento in più. Si avvicina il momento della dichiarazione dei redditi ed è ripartito il martellamento pubblicitario. Perché in ballo c'è un tesoro da un miliardo e duecento milioni, che in gran parte finirà alla Chiesa cattolica. Ecco come viene distribuito tra i culti il prelievo dall'Irpef, per cosa viene usato tra edilizia, stipendi al clero, spot e carità. In Francia, Irlanda e Regno Unito le religioni non ricevono contributi pubblici e devono ricorrere all’autofinanziamento. Eppure non servirebbe arrivare a tanto. Basterebbe seguire il modello della cattolicissima Spagna: il contribuente decide a chi attribuire parte dell’imposta ma i soldi, se non esprime una preferenza, restano allo Stato. Facendo lo stesso anche da noi, le casse pubbliche si ritroverebbero con un tesoretto da 600 milioni in più l’anno. Anziché abbassare il prelievo, come qualcuno vorrebbe fare, si potrebbe proporre una modifica delle intese bilaterali, a cominciare dalla quella con la Chiesa cattolica. Un percorso lungo, certo, ma il momento è più che mai propizio: a giugno inizieranno gli incontri delle commissioni paritetiche fra Stato e singole confessioni religiose, chiamate ogni tre anni “alla valutazione del gettito della quota Irpef al fine di predisporre eventuali modifiche”. Nessuno dei 17 governi che si sono succeduti nell’ultimo quarto di secolo ha voluto modificare lo status quo. Ma visto che la situazione dei conti pubblici è grave, il premier Matteo Renzi - a caccia di risorse per attuare la sentenza della Consulta che ha bocciato il blocco della rivalutazione delle pensioni - ha l’occasione per prendere in mano la situazione. Anche se è facile immaginare che una proposta di revisione non troverebbe grande favore Oltretevere. Ma non è detto: in fondo papa Francesco ha impresso un nuovo corso. Chissà, proprio lui che tante volte ha tuonato contro i privilegi della Chiesa di Roma, cosa ne pensa di una revisione dell’8 per mille.
IN ITALIA I MORTI NON HANNO LO STESSO VALORE. DUE PESI E DUE MISURE: MORTI DI SERIE A (DI SINISTRA) E MORTI DI SERIE B (TUTTI GLI ALTRI).
'A LIVELLA di Antonio de Curtis - Totò
Ogn'anno, il due novembre, c'è l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fa' chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno puntualmente, in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado, e con i fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza
St'anno m'è capitata 'n'avventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio
(Madonna), si ce penzo, che paura!
ma po' facette un'anema 'e curaggio.
'O fatto è chisto, statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d' 'a chiusura:
io, tomo tomo, stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.
"QUI DORME IN PACE IL NOBILE MARCHESE
SIGNORE DI ROVIGO E DI BELLUNO
ARDIMENTOSO EROE DI MILLE IMPRESE
MORTO L'11 MAGGIO DEL '31."
'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
... sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele, cannelotte e sei lumine.
Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore
nce steva n'ata tomba piccerella
abbandunata, senza manco un fiore;
pe' segno, solamente 'na crucella.
E ncoppa 'a croce appena si liggeva:
"ESPOSITO GENNARO NETTURBINO".
Guardannola, che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!
Questa è la vita! 'Ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pure all'atu munno era pezzente?
Mentre fantasticavo stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i' rummanette 'chiuso priggiuniero,
muorto 'e paura... nnanze 'e cannelotte.
Tutto a 'nu tratto, che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje; stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato ... dormo, o è fantasia?
Ate che' fantasia; era 'o Marchese:
c' 'o tubbo, 'a caramella e c' 'o pastrano;
chill'ato appriesso' a isso un brutto arnese:
tutto fetente e cu 'na scopa mmano.
E chillo certamente è don Gennaro...
'o muorto puveriello... 'o scupatore.
'Int' a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se retireno a chest'ora?
Putevano stà 'a me quase 'nu palmo,
quando 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e, tomo tomo... calmo calmo,
dicette a don Gennaro: "Giovanotto!
Da voi vorrei saper, vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir, per mia vergogna,
accanto a me che sono un blasonato?!
La casta e casta e va, si, rispettata,
ma voi perdeste il senso e la misura;
la vostra salma andava, si, inumata;
ma seppellita nella spazzatura!
Ancora oltre sopportar non posso
la vostra vicinanza puzzolente.
Fa d'uopo, quindi, che cerchiate un fosso
tra i vostri pari, tra la vostra gente".
"Signor Marchese, nun è colpa mia,
i' nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie b stata a ffa' sta fessaria,
i' che putevo fa' si ero muorto'?
Si fosse vivo ve farrie cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse,
e proprio mo, obbj'... 'nd'a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa."
"E cosa aspetti, oh turpe macreato,
che 1'ira mia raggiunga 1'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei gih dato piglio alla violenza!"
"Famne vedé... piglia sta violenza...
'A verità, Marché', mme so' scucciato
'e te senti; e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so' mazzate!...
Ma chi te cride d'essere... nu ddio?
Ccà dinto, 'o vvuò capì, ca simmo eguale?...
... Morto si' tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'n'ato è tale e qquale."
"Lurido porco!... Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri, nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?"
"Tu qua' Natale ... Pasca e Ppifania!!
f T' 'o vvuo' mettere 'ncapo... 'int' 'a cervella
che staje malato ancora 'e fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched'e".... e una livella.
'Nu rre, 'nu maggistrato, 'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt' 'o punto
c'ha perzo tutto, 'a vita e pure 'o nomme
tu nun t'he fatto ancora chistu cunto?
Perciò, stamme a ssenti... nun fa' 'o restivo,
suppuorteme vicino - che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie... appartenimmo â morte!"
I funerali di Valeria Solesin, la lezione dei genitori: cosa vuol dire "essere laici", scrive Lara Crinò su “L’Espresso” il 24 novembre 2015. Una cerimonia laica, ma in cui hanno parlato i rappresentanti di tutti i credo di questo Paese. Mostrando, nel momento del dolore, cosa vuol dire laicità: continuare a proteggere le idee degli altri. Senza cedere a un "fanatismo che vorrebbe nobilitare il massacro con dei valori". Piazza San Marco era piena di sole, ventosa, bellissima. E invasa dalla gente comune, dai veneziani e dalle autorità per i funerali di Valeria Solesin, vittima italiana della strage al teatro Bataclan del 13 novembre. E' stata una cerimonia di Stato, una cerimonia laica. Così l'hanno voluta i suoi genitori, per educazione familiare ma non solo. Hanno fatto sapere che la scelta è stata motivata dal desiderio di avere, in quella piazza, persone di tutte le religioni. "La nostra dignità è dovuta e dedicata a tutte le Valerie che lavorano, studiano, soffrono e non si arrendono". Lo ha detto Alberto Solesin, padre di Valeria, durante i funerali laici e di Stato della ragazza uccisa al Bataclan. "Ripensando a Valeria non voglio isolare la sua immagine dal contesto in cui lei viveva a Parigi. L'università, l'Istituto nazionale di studi demografici, i bistrot, le birrerie dove amavano incontrarsi tante ragazze e ragazzi come Valeria. Gioiosi, operosamente rivolti a un futuro che tutti, mi pare, assieme a lei vogliono migliore". E così è stato. Il patriarca della città ha benedetto la bara, il presidente della comunità islamica ha espresso il suo cordoglio, ha parlato di "atti barbarici" compiuti non certo in nome di "Allah o Javhe che in fondo sono lo stesso Dio" e l'imam di Venezia ha chiesto ad Allah di "pacificare le nostre anime". L'inno italiano e quello francese hanno aperto in Piazza San Marco, a Venezia, i funerali solenni di Valeria Solesin, la 28enne italiana uccisa il 13 novembre scorso al Bataclan, nel corso degli attacchi terroristici a Parigi. Alla cerimonia laica è presente anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il rappresentante dell'Ucoi ha ringraziato pubblicamente il padre di Valeria: “Caro Alberto, il tuo invito all'imam di partecipare ai funerali ha dato un contributo a far fallire il piano diabolico dei terroristi", mentre il rabbino capo di Venezia, Scialom Bahbout, ha ricordato come sia necessario opporsi al progetto dei terroristi che, dal Mali a Parigi alla Nigeria, vorrebbero un mondo “uniformato alle loro idee”. Chiamare sul palco le voci dei diversi credo di questo Paese è stato un gesto di grande dignità ma soprattutto un gesto intelligente e lungimirante, fatto dallo stesso uomo che durante le esequie ha detto "Ringrazio i rappresentanti delle religioni, cristiana, ebraica e musulmana presenti in questa piazza e simbolo del cammino degli uomini, nel momento in cui il fanatismo vorrebbe nobilitare il massacro con il richiamo ai valori di una religione", mostrando, invece, da che parte stiano i valori senza dichiarazioni altisonanti. Gli amici di Valeria, chiamati a raccontarla, hanno descritto una ragazza sincera, persino ruvida, determinata e piena di passione civile. Una ragazza cresciuta “tra i campi e le vie di Venezia, che ci hanno permesso di non perderci di vista". Un luogo in cui ci si incontra, si parla, ci si confronta. Bandiere a mezz’asta e piazza blindata per i funerali di Valeria Solesin, la ragazza deceduta negli attentati di Parigi. Un bar della piazza ha appeso un tricolore listato a lutto e uno striscione in ricordo di Valeria. A Venezia, capitale ante litteram dell'Est e dell'Ovest, città di mare tollerante e piena di gente di tutto il mondo, hanno vissuto per secoli cristiani ed ebrei. Venezia, porta d'Oriente, è stata l'avamposto dell'Occidente verso l'impero Ottomano e tutto il Mediterraneo. Qualcosa di quella eredità di apertura e cultura è rimasto nel dna di questa famiglia di veneziani. Che ora indica una strada a questo Paese. Che non è espellere le religioni e le diversità dal nostro orizzonte, pena smettere di comprendere tutta quella parte di mondo – intorno a noi, con noi – che crede in un Dio. Restare laici è anche sapere proteggere il credo degli altri senza snaturarsi. Restare laici è essere come la famiglia di Valeria in questa piazza: in piedi, nonostante il dolore, lucidi e intelligenti. Non più deboli, ma più forti di chi invoca scorciatoie identitarie. Qui, oggi, si è vista l'Italia migliore. E non è retorica.
