Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS:
RASSEGNA STAMPA -
CONTROVOCE -
NOTIZIE VERE DAL POPOLO -
NOTIZIE SENZA CENSURA
MEDIOPOLI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
“L’Italia della libera informazione, di parte e gossippara, che pende dalle veline giudiziarie e la notizia la fa, non la dà. L’editoria è la casta più importante. Gli editori sono i veri censori e i manipolatori della coscienza civile. Il sistema prima riconosce la libertà di manifestare il proprio pensiero e poi ne impedisce l’esercizio.
Sia libera la parola, con diritto di critica, di cronaca, d'informare e di essere informati, così come sia libero l'esercizio della stampa da vincoli di Albi, Ordini e collegi”.
di Antonio Giangrande
MEDIOPOLI
L'ITALIA DELLA CENSURA, DELL'OMERTA'
E DELLA DISINFORMAZIONE
SOMMARIO PRIMA PARTE
CAPITOLO 1: MASSMEDIOPOLI
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
PERCHE’ RINO GAETANO E’ ATTUALE?
L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.
L’HANNO DETTO I GIORNALI? E’ FALSO! UN ESEMPIO: MARCO TRAVAGLIO VS I RENZI.
LA FINE DELLA DIVERSITA' MORALE. I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN...LA REPUBBLICA.
INFORMARE CON DUE PESI E DUE MISURE.
FAKE NEWS, OSSIA BUFALE E DISINFORMAZIONE DI STAMPA E REGIME.
LA VERITA' E' FALSA.
IL GIORNALISMO DELLA MALDICENZA.
GIORNALI E PROCURE.
STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.
I GIORNALISTI. I KILLER DELLA PRIMA REPUBBLICA.
I GIORNALISTI SON TROPPO DI SINISTRA.
I NEMICI DELLA LIBERTA DI STAMPA? QUELLO CHE NON SI DEVE E NON SI PUO’ SCRIVERE.
IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.
LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.
I LAVORI MEDIA FREELANCE.
MEDIA COPROFILI E COPROFAGI.
GIORNALISMO CONTROCORRENTE: GIORNALISMO MAFIOSO.
LA TRUFFA DEI MEDIA.
I TRIBUNALI TELEVISIVI PARTIGIANI.
CON LA RADIO NON S'IMBROGLIA. VIVA LA RADIO CHE NON MUORE MAI.
L’ANGOLO BUIO DEI SOCIAL.
SI PUO’ CHIUDERE INTERNET?
MAGISTRATI…STATE ZITTI!
IN ITALIA I MORTI NON HANNO LO STESSO VALORE. DUE PESI E DUE MISURE: MORTI DI SERIE A (DI SINISTRA) E MORTI DI SERIE B (TUTTI GLI ALTRI).
"PADRI DELLA PATRIA": VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
LEZIONE DI MAFIA.
ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
LA LIBERTA'.
LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?
A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?
L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.
IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.
SOLDI A PALATE. PARENTI DELLE VITTIME PAGATI PER ANDARE IN TV E LE BUFALE SPACCIATE PER VERITA’.
L'ANTIMAFIA DEI PROFESSIONISTI ED IL CONTESTO SPUTTANATO.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
GLI EDITTI BULGARI, TRA UNA LECCATA DI CULO E L’ALTRA.
MAFIA ED ANTIMAFIA. GIORNALISTI PAVIDI E PARTIGIANI: NON SENTONO, NON VEDONO, NON PARLANO. TELEJATO E PINO MANIACI: ORGOGLIOSI SI ESSERE DIVERSI.
PARLIAMO DI MAFIA ED INFORMAZIONE.
A PROPOSITO DI QUERELE PRETESTUOSE E DI LITE TEMERARIA.
AMBIENTE SVENDUTO E TARANTO INQUINATA: GIORNALISMO CORROTTO E STAMPA INFETTA.
LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
MEDIA E MASS MEDIA: I GIORNALI SIAMO NOI!
FORCAIOLI CONTRO GARANTISTI.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
E’ SEMPRE COLPA DEI GIORNALISTI FOTOCOPIA: GUFI E SOBILLATORI A PERDERE.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
SOMMARIO SECONDA PARTE
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
L’UNITA’ E GLI ALTRI: FALLITI DI SERIE A E FALLITI DI SERIE B!
L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.
COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.
UNA FARSA CHIAMATA GIORNALISMO. DALLE SOUBRETTE DELL’INFORMAZIONE AI CORSI BURLETTA.
DIRITTO D’AUTORE E FINANZIAMENTO PUBBLICO. IL COPYRIGHT DEI CITTADINI.
CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……
LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE. L’ALTRA FORMA DI CENSURA: IL POLITICAMENTE CORRETTO.
LE DONNE IMMIGRATE PER I GIORNALISTI? MEGLIO SCHIAVE CHE PUTTANE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. STOP A RICORSI PROLISSI ED A TESTIMONI INUTILI.
DE MAGISTRIS ED I PASDARAN DELLA NOTIZIA SPICCIA. L’EVOLUZIONE DELL’INFORMAZIONE.
GIORNALISTI: ZERBINI DEI MAGISTRATI.
ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?
MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!
LA BANDA DEGLI ONESTI.
BERLUSCONI ASSOLTO: I MANETTARI ROSICANO....
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
LUIGI ABBATE....MA L'EDITORE LO SA?
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
I GIORNALISTI? SONO PIU’ DISONESTI DEI POLITICI.
ITALIA. PROCESSO ALLA STAMPA. COME IL FATTO DIVENTA NOTIZIA.
SI CENSURA, MA NON SI DICE.
BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.
SIAMO TUTTI PUTTANE.
LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
GIORNALISMO: LO SCANDALO DELLA MANCANZA DI LIBERTA' E LA VERGOGNA DEGLI AFFARI SUI DOVERI DEL GIORNALISTA.
IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.
LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.
BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.
GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.
BUONI E CATTIVI CON L’ABILITAZIONE COL TRUCCO.
LA VERITA’ MANIPOLATA.
LA CASTA SI RIBELLA. DIFFAMAZIONE, NIENTE CARCERE, MA NON PER TUTTI.
LE SPUTASENTENZE. LA GOGNA MEDIATICA, GLI AVVOLTOI DELL'INFORMAZIONE E LA POTENTE LOBBY GAY.
PER I GIORNALISTI INTERNET E' NOCIVO.
LA MACCHINA DEL BACIO E LA MACCHINA DEL FANGO.
GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.
CREDIBILITA' E CENSURA.
MAGISTRATI E GIORNALISTI. A CIASCUNO IL SUO MESTIERE.
SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?
I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.
I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.
I VOLTAGABBANA E GLI APPESTATI. BERLUSCONI E CRAXI.
IL NUOVO CHE AVANZA.
PENNIVENDOLI E DISINFORMAZIONE: DA SOCRATE A GRILLO, PASSANDO DA VANNONI DI STAMINA A DI BELLA.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO. MILENA GABANELLI.
GIULIA INNOCENZI E L’ESAME TRUCCATO DI GIORNALISMO.
LA RAI, L’INFORMAZIONE E LA DESTRA ITALIANA.
LE CONFESSIONI DI PAOLO MIELI.
STAMPA E MAGISTRATURA: PAPPA E CICCIA.
ECCO COME MI VOGLIONO FAR FUORI.
INFORMAZIONE E CAZZEGGIOPOLI: GIORNALISTI OPINIONISTI.
PARLI MALE DEI MAGISTRATI? GIORNALISTI CONDANNATI.
C’E’ CHI FA IL VERO GIORNALISTA, MA NON LO E’, C’E’ INVECE CHI GIORNALISTA LO E’, MA NON LO MERITA.
LA LIBERTA' DI STAMPA E' PRECARIA.
LA LIBERTA' DI STAMPA E' SVENDUTA.
I CLAN DEL GIORNALISMO.
PARLIAMO DEGLI IDOLATRI DELL’INFORMAZIONE. L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO. PARLIAMO DI MARCO TRAVAGLIO. PARLIAMO DI MICHELE SANTORO.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
SPECIALE PAOLO PAGLIARO E TELERAMA.
SPECIALE CANALE 8 TV.
SPECIALE ANTENNA SUD.
A PROPOSITO DI GIORNALISTI.
IL COSTO DELL’ONESTA’ E DEL MORALISMO DELLA RAI E DEI SUOI GIORNALISTI.
FLOP TELEVISIVI: MILIONI DI EURO PER PROGRAMMI ANDATI IN ONDA UNA SOLA VOLTA.
RADIO RAI1: FACCIO FUORI LA GIORNALISTA PER METTERE LA FIDANZATA. E GLI ASCOLTI? PESSIMI.
LA STORIA DI SPRECHI DELLE EDIZIONI DEI FESTIVAL: TUTTI I CACHET DI CONDUTTORI E OSPITI.
GIORNALISTI SOTTO INCHIESTA PENALE.
SUBISCI E TACI.
GUAI A FARE SCOOP SULLE NEFANDEZZE DEI GIUDICI.
SE SI DENUNCIANO ERRORI DEI MAGISTRATI: SCATTA LA REAZIONE.
RADIO PADANIA, RADIO VERGOGNA.
NAVIGATE PER INFORMARVI E NAVIGATE INFORMATI.
A PROPOSITO DI WIKIPEDIA, L'ENCICLOPEDIA CENSORIA.
GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. (I MAGISTRATI)
A CHI CREDERE E DA CHI DIFENDERSI? LIBERTA’ DI CRONACA E LIBERTA’ DI CRITICA.
MAFIA, MALA POLITICA, MALA GIUSTIZIA: ECCO COME TI IMBAVAGLIO!!
QUERELOPOLI. TI SPIEGO COME TI TACCIO.
DIFFAMAZIONI MEDIATICHE STRUMENTALI.
PARLIAMO DEI TG SATIRICI E DEI PROGRAMMI D'INCHIESTA. FORTI CON I DEBOLI E DEBOLI CON I FORTI?
ALDROVANDI, STAMPA ALLA SBARRA.
GIORNALISTA PREZZOLATO (MALE), CITTADINO DISINFORMATO.
PARLIAMO DI “MOSTRI IN PRIMA PAGINA” E “BUFALE” GIORNALISTICHE.
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.
INFORMAZIONE INATTENDIBILE. ORDINE DEI GIORNALISTI LOMBARDI: PROFESSIONE MALANDATA, DEGRADATA, IN MALAFEDE.
GIORNALISTI DI SERIE A E GIORNALISTI DI SERIE B.
LA TV PUBBLICA IN MANO AI PARTITI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ??? RAI, L'ORGIA DEL POTERE.
90 MILIONI DI EURO DALLA POLITICA PER LA TV PRIVATA: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
FREQUENZE TELEVISIVE NAZIONALI NEGATE: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
1 MILIARDO DI EURO DALLA POLITICA PER I GIORNALI: QUALE LIBERTA' DI INFORMAZIONE ???
CAPITOLO 2: CENSUROPOLI
MUTI PER CENSURA: GIUSTIZIA ORBA, PRIVACY E DIRITTO ALL'OBLIO, DIRITTO D’AUTORE E CONTENUTI INDIGESTI.
PARLIAMO DI LIBERTA' RICONOSCIUTA SOLO AI GIORNALISTI.
"ALL'ALBO, SIAM FASCISTI!"
PARLIAMO DI CENSURA: VERA O PRESUNTA.
QUANDO STRISCIA LA NOTIZIA TOPPA.
QUANDO QUINTA COLONNA TOPPA.
QUANDO VIDEO NEWS TOPPA.
QUANDO LE IENE TOPPANO.
LA VERITA’, OLTRAGGIATA, MINACCIATA E SOTTO SCORTA.
PRIMA PARTE
CAPITOLO 1: MASSMEDIOPOLI
OSSIA, L’INFORMAZIONE CORROTTA
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Perché leggere Antonio Giangrande?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe
Nessuno pensa con la propria testa! È tutta questione di… Natura, scrive Alessandro Bertirotti su "Il Giornale". Quante volte, soprattutto da ragazzi, ci siamo sentiti dire dai nostri genitori: “Pensa con la tua testa!”? Ebbene, non vi è affermazione più infondata di questa. Perché? Semplicemente perché è impossibile farlo e aggiungo che non sarebbe affatto produttivo nella remota eventualità che qualche essere umano vi riuscisse. Nessuno di noi, volenti o nolenti, è venuto al mondo in modo autonomo proprio in quanto siamo mammiferi. Tutti noi siamo stati accolti e dunque nutriti da un utero femminile, sino a quando è stato necessario abbandonare quell’ambiente meraviglioso per entrare a far parte del mondo. Durante quei nove mesi paradisiaci, l’umore, le emozioni ed i pensieri di nostra madre, completamente inserita nell’ambiente della sua quotidianità, hanno influenzato il nostro umore attraverso la produzione di sostanze chimiche che giungevano anche a noi. E’ evidente quindi che ognuno di noi cresce, anche se dapprima inconsapevolmente, in una minima relazione duale (quella madre-bambino) che impronterà la quasi totalità del nostro stile di vita relazionale quando saremo adulti. Si stabilisce un rapporto intimo di complicità che continua dopo la nascita, abituando il futuro adulto a comprendere che i propri pensieri, le proprie convinzioni, passano attraverso l’approvazione o disapprovazione della madre. Questo modello verrà ripercorso durante tutta l’esistenza sia che esso basato su un rapporto sereno o conflittuale con la madre: rappresenta infatti l’imprinting neuro-cognitivo che prepara tutti noi ad attenderci una conferma o disconferma rispetto alle nostre azioni e pensieri. Parlando in maniera un po’ più scientifica, i filamenti neuronali – i neuriti che mettono in contatto i diversi neuroni tra loro formando quella rete cognitiva che costituisce il funzionamento del nostro cervello- si organizzano per modellarsi secondo questa relazione. Imitano cioè topologicamente quella solidarietà, quella complicità che esiste con la mamma. Ogni madre è stata anche figlia: la formazione dei propri circuiti neuronali presenta l’architettura che, in quanto figlia, ha sviluppato durante la sua evoluzione ontogenetica dallo stato fetale a quello adulto. Così si rinnova, generazione dopo generazione, quell’imperativo naturale che impone alle madri un atteggiamento solidale e complice verso i propri cuccioli sulla base di una forza naturale che prevarica qualsiasi egoismo a vantaggio della specie. E’ proprio in questo vincolo relazionale che si organizza l‘evoluzione mentale umana: il risultato è che nessun neurone nel nostro cervello agisce autonomamente, senza l’aiuto e la complicità di tutto il sistema neuronale. Per questo la mente umana impara a confrontarsi costantemente con il giudizio altrui anche quando questo giudizio non è verbalizzato, ma dimostrato con una serie di azioni e atteggiamenti che approvano oppure disapprovano il comportamento che si mette in pratica. E così, senza esserne del tutto consapevoli, impariamo a stare assieme agli altri, generalizzando il modello relazionale che abbiamo appreso nel nostro primigenio rapporto con la madre. La Natura ci pone così nelle condizioni di svilupparci nell’attesa di incontrare un altro che sappia accoglierci al momento opportuno e farci meditare sulla necessità di cambiare stile di vita e di pensiero.
Ed i media sono il veicolo necessario per uniformare ed omologare il pensiero unico.
Alessandra Moretti: "I giornalisti sono tutti cazzoni", scrive “Libero Quotidiano”. Una polemica che affonda le sue radici nella scorsa settimana, quando Alessandra Moretti è stata ospita di Lilli Gruber ad Otto e Mezzo. Ladylike, interpellata sulla possibilità che Maria Elena Boschi, un giorno, possa diventare premier, si è mostrata scettica: no, meglio di no. Peccato però che nella nota diffusa dopo la trasmissione dall'ufficio stampa de La7, quel "no" si fosse trasformato in un "perché no?", ovvero in un sostanziale "sì". La frase della Moretti che incorona la Boschi, dunque, è rimbalzata un po' da tutte le parti. Ma in una successiva conferenza stampa, quando alla Moretti è stato chiesto un ulteriore commento sull'endorsement, Ladylike non solo ha negato qualsivoglia endorsement, ma ha chiosato: "La verità è che voi giornalisti siete tutti dei cazzoni".
Ed ancora: «Credo che invece di parlare attraverso commenti e opinioni, parlare attraverso informazioni dettagliate e numeri possa essere utile per tutti quegli osservatori che, negli ultimi mesi, stanno riempiendo i nostri quotidiani e media di informazioni di cui nessuno di questi grandi intellettuali era a conoscenza negli anni ‘80 e ‘90. - scrive Paolo Foschi su "Il Corriere della Sera" - Suppongo che tutte queste grandi firme vivessero anche loro all’estero, come me, se solo negli ultime settimane si sono accorti di cosa rappresentano le spiagge chiuse, i camion bar o il censimento del patrimonio di case del Campidoglio che non esisteva. Di tutto questo si stanno accorgendo anche tutti questi grandi soloni, editorialisti e professori che sono arrivati evidentemente di recente nella nostra città» ha detto Marino, che appena qualche settimana fa aveva affermato di non leggere i giornali, «anzi li usiamo per incartare le uova».
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
PERCHE’ RINO GAETANO E’ ATTUALE?
Molti scrittori sono astiosi, a torto od a ragione, contro la Massoneria. La rete riporta spesso articoli o libri che preludono a misteri dietro le più eclatanti note di cronaca. E' doveroso riportare nella storia anche l'altra faccia della cronaca.
"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”.
"Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.
Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?
«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen».
E allora?
«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli».
Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?
«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria».
Cioè?
«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia».
E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.
«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva».
Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?
«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio».
Ne faccia un altro.
«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori».
E quindi?
«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva».
Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.
«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi».
E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?
«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense».
Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?
«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica».
Perché?
«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo».
Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?
«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi».
Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.
«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento».
La tesi choc di un avvocato: "Rino Gaetano è stato ucciso dalla massoneria", scrive Fabio Frabetti su “Affari Italiani”. «Rino Gaetano fu ucciso dalla massoneria deviata». La dinamica della morte del geniale cantautore che continua a trascinare vecchie e nuove generazioni potrebbe non essere così scontata come si è pensato finora. L'avvocato Bruno Mautone, ex sindaco di Agropoli, sta per dare alle stampe un libro in cui è riuscito a decriptare nei testi delle canzoni di Gaetano tutti i misteri della sua morte. Affaritaliani.it lo ha incontrato. Si intitola “Rino Gaetano, assassinio di un cantautore” ed uscirà nelle prossime settimane per le edizioni Gli occhi di Argo.
Come è nata l'idea di scrivere un libro del genere?
«Da tanti anni per passatempo conduco programmi radiofonici e Rino Gaetano è uno dei miei autori preferiti. Ascoltando alcuni suoi brani poco conosciuti mi sono accorto che c'erano dei significati interpretabili in maniera non letterale. Non ritengo di avere il Vangelo in tasca ma penso di avere individuato, partendo dal lavoro in passato svolto da Gabriella Carlizzi e Paolo Franceschetti, una serie di canzoni in cui vengono lanciati degli importanti messaggi sulla storia italiana dal dopoguerra in poi. La morte di Rino Gaetano non è stata casuale, si trattò di una macchinazione per metterlo a tacere. In alcuni suoi testi ci sono messaggi inquietanti ed angoscianti. In altri, frasi di scherno che progressivamente vengono inseriti di disco in disco. Lui era un vero e proprio genio e la massoneria è da sempre interessata a fare entrare nuove leve di alto valore intellettivo. Così probabilmente lui fu fatto entrare molto giovane e così era venuto a conoscenze di segreti e verità apprese nell'ambito di specifiche consorterie massoniche. Nei primi dischi sembra esserci entusiasmo nei confronti di questo mondo, poi pian piano subentrò il disincanto e poi il distacco. Lo spirito di ideali e di giustizia lo spinse a rivelare con le sue canzoni alcuni di quei segreti. Messaggi che seppur criptici hanno indotto la massoneria deviata ad ucciderlo. Ha composto poco più di sessanta canzoni, nel 100% delle sue composizioni ha sempre messo qualche riferimento a fatti o situazioni collegabili alla massoneria. In altre ha individuato e rivelato segreti inquietanti della storia italiana».
«C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta». Rino Gaetano pronuncia questa criptica frase in un concerto del 1979. Sta per eseguire uno dei suoi brani più celebri Nuntereggae più. Proprio nel testo di questa canzone salta di nuovo fuori la stessa spiaggia: «il pitrentotto sulla spiaggia di Capocotta». In quella spiaggia si era consumato nel 1953 il delitto di Wilma Montesi...
«Quando avvenne quell'omicidio, Rino aveva poco più di due anni. Quello che aveva raccontato di quel tragico evento nei concerti e nelle sue canzoni lo aveva quindi sicuramente conosciuto nelle frequentazioni di tipo massonico: tramite le sue parole si può quindi ricostruire cosa avvenne esattamente in quella spiaggia. I segreti che aveva appreso riguardavano però molti aspetti della cronaca e della politica italiana. L'aspetto inedito del libro è proprio questo: aver dimostrato che nelle sue canzoni insieme ad apparenti nonsense si raccontavano i retroscena di molti scandali: i casi Sindona, banco Ambrosiano, Franklin Bank, vicenda Mattei. Addirittura Rino Gaetano era arrivato a pronosticare come sarebbe finito il processo per la bomba a Piazza Fontana a Milano e ad annunciare i reali colpevoli dello scandalo Lockheed».
Rino Gaetano morì il 2 giugno 1981 dopo un incidente stradale sulla via Nomentana a Roma. La sua auto finì addosso ad un camion: perse la vita per le gravi ferite riportate dopo che ben tre ospedali di fatto rifiutarono il suo ricovero. La cosa incredibile è che lo stesso cantautore 11 anni prima aveva raccontato la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e anche dal cimitero. Nel brano “La ballata di Renzo” si legge: Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l'accettarono forse per l'orario si pregò tutti i Santi ma s'andò al S.Giovanni e li non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l'alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c'era in alto il sole,si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c'era posto. Una somiglianza notevole con quello che sarebbe accaduto allo stesso Gaetano.
«I primi tre ospedali citati nel brano sono proprio quelli che non ebbero la capacità o la volontà di curarlo in maniera non professionale od idonea dopo l'incidente. Non abbiamo alcuna prova che il soccorso sia stato tempestivo. I telefonini non esistevano. Sarebbe interessante capire chi allertò i soccorsi, a che ora e con quale modalità. Tra le altre cose, lui non fu degente in tre ospedali diversi. Rimase al Policlinico Umberto I, con motivazioni mai veramente chiarite ed emerse. Non c'era il reparto di traumatologia cranica funzionante e gli ospedali disperatamente contattati dal medico di turno facevano quasi a gara a non prestare soccorso a Rino. Così morì agonizzante al Policlinico per il grave trauma cranico riportato. Lui aveva avuto un altro strano incidente nel 1979 a cui era miracolosamente sopravvissuto. Una jeep speronò la Volvo in cui viaggiava insieme ad un amico. La macchina si distrusse e chi aveva causato l'incidente riuscì a defilarsi e non si seppe mai chi fosse alla guida. Questo incidente avviene nello stesso anno in cui Rino Gaetano aveva fatto quelle rivelazioni su Capocotta. Nelle sue canzoni preconizzava una morte prematura, sapeva i rischi che stava correndo. Per questo probabilmente non aveva messo al corrente le persone a lui care delle frequentazioni che aveva avuto. Voleva preservarle da possibili rischi».
Un altro brano che fa pensare è “Al compleanno della zia Rosina” in cui si legge: “vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me”.
«In quella canzone c'è una emblematica citazione storica di Cleme, che sta per Clemente Rino Gaetano si voleva riferire ai tre papi (Clemente V, Clemente XII e Clemente XVI) che in momenti storici diversi emanarono provvedimenti religiosi nei confronti di movimenti legati alla massoneria. Uno di questi papi emanò il primo editto contro la massoneria, un altro aveva sciolto la Compagnia di Gesù ed il terzo sciolse i Templari. Lui in sostanza sta dicendo: me ne frego se verrò portato a spalla da gente che bestemmierà, evocando queste figure che avevano scomunicato per prime alcune diramazioni massoniche. Lui consultava enciclopedie, libri di storia e di cultura. Nel mio lavoro penso di avere colto dei significati che non era facile afferrare di primo acchito. Rino Gaetano era un generoso ed un idealista, non riusciva a trattenere nell'ambito dei propri pensieri le tante porcherie che erano state combinate in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Nelle sue canzoni parla anche di storia, di Risorgimento, di Hitler e di una miriade di cose. Anche di numerologia. C'è di tutto celato nella sua musica. Anche il mistero della sua morte».
Rino Gaetano e i messaggi in bottiglia. Qualche appunto a margine del vergognoso film della RAI su Rino Gaetano, scrivono Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti. Come abbiamo descritto molte volte nel nostro blog, il nostro è un sistema che uccide e strangola tutti coloro che ne sono al di fuori e non vogliono essere coinvolti nei giochi illeciti del potere massonico. Il sistema, però, non penalizza solo chi ne è fuori, ma anche chi ne è dentro e ne riceve i vantaggi. Perché il problema è che una volta entrati nel sistema, tutto ciò che ti viene dato ti viene chiesto in restituzione sotto altre forme. Se fai carriera grazie al sistema, ad un certo punto arriverà qualcuno che ti chiederà il conto; ti chiederanno di fare uno sgarbo ad un vecchio amico che vogliono rovinare; ti chiederanno di falsificare un documento o farlo sparire, ti chiederanno di accollarti una responsabilità penale per salvare altri, di essere condannato ad un anno con la condizionale e di spendere la tua faccia su tutti i giornali per fare da capro espiatorio. Ribellarsi al sistema è quasi impossibile per la perfezione che esso ha. Tanti, troppi, sono caduti nella trappola. Le promesse che ti fanno sono allettanti: potere, denaro, conoscenza dei meccanismi reali del potere. Ma il conto è salato, perché non si è più liberi di fare ciò che si vuole, e si è in costante stato di ricatto. Ritengo, ad esempio, che molti esponenti della sinistra attuale, a suo tempo, abbiano fatto il cosiddetto “patto col diavolo”, pensando semplicemente di accettare un compromesso in più per fare carriera; e si sono poi trovati invischiati in un gioco di potere più grande di loro, perdendo ogni capacità decisionale reale; ed ecco il motivo per cui la sinistra di questi ultimi anni ha fatto delle cose senza alcuna logica, come se volesse realmente perdere le elezioni e consegnare – come hanno fatto di recente – il paese definitivamente alla destra. In realtà alcuni provano a ribellarsi. Ribellarsi in modo esplicito, in un attacco frontale, non è possibile altrimenti si muore (la lista dei morti è lunghissima; Falcone e Borsellino, Occorsio, Pecorelli, Tobagi, Mauro De Mauro, Cosco, Pasolini, Cecilia Gatto Trocchi, Ilaria Alapi, Graziella De Palo, e tutti coloro che hanno provato a testimoniare coraggiosamente in processi importanti, morti suicidi o in incidenti stradali). Molti però provano a ribellarsi non apertamente, lanciando una serie di messaggi in bottiglia. Come delle tracce, per chi le vorrà cogliere un giorno. Ricordo un'archiviazione vergognosa che aveva a che fare con un soggetto che si era suicidato con "una coltellata sulla schiena". Il magistrato archiviò dicendo delle cose che li per li mi parvero incomprensibili; mischiava citazioni di Dante a frasi demenziali del tipo "la prova che si sia trattato di un suicidio è nel fatto che sul coltello piantato nella schiena furono trovate le impronte digitali della vittima". Dopo anni di rabbia in cui non capivo l'assurdità di quel provvedimento, ho capito che la citazione di Dante era un chiaro riferimento alla legge del contrappasso, utilizzata dalla Rosa Rossa per i suoi omicidi. Mentre con la frase in cui parlava delle impronte digitali voleva dire esattamente il contrario.... Tra l'altro fu uno dei provvedimenti il cui studio e la cui lettura approfondita mi hanno permesso di arrivare alla regola del contrappasso da noi descritta negli articoli sull'omicidio massonico. A mio parere si trovano molti messaggi in bottiglia anche in molti libri, articoli di giornale, e opere attuali, ma evitiamo di indicarli per non mettere in pericolo le persone coinvolte. Rino Gaetano era una di queste persone che si erano ribellate al sistema in modo vistoso. Non poteva denunciare il sistema direttamente, perchè non gli avrebbe dato voce nessuno, allora lasciò una serie di tracce nelle sue canzoni, che sarebbero state raccolte dalle generazioni successive. Rino Gaetano ci parla della Rosa Rossa, dei crimini commessi dai potenti, dei meccanismi segreti di questa associazione e dei loro metodi. Vediamone qualcuna.
Le canzoni. C’è un album di Rino, in particolare, che pare dedicato proprio alla Rosa Rossa. Nello stesso album, infatti troviamo ben tre canzoni: Rosita, Cogli la mia Rosa d’amore, e Al compleanno della zia Rosina. Una trilogia a nostro parere non casuale. In Rosita ci dice che la Rosa Rossa, quanto te la presentano, sembra bellissima... onori, gloria, soldi, potere... poi però un giorno scopri la verità. E allora la tua vita cambia completamente perchè sei in trappola.
Ieri ho incontrato Rosita, perciò questa vita valore non ha,
Come era bella rosita di bianco vestita più bella che mai.