Valeria, i morti di serie A ed il diritto di odiare, scrive Francesco Maria Del Vigo su "Il Giornale" del 24 novembre 2015.I genitori di Valeria Solesin, la ragazza ammazzata da dei bastardi lo scorso 13 novembre a Parigi, hanno deciso di fare un funerale politicamente corretto. Che non è una cerimonia laica, ma devota alla religione del politicamente corretto. Tra le religioni, una delle più fondamentaliste. Perché disprezza l’altro da se. Una scelta legittima. Sono loro ad aver subito il lutto. E Valeria – sostenitrice di Emergency – molto probabilmente avrebbe voluto queste esequie. Hanno fatto bene. E tutte le più alte cariche del governo – dal presidente del Consiglio Renzi a quello della Repubblica Mattarella – hanno apprezzato, elevando questa cerimonia a un esempio. Ma se la vittima fosse stata – chessó – una leghista e i genitori avessero giurato vendetta ai fondamentalisti islamici ci sarebbe stata tutto questa partecipazione? Ci sarebbero stati Mattarella, Renzi e la Boldrini? Suvvia, non scherziamo. Per le vittime italiane al Bardo (e già il fatto di piangere solo le nostre vittime è una meschinità!) c’è stato lo stesso interesse? Temo di no. Spero di sbagliarmi. Altrimenti ci sarebbero morti di serie A (quelli socialmente impegnati e chiaramente di sinistra) e morti di serie B (quelli che erano lì per caso, ai quali non si può dare una medaglia d’impegno perché magari erano in vacanza). Legittimo celebrare con un Imam, un patriarca e un rabbino queste esequie. Ma non toglieteci il diritto di odiare chi ci odia. Perché a forza di porgere l’altra guancia questi ci sottomettono.
Dolore privato, fermezza pubblica. Se il dolore privato può essere buonista ed ecumenico, quello pubblico non può che essere improntato sulla distinzione tra bravi e cattivi e sulla fermezza, scrive Alessandro Sallusti Mercoledì 25/11/2015 su “Il Giornale”. Il dolore è fatto privato e la sua elaborazione da parte di chi lo ha subito nella testa e nella carne non è giudicabile. La famiglia di Valeria ha scelto legittimamente funerali laici ed ecumenici, astratti dal contesto che ha generato tanti lutti. Nessuno che non fosse stato a conoscenza dei fatti avrebbe potuto intuire o capire - assistendo alla cerimonia di piazza San Marco a Venezia - perché e per mano di chi Valeria è morta. Lo Stato ai suoi massimi livelli ha assistito - era presente anche il presidente Sergio Mattarella - in rispettoso silenzio. E fino a qui tutto torna, come si conviene in un Paese civile. Ma non vorremmo che da oggi chiunque osasse pronunciare i nomi del nemico che ha ucciso Valeria pretendendo giustizia finisse all'indice in quanto provocatore, reazionario, pericoloso agitatore. Perché se il dolore privato può essere buonista ed ecumenico, quello pubblico non può che essere improntato sulla distinzione tra bravi e cattivi e sulla fermezza. Hollande, che è un leader della sinistra europea e non un pericoloso fascista, dopo il minuto di silenzio in ricordo delle vittime ha giurato «vendetta» e promesso che «la Francia colpirà senza pietà» chi ha ucciso i suoi figli. Non è vero che i nemici non esistono, che non si possono fare nomi e riferimenti perché altrimenti «così si incita all'odio». Ho ancora negli occhi Rosaria Schifani, moglie di uno degli uomini di scorta di Falcone saltati in aria nell'attentato di Capaci. Nella cattedrale di Palermo, al termine dei funerali, la donna, disse all'allora premier Spadolini: «Presidente, io voglio sentire una sola parola: lo vendicheremo. Se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola». Poi, con le ultime forze rimastele, prese il microfono e pronunciò il famoso discorso: «Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare. Ma loro non cambiano, loro non vogliono cambiare...». Il cancro della mafia allora, quello del terrorismo islamico oggi e dei loro amici «che sono qua dentro». Noi rispettiamo il silenzio dei genitori di Valeria, ma la pensiamo come Rosaria. Che a un funerale disse ai politici: voglio giustizia adesso o tacete.
E’ da giorni che su Facebook migliaia di utenti condividono il post riguardante la morte di Giovanni (detto Giancarlo) Lo Porto: secondo il web, la sua morte sarebbe stata dimenticata da tutte le istituzioni, sebbene la sorte di Giovanni sia stata molto simile a quella di Valeria Solesin, scrive Sara Moretti il 25 Novembre 2015. “L’uno cooperante, l’altra studentessa. L’uno vittima della follia bellica in un raid americano in Pakistan, dove era andato ad aiutare gli ultimi, l’altra vittima della follia terroristica dell’ISIS, mentre trascorreva una normale serata come tutti i ragazzi della sua età. Una cosa li accomuna senza alcun dubbio, lo Stato di appartenenza. Uno Stato indifferente e a volte colpevole. Giancarlo Lo Porto da una parte, Valeria Solesin dall’altra. Entrambi sono rientrati in Italia dentro una bara, entrambi funerali civili/laici, entrambi vittime italiane, entrambi ragazzi pieni di voglia di vivere, entrambi intelligenti, entrambi contro la guerra”.
Vi riportiamo di seguito il testo del post pubblicato su Facebook e che da giorni sta ricevendo migliaia di condivisioni: Giovanni Lo Porto e Valeria Solesin: due morti, due misure, scrive Luca Scialò il 25 novembre 2015. IL PRIMO, COOPERANTE IN PAKISTAN, E' STATO UCCISO LO SCORSO GENNAIO, MA LA NOTIZIA SI E' APPRESA SOLO AD APRILE. NON HA RICEVUTO LO STESSO TRATTAMENTO DI VALERIA, FORSE PERCHE' AD UCCIDERLO SONO STATI GLI AMERICANI. Come diceva Totò, la morte è come una livella, che mette tutti sullo stesso piano. Ma lo Stato italiano evidentemente no. Ieri si sono celebrati i funerali di Stato di Valeria Solesin, nella sua Venezia, alla presenza dei rappresentanti della religione cattolica, ebraica e musulmana. Un segnale di unità religiosa che i genitori della ragazza, sempre composti e molto privati nel proprio dolore, hanno voluto lanciare ai terroristi che hanno ammazzato la propria giovane e in gamba figlia. Presenti anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il Ministro della Difesa, Roberta Pinotti. La quale ha anche letto un messaggio di cordoglio del Presidente francese François Hollande. Proclamato dal Sindaco di Venezia il lutto cittadino. I funerali sono andati anche in onda su Raiuno.
CHI ERA VALERIA - Insomma, Valeria è stata omaggiata con tutti i crismi. Una giovane sociologa, molto impegnata nel sociale e che si stava già distinguendo per i suoi studi sulle difficoltà che le donne italiane incontrano nel mercato del lavoro. Aveva anche inviato un articolo su uno studio da lei condotto sul tema a IlSole24Ore, che glielo pubblicò benché sconosciuta. Valeria era al Bataclan con il ragazzo per un concerto Heavy Metal, come tanti altri giovani morti quel dannato venerdì 13. E peccato che lo stesso trattamento non sia stato riservato a Giovanni (detto Giancarlo) Lo Porto, di cui non si avevano notizie dal 2012. Per poi venire a conoscenza del fatto che sia stato ucciso tra Pakistan e Afghanistan lo scorso gennaio, durante un raid statunitense contro al Qaeda. A ucciderlo è stato un drone americano. La notizia si è saputa solo tre mesi dopo.
LA MORTE DI LO PORTO PER MANO AMERICANA - Giovanni, Giancarlo per gli amici, 39 anni, palermitano, si trovava in Pakistan per la ong Welt Hunger Hilfe (Aiuto alla fame nel mondo) e si occupava della costruzione di alloggi di emergenza nel sud del Punjab. Si avevano avute sue notizie l'ultima volta nel gennaio 2012, quando si trovava nella provincia pachistana di Khyber Pakhtunkhwa. Lo ha ricordato così Barack Obama: "Svolgeva il suo lavoro con passione, per la sua opera umanitaria aveva viaggiato molto per il mondo". E' stato ucciso assieme all'americano Warren Weinstein. Per lui solo messaggi di cordoglio da parte di Renzi, Mattarella e del Senato. Ma niente funerali di Stato. Neppure Mattarella era presente, lui che è proprio palermitano. Unica istituzione presente il Sindaco di Palermo Leoluca Orlando. E' passato quasi un anno da quella tragica fatalità e non si è fatta ancora chiarezza. Anzi, sicuramente non sarà mai fatta. Quando di mezzo ci sono gli americani, tutto viene liquidato velocemente. La Casa Bianca se la caverà con un risarcimento alle famiglie dei due. Del resto siamo loro vassalli da settant'anni. Valeria è morta, purtroppo, mentre si stava divertendo. Giovanni, invece, mentre aiutava un popolo da anni in guerra. Funerali di Stato? Dipende chi ti ammazza, a prescindere che tu sia morto mentre ti divertivi o mentre aiutavi un popolo in guerra...
IN ITALIA I MORTI NON HANNO LO STESSO VALORE. Premetto che con questo post non voglio fare polemiche sterili e porgo le mie sentite condoglianze alla famiglia di Valeria Solesin, scrive Annarita Sanna il 24 novembre 2015. Ma devo invitarvi a riflettere sui due pesi e le due misure adottati dai media e dalle istituzioni italiane davanti a due vittime con lo stesso passaporto. Il ragazzo in questione è Giovanni (detto Giancarlo) Lo Porto mentre la ragazza è Valeria Solesin. Li vedete entrambi nella foto sorridenti...L'uno cooperante, l'altra studentessa. L'uno vittima della follia bellica in un raid americano in Pakistan, dove era andato ad aiutare gli ultimi, l'altra vittima della follia terroristica dell'ISIS, mentre trascorreva una normale serata come tutti i ragazzi della sua età. Una cosa li accomuna senza alcun dubbio, lo Stato di appartenenza. Uno Stato indifferente e a volte colpevole. Giancarlo Lo Porto da una parte, Valeria Solesin dall'altra. Entrambi sono rientrati in Italia dentro una bara, entrambi funerali civili/laici, entrambi vittime italiane, entrambi ragazzi pieni di voglia di vivere, entrambi intelligenti, entrambi contro la guerra. Giancarlo è stato "accidentalmente" ucciso da un drone americano lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, mentre era ostaggio. Obama si scusa pubblicamente. Renzi (come sempre) non fiata e non si fa vedere, i media praticamente non ne parlano, niente commozioni, indignazioni ed approfondimenti. Ad oggi non si è ancora fatta chiarezza sulle responsabilità del governo americano e di quello italiano. A nessuno sembra interessare...Valeria sfortunatamente è andata ad un concerto con degli amici a Parigi e ne è uscita morta. Colpita da armi in mano a pazzi fondamentalisti islamici. Ai funerali di Giancarlo non c'era Renzi, né il palermitano Mattarella (domani viene qui a Strasburgo, proverò a dirglielo), non c'era un solo esponente del governo, neanche regionale. Nessuno. Solo il Sindaco di Palermo. Per la morte di Giancarlo Lo Porto non c'è stata una mobilitazione della stampa, niente servizi strappalacrime in TV per una settimana, racconti di quando era piccolo e delle tantissime esperienze di cooperazione, nessuna sete di giustizia ed emotività popolare. Niente, una battuta di agenzia e buona notte a tutti, meglio non fare arrabbiare lo zio Sam. Eppure Lo Porto aveva davvero un profilo da riempirci in palinsesti televisivi per settimane, un ragazzo della umile Palermo con un profilo eccezionale (vi prego di informarvi sulla sua biografia) che aveva dedicato tutta la sua vita e professionalità ad aiutare gli altri e che il cooperante lo faceva di mestiere e nei posti più difficili del pianeta...La mobilitazione mediatica che c'è stata per la morte e per i funerali di Valeria l'avete vista tutti... E non mi dispiace affatto che ci sia stata, quel che mi dispiace è vedere come sia normale accettare i due pesi e due misure...Vittime uguali ma diverse. Vittime di diverso livello. Perché il popolo deve indignarsi e commuoversi se si muore per dei folli terroristi ma è meglio non parlarne troppo se si muore di fuoco "amico". Se i civili li ammazza la NATO non sembrano essere lo stesso tipo di civili, sembrano valer meno...Giancarlo non meritava il silenzio desolante di questo Governo. Giancarlo meritava attenzione, voglia di giustizia e di approfondimento e lo merita ancora... Così come forte è rimasta la voglia di verità della famiglia, degli amici e di chi crede che la guerra non sia mai una soluzione. E sono certo che Valeria avrebbe condiviso questo concetto...Vorrei che oggi ogni politico e ogni cittadino, soprattutto quelli che nei social network si armano e incitano alla guerra, si fermassero a riflettere. Pensate a fondo se è giusto che una vittima civile sia considerata di livello diverso. Pensateci se è stato giusto il comportamento delle autorità e dei media italiani...Pensiamoci e pretendiamo giustizia, verità e soprattutto equità...
Il coraggio che è mancato a Genova: Buffon dedica la “sua” vittoria a Quattrocchi, scrive Priscilla Del Ninno mercoledì 15 aprile 2015 su “Il Secolo D’Italia”. Grande Buffon: trova il coraggio che non ha avuto l’amministrazione di sinistra di Genova, e nei quarti di Champions League disputati martedì sera a Torino contro il Monaco veste la maglia della Juventus Gigi Buffon, ma parla da azzurro orgoglioso quando dedica la vittoria della sua squadra a Fabrizio Quattrocchi e Piermario Morosini, due eroi italiani “morti sul campo”. Due differenti esempi di coraggio e dedizione. Due esemplari protagonisti di storie lontane, accomunate però da una fine prematura e da un destino sfortunato che si sarebbero compiuti per entrambi il 14 aprile, del 2004 per Quattrocchi, del 2012 per Morosini. Come noto, Fabrizio Quattrocchi, ostaggio durante la guerra in Iraq insieme ad altri compagni di sventura, era una guardia di sicurezza privata, ed è stato rapito e ucciso a sangue freddo dal terrorismo internazionale. Fabrizio è stato l’unico dei quattro italiani sequestrati giustiziato senza motivo: per gli altri, infatti, sarebbe arrivata a breve dalla sua spietata esecuzione la liberazione, dopo un blitz delle forze speciali. Simbolica e doppiamente commovente, allora, la medaglia d’oro al valore civile attribuita postuma a Quattrocchi, rimasto famoso per la dimostrazione di coraggio umano e orgoglio patriottico resa con la frase pronunciata nel momento in cui i suoi rapitori gli stavano per sparare: «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano». Altra storia, invece, quella di Piermario Morosini, figura che ha contribuito a ridare slancio e dignità all’immagine del calciatore, troppo spesso offuscata da comportamenti non proprio esemplari tenuti sul campo e fuori. Piermario era un giovane sportivo, un fratello generoso nel prendersi cura di due fratelli disabili; un calciatore del Livorno, morto sul campo, sotto gli occhi sgomenti di colleghi e tifosi, durante una partita di campionato di serie B. Ha accusato un malore, Piermario, si è ripiegato su stesso al trentunesimo minuto di Pescara-Livorno, accasciandosi per terra. Il malessere, purtroppo, si sarebbe presto rivelata una crisi cardiaca che i soccorsi – su cui si sarebbero concentrati in seguito dubbi e polemiche riguardo tempistica ed efficienza dei servizi – non riuscirono a bloccare ed arginare. Due uomini, Quattrocchi e Morosini, che la sfortuna e i mancati riconoscimenti non riusciranno a cancellare dall’immaginario collettivo. E, sicuramente, dal cuore caldo del portiere della Nazionale, Gigi Buffon.
Il video di Quattrocchi: «Così muore un italiano», scrive Sarzanini Fiorenza. Mostrate le immagini ottenute da Al Jazira. La procura verifica eventuali manipolazioni. Sono quindici secondi di orrore. Fabrizio Quattrocchi è inginocchiato in una buca, il volto coperto da una kefiah. Indossa i jeans, una maglietta verde. Ha le mani legate con uno spago, le agita davanti a sè. Tenta di scoprirsi gli occhi. Intorno a lui si agitano le ombre di tre uomini. Sono nere. Gli girano intorno, parlano in arabo. Sembra quasi una macabra danza. È pieno giorno. Quattrocchi si rivolge loro. «Posso levare?», chiede cercando di togliersi il cappuccio. Si sente una sillaba che sembra un no. Allora li sfida: «Vi faccio vedere come muore un italiano» dice con orgoglio. Sulla destra compare un'altra ombra, quella di una pistola. L' immagine sfuma. Il video si interrompe. Quello che in tv non si vede è il colpo che lo raggiunge alla testa, il corpo che si accascia. Quello che non si sente è il secondo sparo. Un anno e mezzo dopo la barbara esecuzione del bodyguard genovese, il Sismi ha portato ai magistrati della Procura di Roma il filmato della morte. Era stata l'emittente araba Al Jazira a entrarne in possesso il 14 aprile 2004, giorno dell'omicidio, però non aveva mai voluto mandarlo in onda, nè consegnarlo alle autorità italiane. «Immagini troppo raccapriccianti» aveva detto il direttore. Il 20 dicembre gli 007 ne sono entrati in possesso. Ma la versione depositata nell' ufficio del pubblico ministero potrebbe essere stata tagliata o montata in maniera diversa da quella che gli stessi responsabili della Tv mostrarono all' ambasciatore italiano in Qatar Giuseppe Maria Buccino Grimaldi e poi al sottosegretario agli Esteri Margherita Boniver. Alcune copie trasmesse dalle televisioni hanno infatti la sequenza invertita. «Nel filmato che vidi io - spiega la Boniver - Quattrocchi prima chiedeva se poteva scoprirsi il viso e poi pronunciava la frase "Vi faccio vedere come muore un italiano". Ricordo anche di non aver notato quelle ombre nere che invece sono così evidenti nel video trasmesso adesso». È possibile che ci siano stati dei tagli. Proprio per verificare eventuali modifiche effettuate sulla cassetta ottenuta dagli 007, i magistrati l'hanno già affidata ai carabinieri del Ris che stanno analizzando ogni fotogramma. «Resta da capire - aggiunge la Boniver - perché Al Jazira si sia sempre rifiutata di consegnare quel video sostenendo che conteneva immagini raccapriccianti e soprattutto perchè Quattrocchi si rivolgesse in italiano ai suoi aguzzini. Evidentemente sapeva che capivano la nostra lingua». Due sequestratori di Quattrocchi e dei suoi amici - Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio - sono stati individuati ed è già stato chiesto che vengano trasferiti in Italia per essere processati. Secondo le notizie trasmesse dal comando militare americano, sono ancora rinchiusi nel carcere di Abu Ghraib. Hamad Halal Al Obadi, 34 anni, e Hamid Fuad Al Gurari, 26, sono i due fratelli che gestirono i tre ostaggi nell' ultima settimana di prigionia. Sono stati proprio Stefio, Agliana e Cupertino a riconoscerli nelle foto che i carabinieri del Ros hanno mostrato loro nel settembre scorso. Subito dopo i magistrati hanno chiesto e ottenuto un ordine di custodia che è stato poi trasmesso alle autorità irachene. Insieme alle istantanee gli americani hanno trasmesso a Roma i verbali della loro confessione. Cento dollari hanno ottenuto i due carcerieri. Ma nulla hanno detto di sapere di quanto avvenne a Quattrocchi. Il resto lo ha raccontato un uomo che ha detto di chiamarsi Abu Yusuf in un'intervista rilasciata il 27 giugno del 2004 al quotidiano Sunday Times. «Sono stato io a girare quel video - ha affermato -, parlo bene l'italiano e lui si rivolse a me nella sua ultima supplica». Fiorenza Sarzanini, pagina 13 (10 gennaio 2006) - Corriere della Sera
Quattrocchi è morto da persona umile: non era un eroe, ma un italiano, si legge su “Varese News” l'11 gennaio 2006. "Gentilissimo direttore, mi permetta di rispondere alla signora Dabablà, la quale è intervenuta a gamba tesa sulla vicenda che riguarda il povero Fabrizio Quattrocchi. Premetto che non faccio parte – personalmente – della schiera di coloro i quali lo considerano un eroe, e perciò la mia posizione sarà presumibilmente differente da quella del mio Partito, Alleanza Nazionale. Fabrizio Quattrocchi stava lavorando in Iraq. Punto. Non era un soldato dell’Esercito Italiano, ma una delle tante guardie del corpo pagate per svolgere il proprio lavoro. E’ stato rapito e ucciso da un gruppo di “guerriglieri” – o forse la signora Ierina preferirebbe chiamarli “partigiani resistenti” – senza scrupoli che l’hanno giustiziato senza pietà, come un cane. Capisco lo stato d’animo della signora Dabalà: anche io ero contrario all’intervento Italiano in Iraq, ma questo non può giustificare un atto barbaro compiuto nei confronti di un Italiano, come me e come la signora Ierina, che si trovava in Iraq per lavorare. Io personalmente non mi permetto di giudicare le scelte che Fabrizio Quattrocchi ha compiuto. Posso solo immaginare che la decisione di andare in Iraq a svolgere un lavoro difficile e pericoloso non sia stata presa a cuor leggero, ma sia stata sofferta e dettata dalla necessità. E fa specie sentire le solite lezioni di morale da una “donna in nero” che evidentemente si sente solidale col mondo, ma mette da parte tutto il suo buonismo quando si tratta di “giudicare e condannare con sentenza inappellabile” un Italiano. A dimostrazione del fatto che, come sempre, per una certa parte politica esistono morti di serie A e morti di serie B o C. Fabrizio Quattrocchi non era un eroe, ma un Italiano. Una persona semplice e umile che è morta con dignità. Gli si conceda almeno di riposare in pace. Quella pace che alla signora Dabalà è tanto cara, ma in nome della quale ella stessa giustifica atti vergognosi. Un’ultima considerazione. Signora Ierina, per favore, ci risparmi i suoi giudizi taglienti e meschini sui “mercenari” che lavorano in Iraq: d’altronde, se lei ha mai lavorato in vita sua, tra una manifestazione in nero e un’altra, immagino che non l’abbia fatto gratuitamente. Questo la rende un po’ mercenaria, suo malgrado. Tutto, ahimè, in questa società ruota intorno al lavoro e al denaro, con cui si acquista la merce… Ma non c’è bisogno che glielo dica io, cara signora: ci ha già pensato Marx in tempi non sospetti…Distinti saluti. Stefano Clerici - Presidente Provinciale AZIONE GIOVANI Varese