Nella canzone “Al compleanno della zia Rosina” ci spiega che nel linguaggio criptato della Rosa Rossa, Santa Rita è in realtà la Rosa Rossa; e ci spiega che un giorno capiranno che sta svelando questi messaggi, e quindi lo uccideranno.
La vita la vita, e Rita s'è sposata, al compleanno della zia Rosina.
Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia e che ce l'ha con me.
Questa frase apparentemente incomprensibile vuole dire probabilmente che gli appartenenti alla massoneria rosacrociana della Rosa Rossa al suo funerale porteranno a spalla la sua bara (ai funerali delle vittime i mandanti sono sempre presenti tra i partecipanti); ma bestemmieranno, perchè in realtà una caratteristica della massoneria della Rosa Rossa è di stravolgere i simboli e i riti Cristiani per interpretarli al contrario. Infine, in “Cogli la mia rosa d’amore” lancia un messaggio molto chiaro:
cogli la mia rosa d’amore,
regala il suo profumo alla gente;
cogli la mia
rosa di niente.
Non credo sia un caso anche il titolo del disco: "mio fratello è figlio unico",
perché sapeva che questo scherzetto gli sarebbe costato la vita. Nella canzone
“Nun Te Reggae più” parla della spiaggia di Capocotta. E, ad un concerto, disse:
"C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. E che grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Apriranno gli occhi e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta".
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto
che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo
politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né
Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni
d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella
filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e
Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come
Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro
quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la
versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo
ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica,
come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà
vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.
La spiaggia di Capocotta. OMICIDIO DI WILMA MONTESI (1953, vigilia di Pasqua). La vicenda coinvolse il musicista Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del consiglio della DC, e altri noti esponenti della nobiltà, politici e personaggi famosi... Inizialmente fu presa in considerazione l'ipotesi di un banale incidente, ipotesi che fu considerata attendibile dalla polizia, e il caso venne chiuso. I giornali, L'Espresso su tutti, invece si mostravano scettici. Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi? a firma Riccardo Giannini ebbe largo seguito. A capo di questa campagna stampa, vi erano prestigiose testate nazionali, quali Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali. Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Cesarini Sforza pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato con Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, il Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana. Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico. Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto. La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953. Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Cesarini Sforza venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe il giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento. (QUINDI ANCHE LO STESSO PCI SEMBRA VOLER COPRIRE E INSABBIARE TUTTO... CHISSA' COME MAI?). Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi". Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni. L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega e il 31 maggio, Cesarini Sforza fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa. Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di una attricetta ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana. Continuano ad essere ritrovati corpi di donne su quella spiaggia. Forse è questo che voleva dire Rino. Non si riferiva solo al caso Montesi, ma a decine di altri casi che evidentemente continuano a verificarsi a Capocotta... O forse voleva dire che è una situazione "emblematica" di tutto quello che succede in Italia. Ma sono solo nostre deduzioni. Potremmo continuare perchè ci sono altre canzoni molto più significative e piene di messaggi, come Gianna. Ma terminiamo qui perchè per capire queste canzoni occorre avere una conoscenza specifica di determinati fatti e situazioni. Forse però non molti sanno che la canzone Nuntereggaepiù, che nomina molti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, della televisione... è stata censurata. Inizialmente infatti l'elenco conteneva, tra gli altri, i nomi del finanziere Nino Rovelli, del banchiere Ferdinando Ventriglia, di Camillo Crociani (scandalo Lockheed e loggia P2), di Amintore Fanfani, di Guido Carli... e persino di Aldo Moro e Michele Sindona. Questi nomi vennero cancellati dal testo della canzone. Evidentemente perché ancora più scomodi di quelli che furono lasciati. Un personaggio come Rino non poteva vivere a lungo, e perse infatti la vita il 2 giugno del 1981 in un incidente d'auto. Poco tempo prima, come abbiamo già raccontato altrove, aveva avuto un incidente analogo, ma si era salvato. Aveva ricomprato un’ auto identica ed ebbe un incidente dello stesso tipo; morì non tanto per l'incidente in sè, quanto per il ritardo con cui fu curato perchè negli ospedali della zona nessuno volle accoglierlo. Ben 5 ospedali si rifiutarono di curarlo, così come lui aveva scritto in una sua canzone, La ballata di Renzo. Cioè, è stata applicata ,nel suo caso la regola del contrappasso di cui ci siamo occupati in altri articoli. La ballata di Renzo è un brano inedito, di cui peraltro si scoprì l'esistenza solo qualche anno fa. Dunque, all'epoca, solo gli "addetti ai lavori" (i produttori e le persone che lavoravano insieme al cantante) erano a conoscenza di quel brano. E solo chi conosceva la canzone poteva fare in modo che si realizzasse nella pratica, e in modo così dettagliato. Quando qualche anno fa uscì la notizia della scoperta del brano inedito, i media si affrettarono subito a definirla una "profezia". I giornali scrissero che ne La ballata di Renzo "Rino aveva previsto e messo in musica, dieci anni prima, la propria morte". Ma sarebbe invece più oppurtuno affermare il contrario: la morte del cantautore è avvenuta esattamente come nella sua canzone non perché quel brano fosse una profezia, ma perché qualcuno l'ha usata per applicare la regola del contrappasso.
Il film. Di recente la RAI ha prodotto un film su Rino Gaetano. Vediamo cosa dice la presentazione ufficiale del film sul sito Rai. "Ci sono film su personaggi della musica che riescono a descrivere compiutamente lo spirito di un'epoca. È questo l'obiettivo della fiction Rino Gaetano. Ma il cielo è sempre più blu, una produzione Rai Fiction realizzata da Claudia Mori per la Ciao Ragazzi. L'interesse per Rino Gaetano e per la sua musica si è riacceso negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani, al punto di farne una figura di culto oltre la sua epoca. La fiction, che racconta in due puntate la sua biografia e la genesi delle canzoni più popolari, è uno spaccato della sua generazione, e trasmette un messaggio che può valicare i confini nazionali italiani, perché ancora oggi modernissimo". In realtà guardando il film si capisce che è stato scritto al solo scopo di infangare l’immagine del cantautore. La sorella di Rino e la ex fidanzata, intervistate, diranno che il film racconta qualcun altro rispetto al protagonista. Quello non era Rino, non era la storia d'amore tra lui e la fidanzata. Vediamo perchè. Anzitutto il film si apre con la scena di lui che sviene per aver bevuto troppo. E si chiude con le immagini di lui, ubriaco, che vaga senza meta alla ricerca di amici che oramai lo hanno abbandonato. Il messaggio è chiaro. Era un ubriacone. Altre scene salienti del film sono queste:
1) Dopo aver chiesto alla fidanzata di accompagnarlo a Stromboli per scrivere una canzone, dopo alcuni giorni in cui non combinava nulla tranne trattare male gli amici musicisti, e ubriacarsi continuamente, inveisce contro la fidanzata e la tratta male dicendo che non si sente capito
2) Geniale poi come presentano il suo rapporto con le donne. Si fidanza. Mette le corna alla ragazza (Irene) con un altra ragazza, stupenda e che lo adora, di nome Chiara. Irene li scopre a letto e lui che fa? Esce dalla stanza, parla con Irene e le dice “non preoccuparti, era solo una scopata”. Poi abbandona Chiara senza dirle una parola nè salutarla, dopo giorni di idillio romantico. Dopo qualche anno incontra nuovamente Chiara. Mette nuovamente le corna alla fidanzata e abbandona nuovamente Chiara, ancora una volta senza una spiegazione e senza una parola. Verso la fine del film, abbrutito dall’alcol e senza una meta, tenta di recuperare il rapporto con Chiara e con Irene (tutte e due in contemporanea), ma entrambe lo abbandonano. Per giunta tenta di baciare Chiara proprio un giorno che lei lo trova ubriaco già al mattino presto. Chiaro è il messaggio: Gaetano era un superficiale.
3) Altrettanto geniale poi come viene delineato il suo rapporto col padre. In una delle scene clou del film lui, all’apice del successo, mostra una casa al padre, ma il padre la rifiuta, perché non vuole la sua elemosina. E lui risponde arrabbiato “ma come, finalmente ora possiamo permetterci una casa come la gente normale e non uno schifoso sottoscala”. Il messaggio qui è molto sottile ed è duplice: la gente che vive in un sottoscala non è normale. Un sottoscala fa schifo. Ma dietro a questo messaggio ce n’è un altro, molto più sottile: Gaetano, come tutti, una volta che ha avuto un po’ di soldi e si è arricchito, non ha più rispetto per le condizioni della gente più povera che infatti viene definita “non normale”. E infatti rinfaccia al padre di essere un poveraccio: "io non volevo diventare come te e ci sono riuscito... non vi voglio più vedere in quel sottoscala schifoso.. e aggiunge: "sei orgoglioso come tutti gli ignoranti". Dopodichè al padre prende anche un infarto. Quando il padre uscirà dall'ospedale Rino ancora una volta lo tratterà malissimo e gli causerà un altro malore. In altre parole, lo descrivono come un pessimo personaggio, indelicato e ignorante che arriva a far ammalare il povero padre.
Altro aspetto curioso del film è che Rino ha una sorella, che nel film però non compare mai. Non compare mai neanche quando, nella parte finale del film, bussa alla porta di tutti gli amici, ubriaco e disperato, lasciato solo da tutti. Strano che Rino quel giorno non abbia pensato di telefonare anche alla sorella no? Come è strana un'altra circostanza. Rino morì pochi giorni prima del suo matrimonio. Doveva sposarsi. In questo indegno e vergognoso film, invece, l'ultima scena del film mostra lui disperato e abbandonato da tutti. Nessun cenno alla figura della sorella. Nessun cenno al matrimonio, ma anzi, viene presentata una fattispecie completamente opposta. Insomma, per essere un film che voleva valorizzare la figura del cantautore, la trama presenta tali e tanti inesattezze, buchi ed omissioni, che rimane una sola certezza: che il film è stato fatto unicamente per oscurare le ragioni della sua morte e il valore delle sue canzoni. Per infangarne la memoria quindi. Chi ha prodotto il film, inoltre, ha appositamente evitato di inserire la figura della sorella, forse perchè è l'unica della famiglia rimasta ancora viva, e che avrebbe potuto creare guai giudiziari agli autori del film se la sua immagine fosse apparsa troppo deformata dalla fiction. In conclusione, cosa rimane dopo la visione del film? L’idea che fosse un ubriacone, anche egoista, non troppo intelligente, che ha scritto canzoni superficiali e senza senso. Così non ci si stupisce se muore in un incidente. E se un giorno qualcuno dirà che è stato ucciso, la gente dirà: "ucciso? ma come? Era stato un incidente perchè beveva ed era ubriaco". Come succede per Pantani: "era un drogato, si è suicidato". Che poi le perizie abbiano dimostrato che il suo cuore era intatto non conta, per questo mondo dei mass media asservito ad una criminalità senza scrupoli. E che la sorella e la fidanzata di Rino dicano che quello non era Rino, che conta? L'obiettivo è riuscito. Milioni di italiani lo considerano un ubriacone che scriveva canzoni senza senso. Il film è stato confezionato ad arte probabilmente per screditare la figura di un artista, proprio in un periodo particolare, ovverosia gli anni in cui, a seguito dei delitti del mostro di Firenze, si comincia a parlare della Rosa Rossa e dei suoi delitti. D'altronde, una bella coincidenza che il film sia prodotto dalla Ciao Ragazzi, società che porta, guarda caso, l'acronimo dei RosaCroce e di Cristian Rosenkreutz (CR). Di recente poi è uscito un dvd "Figlio unico", uscito insieme alla raccolta il 02.11.2007. Giorno dei morti e data a somma 13. Un altro bello scherzetto combinato ai danni di Rino. Tanto per mettere di nuovo una firma, se ce ne fosse bisogno. Il dvd contiene molti filmati, tra cui quello con Morandi: Rino a un certo punto dice: "Io conosco anche il profumo dei ministri". Una frase senza senso per i più. Un non sense, appunto, di quelli tipici di Rino. E invece no. Infatti Morandi si guarda intorno impaurito e cambia subito discorso, spostandosi di nuovo sull'ironia. "Qui non possiamo parlare di ministri, parliamo solo di canzoni. No, ma parliamo della tua ironia". Ma noi che conosciamo il sistema, riteniamo che il film sia l’ulteriore vittoria di Rino Gaetano. Rino era così grande e così bello, che hanno cercato di distruggerlo anche da morto. Perché indubbiamente le sue canzoni, come del resto aveva predetto anche lui, fanno più paura ora che quando era vivo. Ora infatti le possiamo capire. E a Venditti che, in questi ultimi tempi, ha affermato che la causa della morte di Rino è stata la cocaina (se ne è ricordato dopo quasi trenta anni) possiamo rispondere una cosa. Strano, Antonello, che ti ricordi dopo tanti anni della cocaina. In realtà la sai bene quale è la verità: lui ha avuto quel coraggio che pochi hanno, di andare contro il sistema fino a farsi uccidere per non rinnegare i suoi ideali. Quel coraggio che molti di quelli che oggi hanno successo certamente non hanno avuto.
La ballata di Renzo
Quel giorno Renzo uscì,
andò lungo quella strada
quando un’auto veloce lo investì
quell'uomo lo aiutò
e Renzo allora partì
verso un ospedale che lo curasse per guarìr.
Quando Renzo morì io ero al bar
La strada era buia
si andò al San Camillo
e lì non l'accettarono
forse per l'orario
si pregò tutti i Santi
ma s'andò al San Giovanni
e lì non lo vollero per lo sciopero
Quando Renzo morì
io ero al bar era ormai l'alba andarono al policlinico
ma lo si mandò via perchè mancava il vicecapo
c'era in alto il sole
si disse che Renzo era morto
ma neanche al Verano c'era posto
Quando Renzo morì
io ero al bar,
al bar con gli amici bevevo un caffè.
Anche il delitto di Marco Pantani si è tinto di giallo.
"Leggete
i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava".
L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi
cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi".
Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”. "Rino Gaetano era
vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici
confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della
storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le
mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva
raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno
Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni
i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei
collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese,
morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di
un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe)
metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni
possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento
ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni"
le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.
Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?
«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen.»
E allora?
«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli.»
Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?
«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria.»
Cioè?
«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia.»
E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.
«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva.»
Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?
«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio.»
Ne faccia un altro.
«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori.»
E quindi?
«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva.»
Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.
«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi.»
E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?
«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense.»
Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?
«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica.»
Perché?
«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo.»
Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?
«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi.»
Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.
«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento.»
Rino Gaetano: perché lo cantano ancora tutti. I segreti della longevità del geniale cantautore, nato a Crotone il 29 ottobre del 1950, scrive Gabriele Antonucci il 29 ottobre 2018 su "Panorama". “C’è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio: io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera. Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale”. La profezia che fece Rino Gaetano in un concerto sulla spiaggia di Capocotta nel 1979 si rivelò esatta. Il geniale cantautore crotonese, nato il 29 ottobre del 1950, ci ha lasciato 37 anni fa, eppure le sue canzoni sono ancora oggi così amate e ascoltate, anche dai più giovani, che riesce difficile pensare a una sua scomparsa ormai lontana. Il 2 giugno del 1981 Rino Gaetano perse la vita in un incidente a via Nomentana, poco distante da casa sua, nel quartiere di Montesacro. La sua auto finì addosso ad un camion proveniente dall’altra corsia, ma il cantante non morì sul colpo. Dopo che tre ospedali rifiutarono il suo ricovero, morì per le gravi ferite riportate alla testa.
Le inquietanti coincidenze. È incredibile come lo stesso cantautore, 11 anni prima, aveva raccontato ne La ballata di Renzo la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e perfino dal cimitero. Nel brano La ballata di Renzo cantava: «Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l’accettarono forse per l’orario si pregò tutti i Santi ma s’andò al S.Giovanni e lì non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l’alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c’era in alto il sole, si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c’era posto». Una somiglianza inquietante con quello che sarebbe accaduto davvero pochi anni dopo allo stesso Gaetano, arrivato al Policlinico Umberto I già in condizioni disperate. Sulle sue ultime ore di vita non sono mai stati fugati del tutto dubbi e sospetti, come conferma la pubblicazione di un saggio, Rino Gaetano, la tragica scomparsa di un eroe di Bruno Mautone, nel quale l’autore sostiene che l’artista sia stato ucciso dalla massoneria deviata. La notte dell’incidente un’ambulanza dei vigili del fuoco lo portò al San Camillo, dove venne però rifiutato il ricovero perchè non attrezzato a prestargli soccorso. Verrà poi rifiutato anche dall’ospedale San Giovanni e infine portato al Policlinico Umberto I nel quale, però, il reparto di traumatologia non era funzionante. Dopo alcune ore di agonia, senza aver ricevuto alcuna cura, il cantautore morirà verso le sei del mattino a soli 31 anni. In un primo momento gli verrà perfino rifiutata la sepoltura al cimitero del Verano, dove riposano numerosi personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura, e soltanto dopo le pressioni di alcune personalità verrà trasferito definitivamente lì. Nel 2012 Comune di Roma ha dedicato al cantante una targa commemorativa sul palazzo di Via Nomentana Nuova 53, dove Rino ha abitato dal 1970 fino alla sua scomparsa.
Il segreto del successo di Rino Gaetano. Il segreto della longevità di Rino Gaetano è nella sua capacità unica di coniugare un’impareggiabile attitudine all’ironia e allo sberleffo con una graffiante satira politica e sociale. In un paese come il nostro, da sempre diviso tra Guelfi e Ghibellini, la sua musica ha messo d’accordo sia la destra che la sinistra proprio perché non ha risparmiato nessuna delle due parti, tanto meno il centro. Per questo non è mai stato catalogabile, a differenza di altri suoi colleghi degli anni Settanta, in uno schieramento politico. Rino non si limitò ad accenni generici all’attualità politica e ai suoi protagonisti, ma nelle sue canzoni fece i nomi e i cognomi e, anche per questo, i suoi testi e le sue esibizioni dal vivo sono stati più volte censurati. Il suo universo è affollato di santi vestiti d'amianto che salgono sul rogo, di donne immaginarie che filano la lana e fiutano tartufi, di cieli blu e di notti stellate, di amabili prostitute e di detestabili politici di ogni schieramento. Gaetano era accessibile e oscuro al tempo stesso, le sue canzoni venivano ballate in discoteca e facevano da colonna sonora delle manifestazioni politiche. Una canzone esemplare di questa sua attitudine allo sberleffo intelligente è Nuntereggae più nella quale, a ritmo di reggae, punta ironicamente il dito contro Gianni Agnelli, Enrico Berlinguer, le logge massoniche, il decano del giornalismo sportivo Gianni Brera e lo scandalo della spiaggia di Capocotta. Come non ricordare, poi, la sua fortunata partecipazione al Festival di Sanremo, dove nel 1978 si classificò terzo con la scanzonata Gianna, esibendosi in frac, camicia a righe rosse e scarpe da ginnastica?
Gli esordi. Eppure i suoi esordi discografici sono stati tutt’altro che esaltanti. Dopo alcune esperienze teatrali, tra i quali il ruolo della volpe nel Pinocchio di Carmelo Bene, Gaetano iniziò ad esibirsi nel leggendario Folkstudio, inesauribile fucina artistica dei cantautori romani, dividendo spesso il palco con gli allora sconosciuti Francesco De Gregori e Antonello Venditti. Si accorge del suo talento il produttore Vincenzo Micocci, che gli permette di pubblicare i suoi primi due singoli I love you Maryanna e Jaqueline, incisi dal cantante con lo pseudonimo di Kammamuri’s, e il primo album Ingresso libero, pubblicato dalla It nel 1974. Né pubblico né critica restano particolarmente colpiti dal cantautore crotonese, che si mette in luce un anno dopo con il 45 giri Il cielo è sempre più blu, un saggio della sua capacità di tenersi in perfetto equilibrio tra satira e nonsense. Nel 1976 il pubblico si accorge delle sue singolari qualità grazie al secondo album Mio fratello è figlio unico, trascinato dalla splendida title track, una struggente ballad in bilico tra affetti familiari e denuncia sociale. Nel disco spicca anche l’emozionante canzone d’amore Sfiorivano le viole, da molti considerato uno dei vertici della sua produzione artistica.
Il successo. Il terzo album Aida del 1977 è una piacevole conferma, ma è con il successivo Nuntereggae più e soprattutto grazie al terzo posto a Sanremo con l’orecchiabile e maliziosa Gianna che Rino entra ai piani alti delle classifiche. Il 1979 segna il suo passaggio dalla piccola etichetta It a una major come l’Rca, con la quale pubblica il suo quinto album Resta vile maschio, dove vai?. Nel 33 giri troviamo la divertente melodia spagnoleggiante di Ahi Maria, l’emozionante ritratto della amata Calabria in Anche questo è Sud e la sferzante satira politica di Nel letto di Lucia. Gaetano è ormai lanciatissimo, tanto che, dopo la pubblicazione nel 1980 del suo ultimo album in studio E io ci sto, viene chiamato da Riccardo Cocciante per alcune tappe di un tour fortunatissimo, che verrà ribattezzato Q Concert.
L'incidente mortale. Proprio nel periodo di massimo fulgore, nel quale stava prendendo forma un lavoro sperimentale intitolato provvisoriamente Alice, un tragico incidente stradale ha interrotto il 2 giugno del 1981 la sua parabola umana e artistica. Nel 2007 la fiction Rino Gaetano, Ma il cielo è sempre più blu, trasmessa in prima serata da Rai Uno, ha fatto scoprire a tanti giovani la musica di Rino Gaetano, grazie anche all’eccellente interpretazione di Claudio Santamaria. La miniserie ha avuto un grande successo di ascolti, dimostrando ancora una volta l’attaccamento del pubblico al cantautore calabrese, ma non è piaciuta alla sorella Anna, secondo la quale la figura di Rino è stata troppo romanzata. In effetti non deve essere stato semplice riassumere, in due sole puntate di una fiction, una personalità complessa e fuori dagli schemi come quella del cantautore. Quella personalità che rende ancora oggi le canzoni di Gaetano incredibilmente fresche e attuali.
“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.
Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.
“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».
L’HA DETTO LA TELEVISIONE? E’ FALSO! NON SPEGNETE LA TV, MA ACCENDETE LA LIBERTA’.
"Non spegnete la tv, ma accendete la libertà": l'inedito di Umberto Eco sulla televisione. La Tv è maestra, a volte cattiva, ma in modo non prevedibile. Come gli altri media. La lezione del grande semiologo ora diventa un volume, scrive Umberto Eco il 24 ottobre 2018 su "L'Espresso". L'intervento che qui anticipiamo, datato 1978, è integralmente contenuto nel volume "Sulla televisione" in uscita per La nave di Teseo. Otto o nove anni fa, quando mia figlia stava iniziando a guardare il mondo dalla finestra di uno schermo televisivo (schermo che in Italia è stato definito “una finestra aperta su di un mondo chiuso”), una volta la vidi seguire religiosamente una pubblicità che, se non ricordo male, sosteneva che un certo prodotto era il migliore al mondo, capace di soddisfare qualsiasi bisogno. Allarmato sul fronte educativo, cercai di insegnarle che non era vero e, per semplificare i miei argomenti, la informai che le pubblicità di solito mentono. Capì di non doversi fidare della televisione (in quanto, per ragioni edipiche, faceva di tutto per fidarsi di me). Due giorni più tardi stava guardando le notizie, che la informavano del fatto che sarebbe stato imprudente guidare lungo le autostrade del Nord per via della neve (un’informazione che soddisfò i miei più intimi desideri, dato che stavo disperatamente cercando di restare a casa per il fine settimana). Al che mi fulminò con uno sguardo sospettoso, chiedendomi come mai mi fidassi della tv visto che due giorni prima le avevo detto che raccontava bugie. Mi trovai costretto ad avviare una dissertazione molto complessa di logica estensionale, pragmatica dei linguaggi naturali e teoria dei generi allo scopo di convincerla che ogni tanto la televisione mente e ogni tanto dice il vero. Per esempio, un libro che comincia con “C’era una volta una bambina chiamata Cappuccetto Rosso e così via...” non dice il vero quando sulla sua prima pagina attribuisce la storia della bambina a un signore di nome Perrault. Solo lo psichiatra al quale mia figlia probabilmente si rivolgerà una volta arrivata all’età della ragione sarà in grado, direi, di constatare i danni consistenti che il mio intervento pedagogico ha provocato alla sua mente o al suo inconscio. Ma questa è un’altra storia. Il fatto, che ho scoperto proprio in quell’occasione, è che se si vuole usare la televisione per insegnare qualcosa a qualcuno bisogna prima insegnare come si usa la televisione. In questo senso, la televisione non è diversa da un libro. Si possono usare i libri per insegnare, ma per prima cosa bisogna spiegare come funzionano, almeno l’alfabeto e le parole, poi i livelli di credibilità, la sospensione dell’incredulità, la differenza tra un romanzo e un libro di storia e via dicendo. [...] Credo che i problemi legati all’uso educativo della televisione siano gli stessi di quelli legati ai suoi supposti effetti perversi. Può essere che la televisione, così come gli altri media, corrompa gli innocenti, ma lo fa indubbiamente in un modo non previsto da molti educatori (o da molti corruttori). Supponiamo che un marziano cerchi di estrapolare l’impatto della televisione sulla prima generazione cresciuta sotto la sua influenza (persone che hanno cominciato a guardarla all’età, poniamo, di tre anni nei primi anni cinquanta), quindi il nostro marziano potrebbe cominciare analizzando il contenuto dei programmi televisivi degli anni Cinquanta. Nutrita a forza di programmi come The $64,000 Question, soap opera, sceneggiati in stile Mary Walcott, pubblicità della Coca-Cola e film con John Wayne sulla seconda guerra mondiale, è probabile che quella generazione sia arrivata al 1968 con un buon posto di lavoro in banca, taglio militare e colletto bianco, una solida fede nell’ordine costituito e l’intenzione di sposarsi virtuosamente con la ragazza o il ragazzo della porta accanto. E invece, se non ricordo male quell’evento preistorico, nel 1968 è successo che questa “generazione televisiva” non ha cercato di ammazzare i giapponesi bensì i professori universitari, fumava la marijuana invece delle Marlboro, praticava lo yoga, la meditazione trascendentale, mangiava macrobiotico e così via. Lasciatemi aggiungere che quando la televisione propose capelloni che fumavano marijuana e mettevano fiori nelle canne dei fucili come nuovo modello per uno stile di vita “giovane”, la generazione successiva si tagliò i capelli, iniziò a usare le armi e a preparare bombe. Questo ci suggerisce che i giovani leggono la televisione in maniera diversa da chi la fa. Non credo che accada a caso: credo ci siano delle regole che governano lo spazio vuoto tra l’emissione e la ricezione di un programma televisivo. Bisogna conoscerle e bisogna soprattutto cercare di insegnarle, in particolare ai giovani. […] I sociologi che studiarono i mass media negli anni Quaranta e Cinquanta conoscevano già molto bene fenomeni come l’effetto boomerang, l’influenza degli opinion leader e la necessità di rafforzare il messaggio mediante una verifica porta a porta. Sapevano che tra il punto d’invio e quello di ricezione vi sono molti filtri attivati da schermi psicologici e sociali, o culturali. I primi test dopo l’arrivo della televisione nelle aree suburbane e depresse dell’Italia dimostrarono che moltissime persone guardavano i programmi serali come un continuum, senza alcun discrimine tra show, telegiornali o drammi. Tutto veniva preso allo stesso livello di credibilità, un assoluto guazzabuglio di competenza di genere. Per anni e anni, le aziende televisive hanno fatto affidamento su diversi tipi di indici di gradimento e si sono accontentate di sapere quante persone apprezzavano un determinato programma (un’informazione senza dubbio importante da un punto di vista commerciale) seppur ignorando quel che il pubblico realmente capiva del programma stesso. Detto questo, il gap comunicativo descritto poc’anzi è molto più complesso. Dobbiamo considerare non solo le differenze di codice fra mittente e destinatario, ma anche la varietà di codici che distinguono certi gruppi di destinatari da altri, in base al loro status sociale e alle loro propensioni ideologiche. E dovremmo considerare, anche da un punto di vista così flessibile, che il quadro resta incompleto dato che dovremmo anche tener conto del fatto che un dato soggetto appartiene a gruppi diversi a seconda del programma e dell’orario. Intendo dire che la persona X può valere come un lavoratore sensibile alla politica (quindi dotato di competenze economiche e politiche) quando guarda il telegiornale. Però la stessa persona X può sposare le predilezioni di un filisteo borghese quando guarda uno sceneggiato, tenendo in disparte le sue sensibilità in tema di ruoli sessuali, liberazione femminile o lotta di classe, anche se è capace di risvegliarle quando il televisore parla di salari, scioperi o diritti umani. Dovremmo essere consapevoli del fatto che lo stesso fenomeno accade ai bambini. I bambini possono essere estremamente sensibili ai valori ecologici quando la televisione stuzzica la loro competenza spontanea, già acquisita, circa il rispetto per gli animali, mediante una trasmissione sulla fauna selvatica. Ma lo stesso bambino, davanti a un western, parteciperà all’eccitazione del cowboy che parte al galoppo inseguendo i fuorilegge senza soffrire per il tour de force del cavallo, sfruttato senza pietà. Possiamo dire che anche in questo caso stiamo assistendo a una differenza tra codici? Possiamo dire che a seconda della situazione e dell’attivazione di una competenza di genere la stessa persona reagisce in base a codici culturali differenti? Dipende dal nostro accordo sulla nozione di codice culturale. [...]. Ma che succede al bambino che guarda il film western e, una volta accettate, le sue regole di genere non attivano la competenza sullo sfruttamento animale? Non riesco a immaginarmi lo stop del film con un presentatore che appare e dice “Fa’ attenzione al comportamento non etico dell’eroe”. O meglio, posso immaginarmi una situazione simile ma non nei termini di un intervento grammaticale, come nel caso della “metempsicosi”. Si tratterebbe piuttosto di una procedura di decontestualizzazione e decostruzione. [...] La televisione educativa ha avuto molti meriti. Un programma come Sesame Street ha insegnato a milioni di giovani americani che l’inglese della comunità nera è una lingua in tutto e per tutto, capace di esprimere gioia, arguzia, compassione, concetti. Ma mi piacerebbe vedere un programma che spieghi agli insegnanti come usare, ad esempio, il Johnny Carson Show al fine di prevedere cosa dirà a un giovane portoricano, a un giovane nero, a un giovane bianco protestante. Forse ciascuno di essi vede qualcosa di diverso in quel programma. Nessuna di queste interpretazioni è, in sé, un caso “aberrante”. La vera aberrazione è che tutti questi ragazzi non si rendono conto che il programma è lo stesso ma le interpretazioni variano. Ogni interpretazione riflette un diverso mondo culturale con codici differenti. [...]. Fino a che punto una formazione specifica nell’ambito delle arti visive consente di individuare meglio riferimenti visivi che (a loro volta) sono indispensabili per capire determinate situazioni narrative? Prendiamo i sottocodici estetici: ci sono differenti modelli di bellezza per il corpo umano così come in termini di arredamento, case e automobili, a seconda della tradizione nazionale, dell’adesione a una classe, di un’eccessiva esposizione televisiva ad altri modelli e così via. È importante mostrare che un dato programma fa uso di stereotipi, ma è anche importante vedere se questi stereotipi hanno lo stesso effetto su ciascun bambino della classe. […] Un’educazione criticamente orientata deve riconoscere il fatto che la televisione esiste e che è la principale fonte formativa per adulti e ragazzi. Ma un’educazione criticamente orientata deve far sì che gli insegnanti usino la televisione lorda come una fetta di mondo proprio come usano il tempo atmosferico, le stagioni, i fiori, il paesaggio per parlare dei fenomeni naturali. A questo punto la mia proposta per una televisione educativa riguarda, credo, non solo i bambini ma anche la formazione permanente degli adulti. Appena due giorni fa il primo ministro tedesco Schmidt ha scritto un lungo articolo sulla Zeit per manifestare la propria preoccupazione circa la tv, che assorbe gran parte del tempo libero dei suoi connazionali bloccando qualsiasi possibilità d’interazione faccia a faccia, soprattutto nelle famiglie. Schmidt ha quindi proposto che ciascuna famiglia decida di dedicare un giorno al rito di tenere il televisore spento. Un giorno a settimana senza televisione. Forse i tedeschi saranno così obbedienti da accettare la proposta. Spero solo che non lo facciano proprio nel momento in cui il governo sta promulgando una nuova legge! Comunque, se fossi nei panni di Schmidt, la mia proposta sarebbe diversa. Direi così: amici, connazionali, tedeschi (ma la proposta vale anche per gli inglesi), un giorno a settimana incontriamoci con altre persone e guardiamo la televisione in maniera critica tutti assieme, confrontando le nostre reazioni e parlando faccia a faccia di quello che ci ha insegnato o ha fatto finta di insegnarci. Non spegnete la televisione: accendete la vostra libertà critica.