MEMORIA A SENSO UNICO. Da Mattei a Di Nella i morti dimenticati della destra. La “guerra civile” tra giovani di destra e di sinistra ha inizio nei primi anni Settanta. Per quaranta anni è come se fossero restati dei morti di “serie B”, scrive Fabio Martini il 10 maggio 2013 su “La Stampa”. Per quaranta anni è come se fossero restati dei morti di “serie B”. A lungo i giovani di destra caduti negli scontri di strada degli anni Settanta sono stati considerati - nell’immaginario collettivo della sinistra e di tanta stampa indipendente - come dei picchiatori che se la cercavano. Negli anni di piombo anche tanti militanti di sinistra caddero, ma mentre i compagni quasi sempre erano le “vittime”, i camerati sono passati alla storia come i carnefici: una lettura manichea sui terribili anni di piombo che ora, sia pure indirettamente, viene rivisitata e superata dalle parole del Capo dello Stato sui fratelli Stefano e Virgilio Mattei, i militanti dell’Msi morti nella loro casa di Roma per effetto di un rogo appiccato da un drappello di estremisti di sinistra. Tra il 1972 e il 1983 venti giovani camerati, missini o vicini all’Msi, vengono assassinati, raramente per effetto di aggressioni promosse dalla destra, più spesso perché attaccati e uccisi da colpevoli che, talora, hanno finito per farla franca. La “guerra civile” tra giovani di destra e di sinistra ha inizio nei primi anni Settanta: dopo aver vissuto per 25 anni in un ghetto separato da tutto e da tutti, l’Msi diventa un bunker assediato: sezioni attaccate (i compagni le chiamavano covi fascisti), ma anche cortei che si trasformavano in guerriglie urbane, agguati, spranghe che menavano botte micidiali, stragi. Una lunga striscia di sangue che inizia il 7 luglio del 1972, sul lungomare di Salerno: al termine di una rissa scoppiata per caso Carlo Falvella viene colpito al petto, aorta recisa. Il suo cognome finisce per entrare in un terribile slogan del Movimento del 77: «Tutti i fascisti come Falvella, con un coltello nelle budella». Il 16 aprile 1973 i fratelli Mattei muoiono, nel rogo scatenato dai compagni di Potere operaio che volevano intimidire il papà di Stefano e Virgilio, che era segretario dell’Msi in un quartiere popolare di Roma, la borgata di Primavalle, fatta realizzare tanti anni prima da Mussolini ma che stava diventando di sinistra. Una lunga striscia di sangue che quasi sempre ha come scenario Roma, ma anche Padova, Pavia. E Milano: il 29 marzo del 1975 la vittima è un ragazzo milanese di 18 anni, dai capelli lunghi: Sergio Ramelli. Luca Telese, nel suo “Cuori neri”, libro bello e fortunato dedicato ai delitti dimenticati degli anni di piombo, lo racconta così: «Sergio era riuscito a restare refrattario al furore ideologico del suo tempo» e nei «suoi ultimi giorni c’è qualcosa di stoico», «malgrado il moltiplicarsi delle minacce» e delle aggressioni: «a scuola lo insultano e lo prendono a calci», «incredibilmente non si lamenterà con i camerati», «terrà all’oscuro la famiglia. Fino a quando una sera, sotto casa, appena posato il motorino, due killer lo finiscono a colpi di chiave inglese. Undici anni di delitti che in qualche modo formarono una generazione di futuri dirigenti politici. Ai funerali dei fratelli Mattei erano diventati amici due giovani camerati, che si chiamavano Gianfranco Fini e Maurizio Gasparri. Gianni Alemanno era diventato il miglior amico di Paolo Di Nella, l’ultimo giovane di destra assassinato nel 1983; un giorno Francesco Storace vide un proiettile forare il tabellone sul quale stava per attaccare un manifesto. In quegli anni nacque una comunità che, proprio perché cementata dal dolore e dal sangue, sembrava indissolubile. Una storia che si è simbolicamente spenta due giorni fa nello studio di un avvocato, col mesto scioglimento del Fli, raccolto a quel Gianfranco Fini che per un ventennio è stato il capo carismatico di una comunità che non c’è più.
Foibe e morti si serie B, scrive Giovanni Arena l'11 febbraio 2014. Il 10 febbraio si è celebrata la Giornata del Ricordo, in memoria delle vittime delle foibe. Alla fine delle Seconda Guerra Mondiale, e nell’immediato dopoguerra, a seguito della diffusione dei regimi si stampo sovietico, si scatenarono violente repressioni nella Penisola Balcanica, nella zona allora chiamata Jugoslavia, ad opera dei seguaci di Tito, dittatore comunista. La popolazione italiana che abitava quei luoghi, e che si opponeva al regime comunista, subì la repressione di Tito, appoggiato dai partigiani del PCI operanti in quella regione. Circa 7.000 italiani furono gettati nelle foibe, cavità naturali nelle quali morivano uno sopra l’altro, legati mani e piedi. Vi perirono non solo italiani, ma anche sloveni e croati. Per motivi politici ed ideologici, il governo italiano rimase in silenzio per quasi 40 anni. I familiari delle vittime non ebbero notizie per molto tempo, e le vittime furono private persino della memoria dei concittadini. I libri di testo delle scuole pubbliche non menzionarono questi fatti nella sezioni dedicate agli anni del dopoguerra, almeno fino a pochi anni fa. Perché tutto questo? Probabilmente, all’epoca, qualcuno non ritenne opportuno agitare le acque nelle quali si combatteva una Guerra Fredda caratterizzata da instabili equilibri, una partita a scacchi in cui ogni mossa poteva risultare fatale. A torto o a ragione, la memoria di questi fratelli è stata offuscata per quasi mezzo secolo. Ma se da una parte le motivazioni che spinsero i contemporanei a tacere sulla strage dei Balcani trovano un fondamento quanto meno strategico-politico, per quanto criminale, il lascito ai posteri è di gran lunga più meschino. Gli infoibati sono divenuti “morti di Serie B”, per numero e per connotazione politica. E peggio ancora, “morti di destra”, perché vittime di un regime comunista. La società moderna, buonista e perbenista, aperta e democratica, liberale ed umana, egualitaria e libertaria, ha creato divisione anche tra i morti e divisioni tra vivi e morti. Così la sinistra non ricorda i “morti di destra”. E’ bastato poco per creare tutto questo: l’ideologia al posto della solidarietà, il marginale rispetto all’essenziale. Ed una nuova coscienza, simile ad una bilancia che pesa la vita a seconda dell’uomo.
A sinistra le Foibe sono tragedia di serie B. Il consigliere lombardo del Pd smarca: "Vicenda controversa, non partecipo". Renzi ricorda l'anniversario dell'eccidio solo in un tweet a fine serata, scrive Andrea Barcariol su “Il Tempo” l'11 febbraio 2015. Non tutte le giornate del ricordo, purtroppo, sono uguali. Ce ne è una, quella del 10 febbraio, dedicata alle vittime delle foibe, destinata a scatenare polemiche tra opposti schieramenti. Lo scorso anno, al centro della diatriba era finito il sindaco Marino, reo di aver mantenuto i viaggi della memoria ad Auschwitz e di aver cancellato, per motivi di budget, quelli nei luoghi in cui avvenne il genocidio degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia. Quest’anno invece i motivi di scontro sono stati molteplici. Il primo in Parlamento per il divieto ai deputati di partecipare alla cerimonia di commemorazione sulle foibe, nella Sala della Regina, alla presenza del Presidente della Repubblica Mattarella e del ministro dell’Istruzione Giannini. Motivo? Le votazioni sulle riforme costituzionali. «Due minuti per celebrare la Giornata del Ricordo in un'aula deserta e dopo insistenti nostre richieste. In questo quadro desolante si dimostra di non avere rispetto per la tragedia che ha colpito migliaia di famiglie italiane infoibate sul confine orientale, donne, bambini e anziani gettati in precipizi rocciosi profondi centinaia di metri e lasciati morire di dolore e stenti senza pietà» - sottolinea il capogruppo di FdI-An alla Camera, Fabio Rampelli. Sulla stessa linea sia Renata Polverini, parlamentare di FI: «Nel giorno del ricordo la presidenza della Camera non ha ritenuto opportuno riservare, durante i lavori parlamentari, un solo momento di riflessione all'eccidio, rimandando a una commemorazione al di fuori della Camera durante la quale non saranno neanche sospesi i lavori delle commissioni. La tragedia delle foibe appartiene a tutti gli italiani, basta con la memoria ad intermittenza» sia Massimiliano Fedriga, capogruppo alla Camera della Lega: «Dopo le nostre richieste ci sarà la commemorazione in aula del Giorno del Ricordo. Finalmente un po’ di rispetto. Spiace che si sia dovuti ricorrere a una pubblica denuncia per ottenere quanto è doveroso: un momento di riflessione sulle barbarie dell'estremismo sanguinario del comunismo titino». Clima teso a Montecitorio, nonostante le parole del presidente della Camera Laura Boldrini che in mattinata aveva provato a spegnere sul nascere le polemiche: «Sulle Foibe è calato un muro di silenzio, si è preferito nascondere, non parlarne. Si è trattato di una pulizia etnica perpetrata dalle autorità jugoslave. L'Italia deve molto alle associazioni degli esuli che hanno impedito che venisse cancellata la memoria dell'orrore perché un Paese che nasconde la verità non può mai essere libero e democratico». A svelenire gli animi, non ha sicuramente contribuito quanto accaduto in Lombardia con l’accusa al sindaco di Milano Pisapia di non aver partecipato alla Giornata del Ricordo «lo scorso anno aveva avuto un impegno improrogabile e quest'anno ne troverà un altro per giustificare la sua assenza: Pisapia preferisce non venire a commemorare i martiri delle foibe. È grave, un'umiliazione che i nostri morti e i nostri esuli non meritano», la stoccata del consigliere di FdI-An, Riccardo De Corato. A gettare benzina sul fuoco anche le frasi del consigliere regionale del Pd Onorio Rosati «La vicenda delle Foibe è storicamente molto controversa, molto divisiva all'interno del nostro Paese, non a caso, questa Giornata del Ricordo è stata istituita dal governo Berlusconi. Non posso non sottolineare il fatto che sia stata fortemente strumentalizzata dalla destra italiana e neofascista. Dal punto di vista storico sono vicende molto controverse, dove i numeri, i dati storici, sono questioni sulle quali è aperto un dibattito molto importante». Critiche anche per Matteo Renzi, per il tardivo tweet sulle Foibe, arrivato soltanto alle ore 19, e per Nicola Zingaretti: «Ho apprezzato molto il fatto che abbia inaugurato la Casa del Ricordo delle vittime delle Foibe – spiega Storace - Avrei apprezzato ancora di più se, oggi, avesse detto qualche parola, magari ricordando che è stata proprio la Regione Lazio ad avviare il processo di rimozione della negazione storica delle Foibe e dell'Esodo Giuliano Dalmata. Il ricordo e la memoria non hanno colore politico».
L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.
Frasi, citazioni e aforismi sull’uguaglianza. Pubblicato da Fabrizio Caramagna.
Nasciamo uguali, ma l’uguaglianza cessa dopo cinque minuti: dipende dalla ruvidezza del panno in cui siamo avvolti, dal colore della stanza in cui ci mettono, dalla qualità del latte che beviamo e dalla gentilezza della donna che ci prende in braccio. (Joseph Mankiewicz)
Tutti gli uomini nascono uguali, però è l’ultima volta in cui lo sono. (Abraham Lincoln)
Ognuno è impastato nella stessa pasta ma non cotto nello stesso forno. (Proverbio Yiddish)
Dovunque sono uomini, sono diversità di opinioni, disparità di sentimenti, differenza di umori, tali e tante variazioni temporanee o permanenti, che il consenso perfetto è impossibile, non dico fra tutti o fra molti, ma fra pochi, fra due. (Federico De Roberto)
Equa distribuzione della ricchezza non significa che tutti noi dovremmo essere milionari – significa solo che nessuno dovrebbe morire di fame. (Dodinsky)
L’uguaglianza sarà forse un diritto, ma nessuna potenza umana saprà convertirlo in un fatto. (Honoré de Balzac)
È falso che l’uguaglianza sia una legge di natura: la natura non ha fatto nulla di eguale. La sua legge sovrana è la subordinazione e la dipendenza. (Marchese di Vauvenargues)
L’uguaglianza consiste nel ritenerci uguali a coloro che stanno al di sopra di noi, e superiori a coloro che stanno al di sotto. (Adrien Decourcelle)
Egalitarista. Il genere di riformatore politico e sociale interessato a fare scendere gli altri al proprio livello più che a sollevarsi a quello degli altri. (Ambrose Bierce)
In America tutti sono dell’opinione che non ci sono classi sociali superiori, dal momento che tutti gli uomini sono uguali, ma nessuno accetta che non ci siano classi sociali inferiori, perché, dai tempi di Jefferson in poi, la dottrina che tutti gli uomini sono uguali vale solo verso l’alto, non verso il basso. (Bertrand Russell)
Ci sono due dichiarazioni sugli esseri umani che sono vere: che tutti gli esseri umani sono uguali, e che tutti sono differenti. Su questi due fatti è fondata l’intera saggezza umana. (Mark Van Doren)
Davanti a Dio siamo tutti ugualmente saggi… e ugualmente sciocchi. (Albert Einstein)
Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo. (Michel De Montaigne)
L’uguaglianza deve essere quella delle opportunità, non può essere ovviamente quella dei risultati. (John Dryden)
Ho letto tempo fa che nel futuro gli uomini saranno tutti uguali. Ugualmente ricchi o ugualmente poveri? (Zarko Petan)
Gli uomini sono nati uguali ma sono anche nati diversi. (Erich Fromm)
La figlia del re, giocando con una delle sue cameriere, le guardò la mano, e dopo avervi contato le dita esclamò: “Come! Anche voi avete cinque dita come me?!”. E le ricontò per sincerarsene. (Nicolas Chamfort)
Noi sosteniamo che queste verità sono per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini i governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo diventi perniciosa a questi fini, è nel diritto del popolo di modificarla o di abolirla. (Thomas Jefferson, Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America)
“Libertè, Egalitè, Fraternitè”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, 1795)
Tutta la società diventerà un unico ufficio e un’unica fabbrica con uguale lavoro e paga uguale. (Vladimir Lenin)
Il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’uguale condivisione della miseria. (Sir Winston Churchill)
Allo stato naturale… tutti gli uomini nascono uguali, ma non possono continuare in questa uguaglianza. La società gliela fa perdere, ed essi la recuperano solo con la protezione della legge. (Montesquieu)
La prima uguaglianza è l’equità. (Victor Hugo)
L’uguaglianza ha un organo: l’istruzione gratuita e obbligatoria. (Victor Hugo)
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 3, 1947)
Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela. (Malcolm X).
Finché c’è una classe inferiore io vi appartengo, finché c’è una classe criminale io vi appartengo, finché c’è un’anima in prigione io non sono libero. (Eugene V. Debs)
Le lacrime di un uomo rosso, giallo, nero, marrone o bianco sono tutti uguali. (Martin H. Fischer)
C’è qualcosa di sbagliato quando l’onestà porta uno straccio, e la furfanteria una veste; quando il debole mangia una crosta, mentre l’infame pasteggia nei banchetti. (Robert Ingersoll)
L’uguaglianza non esiste fin a quando ciascuno non produce secondo le sue forze e consuma secondo i suoi bisogno. (Louis Blanc)
Amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. (Martin Luther King)
Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. (William Faulkner)
Fino a quando la giustizia non sarà cieca al colore, fino a quando l’istruzione non sarà inconsapevole della razza, fino a quando l’opportunità non sarà indifferente al colore della pelle degli uomini, l’emancipazione sarà un proclama ma non un fatto. (Lyndon B. Johnson)
Un uomo non può tenere un altro uomo nel fango senza restare nel fango con lui. (Booker T. Washington)
Viviamo in un sistema che sposa il merito, l’uguaglianza e la parità di condizioni, ma esalta quelli con la ricchezza, il potere, e la celebrità, in qualunque modo l’abbiano guadagnato. (Derrick A. Bell)
Se le malattie e le sofferenze non fanno distinzione tra ricchi e poveri, perché dovremmo farlo noi? (Sathya Sai Baba)
Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? (William Shakespeare)
Guardo i volti delle persone che lottano per la propria vita, e non vedo estranei. (Robert Brault)
Qualunque certezza tu abbia stai sicuro di questo: che tu sei terribilmente come gli altri. (James Russell Lowell)
Lo stesso Dio che ha creato Rembrandt ha creato te, ed agli occhi di Dio tu sei prezioso come Rembrandt o come chiunque altro.” (Zig Ziglar)
È bello quando due esseri uguali si uniscono, ma che un uomo grande innalzi a sé chi è inferiore a lui, è divino. (Friedrich Hölderlin)
Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)
Il sole splende per tutti. (Proverbio latino)
La pioggia non cade su un tetto solo. (Proverbio africano)
In quanto uomini, siamo tutti uguali di fronte alla morte. (Publilio Siro)
La morte è questo: la completa uguaglianza degli ineguali. (Vladimir Jankélévitch)
Nella vita si prova a insegnare che siamo tutti uguali, ma solo la morte riesce ad insegnarlo davvero. (Anonimo)
Nella democrazia dei morti tutti gli uomini sono finalmente uguali. Non vi è né rango né posizione né prerogativa nella repubblica della tomba. (John James Ingalls).
Finito il gioco, il re e il pedone tornano nella stessa scatola. (Proverbio Italiano).
L’uguale distribuzione della ricchezza dovrebbe consistere nel fatto che nessun cittadino sia tanto ricco da poter comprare un altro, e nessuno tanto povero che abbia necessità di vendersi. (Armand Trousseau)
L’amore, è l’ideale dell’uguaglianza. (George Sand)
L’amore pretende di parificare, ma il denaro riesce a differenziare. (Aldo Busi)
Noi che siamo liberali e progressisti sappiamo che i poveri sono uguali a noi in tutti i sensi, tranne quello di essere uguali a noi. (Lionel Trilling)
La saggezza dell’uomo non ha ancora escogitato un sistema di tassazione che possa operare con perfetta uguaglianza. (Andrew Jackson)
Nessun uomo è al di sopra della legge, e nessuno è al di sotto di esso. (Theodore Roosevelt)
Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti a coloro che devono applicarla. (Stanislaw Jerzy Lec)
La maestosa uguaglianza delle leggi proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per strada e di rubare il pane. (Anatole France)
Perché in Italia la stupenda frase “La Giustizia è uguale per tutti” è scritta alle spalle dei magistrati? (Giulio Andreotti)
La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori. (Erri De Luca)
Qui vige l’eguaglianza. Non conta un cazzo nessuno!” (Dal film Full metal jacket)
Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. (George Orwell)
Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? (Massimo Gramellini)
La via dell’uguaglianza si percorre solo in discesa: all’altezza dei somari è facilissimo instaurarla. (Conte di Rivarol)
La parità e l’uguaglianza non esistono né possono esistere. E’ una menzogna che possiamo essere tutti uguali; si deve dare a ognuno il posto che gli compete. (Pancho Villa)
Fu un uomo saggio colui che disse che non vi è più grande ineguaglianza di un uguale trattamento di diseguali. (Felix Frankfurter)
Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. (Lorenzo Milani)
Quella secondo la quale tutti gli uomini sono eguali è un’affermazione alla quale, in tempi ordinari, nessun essere umano sano di mente ha mai dato il suo assenso. (Aldous Huxley)
L’uguaglianza è una regola che non ha che delle eccezioni. (Ernest Jaubert)
Nell’incredibile moltitudine che potrebbe venir fuori da una sola coppia umana, che disuguaglianze e varietà! Vi si trovano grandi e piccoli, biondi e bruni, belli e brutti, deboli e forti. Tutto vi figura: il peggiore e l’eccellente, la tara e il genio, la mostruosità in alto e quella in basso. Dall’unione di due individui, tutto può nascere. Punto di congiunzione da cui non si deve sperare tutto e temere tutto. La coppia più banale è gravida di tutta l’umanità. (Jean Rostand)
Anche tra egualitari fanatici il più breve incontro ristabilisce le disuguaglianze umane. (Nicolás Gómez Dávila)
Io non ho rispetto per la passione dell’uguaglianza, che a me sembra una semplice invidia idealizzata. (Oliver Wendell Holmes Jr)
Il significato della parola uguaglianza non deve essere “omologazione”. (Anonimo)
Sì, c’è qualcosa in cui noi ci assomigliamo: tu e io ci crediamo differenti in modo uguale. (Jordi Doce)
Le donne che cercano di essere uguali agli uomini mancano di ambizione. (Timothy Leary)
Assistere l’autodeterminazione del popolo sulla base della massima uguaglianza possibile e mantenere la libertà, senza la minima interferenza di qualsivoglia potere, neppure provvisorio. (Michail Bakunin)
L’uguaglianza non può regnare che livellando le libertà, diseguali per natura. (Charles Maurras)
I legislatori o rivoluzionari che promettono insieme uguaglianza e libertà sono o esaltati o ciarlatani. (Goethe)
Quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata. (Jeremy Bentham)
Una società che mette l’uguaglianza davanti libertà otterrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza avrà un buon livello di entrambe. (Milton Friedman)
Libertà, Uguaglianza, Fraternità – come arrivare ai verbi? (Stanislaw Jerzy Lec)
“Libertà, Fraternità, Uguaglianza”, d’accordo. Ma perchè non aggiungervi “Tolleranza, Intelligenza, Conoscenza?” (Laurent Gouze)
Dicesi problema sociale la necessità di trovare un equilibrio tra l’evidente uguaglianza degli uomini e la loro evidente disuguaglianza. (Nicolás Gómez Dávila)
Credo nell’uguaglianza. Gli uomini calvi dovrebbero sposare donne calve. (Fiona Pitt-Kethley)
Nel mondo contemporaneo l’unico posto dove si realizza la perfetta uguaglianza è nel traffico. (Fragmentarius)
Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l’annua riproduzione si restringe al puro necessario, e l’industria s’annienta, poiché il popolo cade nel letargo. (Pietro Verri)
Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero. (William Butler Yeats)
Chiunque può fuggire nel sonno, siamo tutti geni quando sogniamo, il macellaio e il poeta sono uguali là. (EM Cioran)
Io amo la notte perché di notte tutti i colori sono uguali e io sono uguale agli altri…(Bob Marley)
Il mio diritto di uomo è anche il diritto di un altro; ed è mio dovere garantire che lo eserciti. (Thomas Paine)
Chi vede tutti gli esseri nel suo stesso Sé, ed il suo Sé in tutti gli esseri, perde ogni paura. (Isa Upanishad)
«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso
che se veduto avesse uomo farsi lieto,
visto m’avresti di livore sparso.