Quella carovana di migranti che entusiasma il politically correct, scrive il 28 ottobre 2018 Michele Crudelini su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. In poche settimane è già diventata il simbolo dell’ala progressista americana e occidentale. L’hanno soprannominata “carovana dei migranti”, volendole così conferire un carattere innocuo e pittoresco. Una semplice carovana, al pari di quelle organizzate in occasione di alcune festività, è un qualcosa di pacifico e non potrebbe dunque rappresentare una minaccia. Come di consueto, la narrativa mainstream, con l’aiuto di una terminologia iperbolica e fotografie tatticamente estrapolate da contesti specifici, è riuscita a creare un “mito” nell’immaginario collettivo che, tuttavia, poco si avvicina a quella che è la realtà dei fatti.
Quanti sono davvero i migranti della carovana? Proviamo ad andare con ordine. All’inizio della scorsa settimana è iniziata a circolare la notizia, con foto annesse, che un nutrito gruppo di persone si sarebbero messe in marcia dall’Honduras con l’obiettivo di oltrepassare le frontiere di Guatemala e Messico per arrivare infine negli Stati Uniti. Il gruppo, beneficiando della possibilità di poter oltrepassare il confine guatemalteco solamente con il proprio passaporto, è arrivato dunque al confine con il Messico è lì si trova tuttora bloccato. Bene, partendo da questa ricostruzione, appositamente stringata e ridotta all’osso proprio perché si tratta degli unici eventi di cui si ha la certezza, proviamo a capire cosa è stato detto a sproposito e quelle che possono essere le interpretazioni di questo fenomeno. Innanzitutto i numeri. Non si riescono a trovare, infatti, due articoli di giornale che riportano lo stesso numero circa i partecipanti alla carovana. Secondo Rai News sarebbero attualmente 2mila, anche se non viene specificato quale fosse il numero iniziale. Stime decisamente più larghe arrivano invece da Askanews, dove si parla di 4mila persone. Molto più ridotta invece la stima del The Post International, secondo cui la carovana sarebbe composta da sole 1.600 persone.
Tutte le contraddizioni dei media sulla carovana. Non sono solo i numeri a creare confusione in questa vicenda. Anche lo stesso evolversi degli eventi non viene descritto in maniera chiara. Per esempio, sempre su Rai News, si può leggere così “migliaia di migranti dell’Honduras, di El Salvador e del Guatemala, componenti la carovana che marcia verso gli Usa, hanno sfondato, provenendo dal Guatemala, i cancelli e le reti di protezione della frontiera del Messico. Sono entrati nel territorio messicano e stanno avanzando verso gli Stati Uniti”, preludendo così ad un’avanzata senza intoppi. Nello stesso articolo viene però scritto che “molti altri sono bloccati sul ponte di confine tra Messico e Guatemala, dove si sono uniti ad altri manifestanti locali”, e nella foto pubblicata sono visibili alcune migliaia di persone proprio sul ponte. Se la maggior parte della carovana è bloccata sul ponte, chi ha sfondato la barriera con il Messico? Alla domanda prova a rispondere il Corriere della Sera, pur lasciando alcuni dubbi. Inizialmente afferma che “migliaia di migranti dell’Honduras hanno sfondato dal Guatemala i cancelli e le reti di divisione alla frontiera con il Messico a Tecun Uman”, per poi, quasi contraddirsi, poche righe più sotto, dove si afferma che in realtà “un primo gruppo di circa 30 persone ha attraversato il confine venerdì mattina e sono stati fermati dagli agenti del confine messicano che studieranno le loro domande di asilo o di visto”.
Chi è il vero organizzatore della carovana di migranti. Nel frattempo, quel che è certo, è che il Messico ha schierato alcune unità del proprio esercito lungo quel confine, proprio per evitare che alcuni impavidi migranti si avventurino attraverso il fiume per oltrepassare la frontiera. Difficile credere che poche migliaia di persone (numeri modesti anche per un corteo cittadino) abbiano vinto la resistenza della nutrita polizia messicana schierata al confine. Passando invece alle interpretazioni del fenomeno c’è, ovviamente, qualcosa di più profondo rispetto alla narrativa dominante che la carovana come un gruppo di persone alla ricerca di una nuova vita, in marcia proprio contro il Presidente dei “muri” e dei “confini”. I primi dubbi iniziano a sorgere quando si legge che dietro alla “carovana” ci sono alcuni organizzatori e tra questi risulta esserci tale Bartolo Fuentes. Si tratta di un ex politico honduregno legato al partito Libertad y Refundación che è attualmente all’opposizione nel Paese. Il governo honduregno sostiene che Bartolo Fuentes abbia “utilizzato le persone con finalità eminentemente politiche e persino criminali”. Inoltre non sarebbe la prima volta che lo stesso Fuentes viene riconosciuto come organizzatore di questi movimenti migratori, ruolo da lui stesso ammesso. Quest’ultimo però si difende sostenendo che queste persone stiano davvero scappando da una situazione di estrema crisi economica che colpisce l’Honduras.
L’Honduras è in una fase di crescita economica. Su questo punto sembrerebbe non esserci nulla da obiettare, sennonché il quadro macroeconomico dell’Honduras ci dà in realtà uno scenario ben diverso. Secondo la piattaforma Focus Economics, leader nella raccolta di statistiche economiche nei Paesi del mondo, “l’economia honduregna ha avuto una accelerazione nel secondo quadrimestre grazie ad una robusta domanda interna e i consumi privati sono molto aumentati”. Inoltre viene riportato come il reddito pro capite sia aumentato progressivamente dal 2013 al 2017 e il tasso di crescita del Pil sia passato dal 2.8% del 2013 fino ad arrivare ad un 4.8% nel 2017. Lo stesso tasso di disoccupazione è sceso dal 6.3% del 2016 al 5.9% del 2017. Certo, rimangono problemi legati alla criminalità organizzata e ad una sperequazione costante tra le campagne e i centri urbani. Tuttavia l’economia del Paese è in una fase di crescita e non sta attraversando una crisi tale da scatenare un esodo, come paventato da Bartolo Fuentes. Molto più probabile è che questa carovana rappresenti un’arma politica dell’opposizione honduregna volta a indebolire il Governo attraverso, in particolare, l’interruzione degli aiuti americani, ipotesi che è stata per l’appunto paventata da Donald Trump.
Perché la “carovana” umanitaria in Centroamerica fa male alla causa dei migranti. Duemila persone partite dall'Honduras chiedono di entrare negli Stati Uniti. Trump ha trasformato la questione in un tema elettorale potente, scrive Maurizio Stefanini il 18 Ottobre 2018 su "Il Foglio". Negli ultimi giorni, circa 2.000 persone partite dall'Honduras, nell'America centrale, stanno marciando verso nord in una “carovana” con l'obiettivo dichiarato di immigrare negli Stati Uniti. Queste “carovane” sono un fenomeno tipico latinoamericano (ce ne fu una anche a marzo, che si disperse in Messico), e sono più marce di protesta che veri movimenti migratori. Tuttavia, la loro presenza crea un panico sconsiderato tra i media statunitensi: duemila latinos sono pronti all'invasione! Questo panico è spesso strumentalizzato in chiave politica, e in periodo di mid-term questo movimento nato con intenti tutto sommato umanitari sta ottenendo l'effetto contrario: avvantaggia gli impulsi anti immigrati e spesso xenofobi dell'elettorato del presidente Donald Trump, che non a caso negli ultimi giorni ha fatto della “carovana” un tema di politica nazionale. Le duemila persone sono partite da San Pedro Sula, in Honduras, venerdì 12 ottobre: il giorno della scoperta dell'America. Erano all'inizio 160, ma presto le loro fila si sono ingrossate. “In Honduras non c'è lavoro e non c'è sicurezza”, la semplicissima motivazione. “Abbiamo fede che Dio ci aiuterà come quando aiutò il popolo di Israele a uscire dall'Egitto scampando al Faraone”, ha scritto su Facebook un simpatizzante dell'iniziativa. E un altro: “Geova guida e protegge Bartolo Fuentes così come fece con Mosè per liberare il suo popolo”. Bartolo Fuentes è il leader dell'iniziativa. Giornalista, fu da 2013 al 2017 deputato in Honduras con il partito di Manuel Zelaya: il presidente liberale che durante il suo mandato si trasformò in un simpatizzante di Chávez. Come humus ideologico, siamo dalle parti del classico populismo di sinistra latino-americano. Ma un populismo che in centroamerica da una parte si ormai solidamente innervato col linguaggio e l'immaginario delle sette evangeliche. Lunedì 15 ottobre i migranti hanno passato il confine col Guatemala, puntando verso il Messico e il confine con gli Stati Uniti. Martedì 16 Trump ha iniziato a preoccuparsi al punto da minacciare di tagliare gli aiuti all'Honduras se non avesse fermato la fiumana. Il vicepresidente Mike Pence ha fatto sapere di aver chiamato direttamente i presidenti Juan Orlando Hernández dell'Honduras e Jimmy Morales del Guatemala. Il Guatemala ha risposto arrestando Fuentes e rispedendolo in patria. Ma i suoi seguaci hanno continuato la marcia. Secondo quanto aveva spiegato lunedì Fuentes alla Cnn, l'intenzione dei marciatori era quella di chiedere al Messico dei “visti umanitari”. L'ambasciata americana in Honduras ha avvertito sui rischi del viaggio e ha preannunciato che gli Stati Uniti avrebbero fatto valere le proprie leggi sull'immigrazione. Cioè, che i migranti sarebbero stato respinti in blocco al confine. Il governo del Messico ha a sua volta avvertito che fermerà coloro che non hanno i documenti in regola, il che però vuol dire che chi li ha potrà entrare indisturbato: stessa posizione già presa dal governo del Guatemala. Cogliendo al balzo l'occasione, mercoledì 17 Trump è tornato sul tema: “E' difficile credere che, con migliaia di persone che stanno camminando senza ostacoli verso la frontiera sud, organizzati in grandi carovane, i democratici non vogliano approvare una legislazione che permetta leggi per la protezione del nostro paese. Questo è un grande tema di campagna elettorale per i repubblicani!”. Oggi (18 ottobre ndr) il presidente è tornato sulla questione e ha accusato il Partito democratico di “guidare l'assalto al nostro paese dal Guatemala, dall'Honduras e da El Salvador (perché loro vogliono frontiere aperte e vogliono mantenere le deboli leggi in vigore)”, ha detto che tra i migranti ci sono “MOLTI CRIMINALI” e ha aggiunto: “Oltre a bloccare gli aiuti a questi paesi, che sembrano non aver praticamente alcun controllo sulla loro popolazione, devo chiedere con estrema forza al Messico di bloccare questo assalto”, e se il Messico non sarà in grado di farlo Trump chiamerà l'esercito. Infine l'ultima minaccia: difendere i confini americani è più importante dell'accordo di libero scambio con Messico e Canada appena ratificato – come a dire: sono pronto a stralciare tutto. Sono tutte minacce vuote e strumentali, anche perché, come già successo a marzo, con ogni probabilità i migranti hondureñi si disperderanno da qualche parte in territorio messicano – ma non prima di far ottenere a Trump qualche vittoria retorica e perfino elettorale sul tema dell'immigrazione. La marcia dei migranti avrà effetti diametralmente contrari a quelli sperati dai suoi organizzatori.
Sono di sinistra ma non voglio gli africani. Lettera del 28 ottobre 2018 su "L'Espresso". "Cara Rossini, sono una persona di sinistra che ha votato per il Pci, Pds, Ds, Ulivo, Pd e il 4 marzo avrei votato Leu. Ma qualche giorno prima Grasso dice in Tv: "Siamo il partito dell'accoglienza!". Ho cambiato idea. Vorrei chiedere ai sigg. dell'accoglienza quanti ne dobbiamo accogliere: 1 milione, 10 milioni, 20 milioni? Perchè non lo dicono? Penso che se non si fermano non si fermeranno mai. Li salviamo in mare? Ma vanno riportati da dove vengono. Perchè Salvini ha raddoppiato i voti? Leu, invece, che prima del 4 Marzo era dato a molto di più del 6 % é sceso dopo al 3 %. Chissà se molti mi hanno imitato. Posso essere in disaccordo su questo argomento? Si parla di "migranti" quando dovrebbero chiamarsi "pretenziosi fuggitivi" che imbarcano su precari gommoni anche donne incinte e bambini per impietosire chi li salva. Li chiamerei anche sciagurati. Sono quasi tutti giovanotti con le spalle così che alla domanda (ne ho fatte tante sulla via Tiburtina) perchè sei venuto qui? Rispondono: per trovare una casa e un lavoro. Alla faccia! In Italia abbiamo migliaia di giovani laureati e non, senza lavoro e senza casa. Credo che tutti quelli che parlano di accoglienza, umanità, solidarietà, ecc. lo facciano solo per compiacimento personale come a dire: "vedete come sono buono e come sono bravo?". Oppure per interesse personale. Non possiamo fare da balia a un continente. Una riflessione che ritengo realistica è che se non si fermano non si fermeranno più. Fino ad avere un'Italia colorata in nero. Non sono razzista. Il razzismo non c'entra niente. Anzi viene usato a sproposito perchè il razzismo è ritenere una razza o un popolo superiore agli altri (Hitler, Mussolini). Discendiamo tutti da chi lasciò le orme a Laetoli. Mi vien da dire che è razzista ci lo dice agli altri. Si tratta di non volere flussi di altri popoli, che non sono ineluttabili, a casa nostra. La destra, che aborro, semplicemente non accetta, con diritto, pretenziosi fuggitivi. TV e giornali ripetono come litanie: "Gli africani trasportati qui sono doni di Dio, risorse, fuggono da guerre e fame, ci pagheranno le pensioni" et similia. Ha scritto su un noto bimestrale Carlo Lauletta, magistrato a riposo, che per destabilizzare l'Europa e al tempo stesso sottrarre all'Africa fresche energie e frenarne così lo sviluppo si è trovato un metodo infallibile: trasferire in Europa quanta più possibile popolazione africana. Donde: indebolimento delle strutture territoriali, guerra tra poveri, conflittualità permanente, disfunzionamento dei pubblici servizi fino al collasso dello Stato sociale. Questa è la posta in gioco. Ha detto Wolfgang Schaeubler giorni fa: "L'Europa attira persone da tutto il mondo". Che cosa ne vogliamo fare, una scatola di sardine?. Marcello Fagioli - Roma.
Il signor Fagioli ha affidato alla tastiera, e poi a noi, pensieri che da qualche tempo vengono in mente a molte persone di sinistra. E' una riflessione importante e sincera. Coloro che qui la vorranno commentare sono pregati di tenerne conto, evitando faziosità in un senso o nell'altro.
LA FINE DELLA DIVERSITA' MORALE. I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN...LA REPUBBLICA.
Repubblica contro Travaglio a colpi d’editoriale, scrive Giulia Merlo il 12 Agosto 2018 su Il Dubbio. Negli ultimi giorni è andato in scena, dalle pagine di Repubblica e del Fatto Quotidiano, uno scontro a tutto campo sul modo di fare giornalismo. Non è la prima e, ad azzardare dai toni, non sarà l’ultima. Rissa forse è il termine sbagliato, ma i decibel d’inchiostro sono quelli di uno scontro che vede contrapposte non solo due testate – il Fatto Quotidiano e Repubblica – e due giornalisti Marco Travaglio e Carlo Bonini ma due modi di fare giornalismo. Il caso scatenante, in questo agosto tutto sommato ancora tranquillo, sono una serie di notizie di cui mancano i tasselli necessari a metterle in relazione, ma che avrebbero potuto gonfiarsi fino a diventare uno scandalo: la fabbrica di fake news di San Pietroburgo; il fatto che dei 3 milioni di tweet “troll” prodotti in Russia circa 18mila fossero in lingua italiana; il tweetstorm della notte del 27 maggio contro il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo il veto sul nome di Savona al ministero dell’Economia, su cui la procura di Roma apre un’indagine. Travaglio, nel suo editoriale di giovedì, contesta a Repubblica e ai «giornaloni» di fabbricare «complotti un tanto al chilo», perchè avrebbero messo in relazione il tweetbombing contro Mattarella (attaccato dai sostenitori del governo gialloverde) con i troll russi, senza poi «chiedere scusa per tutte le balle raccontate» quando la Polizia Postale ha stabilito che non c’erano prove di un collegamento. La sintesi è la seguente: i giornali dell’establishment e l’establishment scalzato da Lega e 5 Stelle non sono in grado di giustificare la loro perdita di presa sull’elettorato e sui lettori, se non inventando «un complotto dei russi a suon di fake news». E poi ancora, Travaglio ironizza sul fatto che Repubblica, non paga del «boomerang» russo, scelga di pubblicare una serie di inchieste sul modo di utilizzare la rete da parte del Movimento 5 Stelle e dei suoi sostenitori. Anche in questo caso, le notizie non sarebbero di alcun interesse ma solo frutto di una teoria della cospirazione che è parte della campagna liberticida contro il web, condotta da Repubblica per ossequiare i poteri forti. All’attacco, duro e limato con la retorica irridente che è il marchio di fabbrica di Travaglio, risponde altrettanto duramente Carlo Bonini, editorialista di Repubblica. Il pezzo, a scanso di equivoci, si intitola “Il metodo Travaglio” e già rimanda ad un altro scontro tra giornalisti diventato celebre. La locuzione, infatti, è stata coniata da Giuseppe D’Avanzo – il giornalista di Repubblica scomparso nel 2011 e autore di inchieste a quattro mani con Bonini – che con questa intendeva «una pratica giornalistica che, con “fatti” ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/ spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. È un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target ( gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra)». Ecco, secondo Bonini, Travaglio «folgorato dai 5 Stelle della Casaleggio Associati» utilizza il solito metodo per attaccare Repubblica, mistificando i fatti e «mescolando titoli e ritagli di giornali diversi» in una «manipolazione necessaria al sabba di pernacchie» che trascura il merito di fatti (le campagne condotte dai produttori di fake news) di stanno discutendo «l’intero Occidente e gli stessi giganti della rete». Una querelle che nel merito risulta anche quasi scontata, nel suo essere figlia delle due diverse e opposte idee culturali (e politiche) che animano le testate. Più interessante, invece, è ricordare l’origine di quel “metodo Travaglio” stigmatizzato da D’Avanzo, in quello che, dieci anni fa, fu a tutti gli effetti il più aspro scontro tra i due mostri sacri dell’inchiesta giudiziaria italiana e la dimostrazione in chiaroscuro di come esistano due grandi fazioni anche tra le fonti che a loro si riferiscono nei palazzi di Giustizia della Penisola. In quel caso, l’origine dello scontro fu l’invettiva di Travaglio contro l’allora presidente del Senato, Renato Schifani, cui contestava «amicizie mafiose» per stigmatizzare la decadenza dell’attuale classe politica. È allora che D’Avanzo teorizza il “metodo Travaglio” e si esercita ad usarlo contro il suo inventore: cita, infatti, un’indagine della procura di Palermo farcita di intercettazioni, da cui risulta che Travaglio sia stato in vacanza in Sicilia con Giuseppe Ciuro, sottufficiale di Polizia Giudiziaria. A pagare l’albergo al giornalista sarebbe stato Michele Aiello, impresario della sanità siciliana, ed entrambi – sia Aiello che Ciuro – sono stati condannati per reati di mafia. Morale: «Anche Travaglio può essere travolto dal metodo Travaglio». Seguirono settimane di botte e risposta: Travaglio smentì non le vacanze con Ciuro ma il fatto che gli fossero state regalate, pubblicando assegni ed estratti conto di carta di credito del 2002; D’Avanzo rispose che Travaglio ammetteva dunque di aver trascorso le ferie con il «“criminale” Giuseppe Ciuro» anche nel 2003 e che di quel soggiorno avrebbe dovuto trovare i cedolini.
Dopo un decennio i toni non sono cambiati e non sono cambiate nemmeno le fazioni, ognuna col suo “metodo”. Scalfari nel mirino di Travaglio che punta ai lettori di sinistra di Repubblica, scrive Francesco Damato il 25 Novembre 2017 su Il Dubbio. Da un po’ di tempo non gliene va bene una al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Accade sempre più di frequente che le buste gialle delle Procure, come le chiama Piero Sansonetti, raggiungano la concorrenza, costringendo Travaglio ad elogiare gli scoppisti di turno. L’ultimo buco giudiziario l’ha rimediato dal Corriere della Serasulla vicenda di una collaboratrice del ministro dell’Economia accusata di passare notizie riservate ad una società della quale era stata dipendente continuando a percepire un compenso anche dopo essere passata alla pubblica amministrazione. Poi è arrivato il corteggiamento degli scissionisti del Pd come leader dello schieramento elettorale antirenziano di sinistra al presidente del Senato Pietro Grasso. Al quale Travaglio non ha mai perdonato di avere vinto il concorso, a suo tempo, al vertice della Procura nazionale antimafia grazie ad una legge dell’allora governo Berlusconi che aveva escluso dalla corsa lo sgradito Giancarlo Caselli. Piuttosto che vincere in quel modo, Grasso avrebbe dovuto rinunciare alla nomina, secondo il direttore del Fatto Quotidiano. Ed evitare poi di apprezzare il contributo dato da alcune iniziative dello stesso governo Berlusconi alla lotta alla mafia, mentre c’erano pubblici ministeri che sospettavano ancora, come anche oggi, lo zampino degli uomini di Arcore e dintorni addirittura nelle stragi mafiose che accompagnarono la fine giudiziaria e politica della cosiddetta e odiata prima Repubblica. Poi ancora sono arrivate le cronache dalla Corte europea dei diritti umani sulle crescenti possibilità di Berlusconi – sempre lui – di vincere il ricorso contro la sua decadenza da senatore, quattro anni fa, e la relativa ineleggibilità con l’applicazione retroattiva di una legge quasi fresca di approvazione. E già tanto controversa da indurre anche l’ex presidente della Camera Luciano Violante a consigliarne il rinvio alla Corte Costituzionale. Per giunta, la decadenza fu deliberata al Senato con votazione innovativamente palese, voluta e annunciata nell’aula di Palazzo Madama dal presidente Grasso col conforto di un improvvisato e stentatissimo parere della commissione competente. Come se non bastasse tutto questo, è arrivata sul Fatto la tegola di Eugenio Scalfari che in televisione annuncia di preferire nelle urne e dintorni il vecchio nemico Berlusconi – sì, proprio lui – al candidato grillino a Palazzo Chigi Luigi Di Maio. Be’, a questo il povero Travaglio non ha retto. E si è a suo modo vendicato improvvisando in prima pagina un invasivo montaggio fotografico titolato Berluscalfari. E liquidando come un tradimento delle origini la nuova veste grafica, oltre che politica, della Repubblica di carta fondata da Scalfari nel 1976 e da lui stesso diretta per i primi vent’anni. Poiché non bastava evidentemente il fotomontaggio, Travaglio si è speso in un lungo editoriale contro Barpapi, variante berlusconiana dell’affettuoso soprannome di Scalfari nelle redazioni da lui dirette: Barpapà. Una variante perfida perché ispirata al soprannome papy assegnato all’allora presidente del Consiglio da una diciottenne al cui compleanno lui era corso procurandosi un’infinità di sospetti, pettegolezzi e quant’altro su cui il compianto Giuseppe D’Avanzo aveva imbastito per la Repubblicadi vecchia maniera un processo mediatico contro Berlusconi ruotante attorno a dieci domande. E dieci sono state volutamente le volte in cui Travaglio ha commentato con la parolaccia ‘stracazzi’ la svolta filoberlusconiana attribuita a Scalfari. Mentre Travaglio già si godeva lo spettacolo di una sostanziale retromarcia del fondatore di Repubblica, anticipata dal condirettore Tommaso Cerno a Corrado Formigli, di Piazza pulita, gli è caduto addosso come un’altra tegola il testo dell’intervento correttivo di Scalfari. Che per i gusti del Fatto Quotidiano è stato persino peggiore, perché si è tradotto in un endorsement del Pd, che Scalfari ha annunciato di voler votare anche la prossima volta, sperando però che poi Renzi e Berlusconi si mettano d’accordo in funzione anti grillina, vista ormai la impraticabilità di una ricomposizione del centrosinistra comprensivo degli scissionisti Bersani, D’Alema e compagnia varia. D’altronde il fondatore di Repubblica era già finito nella gabbia metaforica degli imputati custodita dal Fatto per i suoi confessati rapporti di amicizia e quasi di scuola, fatti di incontri, telefonate, consigli e quasi compiti a casa con l’odiato Matteo Renzi, prima e dopo il referendum dell’anno scorso sulla riforma costituzionale. Che Scalfari votò e difese, per quanto inutilmente, dalle critiche anche di un vecchio amico e prestigioso collaboratore di Repubblica come Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale. Ora la sorveglianza, diciamo così, del Fatto Quotidiano su Repubblica sarà prevedibilmente più stretta e fastidiosa. L’ambizione neppure tanto nascosta di Travaglio, e del suo predecessore Antonio Padellaro, entrambi provenienti da un’esperienza difficile all’Unità, è di poter sottrarre alla ‘ nuova’ Repubblica i lettori della sinistra al cubo, da altri definita radicale senza rispetto per il compianto Marco Pannella, insoddisfatti del berlusconrenzismo attribuitole da Travaglio col piglio di un pubblico ministero. Sarebbe una parabola al rovescio della vecchia o primaRepubblica, che irruppe nelle edicole più di 41 anni fa danneggiando due giornali orgogliosamente di sinistra come l’Unità e Paese sera, dalle cui redazioni Scalfari aveva prelevato eccellenti professionisti. Ma erano altri tempi. E ben altri erano i protagonisti mediatici e politici.