(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv.82-84)
L’invidia sociale, scrive Francesco Colonna, su ”Facci un salto”. Si sono impiegati molti decenni per sradicare il tratto fondamentale del marxismo, cioè la lotta di classe. Gli argomenti contrari a quel principio si riassumono in un concetto semplice: la collaborazione è più efficace della lotta. Permette di costruire di più, di fare più cose, di redistribuire meglio non solo i soldi, ma le competenze e la giustizia. Gli argomenti a favore invece erano e sono quella di una divergenza di interessi che si concilia male con l’idea di giustizia sociale. Non importa qui dibattere il tema. Quel che conta è quell’idea non circola più, e infatti nessuno ne parla e nessuno la usa per sostenere le proprie tesi. Di conseguenza, la logica sarebbe questa, tutto dovrebbe essere più tranquillo, una società più conciliante, meno aggressiva, più disposta alla collaborazione, nella quale i problemi si risolvono in modo pacifico e ragionato. E invece a quella ideologia (giusta o sbagliata che fosse non importa) si è sostituito non un pensiero o una filosofia nuovi ma un sentimento: l’invidia, alla quale si può aggiungere l’aggettivo “sociale”. L’invidia nelle sue forme più comuni si riferisce alla cose, invidia per ciò che non ho e altri hanno. Invece nella nostra società fatta di immagine e comunicazione (parole che sembrano sempre sottintendere una falsità o almeno una irrealtà) l’invidia è rivolta all’essere, ai modelli di successo, di fama o di notorietà. E questa invidia prende tante forme: dalla ostilità alla imitazione. E, per capire bene cosa significhi e comporti, basta guardare alla etimologia: invidere in latino vuol dire guardare storto, guardare in modo non corretto. Cioè l’invidia impedisce di vedere giusto e quindi di capire. Ed è trasversale, colpisce ovunque. Mentre la lotta di classe comunque dava una identità, una appartenenza, l’invidia sociale disgrega, atomizza la lotta, relegandola nell’intimo, pur esibendosi poi come ricerca di giustizia sociale. Difficile che in questa luce si possa trovare una strada comune, al massimo si cercano nemici, veri o presunti. Una caccia nella quale brillano il sospetto, la vendetta, il complotto, il pregiudizio. E con questo carico sulla coscienza diviene difficile ragionare e scegliere bene il tipo di società nel quale vivere.
Monti, Bersani, Vendola e Cgil: il club della patrimoniale. La tentazione di patrimoniale è sempre più forte: Bersani ne vuole una light, Vendola punta alle rendite finanziarie, la Cgil sogna una stangata da 40 miliardi, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. E, adesso, patrimoniale. La spinta è forte. In piena campagna elettorale, la tentazione di fare una tentazione extra sui grandi patrimoni sembra impossessarsi trasversalmente sui leader di molti partiti. Il primo a proporla è stata Mario Monti che, nella sua agenda, l'ha inserita (senza farsi troppi problemi) per riuscire a ridurre la pressione fiscale, a partire dal "carico fiscale gravante su lavoro e impresa". In men che non si dica, una schiera di amanti delle tasse hanno subito fatto propria la smania di andare a mettere le mani sui risparmi degli italiani. "I ricchi devono andare all'inferno". Sebbene si riferisse al Gerard Depardieu che, per l'eccessiva tassazione, ha deciso di lasciare la Francia e accogliere il passaporto russo offertogli da Vladimir Putin, l'imprecazione lanciata da Nichi Vendola dà una chiara idea della crociata che, in caso di vittoria alle politiche, la sinistra condurrà contro i beni degli italiani. Dove potrà, razzolerà per far cassa e appianare i debiti di una macchina statale che fagocita tutti i soldi che vengono versati nell'erario pubblico. Nel giorni scorsi, in una intervista a Radio24, il leader del Sel aveva poi spiegato che, quando sarà al governo, andrà a "stanare" la ricchezza che deriva dalle rendite finanziarie. "Se si immagina che quella finanziaria del Paese è stimata in 4mila miliardi di euro e che viceversa meno di mille persone dichiarano nella denuncia dei redditi più di un milione di euro all'anno di reddito, siamo di fronte a una ricchezza largamente imboscata - ha spiegato Vendola - la tassazione alle transazioni finanziarie e sugli attivi finanziari non è una proposta bolscevica". Nascondendosi dietro alla ragione economica tesa alla ricostruzione del Paese, il governatore della Puglia sembra muoversi solo per una ragione di invidia sociale. Il primo a parlare di patrimoniale è stato, però, il Professore. Nell'agenda presentata a dicembre, Monti ha spiegato che è possibile tagliare le tasse a scapito di altri cespiti: "Il carico corrispondente va trasferito su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio". Si legga: patrimoniale e appesantimento dell’Iva sui beni di lusso. Insomma, al premier uscente sembra non bastare l'aver introdotto l'Imu che, è già di per sé, una patrimoniale sull'abitazione. E, su questo punto, si trova in perfetta sintonia con Pierluigi Bersani che ieri sera, negli studi di Ballarò, ha spiegato chiaramente che l’imu non è una patrimoniale "abbastanza progressiva" per i suoi gusti. "Nel prossimo anno non saremo in condizione di ridurre le entrate dell’imu ma potremmo fare un riequilibrio caricando sui possessori di grandi patrimoni immobiliari - ha spiegato il segretario del Partito democratico - a fronte di una detrazione del 5% dobbiamo caricare con un’imposta personale sui detentori di grandi patrimoni immobiliari dal valore catastale di 1,5 milioni di euro". La segreteria di via del Nazareno, modificando leggermente i propositi iniziali vagamente massimalisti, ha fatto balenare una patrimoniale light da applicare agli immobili oltre il milione e mezzo di valore catastale. Lo staff di Bersani ha, invece, specificato che si tratterebbe di circa tre milioni a prezzi reali. Al suo fianco si è subito schierato anche Antonio Ingroia che ha già annunciato di voler togliere l'Imu perché la ritiene "un peso insopportabile e intollerabile". Il progetto del leader di Rivoluzione civile è rendere "il sistema economico più equo" mettendo "una patrimoniale sui redditi più alti e sui patrimoni più consistenti". Il sindacato di Susanna Camusso, che garantisce un’area elettorale decisiva per il Pd, ha preparato una piano fiscale che presenterà a Roma il 25 e 26 gennaio. Piano che fa impallidire gli slogan anti ricchi di Vendola: la Cgil punta, infatti, a reperire 40 miliardi di euro all'anno dalla patrimoniale, 20 miliardi dalla "ristrutturazione della spesa pubblica", 10 miliardi dal riordino dei finanziamenti alle imprese e 10 miliardi dai fondi dell'Unione europea. Gli 80 miliardi rastrellati verrebbero destinati, ogni anno, al lavoro (creazione di nuovi posti, sostegno dell’occupazione e nuova riforma del mercato del lavoro), al welfare e alla "restituzione fiscale" attraverso il taglio della prima aliquota dal 23 al 20% e della terza dal 38 al 36%. Progetto che senza la patrimoniale da 40 miliardi non sta in piedi.
Ci volevate uguali? Ora sim tutti poveri, scrive Mimmo Dato su "L'Intraprendente". In questo nostro bel paese, mio caro Mictel o come ti chiami, abbiamo avuto imponenti correnti d’ispirazione populista, con orientamenti internazionali con sguardo alla sovietizzazione ed al marxismo, forse un po’ radicalizzanti ma certo, a loro dire, pacifisti. Insomma tutta gente all’opposizione che ha vissuto una vita a gridare quanto fosse giusto eliminare le diseguaglianze economiche e ridistribuire le ricchezze, per ovvio sempre prodotte dagli altri e mai da loro; che bisognava aumentare le spese dello Stato per attuare queste pseudo misure egualitarie. Insomma tutti questi contro tutti quelli che non ponevano quale obiettivo principe la massimizzazione dell’uguaglianza. Poi il sogno in Italia si avvera e i governi a marchio populista, pacifista, egualitario si succedono a raffica pur senza che nessuno li elegga ma la Costituzione non viene infranta per questo, per i comunisti il voto non serve, ed eccoci all’oggi, tutti poveri uguale. Tutte le decisioni per la sopravvivenza del paese sono state omesse come qualunque sistema libero e democratico farebbe, tasse da record mondiale, caccia alle streghe, si è omesso di rafforzare le forze di difesa e di cercare le alleanze a garanzia internazionale. Quindi tutte le decisioni sono tendenti alla massimizzazione dell’uguaglianza in povertà contro quelle tese a garantire l’indipendenza e la sopravvivenza del sistema economico e democratico, si legga la nuova legge elettorale che dovrebbe esser varata. Ma allora, caro Mictel, ti chiederai chi erano e chi sono i veri potenti? Forse i ceti abbienti che sostenevano gruppi di maggioranza senza aver avuto, per loro frazionamento ed opportunismo, la capacità di arrestare forme populiste egualitarie o questi ultimi che hanno preso il potere da anni e stanno perseguendo opzioni politiche da disastro, spesa pubblica e disoccupazione al cielo? Vedi Mictel se tu mi fai la domanda, e non me la fai, su come la penso credo che oggi esistano due gruppi di pensatori, quelli che non vogliono l’uguaglianza nemmeno come valore e quelli che pensano che sia comunque impossibile. A questo punto, inutili e terra di conquista, che ci compri la Russia o la Cina. Eppoi il tuo nome sembra americano e mi dici esser cinese. Come ho fatto a non capirlo quando sei sceso da quel macchinone di lusso?
Altro che tutti uguali. Meglio tutti più ricchi. Frankfurt: ridurre le differenze di reddito non è un ideale morale. Il problema è invece che troppi sono poveri, scrive Harry G. Frankfurt Martedì 27/10/2015 su "Il Giornale". In un recente discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Barack Obama ha dichiarato che la disuguaglianza di reddito è «la sfida che definisce la nostra epoca». A me sembra, invece, che la sfida fondamentale per noi non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono ampiamente disuguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere. Dopo tutto, la disuguaglianza di reddito potrebbe essere drasticamente eliminata stabilendo semplicemente che tutti i redditi devono essere ugualmente al di sotto della soglia di povertà. Inutile dire che un simile modo di ottenere l'uguaglianza dei redditi - rendendo tutti ugualmente poveri - presenta ben poche attrattive. Eliminare le disuguaglianze di reddito non può quindi costituire, di per sé, il nostro obiettivo fondamentale. Accanto alla diffusione della povertà, un altro aspetto dell'attuale malessere economico è il fatto che, mentre molte persone hanno troppo poco, ce ne sono altre che hanno troppo. È incontestabile che i molto ricchi abbiano ben più di ciò di cui hanno bisogno per condurre una vita attiva, produttiva e confortevole. Prelevando dalla ricchezza economica della nazione più di quanto occorra loro per vivere bene, le persone eccessivamente ricche peccano di una sorta d'ingordigia economica, che ricorda la voracità di chi trangugia più cibo di quanto richiesto sia dal suo benessere nutrizionale sia da un livello soddisfacente di godimento gastronomico. Tralasciando gli effetti psicologicamente e moralmente nocivi sulle vite degli stessi golosi, l'ingordigia economica offre uno spettacolo ridicolo e disgustoso. Se lo accostiamo allo spettacolo opposto di una ragguardevole classe di persone che vivono in condizioni di grande povertà economica, e che perciò sono più o meno impotenti, l'impressione generale prodotta dal nostro assetto economico risulta insieme ripugnante e moralmente offensiva. Concentrarsi sulla disuguaglianza, che in sé non è riprovevole, significa fraintendere la sfida reale che abbiamo davanti. Il nostro focus di fondo dovrebbe essere quello di ridurre sia la povertà sia l'eccessiva ricchezza. Questo, naturalmente, può benissimo comportare una riduzione della disuguaglianza, ma di per sé la riduzione della disuguaglianza non può costituire la nostra ambizione primaria. L'uguaglianza economica non è un ideale moralmente prioritario. Il principale obiettivo dei nostri sforzi deve essere quello di rimediare ai difetti di una società in cui molti hanno troppo poco, mentre altri hanno le comodità e il potere che si accompagnano al possedere più del necessario. Coloro che si trovano in una condizione molto privilegiata godono di un vantaggio enorme rispetto ai meno abbienti, un vantaggio che possono avere la tendenza a sfruttare per esercitare un'indebita influenza sui processi elettorali o normativi. Gli effetti potenzialmente antidemocratici di questo vantaggio vanno di conseguenza affrontati attraverso leggi e regolamenti finalizzati a proteggere tali processi da distorsioni e abusi. L'egualitarismo economico, secondo la mia interpretazione, è la dottrina per cui è desiderabile che tutti abbiano le stesse quantità di reddito e di ricchezza (in breve, di «denaro»). Quasi nessuno negherebbe che ci sono situazioni in cui ha senso discostarsi da questo criterio generale: per esempio, quando bisogna offrire la possibilità di guadagnare compensi eccezionali per assumere lavoratori con capacità estremamente richieste ma rare. Tuttavia, molte persone, pur essendo pronte a riconoscere che qualche disuguaglianza è lecita, credono che l'uguaglianza economica abbia in sé un importante valore morale e affermano che i tentativi di avvicinarsi all'ideale egualitario dovrebbero godere di una netta priorità. Secondo me, si tratta di un errore. L'uguaglianza economica non è di per sé moralmente importante e, allo stesso modo, la disuguaglianza economica non è in sé moralmente riprovevole. Da un punto di vista morale, non è importante che tutti abbiano lo stesso, ma che ciascuno abbia abbastanza. Se tutti avessero abbastanza denaro, non dovrebbe suscitare alcuna particolare preoccupazione o curiosità che certe persone abbiano più denaro di altri. Chiamerò questa alternativa all'egualitarismo «dottrina della sufficienza», vale a dire la dottrina secondo cui ciò che è moralmente importante, con riferimento al denaro, è che ciascuno ne abbia abbastanza. Naturalmente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia di per sé un ideale sociale moralmente cogente non è una ragione per considerarla un obiettivo insignificante o inopportuno in qualsiasi contesto. L'uguaglianza economica può avere infatti un importante valore politico e sociale e possono esserci ottime ragioni per affrontare i problemi legati alla distribuzione del denaro secondo uno standard egualitario. Perciò, a volte, può avere senso concentrarsi direttamente sul tentativo di aumentare l'ampiezza dell'uguaglianza economica piuttosto che sul tentativo di controllare fino a che punto ognuno abbia abbastanza denaro. Anche se l'uguaglianza economica, in sé e per sé, non è importante, impegnarsi ad attuare una politica economica egualitaria potrebbe rivelarsi indispensabile per promuovere la realizzazione di vari obiettivi auspicabili in ambito sociale e politico. Potrebbe inoltre risultare che l'approccio più praticabile per raggiungere la sufficienza economica universale consista, in effetti, nel perseguire l'uguaglianza. E ovviamente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia un bene in sé lascia comunque aperta la possibilità che abbia un valore strumentale come condizione necessaria per ottenere beni che posseggono, questi sì, un valore intrinseco. Pertanto, una distribuzione di denaro più egualitaria non sarebbe sicuramente criticabile. Tuttavia, l'errore assai diffuso di credere che esistano potenti ragioni morali per preoccuparsi dell'uguaglianza economica in quanto tale è tutt'altro che innocuo. Anzi, a dir la verità, tende a essere una credenza piuttosto dannosa. (2015 Princeton University Press2015 Ugo Guanda Editore Srl)
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
Gli intoccabili. Il caso Saguto e la società delle caste, scrive Pino Maniaci su "Telejato" il 26 ottobre 2015. IL CASO SAGUTO E LA SOCIETÀ DELLE CASTE: L’ANTIMAFIA, I GIUDICI, I BUROCRATI, I POLITICI. E POI LA PLEBE. Di fronte a tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in questi ultimi tempi sul caso della gestione personalizzata dei beni sequestrati da parte di un nutrito numero di magistrati, componenti del CSM, cancellieri, funzionari della DIA, personale giudiziario e amministratori giudiziari, sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Ci chiediamo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti: Se a un comune mortale cittadino italiano fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stato sottoposto agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Ci chiediamo ancora una volta, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che a “Zà Silvana” indossi ancora la toga? È opportuno che tutte le persone coinvolte in favoritismi, raccomandazioni e assunzioni ad amici e parenti restino ancora al loro posto? È opportuno che funzionari della DIA al servizio di questo sistema continuino a svolgere ancora funzioni pubbliche? Non comprendiamo quale sia la differenza tra questi soggetti e chi incassa una tangente. Entrambi utilizzano i propri ruoli istituzionali per rubare soldi pubblici. La giustizia è davvero uguale per tutti? Non ci soddisfano più le assicurazioni che tutto sarà chiarito. Sarà chiarito da chi? Quando e davanti a chi? Tutti invece devono essere immediatamente rimossi dai loro pubblici incarichi, in modo trasparente perché come cittadini abbiamo concesso credito a giudici che abbiamo ritenuto credibili, che abbiamo rispettato per la loro vita blindata, giudici che abbiamo ascoltato e dei quali abbiamo rispettato il lavoro senza alcuna delegittimazione preventiva. Vengano rimossi senza stipendio per rispetto verso tutti quei magistrati che hanno onorato e onorano i valori di autonomia e indipendenza, assicurando credibilità alla Giustizia con i comportamenti di tutti i giorni. Vengano rimossi per rispetto a tutti quei servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere. Vengano rimossi e gli vengano sequestrati i beni per rispetto a tutti coloro che chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria con compiti delicatissimi e complessi lo fanno con coraggio. Pochi giorni fa i deputati della nostra regione hanno approvato in Commissione in tempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle società partecipate dalla Regione e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxicompensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia, Crocettino, è diventato il Santo protettore della casta. Ricordiamo che negli anni ’80, ’90, il sogno di tanti giovani era quello di una società nella quale se sei bravo e se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli antimafia, come se l’antimafia fosse una categoria dello spirito, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. E in quanto tali trattano gli altri con arroganza e sfacciataggine. Ci sentiamo come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che ha detto “Se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo a “Zà Silvana” che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. È la Rivoluzione Francese ai tempi da “Zà Silvana”. Un ultimo e accorato appello a tutte le Associazioni Antiracket e Antimafia che non sentono la necessità di proferire parola neanche davanti a delle gravissime minacce ricevute dal Direttore di Telejato, Pino Maniaci, da parte della Saguto (a “Zà Silvana”) e del Prefetto Cannizzo, che parlando tra di loro hanno affermato: “Pino Maniaci ha le ore contate”. E ai ragazzi di Addiopizzo. Forza ragazzi fate sentire la vostra variopinta presenza e alzate in coro la voce organizzando graziosi sit-in di protesta nelle pubbliche piazze e davanti al Tribunale di Palermo, datevi da fare ad appendere sui pali e le vetrine di Palermo la scritta: “Un Magistrato e un Prefetto che usano il loro potere per fini personali sono persone senza dignità”.