Odifreddi smonta le bufale di Scalfari. E Repubblica lo silura. Il matematico che ha smontato le bufale di Scalfari sull'incontro con Papa Francesco: "Calabresi doveva scegliere tra me e lui. Era ovvio che scegliesse il fondatore", scrive Chiara Sarra, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Alla fine Piergiorgio Odifreddi ha pagato caro l'articolo sul suo blog in cui smontava una ad una le "fake news" di Eugenio Scalfari sull'incontro con Papa Francesco. Il matematico che da 18 anni collabora con Repubblica è infatti stato silurato dal quotidiano fondato proprio da Scalfari. "Dopo il post su Scalfari di ieri il direttore Calabresi, com'era non solo suo diritto, ma forse anche suo dovere, mi ha comunicato che la mia collaborazione a Repubblica termina qui", scrive oggi Odifreddi nel suo commiato. In cui ricorda i precedenti "problemi di coabitazione" con il gruppo e si richiama alla "funzione sociale dell'intellettuale" che secondo Moravia "è di essere antisociale": "È forse dunque una mia colpa sociale, l'aver sempre cercato di dire ciò che pensavo, anche quando sarebbe stato più comodo o più utile (e a volte, forse, anche più corretto o più giusto) tacere", scrive ancora, "Ma ciascuno di noi è fatto a modo suo, e io sono fatto così. Dunque, un grazie a tutti, e a risentirci magari altrove". Poi, a Un giorno da Pecora su Rai Radio 1, Odifreddi ha spiegato che l'articolo in questione è stato pubblicato nel giorno dedicato al "fact checking", il controllo delle notizie. "In tal senso, Scalfari è recidivo", attacca ancora, "Lo dice il portavoce del Vaticano, che per tre volte lo ha censurato dicendo che aveva messo in bocca al Papa cose che non aveva detto. Che dica di esser andato dal Papa senza averlo fatto mi parrebbe eccessivo. Lui però fa sempre così: va a fare interviste senza prendere appunti e senza registratori, e poi dice quello che crede il suo interlocutore voglia dire. Una volta lo ha anche ammesso: io ho detto cose che il Papa non ha detto. Che affidamento si può fare in interviste di questo tipo?". E su Calabresi ha aggiunto: "È ovvio che dovendo scegliere tra me e Scalfari ha scelto il fondatore di Repubblica. Ma è il suo ruolo, io non ci sono rimasto male ed in parte me lo aspettavo". "Ciò non accade per le critiche a Scalfari, che sono lecite e fanno parte di un libero dibattito, ma per quello che hai scritto del giornale con cui collabori da anni", replica però Mario Calabresi, "Il problema è che non si può collaborare con un giornale e contemporaneamente sostenere che della verità ai giornalisti non importa nulla. Che oggi serva di più pubblicare il falso del vero. Questo è inaccettabile e intollerabile, non solo per me ma per tutti quelli che lavorano qui. Facciamo il nostro lavoro con passione e con professionalità e la gratuità delle tue parole di ieri ci ha fatto male. Tu sai di aver sempre goduto della massima libertà, ma l’unica libertà che non ci si può prendere è quella di insultare o deridere la comunità con cui si lavora. Mi aspettavo tu fossi conseguente con questa presa di posizione e ora non posso che dirti buona fortuna".
Odifreddi su Repubblica ora smonta le bufale di Scalfari su Francesco. Il matematico Giorgio Odifreddi attacca il quotidiano su Repubblica la stessa Repubblica e il suo fondatore, scrive Luca Romano, Lunedì 02/04/2018, su "Il Giornale". "Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di Papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa". A scriverlo, sul blog che tiene su Repubblica, è il matematico Giorgio Odifreddi. Che sostanzialmente attacca il quotidiano su cui scrive. Tema del contendere è l'intervista inventata a Papa Francesco e scritta da Scalfari. "Il fatto è che Scalfari - continua Odifreddi - non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre "interviste" pubblicate su Repubblica il 1 ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del Papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica". E le bordate poi continuano: "Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente “stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro” (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste. Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, “alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette”. Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo Repubblica". Odifreddi poi prende di mira anche il giornale: "Rimane il secondo problema, che è perché mai Repubblica non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale".
E "Repubblica" denuncia le fake news di Scalfari. Odifreddi smaschera il fondatore sul suo stesso quotidiano: "Scrive bufale su Papa Francesco", scrive Stefano Zurlo, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Repubblica contro Repubblica. Piergiorgio Odifreddi versus Eugenio Scalfari. Parole durissime in un cortocircuito mediatico stupefacente che chiama in causa, nientemeno, papa Francesco. Come si sa, il fondatore di Repubblica ha il privilegio di un rapporto a tu per tu con Bergoglio. E viene invitato con una certa regolarità a Santa Marta, la residenza di Francesco. Il problema è che ogni volta il giornalista trasforma questi colloqui privati in interviste pubbliche. Confezionate senza prendere un appunto, senza registrare, senza rimandare il testo, non concordato, all'autore. Cosi Scalfari in versione pasquale è arrivato ad attribuire a Bergoglio una fake news, come la chiama, impietoso, Odifreddi, senza capo né coda: l'inferno non esiste, le anime dei dannati svaniscono. Odifreddi, matematico, divulgatore scientifico e firma di Repubblica, colpisce con asprezza il creatore del quotidiano, innescando un duello surreale, tutto interno al giornale. «Vale la pena soffermarsi - nota dunque Odifreddi - su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l'ultima solo pochi giorni fa». Di che si tratta? C'è solo l'imbarazzo della scelta, a quanto si può vedere. Il punto è che il canovaccio si ripete: «Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neoeletto Francesco nell'inesistente stanza accanto a quella con il balcone che da su piazza San Pietro (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti) all'ultima novità che secondo il papa l'inferno non esiste». Affermazione che obiettivamente farebbe a pezzi duemila anni di cristianesimo, anche se un teologo grandissimo come Hans Urs Von Balthasar ha sempre ripetuto: l'inferno c'è ma spero sia vuoto. Dispute teologiche. La questione che resta insoluta è un'altra: perché al di là delle puntuali smentite del Vaticano, Francesco non sia intervenuto per bloccare questa catena di incidenti. Odifreddi, ateo con una mentalità da cinico positivista dell'Ottocento, butta pure un po' di fango addosso a Francesco, azzardando ipotesi maliziose di strategia mediatica: Bergoglio accetterebbe lo sconquasso per ingraziarsi il secondo giornale italiano, passato da una linea laica a una posizione filovaticana. Odifreddi non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che Bergoglio ragioni da prete, da pastore e si preoccupi della persona che ha davanti, della sua anima si sarebbe detto a catechismo, del percorso problematico e accidentato cominciato da Scalfari. È quel che risulta al Giornale: i colloqui fra i due sono in realtà, monologhi, o quasi, di Scalfari. Più interessante l'altra puntura di spillo di Odifreddi: perché non sia Repubblica a bloccare le fake news del suo illustre ex direttore. «Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali - è la risposta ustionante che il commentatore si dà da solo - non interessano le verità, ma gli scoop». Se fanno il giro del mondo, anche le bufale vanno bene. E cosi il collaboratore di Repubblica toglie ogni credibilità a Repubblica.
Le “fake news” di Scalfari su papa Francesco, scrive il 2 aprile 2018 Piergiorgio Odifreddi su "La Repubblica". Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. Com’è ormai noto urbi et orbi, Scalfari ha ricevuto nel settembre 2013 una lettera dal nuovo papa. Fino a quel momento, per chi avesse seguito anche solo di lontano la cronaca argentina, Bergoglio era un conservatore medievale, che nel 2010 aveva scandalizzato il proprio paese con le proprie anacronistiche prese di posizione contro la proposta di legge sui matrimoni omosessuali, riuscendo nell’ardua (e meritoria) impresa di coalizzare contro di sé un fronte moderato che fece approvare in Argentina quella legge, ben più avanzata delle timidi disposizioni sulle unioni civili approvate nel 2016 in Italia. Dopo la sua lettera a Scalfari papa Francesco si è trasformato per lui, e di riflesso anche per Repubblica, in un progressista rivoluzionario, che costituirebbe l’unico punto di riferimento non solo religioso, ma anche politico, degli uomini di buona volontà del mondo intero, oltre che il papa più avanzato che si sia mai seduto sul trono di Pietro dopo il fondatore stesso. Fin qui tutto bene, o quasi: in fondo, chiunque ha diritto di abiurare il proprio passato di “uomo che non credeva in Dio” e diventare “l’uomo che adorava il papa”, andando a ingrossare le nutrite fila degli atei devoti, o in ginocchio, del nostro paese. Il fatto è che Scalfari non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre “interviste” pubblicate su Repubblica il 1 ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica. Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente “stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro” (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste. Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, “alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette”. Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo Repubblica. Il primo problema è perché mai il papa continui a incontrare Scalfari, che non solo diffonde pubblicamente i loro colloqui privati, ma li travisa sistematicamente attribuendogli affermazioni che, facendo scandalo, devono poi essere ufficialmente ritrattate. Sicuramente Bergoglio non è un intellettuale raffinato: l’operazione (fallita) di pochi giorni fa, di cercare di farlo passare ufficialmente per un gran pensatore, suona appunto come un’excusatio non petita al proposito, e non avrebbe avuto senso per il ben più attrezzato Ratzinger (il quale tra l’altro se n’è dissociato, con le note conseguenze). L’avventatezza di papa Francesco l’ha portato a circondarsi autolesionisticamente di una variopinta corte dei miracoli, dal cardinal Pell alla signora Chaouqui, e Scalfari è forse soltanto l’ennesimo errore di valutazione caratteriale da parte di un papa che non si è rivelato più adeguato del suo predecessore ai compiti amministrativi. Non bisogna però dimenticare che Bergoglio è comunque un gesuita, che potrebbe nascondere parecchia furbizia dietro la propria apparente banalità. In fondo, un minimo di blandizia esercitato nei confronti di un ego ipertrofico gli ha procurato e gli mantiene l’aperto supporto di uno dei due maggiori quotidiani italiani, che è passato da una posizione sostanzialmente laica a una palesemente filovaticana. Se da un lato Bergoglio può ridersela sotto i baffi dell’ingenuità di uno Scalfari, che gli propone di beatificare uno sbeffeggiatore dei gesuiti come Pascal, dall’altro lato può incassare le omelie di un Alberto Melloni, che dal 2016 ha trovato in Repubblica un pulpito dal quale appoggiare le politiche papali con ben maggior raffinatezza, anche se non con minore eccesso di entusiasmo. A little goes a long way, si direbbe nel latino moderno. Rimane il secondo problema, che è perché mai Repubblica non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale. Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali non interessano le verità, ma gli scoop: cioè, le notizie che facciano parlare la maggior parte degli altri giornalisti e degli altri giornali. E se una notizia falsa fa parlare più di una vera, allora serve più quella di questa. Dire che il papa crede all’esistenza dell’Inferno è ovviamente una notizia vera, ma sbattuta in prima pagina lascerebbe indifferenti la maggior parte dei giornalisti e dei giornali. Per questo Scalfari scrive, e Repubblica pubblica, che il papa non crede all’Inferno: perché altri giornalisti e altri giornali lo rimbalzino per l’intero mondo. Il vero problema è perché mai certe cose dovrebbero leggerle i lettori. Che infatti spesso non leggono le fake news, e a volte alla fine smettono di leggere anche il giornale intero. Forse la meditazione sul perché i giornali perdono copie potrebbe anche partite da qui, nella Giornata Mondiale del Fact Checking.
La censura viene da lontano. Censura a Repubblica: “cancellato” Odifreddi. La censura colpisce ancora: sul sito del quotidiano sparisce un post di Odifreddi. E lui ritira il suo blog, scrive Roberto Scafuri, Mercoledì 21/11/2012, su "Il Giornale". La censura colpisce ancora. Capita, sul sito di Repubblica, al professor Piergiorgio Odifreddi, colpevole di aver postato un commento abbastanza aspro sulla situazione in Medioriente, dove paragona il comportamento attuale del governo israeliano a quello dei nazisti. Il suo articolo, inserito nel blog “Il non senso della vita”, è stato inopinatamente e unilateralmente eliminato dal quotidiano on-line. Odifreddi ha deciso di ritirare il blog, argomentando che nella vita “ci sono momenti in cui, candidamente, bisogna ritirarsi a coltivare il proprio giardino”. Se finora la direzione del giornale e i curatori del sito avevano difeso il diritto di opinione senza preoccuparsi troppo delle inevitabili lagnanze – ha scritto Odifreddi – anche loro “hanno dovuto soccombere di fronte ad altre lagnanze, questa volta sicuramente in ebraico”.
Così De Benedetti rottama Scalfari e demolisce Repubblica, scrive Paolo Delgado il 19 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Lo scontro dentro il quotidiano diretto da Mario Calabresi. Anche con le migliori intenzioni è difficile evitare la sensazione di una rotta un po’ sgangherata. Ieri il cdr di Repubblica ha risposto con un comunicato durissimo alle critiche del suo stesso editore, Carlo De Benedetti, che «si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta». Poi i redattori si sono riuniti in assemblea per fronteggiare l’assalto del «nemico interno». Immancabilmente nei prossimi giorni arriverà la replica, prevedibilmente rigida, del padre fondatore strapazzato dall’Ingegnere dal salottino tv di Lilli Gruber: Scalfari «l’ingrato» a cui De Benedetti ha «dato un pacco di miliardi», il «vanitoso» che tra Berlusconi e Di Maio ha scelto il primo invece di rispondere come da copione «né l’uno né l’altro», il «signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Il rimbambito, insomma. Non è stata solo la violenza davvero inusuale degli attacchi dell’editore a Repubblica e all’ex amico Scalfari a suscitare quell’impressione di caduta degli dei che si ricavava inevitabilmente dall’intervista di Carlo De Benedetti. L’Ingegnere voterà Pd, però, come si diceva ai bei tempi, turandosi il naso, avendolo Renzi deluso. Sul caso increscioso di insider training sulla riforma delle Popolari, poi, l’editore di Repubblica si è arrampicato palesemente sugli specchi, essendo a disposizione del colto e dell’inclita l’intercettazione che lo sbugiarda. Il segreto della sbandata mediatica sta probabilmente in quella telefonata ricevuta dal nemico di sempre, Silvio Berlusconi, «dopo la stupidaggine che ha detto Scalfari». Il Cavaliere offriva la pace in nome dell’asse contro il nemico comune, quell’M5S che De Benedetti, Scalfari, Berlusconi, Renzi e Moscovici, divisi su tutto il resto, considerano il pericolo pubblico numero uno nella Penisola. L’offerta è stata respinta al mittente con il dovuto gelo: «Ho risposto che non faccio politica». Ma il senso di quella stupefacente telefonata resta tutto: a comporre il numero è stato chi dalla guerra iniziata trent’anni fa a Segrate esce oggi vincitore, vicino a trionfare sul fronte decisivo che col tempo è diventato quello della politica e non più quello della competizione aziendale a colpi di sgambetto. Quando è cominciata la guerra il Cavalier Berlusconi e l’Ingegner de Benedetti erano due industriali rampanti, molto diversi ma con in comune qualcosa che avrebbe potuto persino spingerli verso un’alleanza. Erano gli intrusi, i nuovi arrivati che tentavano di incrinare e infrangere il potere assoluto delle grandi famiglie del capitalismo italiano: erano parvenu. Seguivano strategie distinte: l’Ingegnere manteneva un piede fuori e uno dentro il mondo dei salotti comme il faut, il Cavaliere tentava l’arrembaggio solo dall’esterno. Politicamente appoggiavano e si appoggiavano a partiti diversi ma alleati nel pentapartito. De Benedetti, intimo di Bruno Visentini, era vicino al Pri, il partito di La Malfa, Spadolini e della borghesia illuminata. Berlusconi si beveva Milano e non solo quella con il socialista grintoso, Bettino Craxi. Si diedero battaglia, per questioni d’interesse ma anche per incompatibilità di carattere. Lo sbotto di Berlusconi alla notizia di quella soffiata di Renzi che permise all’ingegnere di guadagnare 600mila euro di plusvalenze in un batter d’occhio, «L’hanno preso con le mani nella marmellata», era di cuore. I duellanti hanno incrociato le lame davvero su tutti i fronti: in quello torbido delle scalate aziendali, nelle aule di tribunale, con un risarcimento di quasi mezzo miliardo versato dal proprietario Fininvest a quello Cir come risarcimento per l’acquisizione con mezzi indebiti di Mondadori, ma anche nelle battaglie navali tra fregate mediatiche e poi, sempre di più, direttamente nell’agone politico. Il sire di Arcore in prima persona, costretto dalla repentina uscita di scena del suo protettore Craxi, a impegnarsi direttamente per difendere il suo biscione. De Benedetti invece ha sempre preferito tenersi dietro le quinte, ma se c’è stato un vero capo del centrosinistra, diretto antagonista del Cavaliere nel ventennio e passa che gli storici definiranno sbrigativamente ‘ il berlusconismo’, è proprio lui. Quando De Benedetti vantò «la tessera numero uno» del Pd Veltroni di fatto confermò fingendo di smentire: «Quella fu una boutade! Certo però i suoi giornali hanno avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione della sinistra italiana. La sua è una cultura non ideologica ma molto seria, rispettosa della produttività dell’impresa e delle regole del gioco e attenta alla giustizia sociale». Una fotocopia del dna che, secondo il suo primo segretario, il Pd avrebbe dovuto poter vantare. Oggi quel partito moderato di sinistra che doveva veicolare la rappresentanza del nuovo capitalismo rampante italiano, diverso da quello all’arrembaggio di Berlusconi ma anche da quello eterno delle grandi famiglie è alle corde. Se il deludente di Rignano tornerà al governo, e di certo non in prima persona ma per interposto Gentiloni, sarà grazie all’alleanza col nemico di Arcore, il cui prezzo sarà certamente esoso. Se si dovrà tornare alle urne in breve tempo, a giocarsi la partita saranno la plebe stracciona di Di Maio e quella ripulita di Berlusconi, che è anche il solo attore politico a poter sperare in una vittoria secca il 4 marzo. Il partito modellato dall’esterno da De Benedetti, dopo la guerra dei trent’anni è un comprimario guidato da un leader di cui lo stesso ingegnere ha detto chiaramente, di fronte alla commissione parlamentare sulle banche che «di economia, onestamente, ci capisce veramente poco» e che in privato pare definisca più sinteticamente: «Un cazzone». Se del caso, Carlo De Benedetti, il riformista illuminato ha sempre giocato durissimo. Non a caso nel breve periodo trascorso in Fiat prima di essere messo alla porta dall’Avvocato lo chiamavano la tigre perché, come scriverà decenni più tardi Stefano Merlo, era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli». Ma stavolta non si tratta solo di mano pesante. Se davvero ci fosse la mano dell’Ingegnere dietro il falso scoop della Stampa, titolone con notizia di un’indagine sulla vendita del Milan adoperata a scopo di maxi- riciclaggio da Berlusconi seguito da drastica smentita del procuratore Greco, sarebbe un preciso segnale di disperazione e sbandamento. A peggiorare la situazione ci si mette del resto anche l’appello del processo per i morti d’amianto alla Olivetti di Ivrea. Il primo grado si è concluso con una condanna a cinque anni per l’Ingegnere. Se la sentenza fosse confermata il rischio di dover seguire la strada di Berlusconi, tra carcere e affidamento ai servizi sociali, diventerebbe molto concreto. Ma in questa italianissima Guerra dei trent’anni (per ora) colpi di scena e ribaltamenti imprevisti non sono mai mancati. Non è detto che sia finita qui.
De Benedetti, le cene eleganti e "la Repubblica". Al giornale fondato da Scalfari non hanno gradito le esternazioni dell'editore: ha violato la regola del "si fa ma non si dice", scrive il 19 gennaio 2018 su Panorama Giorgio Mulè. Dalle parti di Repubblica hanno un'idea di sé molto prossima a una chiesa. Pontificano su tutto e su tutti: distribuiscono patenti di moralità a destra e manca, segnano a dito i reprobi, si elevano a castigatori dell'umanità politica e giornalistica. Si prendono sul serio: hanno i loro riti, rivendicano di essere una comunità pregna di valori (ah, i valori...), hanno un gran sacerdote in Eugenio Scalfari che santifica ogni domenica con un sermone spesso autocelebrativo e un editore che non è transeunte ma al contrario è eterno e assoluto. Il nome di quest'ultimo è Carlo De Benedetti. Quella di Repubblica è in realtà una chiesa sconsacrata perché è popolata di peccatori e finti moralisti. Tanto per capirci: a quella chiesa è capitato di azzannare gli "infedeli" sulle furberie salvo poi scoprire che il suo direttore aveva acquistato un attico ai Parioli dichiarando nell'atto un prezzo inferiore di 850 milioni di lire versati in nero con assegni da 20 milioni ciascuno; a quella chiesa è successo di imbastire una campagna feroce contro i giornalisti puzzoni di destra (per loro essere di destra è già un'offesa grave) sulla "macchina del fango" attivata con gli articoli sulla casa di Montecarlo della premiata ditta Fini-Tulliani salvo poi scoprire che era tutto vero e non avvertendo se non il pudore almeno la necessità di chiedere scusa. Mi fermo qui per non rubare spazio al protagonista di questo articolo e dunque torno a De Benedetti. Nella chiesa sconsacrata lui è il Deus ex machina, l'elemento che nel teatro greco risolveva le tragedie. L'Ingegnere è persona astutissima incappato spesso nelle maglie della giustizia. Tanto per dire, tra qualche giorno dovrà affrontare un processo d'Appello al quale arriva con una condanna a cinque anni e due mesi di carcere per omicidio colposo plurimo per le morti causate dall'amianto alla Olivetti. Pochi giorni fa, poi, sono stati rivelati un'intercettazione telefonica e un verbale del medesimo sulla vicenda delle banche popolari. Lettura interessantissima negata in massima parte ai lettori di Repubblica, abituati a ingurgitare in questi anni paginate e paginate di intercettazioni telefoniche di ogni genere farcite da immancabili pistolotti moralisteggianti destinati a rimanere invenduti persino ai saldi delle indulgenze. Ma tant'è. De Benedetti, al telefono con la persona che ne cura gli investimenti, sa per certo che arriverà un decreto sulle banche popolari e assicura: "Passa, ho parlato con Renzi, passa...". De Benedetti fa investire 5 milioni di euro acquistando titoli delle popolari e quattro giorni dopo il Consiglio dei ministri approva il decreto che impone alle banche di trasformarsi in società per azioni. I titoli salgono e l'Ingegnere porta a casa, cotto e mangiato, un guadagno di 600 mila euro. Chiamato dalla Consob a spiegare il tutto (la Procura di Roma poi archivierà), De Benedetti ricostruisce il suo rapporto con Renzi e rivela i rapporti con altri ministri. Dalla lettura ricaviamo che "normalmente" De Benedetti e Renzi "fanno breakfast" (sarebbe la prima colazione della plebe) insieme a palazzo Chigi. Succede perché Renzi è stato folgorato quando era ancora sindaco di Firenze dalla levatura di Don Carlo e gli disse quando si davano del lei: "Senta, io avrei il piacere di poter ricorrere a lei per chiederle pareri, consigli quando sento il bisogno". Accolta la richiesta del discepolo, l'Ing. diventò "l'advisor gratuito, saltuario e senza impegni" del segretario Pd ma puntualizzò: "Guardi, va benissimo. Non faccio... non stacco parcelle però sia chiara una roba: che se lei fa una cazzata io le dico: caro amico è una cazzata". In sintesi si riservò "il diritto di dirgli che era un cazzone quando mi sembrava fosse il caso". A giudicare dai risultati ottenuti da Renzi, il "cazzometro" non deve aver mai registrato importanti oscillazioni. Di sicuro bisogna dare credito all'Ingegnere quando racconta di aver cercato di trasferire più o meno inutilmente a Renzi, tra un caffè e un cornetto, elementi di economia in quanto l'ex premier, come milioni di italiani sanno, "di economia capisce onestamente poco". Il discepolo un po' somarello in economia si fidò del Maestro sul Jobs act con i risultati che conosciamo (la creazione di una valanga di precari). E infatti l'Ingegnere ricorda: "Io gli dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il Jobs act è stato - qui lo dico senza, senza vanto, anche perché non mi date una medaglia - ma il il Jobs act gliel'ho... gliel'ho suggerito io all'epoca come una cosa che poteva secondo me essere utile e che, di fatto, lui poi è stato sempre molto grato perché è l'unica cosa che gli è stata poi riconosciuta". Colui che si definisce "l'ultimo grande vecchio che è rimasto in Italia... non per merito ma per decorrenza dei termini" entra ed esce dalle stanze del potere. In realtà preferisce ricevere in casa. Siccome il breakfast è riservato a Renzi c'è spazio per i dinner. Insomma, dà vita e vere e proprie cene eleganti con esponenti del governo che si abbeverano alla sua saggezza: "Sono molto amico di Elena Boschi, ma non la incontro mai a Palazzo Chigi. Lei viene sovente a cena a casa nostra ma non…diciamo io, del Governo vedo sovente la Boschi, Padoan. Anche lui viene a cena a casa mia e basta. Perché poi sa, quello lì si chiama Governo, ma non è un Governo, sono quattro persone, ecco". Dopo questo inno alla collegialità e lette queste confessioni, a Repubblica si sono resi conto che l'Ingegnere l'ha fatta fuori dal vaso. Perché ha contravvenuto alla prima regola della casa, pardon! della chiesa sconsacrata: si fa ma non si dice.
(L'editoriale del direttore di Panorama è stato pubblicato sul numero del 18 gennaio 2018 del settimanale con il titolo: "Le cene eleganti di quell'elegantone dell'ingegnere")
De Benedetti, quando l’ingegnere vestiva alla marinara, scrive Paolo Delgado il 5 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Il ritratto di Carlo De Benedetti. Galeotto fu Silvio, e non per a prima volta. Tra Eugenio Scalfari, decano dei direttori italiani, capo del partito dei moralizzatori in pianta stabile, e Carlo De Benedetti, finanziere spericolato in apparenza e freddo come il ghiaccio nella sostanza, editore democratico e di sinistra per antonomasia, volano scintille per quell’incauta apertura del barbuto direttore sulla possibilità di votare addirittura per il Cavaliere del Male pur di sbarrare la strada ai barbari con la bandiera a cinque stelle. Non è la prima volta che capita. Però nella precedente occasione le parti erano invertire: a flirtare con l’infrequentabile, provocando la levata di scudi del giornalista intrepido, era stato nel 2005 l’Ingegnere, sino a quel momento nemico giurato del reprobo di Arcore. Un fondo comune per le aziende in crisi e un’offerta a sorpresa di Berlusconi: «Tu ci metti 50 milioni? Niente in contrario se faccio lo stesso anche io?». «Ma figuriamoci». Ad avere qualcosa in contrario fu però Scalfari e non risparmiò la rampogna neppure quando De Benedetti, preso di mira, ingranò la retromarcia. Al contrario Scalfari pontificò alla grande invocando «il legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale». Poi, giusto per chiarire: «Forse Carlo De Benedetti non aveva valutato a fondo l’ampiezza di questo disagio». Prima di quel disagiatissimo momento solo una volta l’ombra del divorzio aveva aleggiato sul felice sodalizio: quando nel 1993, nel pieno vortice di tangentopoli, l’Ingegnere era finito in manette. Scalfari vide incrinarsi «i profondi e comuni convincimenti romani», ammise di considerare il divorzio, poi scelse di soprassedere. L’imputato è poi uscito dal guaio legato agli appalti per le Poste pulitissimo. Un po’ per assoluzione, un po’ per prescrizione. Il duello eterno tra l’Ingegnere e il Cavaliere è stato combattuto negli ultimi decenni su tutti i fronti: in Borsa, nelle manovre losche ai margini delle grandi scalate, nelle aule processuali, sulle colonne delle grandi testate giornalistiche, nell’arena di una politica legata a filo triplo agli scontri tra potentati economici e finanziari. Non è un caso che quando Berlusconi aprì il sipario sulla sua avventura politica con il famoso endorsement a favore di Fini nella sfida per la guida di Roma, nel 1993, il primo a rimbeccarlo notificando che lui invece avrebbe votato per Rutelli fu proprio De Benedetti. C’è il rischio però che quella lunghissima disfida nasconda il braccio di ferro precedente e quasi altrettanto lungo tra De Benedetti e l’industriale che nel panorama economico- finanziario italiano rappresentava in tutto e per tutto l’opposto esatto di Silvio Berlusconi: l’Avvocato Gianni Agnelli, signore incontrastato dei salotti buoni dell’altissima borghesia italiana. Il rapporto tra il futuro Ingegnere e la famiglia Agnelli nasce sui banchi di scuola dove studiavano fianco a fianco il figlio dell’industria-le ebreo torinese di media taglia Rodolfo De Benedetti e Umberto Agnelli. I pargoli sono entrambi del 1934 frequentano lo stesso ambiente – quello descritto da Susanna Agnelli nel suo “Vestivamo alla marinara” – si trovano nella stessa classe. La famiglia De Benedetti aveva lasciato l’Italia per la Svizzera con l’avvento delle leggi razziali e decenni dopo l’esule diventato nel frattempo uno dei principali industriali italiani avrebbe reso omaggio all’ospitale Elvezia prendendo la cittadinanza svizzera pur se continuando a pagare le tasse nella natìa penisola. Umberto non aveva avuto di questi problemi ma quando i due diventano amiconi quei tempi bui sono alle spalle. Il neo Ingegnere acquista in tandem col fratello Franco, futuro senatore, una società di affari immobiliari, la Gilardini e la trasforma anno dopo anno in holding di rilievo specializzata nel settore metalmeccanico. Nel ‘ 76, grazie all’amicizia con Umberto Agnelli, diventa amministratore delegato Fiat: vende la Gilardini e investe i proventi in azioni Fiat. Se ne va sbattendo la porta quattro mesi dopo: «E’ uno a cui piace comandare in casa propria», commenta ironico l’Avvocato. Vendute le azioni Fiat l’Ingegnere compra quelle della Cir e si ritrova così editore di Repubblica e dell’Espresso. Rivale degli Agnelli su tutti i fronti, incrina il fronte degli industriali compattamente anti Pci, intrecciando relazioni con il partito che i salotti buoni ancora considerano nemico irriducibile. Incontenibile passa alla Olivetti, dove sfodera un piglio autocratico opposto a quello sbandierato in politica, del resto è proprio lui a spiegare che gli industriali e la politica attiva sono poco compatibili: un buon politico deve essere democratico, un imprenditore capace deve invece essere dittatoriale. La guerra con Berlusconi inizia quasi per caso. De Benedetti ha messo gli occhi sulla Sme, gigante del settore alimentare. Romano Prodi, dagli spalti dell’Iri, vende a prezzi di sconto nel 1985. Craxi cerca qualcuno da opporre all’editore che dalle colonne di Repubblica lo cannoneggia quotidianamente e punta sull’emergente Silvio Berlusconi per organizzare una cordata alternativa. L’affare Sme va a monte la faccenda si concluderà solo nel 1992 con lo spezzettamento della Sme e la vendita in diverse tranches per complessivi 2000 miliardi contro i meno di 400 pattuiti nell’intesa Prodi- De Benedetti. Finita una battaglia ne inizia subito un’altra, quella per la conquista di Mondadori, che si porta dietro un codazzo di processi e condanne lungo chilometri. Berlusconi pianta la bandiera col biscione sulla pregiata casa editrice: il prezzo sarà un decennio più tardi la condanna di Cesare Previti, avvocato e corruttore, e un risarcimento di 493 milioni da parte del vincitore scorretto. Agnelli, Berlusconi e De Benedetti sono i tre volti del capitalismo italiano: il sovrano dell’establishment, l’ambizioso scalatore che ha provato a sovvertire le regole dall’interno dell’establishment stesso, l’avventuriero parvenu. Si sono dati battaglia per decenni e senza esclusione di colpi, adoperando stampa e politica come pedine nel loro gioco. Si sono riempiti spesso la bocca con la parola democrazia, qualche volta credendoci davvero, molto più spesso adoperando anche quella paroletta augusta come viatico per qualcosa di molto più importante: gli affari.
Carlo De Benedetti contro Scalfari e Repubblica, scrive giovedì 18 gennaio 2018 Il Post. L'ex editore di Repubblica ha detto che Scalfari è un ingrato e che il giornale ormai ha perso coraggio e rilevanza. Intervistato da Lilli Gruber durante la puntata di Otto e mezzo di mercoledì 17 gennaio, il fondatore e storico editore di Repubblica Carlo De Benedetti ha detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari, che di Repubblica è stato direttore dal 1976 al 1996, e dell’attuale linea editoriale del giornale. Dopo aver parlato della recente questione delle presunte informazioni riservate che De Benedetti avrebbe ricevuto da Renzi sul salvataggio delle banche popolari e dopo aver parlato del Movimento 5 Stelle, Gruber ha chiesto a De Benedetti se condividesse l’opinione di Eugenio Scalfari – primo storico direttore di Repubblica – secondo cui tra Di Maio e Berlusconi sarebbe meglio Berlusconi. De Benedetti ha detto che «la risposta ovvia da dare se uno non ha problemi di vanità» è che tra Di Maio e Berlusconi è meglio nessuno dei due, ma a quel punto è stato incalzato da Gruber sulla “vanità” di cui aveva accusato Scalfari e il discorso ha cambiato direzione. De Benedetti allora ha ricordato i molti favori economici che ha fatto a Scalfari e a Repubblica nel corso degli ultimi 40 anni e ha seccamente preso le distanze da Scalfari: Ho contribuito a fondarla, li ho salvati dal fallimento e ho dato un pacco di miliardi pazzesco – miliardi di lire – ma un pacco pazzesco a Eugenio quando ha voluto essere liquidato dalla sua partecipazione. Quindi Eugenio deve solo stare zitto tutta la vita, con me. Poi può parlare del Papa, di Draghi, di queste cose di cui lui si diletta parlare, ma non può parlare dei rapporti con me. Quindi pensa che sia un ingrato? Assolutamente sì. Pochi secondi dopo, De Benedetti ha interrotto Gruber per continuare a parlare di Repubblica, dicendo di aver «solo pagato dei prezzi» per esserne stato l’editore e di essere particolarmente triste «quando vedo che perde la sua identità». De Benedetti si è lamentato del fatto che su Repubblica non si faccia più politica – «Repubblica è un giornale politico nato per essere un giornale politico» – e del fatto che in un recente editoriale non firmato in cui il giornale prendeva le distanza da lui, lui stesso non fosse stato ringraziato per «l’indipendenza che sono io che ho dato a loro, non loro che hanno preteso da me».
Chiudendo l’intervista, Gruber ha chiesto: Come definirebbe i suoi rapporti con Repubblica, oggi? Assenti. [..] Mi dica un consiglio che darebbe oggi al direttore di Repubblica. Mah, sa, Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare.
Oggi il Comitato di redazione di Repubblica – ovvero l’assemblea di tutti i suoi giornalisti – ha risposto a De Benedetti con un comunicato in cui si dice: Il Comitato di Redazione respinge le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall’Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari. Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno del Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Ma vogliamo tranquillizzare Carlo De Benedetti: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda. L’assemblea dei redattori di Repubblica si riunirà oggi per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant’anni si è costruito.
La risposta di Repubblica a Carlo De Benedetti, scrive venerdì 19 gennaio 2018 Il Post. Mario Calabresi e Eugenio Scalfari hanno ribattuto alle accuse dell'ex proprietario: proprio con i toni di un litigio tra ex. Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto un editoriale in cui risponde alle critiche che l’imprenditore Carlo De Benedetti aveva mosso al giornale, di cui è stato finanziatore e proprietario e di cui ora è presidente onorario. Intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo lo scorso mercoledì, De Benedetti aveva detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari e dell’attuale linea editoriale di Repubblica: aveva parlato di perdita di identità e di un’assenza di riconoscenza nei suoi confronti, ricordando di aver sempre investito molto nel giornale, senza ottenere molto in cambio. Nell’editoriale pubblicato oggi, Mario Calabresi ha riconosciuto il ruolo fondamentale che De Benedetti ha ricoperto nella storia di Repubblica, ma ha anche stigmatizzato la sua scelta di criticare il giornale durante la trasmissione di un editore concorrente. Calabresi ha ribadito l’indipendenza della redazione e della direzione del giornale. Carlo De Benedetti è stato per oltre un quarto di secolo l’editore di questo giornale, finché cinque anni fa decise di dare la società ai suoi figli per tenerne solo la presidenza. Alla fine di giugno dello scorso anno ha lasciato anche quella mantenendo solo la carica di presidente onorario, senza alcun ruolo decisionale. Purtroppo questa transizione — è ormai sotto gli occhi di tutti — invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore. La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione. In queste settimane anche al New York Times un padre ha lasciato la guida della società al figlio. Non accadrà mai di vedere quel padre attaccare il giornale sugli schermi televisivi di un gruppo concorrente. Inconcepibile farlo mentre si dice di amare profondamente questa testata e la sua storia.
Sempre nel numero di Repubblica di oggi c’è anche un’intervista a Eugenio Scalfari, che oltre ad aver fondato il giornale lo ha diretto fino al 1996. Anche Scalfari ha risposto alle cose che aveva raccontato De Benedetti, contestualizzando alcune sue affermazioni sul ruolo che ebbe nel fondare e poi finanziare il giornale e ribattendo all’accusa di essersi un po’ rimbambito, come ha lasciato intendere De Benedetti nella sua intervista su La7.
Davvero non c’è De Benedetti tra i fondatori di Repubblica?
“No. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. E aggiungo che è la prima volta che glielo sento dire. Repubblica è figlia dell’Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri”.
Quanti soldi mise?
“Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L’altra metà toccava a noi, ma non ce l’avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l’altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: “Non lo racconti mai a nessuno” (allora ci davamo del lei). E infine: “Non lo racconti, ma non lo dimentichi”. E io non l’ho dimenticato”.
Vuoi dire che gli sei stato grato?
“Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica”.
Dice che il gruppo senza di lui sarebbe tecnicamente fallito.
“C’è stato un momento in cui avevamo fatto supplementi belli e costosi, tra cui “Mercurio” diretto da Nello Ajello. Ci eravamo indebitati e avevamo l’acqua alla gola. Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu”.
È questo il pacco di miliardi che dice di averti dato?
“Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica”.
Ne divenne l’editore.
“Quello dell’editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l’amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole”.
I giornalisti di «Repubblica» condannano De Benedetti. Duro comunicato contro l'ex editore: "Non è la prima volta che ci attacca". Oggi attesa la replica di Scalfari, scrive Massimo Malpica, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Guerra civile in Largo Fochetti. Il ciclone di critiche firmate Carlo De Benedetti e sganciate a Otto e Mezzo, dove l'Ingegnere, ospite dell'amica Lilli Gruber, ha attaccato sia il fondatore Eugenio Scalfari («Ingrato? Assolutamente sì») che la linea editoriale della «sua» Repubblica - e dunque la direzione di Mario Calabresi («Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare», il sarcastico «consiglio» riservatogli da De Benedetti su assist della Gruber) - ha innescato l'inevitabile reazione del quotidiano romano. La prima replica è quella del cdr, che in un comunicato ha respinto «le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall'Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari», ricordando anche che la storia non è nuova: «Non è la prima volta - prosegue la nota del comitato di redazione - che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all'interno del Gruppo, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale». Pure sull'accusa di aver «concesso» lui ai giornalisti l'indipendenza il cdr ringhia contro l'ex editore, ricordando che i colleghi «ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda». Lo sfogo a caldo precede, nel pomeriggio, l'assemblea dei redattori del quotidiano, convocata «per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant'anni si è costruito». Ma al termine dell'assemblea non arrivano nuovi comunicati né una nuova presa di posizione del comitato di redazione. Mario Calabresi resta in silenzio. Viene però annunciata, per oggi, un'intervista a Scalfari, a firma di Francesco Merlo. Già di suo una replica del fondatore all'affondo dell'Ingegnere, visto che quest'ultimo l'aveva definito «un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Ma al di là del volo di stracci, le conseguenze del braccio di ferro tra De Benedetti e il quotidiano che l'ex editore sostiene di avere ancora «nel cuore» non sono chiare. Di certo la cura Calabresi seguita alla nascita del polo Repubblica-Stampa e al battesimo della Gedi non ha dato i frutti sperati in edicola dove, certo complice anche la crisi generale dell'editoria, il quotidiano continua a perdere copie, e ha già visto svaporare quasi del tutto il momentaneo picco di vendite coinciso con il lancio della nuova grafica. E l'attacco alla linea «poco politica» di Repubblica lanciato da De Benedetti andava proprio in questa direzione, rimarcando il distacco del quotidiano dalla propria storica identità. L'affiancamento a Calabresi del condirettore Tommaso Cerno, chiamato a «coadiuvare» il successore di Ezio Mauro, era stato letto come un segno di riavvicinamento proprio alla linea editoriale della precedente direzione. Ma evidentemente non ha soddisfatto i gusti da lettore «Pazzo per Repubblica» dell'Ingegnere. Sprezzante con Calabresi, attaccato senza nemmeno citarlo all'indomani del suo secondo compleanno sulla tolda di comando di Largo Fochetti. Di certo la frattura tra lo storico editore e il «suo» giornale è di quelle che fanno male. E tradisce come gli equilibri nel nuovo polo un po' scricchiolino. Non è da escludere, tra l'altro, che le bastonate televisive di De Benedetti avessero un destinatario preciso, fuori dalla redazione. Il suo secondogenito, Marco, che da sei mesi ha preso il suo posto alla guida di Gedi come presidente. Al «vecchio padrone», forse, non piace troppo il nuovo corso.
Scalfari replica a De Benedetti: "Non ha fondato Repubblica". Il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari duro contro De Benedetti: "Ama questo giornale come ami una donna di cui vuoi liberarti", scrive Chiara Sarra, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Un editoriale del direttore Mario Calabresi e un'intervista al fondatore Eugenio Scalfari. È la risposta - durissima - di Repubblica a Carlo De Benedetti. L'ennesimo capitolo di uno scontro che va avanti da mesi. Da quando, il giornalista aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio in caso di sfida tra i due. "Scalfari è un ingrato che con me dovrebbe star zitto perché gli ho dato un pacco di miliardi", ha detto l'Ingegnere a Otto e Mezzo qualche giorno fa, "Parla per vanità, è un signore molto anziano non più in grado di sostenere domande e risposte". Di parere opposto lo stesso Scalfari che non crede di essere "rimbambito", ma di appartenere alla categoria "dei vegliardi": "Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli", dice il giornalista a Francesco Merlo, "Il vanitoso è chi si gloria di qualcosa che ha fatto o peggio non ha fatto; chi si attribuisce meriti che non ha. Che cosa c' entra la vanità con la scelta tra Berlusconi e Di Maio? Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato". Secondo Scalfari, infatti, "i soldi che diede non legittimano la parola fondatore": "Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri", taglia corto il giornalista. Ricordando che per far nascere il suo giornale servivano cinque miliardi di lire: "La Mondadori ne mise la metà", spiega, "L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: Non lo racconti mai a nessuno (allora ci davamo del lei). E infine: Non lo racconti, ma non lo dimentichi. E io non l'ho dimenticato. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica".
E anche sul presunto "salvataggio" del gruppo da parte di De Benedetti, Scalfari racconta una storia diversa: "Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie", assicura, "Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu". Altro che "pacco di miliardi", quindi. "Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica", taglia corto il giornalista, "Quello dell'editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l'amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole... E non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise. La sua abilità di finanziere gli ha consentito di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". Ancge sulla carica di presidente onorario del gruppo Scalfari inizia ad avere qualche dubbio. Pur essendosela meritata rispettando sempre la libertà del giornale, "non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori", spiega. E aggiunge: "Credo che quell' accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore". Infine la stilettata: "Repubblica la ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più".
Lo "sparatutto" tra De Benedetti e Repubblica. Cronistoria della battaglia dell'Ingegnere contro Eugenio Scalfari (e viceversa), scrive Enrico Cicchetti il 18 Gennaio 2018 su "Il Foglio". Quando Lilly Gruber chiede a Carlo De Benedetti, ospite di Otto e mezzo, se sia interessato a fondare un nuovo giornale, la risposta è perentoria: "Mai. Nella vita io sono un monogamo, in questo senso, la mia unica moglie é Repubblica". Oggi tuttavia i suoi rapporti con il quotidiano, ha spiegato l'Ingegnere, sono "assenti" ed "è per questo che soffro", ha aggiunto. Ma come si è arrivati a questo punto? Un veloce ripasso dello scontro tra il presidente onorario del Gruppo Gedi e Eugenio Scalfari e il direttore di Repubblica Mario Calabresi.
23 GIUGNO 2017. Carlo De Benedetti si dimette da presidente e consigliere del cda di Gedi Gruppo Editoriale Spa. Al suo posto diventa presidente il figlio Marco.
24 NOVEMBRE 2017. Ospite a diMartedì Eugenio Scalfari dichiara: “Tra Di Maio e Berlusconi sceglierei Berlusconi”.
3 DICEMBRE 2017. In un’intervista al Corriere della Sera, Carlo De Benedetti critica Scalfari: “Tra Di Maio e Berlusconi mi asterrei. Scalfari farebbe meglio a preservare il suo passato. Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso”.
10 GENNAIO 2018. Ospite di Bianca Berlinguer a Cartabianca, Eugenio Scalfari replica alle critiche di De Benedetti: “È stato molto critico con me. Da allora io non più rapporti con lui. Se mi dispiace di come siano andate le cose? Chi supera il decennio della morte e arriva al decennio dei 90, se ne fotte”.
13 GENNAIO 2018. Esplode il caso della telefonata tra l’allora premier Matteo Renzi e Carlo De Benedetti sulla riforma delle banche popolari. In prima pagina di Repubblica viene pubblicato un editoriale, non firmato, dal titolo “Indipendenza e libertà al servizio dei lettori”. “Nessun interesse improprio - si legge - ha mai guidato le scelte giornalistiche di Repubblica e nessun conflitto di interessi ne ha mai influenzato le valutazioni. Le posizioni che il giornale ha preso in questi anni sono il frutto della libera scelta dei giornalisti, nella linea tracciata da Eugenio Scalfari e poi proseguita da Ezio Mauro. I rapporti, i giudizi, le iniziative di Carlo De Benedetti sono fatti personali dell’Ingegnere”.
17 GENNAIO 2018. Ospite di Otto e mezzo, Carlo De Benedetti torna ad attaccare Scalfari: “Non voglio più commentare un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte. Con me deve stare zitto, gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato”. E quando Lilly Gruber gli chiede di dare un consiglio al direttore di Repubblica Mario Calabresi aggiunge: “Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare”.
17 GENNAIO 2018. Il Cdr di Repubblica risponde con un comunicato: “Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno dl Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Vogliamo tranquillizzarlo: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno”.
La risposta di Scalfari e Calabresi ai veleni di De Benedetti su Repubblica. Il direttore e il fondatore del quotidiano rispondono punto per punto a quello che l'ex editore ha raccontato al Corriere e in tv, scrive il 19 gennaio 2018 "Agi". Lo scontro tra Repubblica e il suo ex editore non sembra destinato a sanarsi. Dopo il duro affondo di Carlo De Benedetti, intervistato dal Corriere il 17 dicembre e poi in tv da Lilli Gruber rispondono sia il direttore del quotidiano, Mario Calabresi, che il suo padre fondatore, Eugenio Scalfari che con l'ingegnere aveva avuto un primo scambio di battute quando il giornalista, rispondendo a una domanda in tv, aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio.
Cosa scrive Calabresi. La transizione da Carlo De Benedetti ai suoi figli "invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore". "La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione". De Benedetti "non ha gradito di non essere stato ringraziato per aver concesso l'indipendenza ai giornalisti di Repubblica, ma crediamo che questa libertà sia alla base come è oggi e come è sempre stato di un corretto rapporto tra editori e giornalisti". "Voglio rassicurare i lettori che l'impegno e l'orgoglio dei giornalisti di Repubblica, della sua intera redazione, sono intatti e che godiamo del sostegno dei nostri azionisti e del nostro vertice aziendale. Un gruppo focalizzato sul futuro". "Questo giornale deve molto a Carlo De Benedetti e alla sua passione, ma anche l'Ingegnere dovrebbe sentire un debito di gratitudine nei confronti di una testata che ha occupato una parte importante della sua vita. Le donne e gli uomini che lavorano a Repubblica lo meritano. Il presidente onorario deve difendere e tutelare l'immagine e l'onorabilità del giornale: il contrario di quanto è accaduto".
Cosa dice Scalfari. "La mia non è vanità e De Benedetti non ha fondato questo giornale. Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri»". "Sono arrivato a un'età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi. Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli". "Repubblica era il meglio della stampa italiana. E quando dunque De Benedetti ne divenne il proprietario esclusivo non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise". "La sua abilità di finanziere ha consentito a De Benedetti di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". "L'indipendenza di Repubblica è stata sempre garantita dalla forza della direzione, dalla libertà e dal prestigio delle sue firme e di tutti i suoi giornalisti, e dal successo in edicola. De Benedetti è stato rispettoso di questa libertà. Diciamo ché l'ha onorata. E però non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori". "Oggi Repubblica vive la crisi dei giornali di carta, e cerca con coraggio nuove strade, sperimenta, si rinnova, scommette sul futuro ma non è vero che ha perduto l'identità e che non aggredisce la politica. Non solo io ne sono la prova e la garanzia. Ci sono i suoi giornalisti e c'è il direttore che, lo ricordo con un sorriso, è stato scelto da Carlo De Benedetti. Lui sì, sta aggredendo l'identità del giornale di cui, come ho già detto, era stato a lungo il rispettoso proprietario. Credo che quell'accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore".
Ma quanti soldi ha dato De Benedetti a Repubblica? Eugenio Scalfari ha anche ricostruito la storia della partecipazione economica di Carlo De Benedetti a Repubblica. "Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: 'Non lo racconti mai a nessuno'. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica" Quando "ci eravamo indebitati e avevamo l'acqua alla gola ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu".
Quando Giulio De Benedetti disse a Valletta: “La Stampa deve piacere agli operai”. La lettera del fondatore di Repubblica ricorda il suocero a quarant’anni dalla scomparsa: “Fu tra i più grandi direttori”, scrive Eugenio Scalfari il 14 gennaio 2018 su "La Repubblica". Sono 40 anni dalla morte di quello che fu mio suocero, sepolto nel cimitero di Rosta il 15 gennaio del 1978. È stato uno dei più grandi direttori di quotidiani di quel secolo. Era molto giovane quando cominciò a fare il correttore di bozze alla Stampa, allora di proprietà di Alfredo Frassati. Le sue capacità di giornalista lo portarono da correttore di bozze al ruolo di inviato. In quella veste fu corrispondente di guerra e poi corrispondente da Berlino dove il nazismo era ancora nell’incubatrice storica ma già impressionava soprattutto i giovani. In quella sede riuscì anche ad intervistare Hitler che già meditava il proprio futuro e ne parlò in quell’incontro con De Benedetti. Rientrato in Italia, diresse la Gazzetta del Popolo ma dopo poco tempo dovette lasciarla e partire per l’estero perché non piaceva a Mussolini l’antifascismo che De Benedetti stava in qualche modo dimostrando. Passò in Svizzera il periodo bellico e rientrò in Italia a guerra finita e a democrazia finalmente ritornata. Fu nominato dalla Fiat e da Frassati vice direttore e poi, dopo un anno, direttore de La Stampa ed è da lì che comincia il suo periodo di giornalismo eccezionale, probabilmente il più eccezionale di tutti e, a mio avviso, anche di Albertini che aveva diretto il Corriere della Sera agli inizi del Novecento. Giulio De Benedetti mise insieme una serie di iniziative giornalistiche che non trova riscontro nella storia del nostro mestiere: la cronaca locale e contemporaneamente quella nazionale e internazionale assurse a un livello mai raggiunto prima, ma a un livello ancora maggiore assurse la cultura, la politica italiana, quella europea e quella americana. Altrettanto avvenne con lo sport, calcio e ciclismo in particolare, ed infine con la rubrica da lui non solo inventata ma messa in pagina e chiamata “Specchio dei Tempi”. Si raccoglievano in quella rubrica opinioni di cittadini dei quartieri torinesi e dei comuni del circondario su questioni di grande attualità locale alle quali De Benedetti rispondeva soltanto con il titolo che poneva sopra ciascuna delle risposte ottenute; sceglieva i testi più importanti e li titolava. A quell’epoca quella rubrica stava nella seconda pagina della Stampa ed era probabilmente la parte più letta del giornale. Desidero infine ricordare la linea politica: l’azionista di maggioranza del giornale era la Fiat ma la linea imposta da De Benedetti era socialdemocratica, avendo Saragat come punto di riferimento ed anche come amico. Ricordo ancora che Valletta, allora consigliere delegato della Fiat, gli chiese all’inizio della sua direzione come mai un giornale della Fiat fosse di ispirazione socialista. La risposta fu molto netta: Torino occupa il popolo operaio più importante e numeroso d’Italia. Se vogliamo vendere dobbiamo fare un giornale gradito agli operai e da loro comprato. Questo non danneggerà la Fiat ma anzi darà alla sua proprietà un colore liberale e socialista insieme. Questa originalità ampiamente positiva a quell’epoca, in quella città, con quella proprietà, fu il requisito più prezioso di Giulio De Benedetti. Invio questo saluto anche a nome delle mie figlie Enrica e Donata di cui lui fu il nonno più amato.
Una guerra che dura dagli anni Settanta, scrive Paolo Guzzanti, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Che fra i due corresse pessimo sangue me ne ero già reso conto durante la lunga intervista con Carlo De Benedetti che pubblicai fa con l'editore Aliberti. Carlo De Benedetti aveva già licenziato in tronco Eugenio Scalfari nel corso di una cena a casa di Carlo Caracciolo, strappando da un momento all'altro era il 1996 Ezio Mauro dalla direzione della Stampa. Tanta furia inspiegabile e priva di garbo mandò in bestia il presidente della Fiat Gianni Agnelli che si trovò senza direttore dalla mattina alla sera, perché l'editore di Repubblica voleva assolutamente liberarsi del fondatore Eugenio Scalfari. Quel che adesso salta fuori con l'intervista di De Benedetti alla Gruber è soltanto la sferzata finale di una tensione che risale al tempo in cui la Repubblica (fine anni Settanta) andava a rotta di collo. In quei tempi Scalfari si presentò con l'editore Carlo Caracciolo da De Benedetti per chiedere aiuto. L'Ingegnere mise mano al portafoglio ma volle anche avere voce in capitolo sull'azienda. Seguirono anni tempestosi, gloriosi e nebulosi allo stesso tempo, durante i quali il quotidiano di piazza Indipendenza annaspò prima di decollare con la crisi del Corriere della Sera alimentata dallo scandalo della P2 di Licio Gelli, uno scandalo simmetrico a quello del tutto prefabbricato con cui fu costretto alle dimissioni il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il giornale fiammeggiava ma restava fragile. Eugenio Scalfari commise il suo più grave atto di ostilità nei confronti Di De Benedetti come lui stesso mi raccontò - andando da Silvio Berlusconi ad per far balenare al Cavaliere la possibilità di acquistare il quotidiano. De Benedetti se la legò al dito. Sborsò un bel malloppo di miliardi al fondatore facendogli credere di volerlo ancora tenere, ma cercando la sua sostituzione che trovò in Ezio Mauro. Eugenio incassò così il valore di cui aveva dotato la testata, vendendo però l'anima al diavolo, o almeno vendendo il proprio futuro all'Ingegnere. De Benedetti mi disse che quando prese la decisione di licenziare Scalfari fu costretto a recitare una stucchevole commedia di inchini e di riverenze, ma non voleva compromessi: era ora di guidare la sua proprietà pagata a caro prezzo, senza riconoscere il diritto alla perpetuità mitizzata di Eugenio. De Benedetti gli disse: non sei tu che tieni in piedi Repubblica, ma sono io. E posso farla anche migliore senza te. E dunque, compiuti i riti previsti, De Benedetti volle che Eugenio si levasse dai piedi. Ma il vecchio direttore ottenne sia la certificazione di fondatore sotto la testata che il diritto feudale al fondo della domenica. De Benedetti ha sempre mal digerito quella specie di pontificato perpetuo: «Qualche volta quel che scrive mi piace - disse - ma in genere gli sproloqui di Eugenio sono di una noia mortale». La tensione è diventata poi conflitto aperto dopo la dichiarazione televisiva di Scalfari pro Berlusconi. Quel che è accaduto dalla Gruber ha avuto l'effetto di una bomba nucleare sui resti dell'antico «partito di Repubblica».
[Il ritratto] Il tramonto di De Benedetti, la tigre che ha sconfitto il capitalismo familista e cassandra della sinistra. Che piaccia o no, che siano simpatici o antipatici, Berlusconi e De Benedetti sono stati due grandi capitalisti che sono riusciti a trovarsi un posto al sole nel Paese più familista del mondo, quasi schiacciato sotto la Storia e il Potere delle Grandi Famiglie. Rispetto al capitalismo conservatore, De Benedetti è un innovatore, scrive Pierangelo Sapegno, giornalista e scrittore, il 15 gennaio 2018 su Tiscali notizie. Se c’è una cosa che ha sempre saputo fare, è quella di trasformare in oro quasi tutto quello che tocca. L’ultima volta, diciamo che ha esagerato: appena ha saputo da Renzi che la riforma delle banche popolari sarebbe andata in porto, ha chiamato il suo broker di fiducia, Gianluca Bolengo, e ha investito 5 milioni, realizzando plusvalenze di 600mila euro. La Consob ha ipotizzato il reato di Insider trading. L’ex commissario Salvatore Bragantini, editorialista del Corriere dall’aplomb parecchio borghese e abbastanza raffinato, ha commentato che è stato perlomeno «sconveniente». Molto english.
La guerra di Segrate. I suoi nemici, invece, si sono scatenati, Berlusconi in testa: «E’ stato preso con le mani nella marmellata, e se fosse capitato a me sarei già in croce». Poi La Stampa tira fuori una inchiesta sulla cessione del Milan, e Il Giornale risponde che quel falso scoop è un agguato al Cavaliere per vendetta e per distogliere l’attenzione dai peccati dell’Ingegnere. La solita guerra. Sui giornali va avanti dal ‘91, la famosa «guerra di Segrate», rimbalzata da allora fra imboscate e puntate sanguinanti.
Due grandi capitalisti. E’ il volto del capitalismo italiano, che ogni tanto sembra quello da una baruffa di cortile fra comari inacidite. Ma non date retta alle apparenze. Che piaccia o no, che siano simpatici o antipatici, Berlusconi e De Benedetti sono stati due grandi capitalisti che sono riusciti a trovarsi un posto al sole nella Terra più familista del mondo, quasi schiacciata sotto la Storia e il Potere delle Grandi Famiglie. Per farlo, hanno anche finito per identificarsi nel bipolarismo all’italiana, seduti sugli scranni opposti della singolar tenzone, uno contro l’altro armato.
Gli esordi Carlo De Benedetti. In realtà, Carlo De Benedetti, torinese, classe 1934, figlio di Rodolfo, ebreo sefardita convertito al cattolicesimo ma costretto a scappare in Svizzera per le leggi razziali, negli Anni 80, quando lui e Silvio cominciavano a farsi largo nella piazza ribollente dell’economia nostrana, affermava candidamente di sentirsi il paladino del capitalismo italiano, asserendo cose molto poco di sinistra e molto più liberali: «Ho 49 anni, mi piace fare il capitalista e sono fiero di esserlo». Che lo sapeva fare se ne erano già accorti tutti. Dopo la laurea in ingegneria e il servizio militare negli alpini da soldato semplice nel ‘72 aveva acquisito la Gilardini con il fratello Franco, trasformandola in una holding di successo: da 50 a 1500 dipendenti. Con la famiglia erano andati a vivere nella palazzina Agnelli di corso Matteotti, che Truman Capote nel 1969 su Vogue aveva descritto come «splendore italiano» con i tasti da premere per convocare all’istante forbiti maggiordomi in livrea. Carlo era andato a scuola con Umberto, dalla terza media alla quinta ginnasio, e fu lui a portarlo alla Fiat dopo i primi successi imprenditoriali.
La tigre. Nei famosi 100 giorni della sua governance, in azienda lo chiamavano «la tigre», perché era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli», come ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio. Alla faccia della sinistra. Gianni Agnelli aveva accettato il consiglio del fratello perché era affascinato dalla sua intraprendenza e dal suo dinamismo oltre che dalla sua immagine di successo. Solo che dopo neanche 4 mesi, lui (e Romiti) lo fecero fuori. La famiglia Agnelli non voleva ridurre in modo drastico il numero degli addetti alla manodopera. Queste difficili scelte, raccontò poi lo stesso De Benedetti, furono prese 4 anni più tardi, ma dopo aver perso «una barcata di soldi».
Il giovane capitalista. Come si vede, il giovane Carlo è prima di tutto un capitalista, niente affatto diverso da tutti gli altri. Dà lavoro anche a costo di toglierlo. Ma i capitalisti non sono dei benefattori. Sono dei costruttori della società. Nel 1976, l’Ingegnere ha rilevato le Concerie Industriali Riunite cambiando la denominazione della società in Cir, e trasformandole in una grande holding industriale. Nel ‘78 entra in Olivetti, azienda ormai decotta e dal futuro nero. Bruno Visentini, gentiluomo del partito d’azione, presidente del Pri e dell’Olivetti, gli dice: «Non guardi i bilanci, se non accetterà mai. Ma sono convinto che solo uno come lei può riuscirci». E difatti ce la fa. Trasforma l’azienda, producendo personal computer e ampliando la gamma dei prodotti con stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. In 24 mesi, l’Olivetti passa da una perdita di 70 miliardi all’anno, a un profitto di 50 che raggiungono i 350 nel 1983, quando apre il capitale sociale a un colosso americano, l’At&t, in cambio del 25 per cento del capitale. L’anno dopo ingloba l’inglese Acorn Computer.
Imprenditore illuminato. La sua immagine di imprenditore illuminato, che dichiara di votare repubblicano, conquista l’opinione pubblica. Rispetto al mondo conservatore del capitalismo italiano, De Benedetti è un innovatore, un visionario. E Corrado Passera dice che «rappresentava il simbolo della nuova imprenditoria di mercato», in contrapposizione ai grandi gruppi e alle famiglie potenti del nostro Paese. Lui in quei tempi dichiara che non si può ghettizzare il pci e comincia a instaurare un dialogo con Berlinguer. Intanto, nell’85 acquista la Buitoni Perugina, venduta 3 anni dopo alla Nestlé. Nell’81 è entrato nell’azionariato del Banco Ambrosiano, lasciando però subito l’istituto dopo appena due mesi, sulla soglia del fallimento. Fu accusato di aver fatto plusvalenza da 40 miliardi, processato per bancarotta fraudolenta, condannato con sentenze poi annullate dalla Cassazione perché non esistevano i presupposti per i quali era stato processato.
La finanza e la Borsa. Carlo De Benedetti, imprenditore e scalatore, è diventato anche e soprattutto finanziere e sta per diventare pure editore. Attirato dal boom della Borsa, che gli ha permesso di raccogliere 3 miliardi di mezzi freschi, ha cominciato ad acquisire una miriade di partecipazioni finanziarie e assicurative. Gianni Agnelli lo definisce «un centometrista». Compra di tutto e parte alla conquista dell’estero. Dopo aver tentato di acquisire, assieme a Bruno Visentini, il Corriere della Sera travolto dallo scandalo P2 e aver tentato di mettere le mani sul Tempo di Roma, nel 1987, attraverso le partecipazioni della Arnoldo Mondadori entra nel gruppo Espresso e Repubblica, il giornale che lui aveva già finanziato. Nel 90 comincia la guerra di Segrate con Berlusconi, temporaneamente chiusa nel 2011 con un risarcimento danni di 500 milioni di euro che la Fininvest ha dovuto versare alla Cir, perché la precedente sentenza del 1991 sarebbe stata in realtà comprata corrompendo un giudice. Nel 96, a causa di una grave crisi dell’Olivetti, De Benedetti decise di lasciare l’azienda, dopo aver fondato la Omnitel, venduta a Colaninno (forse, col senno di poi, l’unico errore commesso).
Il rapporto con la sinistra. In tutto questo tempo, ha assunto anche un ruolo molto importante nella sinistra italiana, diventandone persino, nella sua ultima incarnazione, un profeta abbastanza pessimista. Dal suo pulpito giudica storia e personaggi. Su D’Alema: «Credo che abbia fatto tantissimi errori e non capisca più la sua gente». Bersani: «Lo stimo moltissimo, ma come leader è assolutamente inadeguato. Lui e D’Alema stanno ammazzando il pd». Matteo Renzi, invece, prima «è un fuoriclasse». Poi si dichiara deluso da lui. Fino a definirlo «un cazzone». Ma anche gli altri sono delusi da De Benedetti. Corrado Passera racconta che quando aveva cominciato a lavorare con lui, «era una vera speranza per l’industria e il capitalismo italiano. Poi ha deluso tutti».
Vince da solo. Se gli parli assieme, dicono però che sembra sempre quello di prima, un uomo molto lucido e molto veloce, capace di leggere con grande rapidità quello che sta accadendo e di coglierne gli sviluppi, in economia come in politica. Poi, è ovvio, puoi scegliere di stare con chi vince o con chi perde. L’impressione è che lui abbia sempre vinto da solo. Ancora adesso non ha perso il suo istinto degli affari, a 83 anni, nel suo esilio dorato di Marbella, dove è riuscito a mettere su un proficuo business immobiliare, acquistando immobili per almeno venti milioni, secondo Franco Bechis. Ma ora è un uomo libero, probabilmente felice, dopo aver passato il suo impero ai tre figli, il cento per cento della scatola di controllo.
L’avvicendamento a La Repubblica. A Repubblica non è più lui quello che conta. E si vede. Rodolfo è molto diverso, formazione liberal, uomo di potere, ma non di establishment. E Marco, sposato con la giornalista Paola Ferrari che si sarebbe candidata nel centrodestra, lo ha già criticato per la sua presa di posizione contro Scalfari, che aveva detto di preferire Berlusconi a Di Maio. La risposta di Scalfari, in pratica «me ne fotto», è già abbastanza indicativa. E’ cambiato tutto, il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’Espresso è diventato un allegato di Repubblica, il fondatore Eugenio Scalfari tiferebbe Berlusconi, dimenticando 20 anni di battaglie e nel crepuscolo della galassia Espresso Repubblica c’è un po’ la nostra storia. Il tempo che è passato, è già andato via. Anche le vecchie guerre sono già finite. Adesso ce ne sono altre. Prima o poi ce ne accorgeremo.
Renzi, De Benedetti e Repubblica: la fine della diversità morale, scrive il 12 gennaio 2018 Stefano Feltri, Vicedirettore de Il Fatto Quotidiano. Molti lettori possono aver l’impressione che tutto questo interesse alle vicende che riguardano Carlo De Benedetti, Repubblica e ilGruppo Espresso (che ora si chiama Gedi) siano questioni interne alla piccola casta dei giornalisti, regolamenti di antichi conti o sfogo di ambizioni professionali frustrate. Magari c’è pure questo, ma quanto sta succedendo intorno a Repubblica riguarda tutto il Paese o almeno quella parte, in senso lato di centrosinistra, che in quel giornale e in quel gruppo editoriale ha sempre cercato una bussola etica e culturale, ben prima che politica. Ne scrivo, pur stando in un giornale concorrente, perché di quel pezzo del Paese ho fatto (e forse faccio) parte anche io, cresciuto leggendo e talvolta ritagliando Repubblica, l’Espresso, Micromega, Limes. Se mettiamo in fila gli eventi di questi ultimi due anni capiamo che è davvero finita un’epoca. Il Gruppo Espresso si è fuso con l’Itedi, la società editoriale degli Agnelli che pubblica la Stampa, Carlo De Benedetti ha lasciato la presidenza, l’Espresso è diventato un allegato di Repubblica, molti editorialisti hanno lasciato il giornale (alcuni proprio per il Fatto), in una delle più accese battaglie politiche di questi anni, il referendum 2016 sulla riforma costituzionale, Repubblica non ha preso posizione. Il suo direttore Mario Calabresi ha dedicato più editoriali critici al sindaco di Roma Virginia Raggi che all’ex premier Matteo Renzio a Silvio Berlusconi. Il fondatore, Eugenio Scalfari, ha detto che, dovendo scegliere tra Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio, preferisce Berlusconi, ridimensionando vent’anni di leggi ad personam e di politiche economiche contrarie a tutto quello che Repubblica e Scalfari hanno sempre professato. De Benedetti ha attaccato Scalfari in una intervista sul Corriere della Sera, ha definito le sue posizioni “un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso”. Scalfari, che ha troncato ogni rapporto, gli ha risposto martedì da Rai3, a Cartabianca, dicendo che uno arrivato a 94 anni “se ne fotte” di quello che pensa De Benedetti. Ultima, ma solo in ordine di tempo, la vicenda della speculazione di Carlo De Benedetti grazie alle informazioni avute da Matteo Renzi e dalla Banca d’Italia. Questa, come ha detto l’ex commissario Consob, Salvatore Bragantini, è come minimo “sconveniente”, a prescindere dal fatto che sia reato. Per mille ragioni che provo a riassumere.
Primo: Carlo De Benedetti ha accesso a Renzi e alla Banca d’Italia non tanto perché è (stato) un finanziere di successo – l’impero economico l’ha passato da tempo ai figli – ma in quanto editore di giornali rilevanti. Il non detto di questi rapporti è che il politico o l’uomo delle istituzioni coltiva le simpatie dell’editore convinto di ottenere, per questa via, un trattamento di favore dai giornalisti. E quando poi il giornale dovesse invece dimostrarsi completamente autonomo, si genera la spiacevole telefonata del tipo “Ma come, pensavo fossimo in buoni rapporti…”. In questo si vede che Renzi non è diverso dagli altri politici che voleva rottamare, corteggia gli editori nella speranza di avere trattamenti di favore dai giornali. E De Benedetti non ritiene che invitare a cena ministri e presidenti del Consiglio possa complicare la vita ai suoi direttori ed editorialisti.
Secondo: Carlo De Benedetti, che ha consolidato la sua carriera da finanziere in un’Italia in cui l’uso di informazioni privilegiate per fare operazioni di Borsa non era neppure reato, rivendica la correttezza del proprio operato con questa argomentazione: se avessi saputo davvero qualcosa di specifico, non avrei investito solo 5 milioni ma almeno 20. Autodifesa che diventa ammissione dell’assenza di ogni vincolo etico. Renzi, da parte sua, ha dimostrato di non avere alcun filtro, alcuna prudenza nel gestire provvedimenti e informazioni con un impatto sui mercati. Negli anni 2014-2015 a palazzo Chigi c’era un vorticoso ricambio di consulenti, amici del premier, collaboratori più o meno ufficiali che discutevano di Telecom, Eni, banca Etruria, riforma delle popolari e delle banche di credito cooperativo. Ora abbiamo chiaro con quale prudenza e quale riservatezza. Chissà quanti “casi De Benedetti” ci sono stati di cui non sappiamo.
Terzo profilo sconveniente, nella vicenda Renzi-De Benedetti, quello più rilevante: la reazione del sistema a tutela del potere costituito. Renzi e De Benedetti fanno qualcosa, a gennaio 2015, che può essere reato o non esserlo, che può portare a sanzioni o meno. Dipende dalla valutazione che ne viene fatta. La Consob indaga e decide, nel collegio dei commissari, di non sanzionare. La Procura di Roma, a quanto emerge, praticamente non indaga affatto ma chiede subito l’archiviazione dell’unico indagato, il povero broker che esegue l’ordine d’acquisto di azioni di banche popolari arrivato da De Benedetti. La vicenda esce una prima volta sui giornali dopo gli attacchi di Renzi alla Consob di Giuseppe Vegas, riesplode ora che, con grande fatica, i parlamentari della commissione di inchiesta sulle banche sono riusciti ad avere una parte dei documenti dell’inchiesta da una molto riottosa Procura di Roma.
I punti critici sono vari: per quasi tre anni in tanti, troppi, hanno saputo che incombeva questa bomba su Renzi (incombe ancora, visto che l’inchiesta non è stata archiviata). Non è mai una cosa sana quando un politico sa di essere potenzialmente ricattabile. Poi la Procura di Roma, che tanto zelo ha dimostrato in varie occasioni, non ha davvero niente da rimproverarsi nella gestione del caso? Perché è così importante secretare tutto? Perché il procuratore Pignatone considera grave che il contenuto delle carte sia filtrato dalla commissione banche? Non lo ha mai spiegato. E quante richieste di archiviazione vengono trattate come se fossero un segreto di Stato?
E quando Vegas è andato allo scontro con il governo, dopo la sua mancata riconferma al vertice della Consob, rivelando gli interessamenti di Maria Elena Boschi su Etruria, sapeva di avere nel cassetto l’arma segreta: tutte le carte di quello che i suoi uffici avevano classificato come insider trading, prima che la Commissione lo archiviasse. Sicuramente non ha avuto bisogno neppure di evocare la vicenda. Lui sapeva, Renzi sapeva, chi doveva sapere sapeva. E tutti si sono comportati di conseguenza.
E poi ci sono i giornali, parte non irrilevante di questa storia. Il giorno in cui esce la trascrizione della telefonata di De Benedetti con il suo broker, Repubblica non ha la notizia. Succede. Diciamo che è stato uno scoop della concorrenza, anche se di questa fanno parte praticamente tutti i giornali italiani incluso La Stampa, testata dello stesso gruppo editoriale. Il giorno dopo viene dato conto solo del “caso politico” intorno alla telefonata. Poi il Sole 24 Ore pubblica sul proprio sito web in modo quasi integrale il verbale di De Benedetti in Consob dove l’editore di Repubblica si difende e rivela i suoi rapporti con Renzi, Boschi, Padoan, Visco, rivendica perfino di essere stato il primo ispiratore del Jobs Act. Non una riga esce oggi su Repubblica di tutto questo. E, cosa ancora più singolare, solo un francobollo sul Sole 24 Ore cartaceo, che invece spesso ha ospitato gli editoriali di De Benedetti. Scelta bizzarra questa di regalare lo scoop on line ma di non valorizzarlo nell’edizione a pagamento. Gli imprenditori della Confindustria che ricevono ogni mattina la copia del giornale che hanno portato vicino al disastro così non hanno dovuto leggere il verbale del loro collega De Benedetti. Il Corriere della Sera dedica al caso un colonnino. Non è sempre stato così. Negli archivi si trovano ampi e completi articoli, per esempio, su quando alcuni familiari di De Benedetti sono stati sanzionati dalla Consob per 3,5 milioni per un insider trading su Cdb Web Tech, all’epoca uno dei veicoli finanziari dell’Ingegnere.
Durante le feste ho letto un libro di qualche anno fa di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), appena ripubblicato proprio in una collana di allegati a Repubblica. E’ la storia di una maturazione politica e di una scelta individuale di Piccolo, quella di preferire una sinistra del compromesso, pragmatica e disposta a sporcarsi nella pratica quotidiana del potere rispetto a quella che invece rivendica la superiorità morale, una diversità antropologica, che considera chi vota Berlusconi moralmente disprezzabile. E’ la storia di come Francesco Piccolo ha scelto l’Enrico Berlinguer del compromesso storico al posto di quello della “questione morale” e della diversità comunista. E di come ha accettato di essere italiano, nel bene e nel male, invece che considerarsi sempre diverso, una persona un po’ migliore degli italiani raccontati dalla tv, quelli che votavano prima Democrazia cristiana e poi Forza Italia.
Scalfari, De Benedetti e Repubblica sono stati per quarant’anni gli alfieri e la voce di un’Italia che si riteneva migliore della media, che rivendicava il diritto a fare una gerarchia di valori, a inseguire qualche ideale invece che rassegnarsi al “così fan tutti”, che guardava Silvio Berlusconi e il suo stile di vita e poteva permettersi di criticarlo. Abbiamo sempre saputo che, sotto sotto, era un po’ un’illusione, che non esiste una Italia migliore e una peggiore, che gli uomini, visti da molto vicino, sono tutti uguali o che, almeno, nessuno ha titolo di giudicare il suo prossimo. Però quell’illusione è servita, al centrosinistra e a tutta l’Italia, ha dato alla politica (soprattutto alla sinistra), agli elettori e soprattutto ai lettori una tensione etica, ha trasmesso il messaggio che poteva esistere un Paese migliore. Magari un po’ tromboneggiante e moralista, talvolta noioso, spesso più conformista di quello che era disposto ad ammettere, ma migliore. E invece, per citare Francesco Piccolo, Scalfari, De Benedetti e Repubblica hanno realizzato il loro inconfessato e inconfessabile “desiderio di essere come tutti”, perché chi è come tutti non può essere criticato da nessuno. Ma neppure può criticare. Hanno dissipato ogni illusione di alterità. E se sono tutti uguali, allora non c’è differenza tra De Benedetti e Berlusconi, tra Renzi e D’Alema, tra Salvini e Di Maio. Senza illusioni e senza questione morale restano soltanto il cinismo e l’antipolitica. Quando, dopo le elezioni di marzo, commentatori e politologi vorranno spiegare il tracollo del Pd e l’inspiegabile tenuta del Movimento Cinque Stelle nonostante le mille prove di dilettantismo, sarà bene considerare tra le variabili rilevanti il crepuscolo della galassia Espresso-Repubblica.
L’HANNO DETTO I GIORNALI? E’ FALSO! UN ESEMPIO: MARCO TRAVAGLIO VS I RENZI.
L’accusa.
Renzi: "Prima condanna a Travaglio per aver diffamato mio padre". L'annuncio del senatore pd su Facebook: "Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia". Il processo per 6 articoli, tre ritenuti diffamatori dal Tribunale di Firenze, scrive il 22 ottobre 2018 "La Repubblica". "Una notizia personale. Oggi è arrivata la prima decisione su una (lunga) serie di azioni civili intentate da mio padre, Tiziano Renzi, nei confronti di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano". Lo scrive, su Facebook, il senatore del Pd Matteo Renzi. "La prima di oggi - prosegue - vede la condanna del direttore Travaglio, di una sua giornalista e della società editoriale per una cifra di 95.000 euro (novantacinquemila). Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni. Volevo condividerlo con voi. Buona giornata, amici". Il processo civile che ha visto contrapporsi Tiziano Renzi e Il Fatto Quotidiano era incentrato su 6 articoli. Il Tribunale di Firenze ha stabilito che per tre articoli non sussiste diffamazione, e quindi ha assolto il quotidiano. Mentre lo ha condannato per altri tre articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016. Due editoriali e il titolo di un terzo articolo. Nel primo, intitolato "I Babboccioni", parlando dell'indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine "fa bancarotta"; nel secondo articolo, dal titolo "Hasta la lista" Tiziano Renzi era stato accostato per "affarucci" a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio invece il titolo di un articolo apparso on line inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato dalla giornalista Gaia Scacciavillani. Tiziano Renzi aveva chiesto danni per 300 mila euro.
La difesa.
Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell'ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli - firmati con Gaia Scacciavillani - sono stati ritenuti perfettamente veri, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 22 ottobre 2018. Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri. “In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta. Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi”. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democratico quali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzo sulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”. Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.
Cambiamo Mestiere, scrive Marco Travaglio il 23 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Quando un Tribunale ti dà torto e sai di avere ragione, impugni la sentenza e speri che i giudici d'appello te la riconoscano. Così ci siamo sempre comportati, senza fare tante storie. Ora però la sentenza del Tribunale civile di Firenze che dà torto al Fatto (cioè al sottoscritto e a una brava collega), imponendoci di versare lo spropositato risarcimento di 95 mila euro a Tiziano Renzi e creando un precedente che mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale, ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori. Perchè abbiamo bisogno di voi. Fermo restando che, se l'esecutività del verdetto non sarà sospeso, pagheremo il dovuto e ci appelleremo per farci restituire i soldi fino all' ultimo centesimo e la nostra onorabilità. Che comunque non può essere messa alla berlina da manigoldi che si fanno scudo dell'impunità parlamentare e che, se le bugie fossero reato, sarebbero all'ergastolo. Cari lettori, sapete bene di essere l'unica nostra fonte di sostentamento e il nostro unico scudo contro le aggressioni dei potenti: non incassiamo soldi dallo Stato, abbiamo pochissima pubblicità, non siamo sponsorizzati da società o concessionarie pubbliche né da aziende private. Viviamo delle copie vendute in edicola e degli abbonamenti, due voci che sono addirittura aumentate negli ultimi mesi, in controtendenza con il mercato sempre più in crisi della carta stampata. E finora questo bastava e avanzava a garantirci di lavorare sereni, forti del vostro sostegno e dei nostri bilanci attivi. Ma purtroppo, in Italia, fare un buon giornale, libero e indipendente, che incontri il favore dei lettori, non basta più. Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali "a strascico" sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze. Anche perché oggi - come dice Davigo - buona parte della magistratura è stata "genuflessa" dal potere politico come nei suoi anni più bui, dai 50 agli 80, fino a Tangentopoli e a Mafiopoli. Non siamo qui a gridare al complotto né a piagnucolare per la persecuzione giudiziaria. Anzi, se avessimo scritto qualcosa di falso e/o diffamatorio, come può sempre capitare in un quotidiano, avremmo già rettificato da un pezzo, senz' attendere che Renzi sr ci facesse causa. Ma non è questo il caso. Il signore in questione ci aveva intentato una causa da 300mila euro per sei articoli usciti fra il 2015 e il 2016: il giudice gli ha dato torto per quattro articoli e ragione per un titolo (a un articolo ritenuto corretto) e due parole contenute in due miei commenti (per il resto ritenuti corretti). E ha stabilito che il titolo e le mie due parole valgono 30 mila euro ciascuno, più 5 mila di riparazione pecuniaria. Il titolo da 30 mila euro è "Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm". Riguarda le indagini (vere) sulla coop Castelnuovese, che ovviamente faceva affari, era stata appena perquisita e faceva capo all' ex presidente di Etruria Lorenzo Rosi, in affari con Luigi Dagostino, a sua volta in affari con papà Renzi (che non era indagato, e infatti il titolo si guardava bene dall' affermarlo). Tutto vero, eppure ci tocca pagare 30 mila euro. Le mie due paroline da 30 mila euro ciascuna sono "bancarotta" e "affarucci". In quel momento Tiziano Renzi era indagato a Genova per la bancarotta di una sua società poi fallita, la Chil Post. Che la società fosse fallita non era in discussione (il crac è del 2013), mentre si trattava di stabilire se Renzi padre avesse commesso il reato di bancarotta (in seguito avrebbe ottenuto l'archiviazione, che naturalmente non riportò in vita la società fallita, anche perché altri coimputati sono a processo per quella bancarotta). Il crac c'era, la condanna di Renzi sr per bancarotta no: e infatti non ho mai scritto che avesse commesso quel reato, ma semplicemente che era coinvolto nella bancarotta di una società di cui era stato proprietario (e dove aveva assunto Matteo). Si potrà dire che il termine era "atecnico", come si conviene a un articolo di pura satira (il titolo era "I babboccioni", per dire il tono), non a una sentenza o a una cronaca giudiziaria. Invece il giudice ci vede una diffamazione da 30 mila euro. L'altra costosissima parola proibita è "affarucci". Anche qui tutto vero, e pure preciso: come avevamo scritto spesso nelle pagine di cronaca, insieme a gran parte della stampa italiana, il massone Valeriano Mureddu e babbo Tiziano sono vicini di casa a Rignano sull' Arno e il primo acquistò un terreno dal secondo. Un affaruccio, appunto. Che c' è di diffamatorio? Che - scrive la giudice - "in nessuna parte dell'articolo sia spiegato quali sarebbero tali 'affarucci'". Cioè: i due hanno concluso un affaruccio, raccontato più volte sul Fatto e dimostrato per tabulas alla giudice. Ma è diffamazione lo stesso, perché lei avrebbe scritto l'articolo diversamente da come l'ho scritto io: altri 30 mila euro. Totale: 90+5 e un bacio sopra. Per un titolo e due articoli che non contengono fatti falsi e che riscriverei uguali altre cento volte. E sapete il perché di quella cifra spropositata? Per "la posizione sociale del soggetto diffamato (padre del Presidente del Consiglio, politico e imprenditore)". Perbacco. Così la regola aurea che vuole i potenti più esposti alle critiche viene ribaltata: più conti e meno puoi essere criticato. Una specie di immunità contagiosa per via parentale. E ci è andata pure bene. La giudice spiega di averci fatto lo sconto perché siamo il Fatto, e non il Corriere della Sera che vende il sestuplo di noi: sennò ci avrebbe appioppato 600 mila euro, lira più lira meno (con tanti auguri ai colleghi di via Solferino). La sentenza fa il paio con quella del Tribunale penale di Roma che ci ha condannati a pagare la cifra astronomica di 150 mila euro (per fortuna non ancora esecutiva) ai giudici di Palermo che avevano assolto Mori per la mancata cattura di Provenzano. Avevo osato scrivere che erano andati fuori tema, invadendo il campo dei processi Trattativa e Borsellino-ter e negando il patto Stato-mafia e l'accelerazione della strage di via D' Amelio. Condannato. Poi le sentenze dei due processi han demolito quella su Mori, giungendo alle stesse mie conclusioni di 3 anni prima. Ora, a botte di sentenze come queste, un piccolo giornale libero come il Fatto non può reggere: ancora un paio di mazzate come queste e si chiude. Perché non c' è alcun' arma di difesa. Possiamo prestare tutte le attenzioni del mondo a non scrivere cose false o inesatte. Ma se poi veniamo condannati per aver scritto cose vere o per aver esercitato il nostro sacrosanto diritto di critica, allora dovremmo preoccuparci anche di non disturbare certi manovratori, specie se hanno appena agguantato la vicepresidenza del Csm e fanno il bello e il cattivo tempo nella città del tribunale che ci giudica. E allora delle due l'una. O la classe politica mette finalmente mano a una seria riforma della diffamazione a mezzo stampa, dando valore alle rettifiche e alle smentite, imponendo cauzioni contro le liti temerarie, levando la competenza ai tribunali dove risiedono i denuncianti e soprattutto distinguendo i fatti falsi e gli insulti (che, senza rettifiche e scuse date con evidenza, vanno sanzionati) dalle opinioni critiche e dalle battute satiriche (che devono essere sempre legittime). Oppure noi smettiamo di scrivere cose vere e di criticare chi lo merita. Ma in questo caso verrebbe meno la ragione stessa del nostro mestiere, almeno per come lo intendiamo noi: quella che nove anni fa ci ha spinti a rischiare i nostri soldi e carriere per fondare un giornale libero, critico e veritiero. Di certo, visto che i soldi non ce li regala nessuno né li troviamo sotto le mattonelle, non possiamo scrivere ogni giorno con la spada di Damocle di risarcimenti pesantissimi sul capo, l'ufficiale giudiziario dietro la porta, la quotidiana busta verde nella buca delle lettere e l'avvocato tascabile che ci controlla le virgole. Certo, potremmo evitare tutto questo facendo come tanti altri: usando la lingua al posto della tastiera. O facendoci scrivere gli articoli da qualche giudice, per dire che chi fa fallire le sue società è un grande imprenditore un po' sfortunato e chi compra terreni con un socio lo fa a sua insaputa. Ma non ne siamo proprio capaci. Piuttosto, preferiamo cambiare mestiere.
Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 23 ottobre 2018. Renzi è bello carico (Trentino a parte). La Leopolda gli ha ridato vigore e invece di fare il senatore semplice e mettersi da parte come aveva promesso, è tornato alla riscossa. Ieri i giudici gli hanno anche fatto un regalino. «Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95mila euro: è solo l'inizio. Il tempo è galantuomo», scrive sulla sua e-news settimanale. E ancora: «Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni». Il giudice del tribunale civile di Firenze che ha emesso la sentenza è Lucia Schiaretti. Tiziano Renzi aveva chiesto 300mila euro di risarcimento, per tre articoli sulla vicenda Chil Post e Mail Service Srl. La condanna di Travaglio riguarda due editoriali del 24 dicembre 2015 e del 16 gennaio 2016. Nel primo, «I Babboccioni», parlando dell'indagine sulla Chil Post, Travaglio aveva scritto «fa bancarotta»; nel secondo, «Hasta la lista», aveva accostato per «affarucci» Tiziano Renzi a Valentino Mureddu, iscritto alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio anche il contenuto di un articolo on line su Banca Etruria e Renzi senior, della giornalista Gaia Scacciavillani. Il padre dell'ex premier è uscito invece sconfitto nella causa contro Peter Gomez e il giornalista Giordano Cardone per articoli sull' edizione on line. Le cose per babbo Renzi non si mettono bene nemmeno per altri «affarucci», come li definirebbe Travaglio. Ieri, in relazione a un'inchiesta del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, ci sarebbe stata, da parte della Guardia di Finanza, una ulteriore acquisizione di materiale a casa di Silvia Gabrielleschi, dipendente della Marmodiv, altra coop legata ai business dei Renzi e dichiarata fallita dieci giorni fa. L' attività è collegata alle indagini sul fallimento della Delivery service, cooperativa nata nel 2009 con sede presso Confcooperative (le coop bianche) in piazza San Lorenzo a Firenze. Gli investigatori cercano collegamenti tra questa coop, la Eventi 6 dei Renzi e la Marmodiv, appunto. Gli inquirenti ritengono che tra queste società ci sia stato un insolito scambio di fatture. Inoltre ci sarebbe una pista relativa a una presunta truffa legata alla distruzione (a pagamento) dei depliant non consegnati: il macero, la torta su cui tutti puntano, quella che aggiusta i conti. Proprio a Rignano ci sarebbe un magazzino adibito a discarica per le rimanenze, mentre una delle cartiere per il macero si troverebbe a Campi Bisenzio. La Marmodiv è un'azienda fondata nel 2013 da persone legate a papà Renzi, e in questi anni ha visto crescere il fatturato fino a quasi 3,4 milioni di euro. È stato il loro braccio operativo e riceveva gran parte delle commesse della Eventi 6 (che ha come presidente la mamma di Renzi, Laura Bovoli, e socie le sorelle di Matteo, Benedetta e Matilde), la ditta di Rignano sull' Arno specializzata in distribuzione di pubblicità: il compito della Marmodiv era distribuire materiale pubblicitario per Conad, Esselunga, UniCoop Firenze, che avevano firmato contratti con la Eventi 6. A ottobre 2017 la Finanza aveva perquisito i suoi uffici fiorentini acquisendo materiale e hard disk. Ieri altre acquisizioni domiciliari. Ma è sempre il solito fango...
La verità
La verità fra la famiglia Renzi ed il Fatto Quotidiano: Marco Travaglio è stato condannato, scrive il 25 ottobre 2018 Il Corriere del Giorno". ESCLUSIVA! La sentenza integrale della condanna a Marco Travaglio ed al Fatto Quotidiano per aver diffamato il padre di Matteo Renzi. Una sentenza che smentisce quanto asserito dal giornale di Travaglio all’indomani dalla sentenza! Nei giorni scorsi molti organi di informazione, fra cui il nostro giornale, hanno pubblicato la notizia relativa alla condanna in primo grado del Tribunale civile di Firenze nei confronti dell’Editoriale Il Fatto spa (editrice de il Fatto Quotidiano n.d.r.) del suo direttore responsabile Marco Travaglio, e della giornalista Gaia Paolo Scacciavillani, per aver diffamato con i loro articoli Tiziano Renzi, padre del sen. Matteo Renzi, ex premier e segretario nazionale del PD. Una sentenza di condanna che il giornale diretto da Marco Travaglio ha sintetizzato “Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti”, sostenendo che “il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio” ma in realtà tale sintesi riguardava esclusivamente quanto pubblicato online per la quale si è “salvato” dalla condanna il collega Peter Gomez , in quanto la pubblicazione online secondo la Cassazione non è riconducibile alle norme di Legge sulla Stampa (quindi un “cavillo” giuridico, e non un’ assoluzione sul merito) come dimostra e contiene la sentenza che il CORRIERE DEL GIORNO, unico giornale in Italia, è in grado di pubblicare integralmente, come nostro stile giornalistico. Sentenza che anche Travaglio avrebbe ben potuto pubblicare sul FATTO, ma che stranamente… se è guardato bene dal farlo! Ogni giudizio etico sulla vicenda viene quindi demandato ai lettori, auspicando che abbiano conoscenze e competenze giuridiche per capire il contenuto della sentenza. Noi diamo notizie, non esprimiamo opinioni e sopratutto non ci schieriamo mai con nessuna delle parti in causa. Buona lettura.
Il precedente.
Travaglio punito dal giudice, scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.
La solidarietà corporativa.
Se si va per l’aia di una fattoria e provi a toccare un maiale o un’oca, tutti i loro simili grugniscono o starnazzano.
Lo Stato di diritto contro Travaglio, scrive il 24 ottobre 2018 Democratica. La campagna mediatica giustizialista di Marco Travaglio subisce una brusca battuta d’arresto. Il paradigma giornalistico del “diamogli addosso” di Marco Travaglio non ha passato l’esame del Tribunale di Firenze. L’esito finale della sentenza che condanna il Fatto Quotidiano a pagare 95000 euro al padre di Matteo Renzi, Tiziano, può essere considerato come l’albero sul quale si è schiantato a tutta velocità il giustizialismo usa e getta messo in campo nella campagna mediatica travagliesca contro Renzi. Sulla sentenza che condanna Travaglio e dà ragione a Tiziano Renzi c’è molto da dire. Innanzitutto bisognerebbe dire basta alle campagne di odio politico svincolato dai fatti. Chi tenta di collocare il baricentro del discorso pubblico partendo dal garantismo diviene egli stesso oggetto di attacco. Succede di frequente: si viene inseriti nella black list della Casta, si viene classificati come servi del potere, persino scribacchini mercenari. Intanto Travaglio ha preannunciato che ricorrerà in appello perché è sicuro del fatto che il suo giornale abbia scritto la verità, nonostante i giudici civili, almeno in parte, gli abbiano dato torto. Una mossa lecita se non fosse accompagna dalla reiterazione dell’attacco fine a se stesso: “Cercheremo di farci ridare i soldi. Se le balle, poi, fossero reato, Renzi sarebbe all’ergastolo, quindi starei tranquillo al posto suo. Noi le balle non le abbiamo mai raccontate”. Ora più che mai Marco Travaglio appare un apprendista stregone che oggi paradossalmente incappa in una sentenza di quella magistratura che egli ha eletto al vertice del sistema. L’utilizzo delle notizie maneggiate, quelle prese e ricostruite artificiosamente, l’uso di certe parole offensive, finanche la storpiatura dei nomi per canzonare l’avversario: il direttore del Fatto ripensi al suo modo di fare giornalismo. Ma l’informazione politica, anche quella schierata, non dovrebbe essere altro?
Travaglio unico nel fare giornalismo, scrive Giovanni Coviello fondatore VicenzaPiu.com il 10 ottobre 2018. Fare giornali non è un'impresa facile soprattutto in Italia e non di questi giorni ma da molti anni, da quando di fatto sono ben pochi gli editori indipendenti. Tanto per capirci un editore è indipendente se non ha attività imprenditoriali e/o politiche a cui il suo giornale (stampato, televisivo, online...) possa far comodo portandolo a valutare i suoi risultati non solo su base economica, spesso da anni negativa, ma per gli "aiutini" che la sua linea editoriale può dare agli altri suoi affari. È per questo che, visto che ci siamo costruiti la possibilità di essere editori di noi stessi (una "sfortuna" economicamente, una "fortuna" per i lettori ci premano anche con gli abbonamenti) ci piace seguire Il Fatto Quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio, un non simpatico ma grade professionista, non ha padroni di riferimento che non siano alcuni suoi giornalisti, qualche investitore che non ha altri business che non l'informazione e, soprattutto, i suoi lettori. Un giornale così libero (Libero come è di Angelucci, re delle cliniche private e dei giornali... collegati cioè, oltre a Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria, di Siena, di Arezzo, di Viterbo e di Rieti) che, pur essendo più "piccolo", per la gioia dei lettori può fregarsene della RCS (Il Corriere della Sera e Gazzetta dello sport di Urbano Cairo, finanziato, però da Intesa Sanpaolo che è anche il secondo azionista dopo Confindustria de Il Sole 24 Ore), ovviamente dei giornali (e tv) della famiglia Berlusconi e di quelli della famiglia Caltagirone (Il Gazzettino, Il Messaggero, la Gazzetta del sud...), per non parlare di quelli (La Gazzetta del Sud, Il Giornale di Sicilia...) dell'imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo alla sbarra in un processo per concorso esterno all'associazione mafiosa, ma soprattutto del gruppo Gedi dell'accoppiata De Benedetti - eredi Agnelli (Espresso più la Repubblica più La Stampa + Il Secolo XIX più la catena locale dei quotidiani Finegil tra cui Il Mattino di Padova, La Nuova di Venezia, La tribuna di Treviso...). L'elenco dei giornali "dipendenti", serviti da giornalisti "dipendenti" o precari che siano, continuerebbe a dismisura a parte il gruppo dell'editore Riffeser Monti (Il Giorno, la Nazione, Il Resto del Carlino e, cioè, i quotidiani QN) e poche altre eccezioni. I quotidiani più locali (alcuni che fanno capo a gruppi nazionali o para nazionali li abbiamo già citati) non sfuggono alla regola dell'editore impuro. È perciò che noi non ci divertiamo ma abbiamo l'obbligo di far sapere ai lettori, per tutelarne la conoscenza delle fonti a cui si rivolgono per informarsi dei fatti e farsene opinioni, a chi fanno capo i media locali. Se quelli spiccatamente locali sono solo Il Giornale di Vicenza e Tva, che appartengono a Confindustria Vicenza (il secondo direttamente, il primo tramite una società controllata anche da Confindustria Verona) la nostra attenzione, per quanto localmente "piccoli" (numericamente ma sempre meno), come "piccolo" (numericamente ma sempre meno) è Il Fatto Quotidiano rispetto ai colossi dell'editoria padronale nazionale, si concentra su di loro e sulle loro interpretazioni (libere per diritto giornalistico ma non sempre indipendenti dalla proprietà editoriale) dei fatti se non addirittura, come spesso avviene, della loro distorsione se non cancellazione. Per fare esempi non esaustivi ma chiari per le tre suddette caratteristiche citiamo:
- l'interpretazione della convenienza di opere come la Tac Tav e della Pedemontana Veneta (tra i proprietari del GdV e di Tva ci sono quelli che ne traggono e ne trarrebbero utili per loro);
- la distorsione della realtà come per gli ancora recenti e sanguinanti osanna perenni alla Banca Popolare di Vicenza, dei cui vertici facevano parte i vertici di Confindustria sponsorizzati dagli imprenditori amici, e come per gli atti delittuosi e gli immigrati, che nella realtà diminuiscono ma che ci vengono fatti percepire come fattori ogni giorno in crescita di una Vicenza terreno barbaro di lotte per bande, preferibilmente africane e mussulmane, per cui uno scippo diventa terrore di un quartiere (i proprietari del GdV e di Tva hanno come referenti molti politici che sono bravi ad agitare gli spettri della paura e dei mal di pancia, un po' meno a costruire una città meno provinciale e più moderna);
- la cancellazione di fattacci come quelli dei morti e dei feriti sul lavoro (specialmente se sono quelli di aziende come la Marlane Marzotto, i cui nomi o parti di nomi sono oggetto solo di ossequi, e allora due dita mozzate a un gambiano alla Ferretto meritano solo uno sperduto riquadrino); come le pene attuali e future degli impoveriti dal crac della BPVi osannata; come la sodomizzazione della Fondazione Roi; come le denunce intimidatorie ad alcuni, ovviamente pochi coraggiosi, giornalisti, e non parlo solo di me.
Allora ecco il perché del titolo "Travaglio unico per fare giornalismo". Sì, è un travaglio unico farlo bene in Italia e a Vicenza, ma è unico Marco Travaglio nel saperlo denunciare con nomi e cognomi e con fatti e dimenticanze ma anche nel volerlo e saperlo difendere, quello condiviso e quello combattuto, da chi, come Luigi Di Maio, vorrebbe fare a meno di tutto il giornalismo non amico o non servo. Vi proponiamo, quindi, un editoriale di Travaglio, unico anch'esso nell'elencare le opinioni smaccatamente non di parte, è lecito, ma facinorose, i favoritismi e gli oblii dei quotidiani di De Benedetti Elkann ma anche unico e coraggioso nel difendere la Repubblica, La Stampa & c. dalle minacce inaccettabili di un vice ministro come Di Maio. Come li difende è evidenziato in grassetto nell'articolo di sotto riportato, mentre noi, seppure con interno... travaglio, per sostanziare l'ammirazione nei suoi confronti (professionali e non per identità di vedute, spesso diverse), proviamo a difendere l'esistenza di GdV e Tva parafrasando la difesa di Marco Travaglio: Hanno fatto questo e altro, i giornali di Confindustria Vicenza, ma noi vogliamo che continuino a proporsi ai lettori/telespettatori per tre motivi. 1) Nessun deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, ma di sicuro può darle agli editori e ai direttori che li costringono, per loro evidente stato bisogno in assenza di alternative economiche, a servire gli interessi della proprietà e non i lettori 2) Quando VicenzaPiù subisce attacchi ben peggiori delle pagelle dal sistema locale e dai suoi killer, non ci giunge alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché tutti continuiamo ad esistere, la gente può notare la differenza.
Da un travaglio può nascere qualcosa di bello ed è per un po' di quel bello che noi accettiamo il travaglio di fare Giornalismo: è bello il post travaglio.
La differenza di Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano.
Hanno scritto di un'intercettazione fra Rosario Crocetta che taceva divertito mentre un amico medico auspicava l'assassinio di Lucia Borsellino come quello del padre Paolo, e non era vero. Hanno scritto di troll russi dietro la campagna web contro Mattarella, e non era vero. Hanno scritto che il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, nel caso Consip, era stato "smascherato come impostore e falsario di passaggi politicamente significativi dell'inchiesta"; e aveva "consegnato a Marco Lillo la notizia del coinvolgimento di Del Sette", insomma era lui "la mano che dà da mangiare al Fatto" per "far cadere Renzi" (fra l'altro già caduto da solo), ma non era vero; e, quando la Cassazione scagionò Scafarto per i suoi "errori involontari", si scordarono di informarne i lettori. Hanno scritto che Di Maio situava Matera in Puglia anziché in Basilicata, e non era vero. Hanno scritto che l'Italia, se rinunciasse al Tav Torino-Lione, dovrebbe pagare "penali" miliardarie, e non è vero (glielo fece notare l'ex pm Livio Pepino in una lettera, ma non la pubblicarono). Hanno scritto che Marcello Foa, aspirante presidente Rai, è un fabbricante di fake news tant'è che ha scritto un libro per "spiegare come si falsifica l'informazione al servizio dei governi", ma non è vero (il suo Gli stregoni della notizia, al contrario, smonta le fake news al servizio dei governi). Hanno scritto che c'è la Russia di Putin dietro le fake news filo-M5S&Lega, e non era vero.
Hanno scritto che il premier Conte voleva trasferirsi dalla cattedra di Firenze a quella di Roma con un concorso "confezionato su misura", e non era vero (il bando era standard). Hanno taciuto sulla tesi di dottorato in larghe parti copiata dalla Madia. Hanno nascosto la bocciatura del Jobs Act di Renzi dalla Corte costituzionale ("Lavoro, su Jobs Act e Cig si ritorna al passato": nessun riferimento nella titolazione alla Consulta e all'incostituzionalità). Hanno nascosto, mentre tutti gli altri giornali ne parlavano, l'inchiesta per la soffiata di Renzi a De Benedetti sul decreto Banche popolari, usata dall'Ingegnere per guadagnare in Borsa 600 mila euro in due minuti, forse perché troppo impegnati a fare decine di titoli su "Spelacchio" (un albero di Natale). Hanno fatto il taglia e cuci dei messaggi di Di Maio alla Raggi per spacciarlo come "bugiardo" e "garante" di Raffaele Marra in Campidoglio, mentre ne sollecitava il trasferimento. Hanno taciuto per giorni il nome dei Benetton, primi azionisti della concessionaria Autostrade (sponsor de La Repubblica delle Idee), dopo il crollo del Ponte Morandi.
Hanno scritto che il ponte era crollato anche per il no del M5S alla Gronda, che però fu bloccata da chi governava città e regione (centrosinistra e centrodestra) e per giunta contemplava l'uso del viadotto Morandi. Hanno scritto di probabili legami con la Casaleggio di tal Beatrice Di Maio e delle sue fake news anti-renziane e non si sono mai scusati quando si è scoperto che era la moglie di Brunetta. Hanno accostato le leggi razziali del fascismo al decreto Sicurezza di Salvini. Hanno pubblicato una bozza apocrifa e superata del contratto di governo giallo-verde facendo credere che prevedesse l'uscita dell'Italia dall'euro e scatenando spread e mercati. Hanno nascosto il sequestro di 150 milioni e di due giornali all'amico editore-costruttore catanese Ciancio Sanfilippo. Hanno spacciato lo scandalo Parnasi come una storia di tangenti al M5S, mentre i partiti finanziati dal costruttore sono gli altri (Pd, Lega e FI). Hanno elogiato Monti quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020 e massacrato la Raggi quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Hanno scritto che le polizze intestate dal dirigente Romeo all'ignara Raggi celavano "tesoretti segreti" per "garantire un serbatoio di voti a destra", dunque era "vicina" l'"accusa di corruzione", ma non era vero. Hanno dipinto l'assessora Paola Muraro come infiltrata di Mafia Capitale e della "destraccia" nella giunta capitolina, salvo poi intervistarla dopo le dimissioni come grande esperta di rifiuti. Hanno nascosto l'attacco di Rondolino, che sull'Unità dava del "mafiosetto di quartiere" a Saviano, reo di aver criticato la Boschi, mentre il Fatto restò solo a difenderlo. Hanno minimizzato le epurazioni dalla Rai renziana di Gabanelli, Giannini e Giletti come ordinaria amministrazione.
Hanno fatto questo e altro, i giornali del gruppo Gedi (Repubblica-Espresso-Stampa), ma noi siamo solidali con loro per gli attacchi di Di Maio, per tre motivi. 1) Nessun politico deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, tantopiù se sta al vertice del governo. 2) Quando il Fatto subiva trattamenti anche peggiori da Renzi e dai suoi killer, non ci giunse alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché usciamo tutti in edicola, la gente può notare la differenza.
Ps. Per la serie "Chiamate la neuro", segnaliamo i delirii di Carlo Bonini (Repubblica) all'autorevole Radio Cusano Campus: "Il Fatto Quotidiano specifica che non prende alcun finanziamento pubblico? È una furbizia. Siccome i lettori del Fatto sono in buona parte elettori del M5S, è un modo per raffigurare ai lettori del M5S che la terra è tonda e non quadrata, dopodiché la terra è tonda". Il pover'uomo ignora che il Fatto è nato prima del M5S e la nostra scelta di non ricevere finanziamenti pubblici prescinde dalle intenzioni di voto dei nostri lettori (peraltro note solo a lui). Volendo, Bonini potrebbe raccontarci degli aiuti statali (o a spese degli altri giornalisti) ricevuti dal suo gruppo per contratti di solidarietà, prepensionamenti & affini. E regalarci una delle sue grandi inchieste sui vertici Gedi indagati per una truffa milionaria all'Inps.
Eppure…nonostante Travaglio....
Editoria: Cdr Il Fatto, informazione libera interesse Paese, solidali con Gedi, scrive Adnkronos il 7 Ottobre 2018. “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i […] Roma, 7 ott. (AdnKronos) – “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i Comitati di redazione del Fatto quotidiano e de ilfattoquotidiano.it. “Quando giornali e siti di informazione chiudono, dichiarano esuberi o sono costretti a contratti di solidarietà, a rimetterci non sono solo i giornalisti ma anche il pluralismo e quindi la democrazia”, si legge nella nota del Cdr. “Il mercato editoriale e quello pubblicitario vivono situazioni di estrema difficoltà, connesse anche alle trasformazioni tecnologiche e al peso dei colossi della rete e dei trust televisivi, che un vicepremier e ministro del Lavoro senz’altro conosce, o almeno dovrebbe conoscere, meglio di noi. E’ inaccettabile che Luigi Di Maio liquidi i problemi di un importante gruppo come Gedi che edita Repubblica, L’Espresso, La Stampa e altre testate, sostenendo che “nessuno li legge più perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”, con offensivi riferimenti a “bufale” e “fake news” e cioè a una linea editoriale che non gli piace”, si sottolinea nella nota.
Marco Travaglio sbancato in tribunale da Tiziano Renzi: 95mila euro sono troppi, da rivedere la legge, scrive Renato Farina il 24 Ottobre 2018 su "Libero Quotidiano". A Berlusconi dev’essersi sollevato il morale, nonostante i guai tirolesi, per l’umile e insieme dignitosa domanda d’ingresso di Marco Travaglio nel club del quale il Cavaliere è da circa 25 anni presidente. Il circolo si chiama “A me mi hanno rovinato i giudici”. Leggendo l’editoriale di ieri del direttore sulla prima pagina del Fatto quotidiano siamo messi davanti a due avvenimenti antipatici e ad uno stato d’animo atto a suscitare nel lettore un moto di solidarietà. Cominciamo dai fatti. È capitato che il Tribunale di Genova, in sede civile, abbia condannato per diffamazione Travaglio e una sua cronista ad un risarcimento di 95mila euro a ristoro di Tiziano Renzi, il papà di Matteo. Questa sentenza - ci racconta il salassato con una prosa meno satirica del solito - viene dopo un’altra decisione tribunalizia, ancora più pesante: da rifondere con 150mila euro sono in questo caso i giudici di Palermo maltrattati dal Fatto per aver assolto il generale Mario Mori in uno dei tanti processi cui è stato sottoposto. In entrambi i casi siamo al primo grado di giudizio, e non è stata deliberata l’esecutività dell’esborso. Non entriamo nel merito delle sentenze. Travaglio si difende con cipiglio, e le giudica sbagliate fino allo scandalo. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo una stanza dei trofei delle assurdità. Ci è capitato di essere condannati per aver scritto che un brigatista rosso aveva partecipato a tre assassinii, mentre pare fossero solo due, e gli avremmo così rovinato la reputazione. In un’altra vicenda, un imam espulso dall’Italia e restituito al Marocco in quanto teorico del terrorismo, è stato gratificato su ordine del Tribunale di 100mila euro: glieli ha dovuti fornire Libero per non averlo trattato come un noto pacifista. La speranza è che se li sia bevuti o spesi a donne, ma temiamo siano stati impiegati per far danni.
UMORE AMARO. Travaglio dice che se va avanti cosi, tra Tribunali e avvocati, il Fatto rischia di chiudere. «Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali “a strascico” sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze». Chiede soccorso ai lettori, a questo punto. Ci risparmia di associarsi alla lagna di quelli che chiedono aiuto al sindacato unico e all’Ordine dei gazzettieri, entrambi enti non solo inutili ma dannosi. E di questo Dio gliene renderà merito: guai a invocare l’aiuto di Belzebù. A nostra volta non gli faremo il torto di fingerci accorati per lui e il suo giro. Siamo stati costretti dalla nascita, 18 e rotti anni fa, a grattarci le rogne da soli, e se le sentenze dei Tribunali ci hanno spennato, a zittirci hanno provato con qualche successo i consigli disciplinari della sventurata categoria, senza trovare sostegno da chicchessia. Amen.
Dicevo dei sentimenti toccanti che traboccano dallo scritto di Travaglio e quasi annegano gli eventi. Si avverte nel giornalista torinese l’umore sconfortato e amaro del cornuto, cui tocca persino versare l’assegno alimentare alla magistratura così amata eppur fedifraga.
REATI DI OPINIONE. Nessuno può mettere in dubbio la nostra cordiale partecipazione al lutto, avendo Libero dedicato al tema di tradimenti e ripicche una fortunata serie, dove Feltri non ha lesinato spigliati consigli per tirare su il morale agli sventurati. Ma uno buono Travaglio lo dà da solo a se stesso, associandosi a una causa che vede il nostro quotidiano, e il direttore in particolare, ingaggiato dall’età di Gutenberg in una battaglia senza quartiere. Quella per dare una regolata seria alle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa. Logico che chi sbaglia deve pagare. Ogni categoria professionale, dal medico al meccanico al giornalista, è esposta alla possibilità di errori. Che debba risarcire i danneggiati è ovvio, anche se da questa ovvietà sono immuni i magistrati, nonostante un referendum che nessuno ha osato dal 1988 applicare davvero. Occorre però misura e buon senso. Nel caso delle pretese diffamazioni - oltre alla depenalizzazione - occorre predisporre un tariffario certo e non assassino della libertà di stampa nel definire l’entità del danno, oltre a prevedere forme diverse o sostitutive del ristoro in pecunia, che vadano dalla rettifica alle scuse pubbliche. Sarebbe davvero il caso che questo “governo del cambiamento” mutasse il codice sfoltendolo dai reati di opinione e vilipendio, e impedendo che si punisca una parola esagerata come un omicidio stradale. Renato Farina
Ha ragione (sic!) Travaglio, scrive Piero Sansonetti il 24 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Beh, stavolta mi tocca dar ragione a Marco Travaglio. Ieri ha scritto un articolo appassionato, sul Fatto, per difendere se stesso e il suo giornale da una sentenza di condanna inflittagli dal tribunale per via di una querela che si era beccato da Tiziano Renzi, il padre del leader del Pd. Nessuno può negare che il Fatto da qualche anno abbia scelto Matteo Renzi, i suoi genitori, Maria Elena Boschi e chiunque altro abbia frequentazioni con l’ex premier, come bersagli fissi delle sue polemiche. A volte sensate, spesso costruite su notizie (non sempre vere) fatte recapitare da alcune Procure ai suoi cronisti (penso alla campagna battente su Consip, fondata anche su alcune false informazioni e conclusasi solo quando la Procura di Roma ha bloccato i rubinetti della fuga illegale di notizie proveniente da Napoli). E nessuno può togliere al Fatto la colpa o il merito di avere in questo modo (anche con metodi giornalistici che io francamente non condivido e che considero la quintessenza del giustizialismo) contribuito largamente alla pesante sconfitta politica di Matteo Renzi, al dimezzamento elettorale del Pd, al trionfo delle forze penta- leghiste. Ma tutto questo può essere – e a mio giudizio deve essere – il terreno di una battaglia politica e di cultura. Le Procure non c’entrano niente. E’ vero che né la politica, né tantomeno il giornalismo, sono stati capaci di contrastare le campagne del Fatto, da posizioni garantiste e liberali. Anzi, spesso gli sono corsi appresso. Ma questa circostanza non è colpa del Fatto e comunque in nessun modo investe i compiti delle Procure. Sarebbe bene metterselo in testa una volta per tutte: le Procure non possono e non devono svolgere una funzione di “surroga” della politica. Se la politica è assente è assente: non può un altro potere costituzionale assumerne i compiti. Altrimenti si realizza un corto circuito e questo cortocircuito comporta un disastro, perché riduce le libertà di tutti. E innanzitutto riduce la libertà di stampa. Una cosa è una polemica, dove si può prevalere o soccombere o nessuna delle due cose. Una cosa è una sentenza che ti manda in prigione o riduce drasticamente le tue disponibilità economiche. Travaglio su questo ha del tutto ragione. E’ probabile che sul Fatto sia uscita qualche imprecisione sugli affari economici del papà di Renzi, ed è anche molto probabile che queste imprecisioni fossero funzionali a una polemica esagerata nei confronti dello stesso papà, in quanto papà, e cioè che mirassero a danneggiare il figlio. Ma se ogni imprecisione nelle polemiche, anziché combattuta con l’arma della smentita e della rivalsa polemica, finisce con una sentenza severissima del tribunale, succede esattamente quello che denuncia Travaglio: chi svolge questo mestiere, cioè il giornalista, se mai tra le sue intenzioni ci fosse quella di criticare il potere, si rassegnerà a lasciar perdere e a diventare quieto e mansueto. Il potere non perdona, sa come intimidire, e per farsi valere usa la magistratura. Talvolta, come in questo caso, sono i politici o i parenti dei politici a usare la magistratura. Talvolta – io almeno ho questa esperienza – sono direttamente i magistrati a praticare lo stesso metodo. E’ vero che i giornalisti che criticano i magistrati sono molto meno di quelli che criticano i politici, ma quei pochi sono a rischio altissimo, anche perché i politici spesso le cause le perdono, i magistrati assai raramente. Travaglio alla fine del suo articolo propone la riforma del sistema delle querele e delle cause per risarcimento. Credo che abbia ragione da vendere stavolta. Magari dovrebbe tenere conto, nei prossimi anni, del fatto che tutto questo succede anche per un eccesso di potere assunto dalla magistratura. E dovrebbe ragionare sulla possibilità che questo eccesso di potere sia nato anche in seguito al “fiancheggiamento” della stampa giustizialista. Però è probabile che questa mia speranza sia eccessiva.
Mi sono fatto un paio di domande sulla condanna di Travaglio. Nessuna soddisfazione nel ricorrere alla magistratura nei confronti di qualcuno che mi sta sullo stomaco, scrive Andrea Marcenaro il 24 Ottobre 2018 su Il Foglio. Se c’è una cosa che mi fa onore è non aver mai voluto perdere tempo a chiamare alcuno dei miei amici anziani, ma che furono feroci ai loro tempi, per organizzare l’avvelenamento, o l’omicidio semplice, o peggio ancora lo squartamento di Marco Travaglio. Mai, non mi è nemmeno mai venuto in mente. Così ieri, quando ho visto che Travaglio stesso era stato condannato da un tribunale a pagare 95 mila euri per aver sputtanato uno dei mille che ha sputtanato, posso dirvi in tutta sincerità di essermi domandato, primo, se, come persona che aborre l’intervento della magistratura come risolutrice di ogni questione, avrei fatto un’eccezione per qualcuno che mi stava sullo stomaco. Mi sono risposto che non dovevo. E che non l’avrei fatta. Secondo, se avrei provato comunque, al di là della ragione, una per quanto piccola soddisfazione nel profondo del cuore per quella condanna. No, mi sono risposto per la seconda volta, non provavo alcun compiacimento. Neppure un’ombra. E non ho nulla di cui vantarmi, intendiamoci bene, sono fatto così. Dio, però, quanto mi piace sparare cazzate come queste.
Difendo la libertà di stampa e quindi anche “Il Fatto”, scrive Piero Sansonetti il 25 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Trovo molto, molto ragionevoli le critiche di Emanuela Bellizzi e di Filippo Bassi. (Oltretutto non sono solo ragionevoli ma sono anche – rarità – civilissime). E tuttavia dissento. Provo a spiegare perché. È chiaro – e lo ho scritto anch’io molte volte – che la stampa spesso usa in modo arrogante e anche volgare il suo enorme potere. Talvolta lo fa per spavalderia, talvolta per assecondare altri poteri (essenzialmente il potere economico o quello giudiziario, più raramente il potere politico) e con le spalle protette da questi poteri. E’ evidente che questo atteggiamento, (dovuto anche – credo – alla crisi drammatica che sta vivendo, da 15 anni a questa parte, il giornalismo italiano) costituisce un problema. Poi però c’è un secondo problema, grandissimo, ed è quello della difesa della libertà di stampa. Io sono tra quelli che pensano che la stampa, e l’informazione, in Italia siano a un livello molto basso, e che abbiano un grado minimo di indipendenza. Questo però non vuol dire che allora si può rinunciare alla libertà di stampa. Al contrario, proprio per la qualità scadente della nostra informazione è necessaria assolutamente una battaglia strenua per la libertà di stampa. È chiaro che libertà di stampa non può significare né libertà di insulto né libertà di calunnia. Ma come si combattono questi vizi? Con la magistratura? Io non credo. Credo che si combattano con la battaglia politica, con l’impegno. Conosco per esperienza come funziona l’uso della giustizia da parte del potere – per limitare la libertà di informazione. Personalmente, avendo diretto alcuni giornali ( e quando dirigi un giornale rispondi di qualunque cosa sia stato scritto) ho collezionato un po’ più di centocinquanta azioni giudiziarie contro di me ( tra penale e civile). Succede anche a altri miei colleghi. Difendersi diventa quasi impossibile, perché costosissimo. Ogni azione giudiziaria che si è costretti ad affrontare comporta fatica, tensione, preoccupazione, spese alte. Volete sapere quante di queste azioni giudiziarie sono partite da inermi cittadini? Forse due o tre. Tutte le altre sono state messe in moto da persone molto potenti, in particolare da magistrati o da politici. Le più gravi e pericolose da magistrati. Voi pensate che tutto questo non diventi un fatto oggettivo di forte intimidazione? Immaginate che sia facile continuare a scrivere di quel magistrato o di quel politico che ti ha portato in tribunale, mentre procede l’iter processuale? E sapete che anche se poi si vince la causa nessuno ti rimborserà le spese né il tempo? E sapete che se poi si perde – e non sempre perché si ha torto – si viene condannati a pene detentive o a risarcimenti altissimi, pari a quanto guadagni in due o tre anni di lavoro? Dopodichè chiunque un pochino pochino mi conosce sa che le mie simpatie (professionali) per Marco Travaglio sono a zero. E che sono molto preoccupato per come Travaglio e i suoi hanno occupato quasi tutti i talk show nazionali e hanno sottomesso gran parte del nostro sistema di informazione. Ma non è una questione di simpatia, né di giudizio sulle sue qualità professionali o morali, né di difesa di una parte politica. Il problema è molto più semplice: di fatto, la legge viene usata contro la stampa, nel 99 per cento dei casi, non per difendere i cittadini deboli ma per rendere invulnerabili i poteri più forti. Non tanto la politica, e infatti è difficile sostenere che in Italia non esista la possibilità di criticare la politica. Quanto il potere economico e quello della magistratura. La critica a questi due colossi è veramente molto difficile. Per questo io non credo che la mia difesa – forse un po’ paradossale – di Travaglio sia una difesa corporativa. (Del resto ho scritto moltissimi articoli contro gli attacchi spesso pretestuosi del Fatto a Renzi, o a Boschi o ad altri dirigenti del Pd, ma non solo del Pd). Mi pare che effettivamente sia in gioco una parte del nostro potere di giornalisti (e nella sua difesa c’è sicuramente corporativismo) ma sia in gioco anche un bene più grande e generale che è la nostra libertà di giornalisti. E la nostra libertà interessa tutti. Anche se viene frequentemente usata malissimo e trasformata in libertà di starnazzare, di insultare, di spargere odio.
P. S. So di dire una cosa controcorrente. Però io penso che le sentenze si possano criticare. Non ho mai capito perché non dovrebbe essere possibile criticare una sentenza. Forse sono sacre? Vanno rispettate ed eseguite, questo è logico, anche perché non esiste nessuna possibilità di non rispettarle. Ma perché mai se penso che sia sbagliata non dovrei avere il diritto a dirlo?
Eppure lo stesso Piero Sansonetti diceva…
Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio". È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.
Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.
Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.
Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.
Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».
Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.
Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?
Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.
Il Papa: «Giornalismo coprofilo», scrive Piero Sansonetti l'8 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione e possono cadere, senza offesa, nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno». Questo attacco durissimo alla stampa e alla televisione (con evidenti riferimenti alla stampa e alla televisione italiane) non è venuto da qualcuno dei soliti “garantisti imbavagliatori”, che vengono sempre denunciati e indicati al ludibrio pubblico dai profeti dell’informazione combattente. No, questa denuncia contro i lanciatori di fango viene dal papa Francesco Bergoglio. Il Papa ha parlato dei problemi dell’informazione e del suo degrado in un’intervista rilasciata al settimanale cattolico belga «Tertio». Non ci è andato tenero, il pontefice. Magari non tutti sanno cosa vuol dire coprofilia. E’ una parola abbastanza aspra: vuol dire amore per gli escrementi. Vogliamo dirla in modo più crudo ed esatto? Amore per la merda. È considerata una tendenza sessuale estrema, rarissima e un po’ inquietante. Il papa ha scelto questa espressione (” amante della merda”) per descrivere le caratteristiche essenziali del giornalismo, con riferimento evidente a parecchi giornali del nostro paese. E’ stato molto chiaro nel suo ragionamento. Non si è riferito solo alle (peraltro non infrequenti) calunnie. Ma anche alle verità usate non per fare informazione ma al solo fine di demolire e mettere fuorigioco un avversario. «Le tentazioni da evitare – ha detto – sono le eventualità in cui le informazioni possono danneggiare qualcuno, le tentazioni che portano i media lontani dalla loro missione, che è quella di costruire opinione. La prima tentazione si verifica quando una persona magari nella sua vita, in precedenza, nella vita passata, o dieci anni fa, ha avuto un problema con la giustizia, o un problema nella sua vita familiare, ma forse ha già pagato con il carcere, con una multa o quel che sia. In questo caso portare questo alla luce oggi è grave, fa danno, si annulla una persona! L’altra deviazione è la disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione, dire solo una parte della verità e non l’altra. Questo è disinformare. Perché tu, all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio. La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità. I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione» . Non so che risalto avrà questa frustata del papa sui giornali italiani di questa mattina. Temo scarso. I giornali italiani sono fatti così: capacissimi di criticare a sangue chiunque, del tutto incapaci di mettere in discussione se stessi. E siccome il papa è il papa, magari è difficile prenderlo di petto, come si può fare con Renzi, o con Berlusconi, o con Grillo, e dirgliene quattro, ma non c’è nessuna voglia nemmeno di ascoltarlo e di aprire una discussione seria su quanto dice. Meglio sorvolare. Il papa, non c’è dubbio, ha messo il dito nella piaga. In Italia è sempre più diffuso un tipo di giornalismo che nemmeno si pone il problema di sembrare oggettivo. Ho scritto: “sembrare”, nemmeno oso usare la parola: “essere”. Un gran numero di giornali da parecchi anni ha deciso che per conquistare lettori bisogna essere faziosi, avere dei nemici ben visibili e tirare fango (il papa direbbe: “merda”) su di loro tutti i giorni. Venticinque anni fa non era così. I giornali potevano anche essere molto faziosi, poi c’erano i giornali di partito – dichiaratamente schierati con una parte politica – ma comunque compivano uno sforzo per fornire ai lettori una informazione completa. La polemica era dura, anche molto dura, ma questo non impediva la difesa, da parte degli stessi giornalisti, della propria “autonomia”. Venticinque anni fa io lavoravo in un giornale di partito, di opposizione, molto agguerrito. E mi ricordo benissimo le lotte che noi giornalisti conducemmo a difesa della nostra autonomia, anche sfidando il potere del partito- editore, perché sostenevamo che il giornalismo, comunque, deve essere giornalismo, e deve cercare, almeno, il rispetto della verità prima della difesa degli interessi della propria parte. Noi dicevamo che non esiste il giornalista militante. Il giornalista ha le sue idee, le esprime, le applica al suo modo di lavorare, ma non rinuncia mai a sottomettersi alla verità. Poi irruppero sulla scena alcuni giornali “gridatissimi”, molto lontani dall’idea del giornalismo oggettivo. Eravamo ai tempi di “tangentopoli” 19921994. La magistratura aveva iniziato la crociata e i giornalisti messo l’elmo. Alzarono i toni della polemica, ridussero la verità a una comparsa, conquistarono copie e lettori. All’inizio erano giornali di destra, poi questo tipo di giornalismo si estese a sinistra, poi dilagò. E finì per contagiare anche la stampa – come dire? – “borghese”, che si sentì costretta ad inseguire, a fare uso indiscriminato di gossip e di intercettazioni, a venerare il “Dio Sospetto”, ha esaltare il principio della presunzione di colpevolezza. Ha ragione il papa (come spesso gli accade): quella china è diventata sempre più ripida e il giornalismo italiano ci si è rotolato, ed è sceso in basso, in basso, sempre più in basso. Ora sembra che non abbia più né la capacità né la voglia di rialzarsi in piedi, rimettersi in discussione, provare a risalire. Chissà se questa micidiale denuncia del papa, e la forza quasi rozza delle sue parole, riusciranno a scuotere qualcuno. Magari lo stesso sindacato, che qualche decennio fa era in prima fila nella battaglia dei principi alti del giornalismo, ora sembra un po’ rintanato, impaurito. Forse incapace di frenare la coprofilia.
L'impunità (dei giudici) è l'origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti su Il Dubbio, il 9 luglio 2016. Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo "Il Fatto". E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la "chimica" (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due "elementi" così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell'indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il "Fatto" è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all'indipendenza che fonda quella autolimitazione dell'indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull'indipendenza dal potere la propria - volontaria - rinuncia all'autonomia, e cioè all'indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il "Fatto". E si auto-colloca in una posizione di subalternità all'ideale - quasi religioso - del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l'hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l'Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell'aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). "Il Fatto" però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l'accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c'è assoluzione. Per capirci, c'è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all'imputato di rinunciare alla prescrizione e così' si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi - ovviamente - si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c'era e dunque era doveroso svolgere l'inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa "Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi". In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell'indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell'obbligatorietà dell'azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent'anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l'unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il "Corriere della Sera" parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la "Stampa" ha calcolato in 7000 all'anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall'Anm?
Ed a proposito di manette…
Telese: Me ne sono andato dal Fatto perché non voglio morire manettaro, scrive Chiara Sirianni il 5 luglio 2012 su Tempi. «Non ce l’ho con nessuno, ma la mia linea non è quella di Travaglio. È da venti giorni che parla di Napolitano come se fosse Totò Riina. Basta, la politica non è un virus contaminante». Ecco perché Luca Telese si fa il suo Pubblico. «Ero stufo di papelli, politologia, teoremi astrusi. A volte, invece che stare sul campo a scotennare i pochi superstiti, è importante accorgersi che la guerra è finita». Luca Telese è spavaldo, ora che ha ufficialmente divorziato dal quotidiano di via Orazio per approdare in edicola, da settembre, con una testata tutta sua. Del resto anche il Fatto quotidiano, creatura di Antonio Padellaro (direttore) e Marco Travaglio (vicedirettore e uomo icona) è nato da alcuni “dissidenti” dell’Unità (Furio Colombo in primis). E la ruota, prima o poi, gira. Pubblico sarà un giornale di 20-30 pagine, formato Berliner (leggermente più grande del tabloid, utilizzato soprattutto dai quotidiani francesi), molto colorato, pieno di disegni. Il modello di business sarà lo stesso del Fatto: gruppo di soci promotori che detengono il 51 per cento del capitale, per un investimento iniziale complessivo di 650 mila euro. Distribuito su quasi tutto il territorio nazionale, con tre centri stampa in Sardegna, a Milano e a Roma. Aspettative? «Se vendiamo diecimila copie, andiamo in pareggio. Se non vendiamo, chiudiamo». Quindici i redattori, con l’obiettivo di raccontare l’Italia della crisi, «dagli imprenditori suicidi agli operai bidonati da Marchionne». Nonostante non sia un buon momento per l’editoria (Nielsen registra -241 milioni di euro di investimenti pubblicitari nel periodo gennaio-aprile 2012 rispetto all’anno precedente), il campo di gioco è piuttosto affollato. Mentre i partiti di centrosinistra si preparano a rimescolarsi in vista delle elezioni del 2013, anche un altro giornalista “compagno” è alle prese con un debutto cartaceo nel prossimo autunno: si tratta di Piero Sansonetti, già condirettore all’Unità e poi di Liberazione, che ha in cantiere un tabloid, Paese, in distribuzione con alcune testate del Sud. Poi c’è il Manifesto, “salvato” dal decreto editoria approvato dal Senato.
Telese, col Fatto quotidiano non vi siete lasciati benissimo, stando al comunicato stampa con cui le hanno sarcasticamente augurato «buona fortuna».
«Al Fatto eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Politicamente, a un certo punto, hanno preso il potere i croati. Parlo di Marco Travaglio e del suo gruppo. Non ho insultato nessuno: ho solo precisato che c’era una differenza di linea. In generale non ci sono stati scontri, anche perché in questi tre anni sono rimasto in redazione certo più di Marco. Faremo persino una partita di calcetto, Pubblico contro i colleghi del Fatto».
Sarà una partita appassionante, visto che in una recente intervista Travaglio ha detto: «A Telese non rispondo: preferisco ricordarmelo da vivo».
«In casi come questo c’è davvero poco da aggiungere. Fa ridere? Non mi pare. È spiritoso? Nemmeno. Intende dire che è come se fossi morto? Se sì, mi preoccupo per lui. Io invece gli auguro di fare un ottimo giornale, e di parlare di mafia finché avrà fiato per farlo. Io faccio un altro mestiere».
Si riferisce alle conversazioni telefoniche, pubblicate sul Fatto, tra Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio in relazione alla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra?
«È da venti giorni che il Fatto tratta la vicenda come se Napolitano fosse Totò Riina. È “giudiziarismo” giacobino, esasperato. Conduce alla non realtà. Il problema di Travaglio è l’antiberlusconismo tardivo, a oltranza. È come se nell’America odierna ci si ponesse il problema di liberare gli atolli dagli ultimi soldati giapponesi».
Eugenio Scalfari, fondatore ed editorialista di Repubblica, l’aveva predetto con un pizzico di sadismo: ora che non c’è più Berlusconi, Marco Travaglio avrà qualche problemino.
«È l’ideologia del nemico. Il rischio è quello di recitare la commedia anche quando il sipario è calato. Marco è molto carismatico, ma è rimasto un po’ prigioniero del suo ruolo. Che qualcuno pensi di essere portatore di una verità rivelata a me, personalmente, inquieta molto. Contemporaneamente, Beppe Grillo è sembrato una facile via d’uscita: è un partito in forte ascesa? Sì. Ha bisogno di un quotidiano di partito? Diamoglielo».
Perché no?
«Che senso ha scagliarsi per anni contro un imprenditore televisivo per poi mitizzare un comico? Serve altro per fare politica. Non basta urlare a un microfono “siete tutti morti!”. Purtroppo in tempo di crisi tornano in auge i comici e le fattucchiere. Quando invece serve fare, non distruggere».
Ando Gilardi, uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, parlando del rotocalco Lavoro (organo della Cgil) si espresse così, riferendosi al prototipo di operaio da lui fotografato: «Si alzava la mattina troppo presto (…) e dopo troppe ore ecco che usciva e raggiungeva faticosamente casa, dove stanco morto cenava. Ora secondo la stampa illustrata di sinistra quel disgraziato, prima di andare a letto, avrebbe dovuto leggere un giornale che gli parlava della sua vita? Dio remuneri con la Gazzetta rosa tutta la stampa sportiva che è la sola che ha fatto allora, e spero continui a fare, qualcosa di utile per i lavoratori». È un rischio? La gente vuole solo evadere dalla crisi o vuole essere ritratta?
«C’era un bisogno, almeno per me, di puntare il riflettore sull’Italia che soffre. Vorrei raccontare storie di coraggio, di persone che pur nella crisi reagiscono, senza stipendio, senza paracadute. Di certo sarà un giornale di sinistra. Parafrasando Hollande, il giornale del cambiamento. Perché per uscire dalla crisi occorrono soluzioni. I cosiddetti tecnici si sono rivelati dei totali incompetenti, e sento l’esigenza di difendere lo stato sociale da un assalto che si compie togliendo i diritti ai cittadini, dandoci in pasto all’antipolitica».
E qualora i vendoliani di Sel rientrassero in Parlamento, voi accettereste un finanziamento pubblico?
«Vogliamo abbonati e lettori: ci basiamo su quelli, anche perché tutti i giornali finanziati sono falliti. Bisogna aspettare due anni, è rischioso. Stiamo presentando il giornale ovunque: andiamo ai circoli Idv, passando per Fli e le feste del Pd. Su Lusi e Penati andremo giù col Napalm, perché siamo al di là del bene e del male, siamo nel campo della criminalità. Ma con grande rispetto per chi cucina i cappelletti o fa volontariato, come i militanti Pd di Bagnacavallo, con cui parlavo qualche sera fa. Una signora, ostetrica, mi ha chiesto: vorrete mica criticare Bersani? Certo che sì. Serve un Bersani meno bollito».
Per esempio un Nichi Vendola?
«Un giornale non fa politica: suggerisce alla politica un’agenda. La mia sarà una posizione molto laica, dato che non ho tentazioni. Conosco Vendola da anni, e sono libero di dire quando sbaglia e quando la fa giusta. Conosco bene Di Pietro: su personaggi come Scilipoti lo critichiamo, se propone un referendum utile, come quello coltro la riforma Fornero, lo sosteniamo. Ho conosciuto bene pregi e difetti dei politici, e non ho il complesso del vampiro. È Travaglio quello che considera la politica come una sorta di virus contaminante».
Nina Moric contro Marco Travaglio: "Prima manettaro, poi garantista e infine inquisitore", scrive il 5 Novembre 2016 Libero Quotidiano". Marco Travaglio riesce nella mirabile impresa di farsi umiliare da Nina Moric, che lo fa a fettine con una precisione che, onestamente, non era così semplice attendersi. Lo spunto arriva da "un tale Andrea Paolini", così lei scrive, che sul Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo tutto dedicato alle battute infelici della Moric. "Io rispetto il parere degli altri - scrive Nina -, ma un giornalista dovrebbe usare aggettivi soltanto quando questi siano oggettivi o altrimenti specificare che si tratta di opinioni personali di chi scrive". E così, dopo la premessa e qualche insulto gratuito, la Moric demolisce Marco Manetta, alias direttor Travaglio. Lo definisce "una persona confusa, è diventato celebre per le sue accuse a Berlusconi e il suo scarso garantismo riguardo tutti i processi di Silvio". Ma, nota la Moric, "ad un certo punto con un cambiamento di idee da far impallidire Paolo Brosio, è diventato un garantista, uno che diceva che il carcere fosse per i criminali veri". Si parla della campagna condotta anche da Travaglio per la grazie all'ex marito della Moric, Fabrizio Corona. "Lanciò una vera e propria campagna per la sua liberazione - ricorda la croata -, cosa che a me non è dispiaciuta, sia chiaro, salvo poi sul giornale da lui diretto, pubblicare delle vere e proprie inquisizioni su Fabrizio favorendone il ritorno in carcere".
Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co, scrive il 16 giugno 2018 "L'Inkiesta". Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà. Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”
Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo.
In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.
Si grida alla libertà di stampa…
La chiamano libertà di stampa ma è tifoseria organizzata. Gli attacchi quotidiani rivolti all'esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d'intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l'approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio, scrive Ernesto Ferrante il 9 ottobre 2018 su opinione-pubblica.com. Lo scontro tra alcune componenti del governo giallo-verde e i feudatari della carta stampata è giunto ad un livello particolarmente cruento. Gli attacchi quotidiani rivolti all’esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d’intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l’approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio. Conte, preso ancora una volta di mira per il curriculum, presunti conflitti d’interessi e non dimostrata illegittimità del concorso con cui è diventato professore ordinario nel 2002, ha replicato con una lettera aperta al direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Dopo aver sottolineato che “la libertà di stampa è un bene di primaria importanza sul piano assiologico, perché costituisce il fondamento di qualsivoglia sistema democratico”, il premier ha incalzato Calabresi con due sottili domande: “Si può sollecitare una discussione invitando Lei e i Suoi giornalisti a valutare se Voi stessi siate davvero consapevoli di quanto preziosa sia la libertà di espressione e di quali implicazioni l’amministrazione di questo “bene pubblico” comporti sul piano delle responsabilità ?”. E ancora: “Siamo sicuri che le difficoltà con cui attualmente si sta confrontando un po’ tutta la carta stampata siano da ricondurre ai nuovi strumenti info-telematici e non anche, quantomeno in parte, alla rinuncia a coltivare più rigorosamente il proprio mestiere, fidando nell’approfondimento critico delle notizie e nella verifica rigorosa delle fonti?”. Il professore ha rinnovato l’invito al direttore di Repubblica ad avere “un confronto sul momento attuale che sta vivendo la carta stampata, sullo stato dell’informazione e su altre rilevanti questioni per il nostro sistema democratico”, chiarendo anche l’unica condizione posta: che si possa video-registrare l’incontro “in modo che avvenga in piena trasparenza e che di esso sia reso partecipe il più ampio pubblico”. Confronto a cui, stando a quanto ha scritto il presidente del Consiglio, Calabresi si è sottratto, in questi mesi. Meno articolata ma decisamente più veemente è stata la presa di posizione di Luigi Di Maio che attraverso una diretta Facebook, si è scagliato contro i giornali che sistematicamente criticano la maggioranza, ridicolizzandone alcuni esponenti. “Per fortuna, ha detto Di Maio, ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle fake news dei giornali e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini, tanto è vero che stanno morendo parecchi giornali tra cui quelli del Gruppo L’Espresso che, mi dispiace per i lavoratori, stanno addirittura avviando dei processi di esuberi al loro interno perché nessuno li legge più, perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”. L’impulsività ha portato il ministro del Lavoro a fare un po’ di confusione, prestando il fianco alle critiche del Gruppo Gedi, il colosso nato dall’integrazione di Itedi (Italiana Editrice) e Gruppo L’Espresso che controlla la Repubblica, la Stampa, il Secolo XIX e i vari giornali locali di Finegil, come Il Tirreno, la Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara, La Provincia Pavese e la Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, La Nuova Venezia e Mestre, la Tribuna di Treviso e il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto e Il Piccolo e il trisettimanale La Sentinella del Canavese. Il leader del M5S, nello scontro con la carta stampata che fa rumore e tendenza, paga anche il conto di una scelta strategicamente sbagliata del Movimento, quella dell’abolizione indiscriminata dei contributi pubblici erogati dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio. Gli aiuti diretti, che non esistono più già da qualche anno, permettevano la sopravvivenza dei “piccoli”, ovvero i giornali “politici”, quelli delle cooperative di giornalisti e quelli delle minoranze linguistiche. L’ultimo governo Berlusconi e soprattutto gli esecutivi Monti e Letta, hanno progressivamente azzerato la contribuzione, decretando la fine di tante testate e del pluralismo vero e diffuso dell’informazione. I grandi, con editori impuri e grossi gruppi industriali alle spalle, hanno indirettamente beneficiato della campagna condotta dal Movimento Cinque Stelle e da Matteo Renzi. Dure critiche al vicepremier grillino sono state rivolte da Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana che hanno parlato di “insulti del vicepremier Luigi Di Maio ai giornalisti di Repubblica e dell’Espresso” che sarebbero “l’ennesima dimostrazione del disprezzo nutrito nei confronti dell’informazione libera e del ruolo che questa è chiamata a svolgere in ogni democrazia liberale”. “Di Maio, come del resto buona parte del governo, si legge ancora nella nota, sogna di cancellare ogni forma di pensiero critico e di dissenso e si illude di poter imporre una narrazione dell’Italia lontana dalla realtà. Auspicare la morte dei giornali non è degno di chi guida un Paese di solide tradizioni democratiche come è l’Italia, ma è tipico delle dittature. È bene che il vicepremier se ne faccia una ragione: non saranno le sue minacce e i suoi proclami a fermare i cronisti di Repubblica e dell’Espresso, ai quali va la solidarietà del sindacato dei giornalisti italiani, e a piegare il mondo dell’informazione ai suoi desiderata”. Una posizione, quella della Fnsi, che appare molto orientata politicamente contro l’attuale governo. Non ricordiamo simili toni con i governi precedenti, colpevoli di aver condannato alla disoccupazione migliaia di giornalisti, poligrafici, distributori ed edicolanti. A Di Maio ha risposto anche il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, parlando “di nuovi potenti, ovunque nel mondo” che “si sono accorti che grazie alle tecnologie possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode. Basta vendere ai cittadini l’illusione della comunicazione diretta, presentata come la più grande delle conquiste democratiche”, attacca Calabresi. “Siamo un giornale di opposizione, è vero, scrive ancora il direttore del quotidiano del colosso Gedi, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l’Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l’incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni”. Parole inequivocabili e pesanti che non ci sembrano di difesa della libertà di stampa ma di una posizione politica chiara, antitetica a quella del governo giallo-verde. Giornale di opposizione oggi ma di sostegno palese agli esecutivi guidati da Monti, Letta e Gentiloni. E morbido nelle critiche a Renzi. Cassa di risonanza di un ceto politico ed economico che non può certo definirsi popolare e di assetti di potere nazionali ed internazionali che mal digeriscono i cambiamenti di classe dirigente, legittimati a suon di voti dall’elettorato. “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non viviamo di stipendi pubblici (ci avete mai pensato che sia Di Maio sia Salvini non hanno mai avuto altra busta paga nella vita che non fosse quella fatta con i soldi delle nostre tasse?), aggiunge ancora Mario Calabresi, rincarando la dose, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano”. La chiamano libertà di stampa ma a noi sembra più che altro tifoseria organizzata. Le consorterie finanziarie vogliono indebolire il governo e costringerlo alla resa per continuare con l’austerità e i sacrifici che oltre a rallentare la crescita del Paese, hanno eroso i risparmi delle famiglie. Tanti in queste ore inneggiano alla democrazia ma la vorrebbero di fatto sospendere a colpi di spread e di fluttuazioni finanziarie eterodirette per consentire il ritorno al timone degli sconfitti il 4 marzo scorso. Vogliono la cessione totale della sovranità e il governo del cambiamento, pur con i suoi difetti, è un ostacolo in tal senso.
Giornalismo o propaganda? Scrive Valerio Cataldi, presidente Associazione Carta di Roma il 04 ottobre 2018. Ora il colera. L’ennesimo allarme sanitario infondato, impone una riflessione sulla dignità del giornalismo. È ora di scegliere da che parte stare. È necessario stabilire una volta per tutte quale è il limite