Il caso Saguto e la società delle caste: l'antimafia, i giudici, i burocrati, i politici. E poi la plebe. L'inchiesta che riguarda il giudice Saguto, insieme ad una serie di altri fatti di cronaca mi hanno convinta che viviamo in una società divisa in caste. Da un lato gli intoccabili, i privilegiati, dall'altro la plebe. Ai tempi di Maria Antonietta lei diceva "mangiate biscotti se non avete pane", oggi c'è un giudice che non si accorge di 18 mila euro di conto non pagato al supermercato..., scrive domenica 25 Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. Il caso Saguto non mi ha fatto dormire la notte. Per 10 giorni ho avuto il panico temendo quale cosa raccapricciante avrei letto il giorno dopo a proposito dell’inchiesta su Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione misure preventive del Tribunale di Palermo. L’indagine su quel che accadeva nella gestione dei beni confiscati alla mafia (che in Sicilia rappresentano il 43% del totale) sta facendo emergere di tutto. La Saguto spaziava dalle nomine di amministratori giudiziari nelle società confiscate in cambio di incarichi per il marito, i parenti e gli amici, all’utilizzo dell’auto blindata come taxi per prelevare la nuora e accompagnarla nella villa al mare, o delle sue ospiti per non incappare nel traffico palermitano, oppure dal farsi recapitare a casa per le cene 6 chili tonno fresco, lamponi, (di provenienza da aziende sotto sequestro) al conto da quasi 20 mila euro non pagato al supermercato confiscato (“una dimenticanza, non sono io quella che va a fare la spesa..”). La “zarina” delle misure preventive si è data da fare per la laurea del figlio ottenuta grazie all’aiuto del docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano che in cambio veniva nominato consulente. Il giovane laureato, stando alle intercettazioni, la festa proprio non la voleva “questa laurea è una farsa, gli altri sgobbano per averla” ma il giudice non sentì ragioni e affidò l’organizzazione proprio al professore Provenzano che oltre a scrivere la tesi ha provveduto al menù, così come avverrà per la successiva festa di compleanno della Saguto. Gli agenti della scorta infine venivano utilizzati per andare in profumeria a fare acquisti. Ciliegina sulla torta del dichiarazioni del giudice antimafia a proposito dei figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Anna. Il 19 luglio, anniversario dell’assassinio di Borsellino, Silvana Saguto partecipa come madrina alla manifestazione Le vele della legalità, fa il suo bel discorso antimafia, poi sale a bordo dell’auto blindata ed al telefono dice ad un’amica: “Poi Manfredi che si commuove, ma perché minc...a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff....o". Di fronte a tutto questo sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Mi chiedo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti ma se a Donna Sarina fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stata agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Mi chiedo, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che indossi ancora la toga? La giustizia è davvero uguale per tutti? Leggo anche dell’arresto per corruzione dell’ex direttrice del carcere di Caltanissetta Alfonsa Miccichè. La signora affidava progetti con somme inferiori ai 40 mila euro (quindi non soggetti ad evidenza pubblica) a società che in cambio assegnavano incarichi alla figlia ed al genero. Sempre in questi giorni scopro che al Comune di Sanremo il 75% dei dipendenti è assenteista e c’è chi è stato filmato mentre timbrava il cartellino in mutande e poi tornava a letto o lo faceva timbrare da moglie e figli. Il sindaco di Sanremo dichiara: “sto valutando i provvedimenti da prendere. Forse ANCHE il licenziamento”. A prescindere dal fatto che se licenzi questi ladri di lavoro almeno puoi assumere qualcuno onesto che ti fa funzionare il Comune e adesso è disoccupato, mi chiedo signor sindaco: che significa ANCHE il licenziamento? Che vorresti fare? Premiarli? Che differenza c’è tra questi assenteisti e l’impiegato che incassa la tangente? Entrambi rubano soldi pubblici. Torniamo in Sicilia dove pochi giorni fa i deputati hanno approvato in Commissione intempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle partecipate e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxi compensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia è diventato il Santo protettore della casta. A Roma mentre la sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu viene rinviata a giudizio per peculato per rimborsi da 81 mila euro il presidente del Consiglio Renzi annuncia di voler togliere l’Ici sulla prima casa a TUTTI, sia che abbiamo un castello che un tugurio. E si definisce di sinistra….Ricordo negli anni ’80, ’90, il sogno della Milano da bere era quello di una società nella quale se sei bravo, se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli “antimafia”, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. La Barracciu era la candidata che Renzi voleva ad ogni costo per la presidenza della Regione Sardegna. A causa dello scandalo, ha ripiegato per un posto di sottosegretario. La Barracciu, la Saguto, le leggi ad personam mentre la Sicilia muore di fame. E’ la sfacciataggine degli intoccabili. Mi sento come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che dice “ma se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo il giudice antimafia Silvana Saguto che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. E’ la Rivoluzione Francese ai tempi della Saguto. Rosaria Brancato.
Cultura antimafia con pregi e difetti, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 ore” del 26 Ottobre 2015. I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti – istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi – in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della “mela marcia”. Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo – sostiene Saguto – sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari – anche molto meno esposti di Palermo – che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, gli ammontari, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere «una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta» (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un po’ più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti.
QUESTIONI DI FAMIGLIA. I fatal mariti, scrive Sabato 19 Settembre 2015 Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Silvana Saguto è costretta a lasciare il suo incarico a causa di una indagine che riguarda presunti favori al marito. La corsa di Anna Finocchiaro verso il Quirinale è stata frenata anche dal caso del Pta di Giarre che coinvolse il coniuge. E non sono gli unici casi, dalla consulenza del "signor Chinnici" al ritardo di "mister Monterosso". La moglie di Cesare deve apparire più onesta dell'imperatore. L'immagine è rievocata a ogni scandalicchio e parentopolina. Qualcuno, però, in questi anni ha forse dimenticato i mariti delle imperatrici. Fatal mariti, in molti casi. È il caso di Silvana Saguto, ma non solo il suo. Perché i coniugi delle donne di potere, in qualche caso, hanno finito per frenare e troncare carriere. O, in qualche caso, per trascinare nella centrifuga di polemiche più o meno sensate, le mogli. Ne sa qualcosa, come abbiamo già detto, Silvana Saguto, che ha lasciato l'incarico di presidente della Sezione misure di prevenzione. È indagata per corruzione e abuso d'ufficio. E la questione riguarda anche il marito, appunto. L'accusa al magistrato infatti è relativa ai rapporti con Gaetano Cappellano Seminara, il più noto degli amministratori giudiziari. A lui sono giunti diversi incarichi di gestione di beni confiscati alla mafia. Una fiducia ripagata – questa l'accusa, tutta da dimostrare – tramite consulenze che lo stesso Cappellano Seminara avrebbe assicurato a Lorenzo Caramma, marito della Saguto. Quanto basta, ovviamente, per fare da miccia a un'esplosione di veleni e accuse incrociate che pare ancora all'inizio. E ha già portato all'estensione dell'indagine ad altri tre magistrati. Intanto, la Saguto ha fatto le tende. Attenderà un altro incarico. Ma il “colpo” alla carriera del magistrato è stato durissimo. Marito, fatal marito. Che a pensarci bene, un'altra storia di coniuge “scomodo” potrebbe aver contribuito a chiudere le porte del Quirinale a una donna siciliana. È il caso di Anna Finocchiaro e soprattutto del fatal marito, Melchiorre Fidelbo. Quest'ultimo è infatti finito dentro una inchiesta su un maxi appalto dell'Asp di Catania destinato all'apertura del “Pta” di Giarre: una struttura sanitaria “intermedia” che avrebbero dovuto alleggerire il peso dei grossi ospedali. Fidelbo nell'ottobre del 2012 è stato anche rinviato a giudizio per abuso di ufficio e truffa: è accusato di aver fatto pressioni indebite sui dirigenti dell'Azienda sanitaria con lo scopo di ottenere l'affidamento. Una vicenda ovviamente tirata fuori dai detrattori della Finocchiaro, nei giorni caldi che hanno portato alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Siciliano, ma uomo. Nonostante la Finocchiaro pare piacesse molto anche a Forza Italia. Ma quella storia... Chissà cosa si saranno detti, invece, Patrizia Monterosso e Claudio Alongi, suo marito. E no, non c'entrano nulla i potenziali conflitti di interesse tra un Segretario generale che contribuisce a scrivere le norme sui dipendenti regionali e il commissario dell'Aran che – visto il ruolo – con i dipendenti regionali deve discutere le norme che li riguardano. No, la storia è un'altra. Ed è, in fondo, sempre la stessa. Quella per la quale la plenipotenziaria di Palazzo d'Orleans è stata condannata dalla Corte dei conti a oltre un milione di risarcimento per la vicenda degli extrabudget nella Formazione professionale. Una condanna giunta nonostante l'appassionata difesa del marito-avvocato Claudio Alongi. Anzi, “tecnicamente” proprio a causa dell'avvocato-consorte. Perché il ricorso della Monterosso, al di là delle questioni di merito che, stando ai giudici sarebbero rimaste tutte in piedi, è stato respinto per un ritardo nella presentazione di alcuni documenti. Ritardo dei legali, appunto. Marito compreso. Paradossi delle vite coniugali che si intrecciano con le vite pubbliche. Ne sa qualcosa Caterina Chinnici. Fu lei la massima sostenitrice di una legge sulla trasparenza che finalmente poneva dei paletti (in questi anni a dire il vero, serenamente ignorati) riguardo alla pubblicazione degli atti, degli stipendi e degli incarichi pubblici. Il caso, però, ha voluto che a ignorare quelle disposizioni fosse anche un consulente dell'Asp di Siracusa, Manlio Averna. Marito di Caterina Chinnici. Un caso che creò anche tensioni all'interno della giunta di Raffaele Lombardo, con Massimo Russo, ad esempio, molto critico sulla “dimenticanza” dell'Azienda siracusana. "Non si può addebitare alla sottoscritta – replicò Caterina Chinnici - l'eventuale inadempienza di coloro che dovrebbero controllare”. Polemiche, ovviamente, poco più. Nulla a che vedere col “caso Saguto”, se non il ricorrere di questi “incroci pericolosi” tra il divano di casa e le scrivanie del sistema pubblico. Fastidi, o poco più, in cui il marito non sarà stato “fatale” per la carriera, ma che certamente ha regalato alla consorte qualche minuto o qualche giorno di tensione. Avvenne anche a Vania Contrafatto, attuale assessore all'Energia. E il casus belli fu addirittura una cena, organizzata da Sandro Leonardi, candidato dell'Idv al Consiglio comunale e marito della Contrafatto. All'appuntamento c'erano, tra gli altri, il procuratore Francesco Messineo e gli aggiunti Leonardo Agueci e Maurizio Scalia. Quest'ultimo era il magistrato che coordinava l'indagine sui brogli alle primarie del centrosinistra. Una rivelazione, quella, lanciata ironicamente nel corso di una conferenza stampa da Antonello Cracolici: “Per sapere qualcosa sui presunti brogli alle primarie - disse il capogruppo del Pd all'Ars - forse avremmo dovuto essere a una cena elettorale che si è tenuta sabato a Mondello alla quale hanno partecipato, oltre al candidato sindaco Leoluca Orlando, alcuni pm di Palermo che seguono le indagini sulla vicenda". Orlando aveva denunciato brogli a quelle consultazioni accusando il vincitore di quelle primarie, Fabrizio Ferrandelli. Tutto si sgonfiò presto, con una nota del pm Scalia con la quale il magistrato spiegò di aver preso parte “a un ricevimento in una casa privata di una collega e amica per festeggiarne l'inaugurazione”. Vania Contrafatto, appunto. Una delle cene probabilmente più indigeste per quello che sarebbe diventato il futuro assessore all'Energia. E un marito può essere fatale persino “a costo zero”. Chiedete a Valeria Grasso, nominata da Crocetta Soprintendente della Fondazione orchestra sinfonica. Tra i consulenti, ecco spuntare il marito Maurizio Orlando: “Ma è qui a titolo gratuito”, provò a spiegare l'imprenditrice antiracket. Pochi mesi dopo, Crocetta l'avrebbe rimossa dalla guida della Foss.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocent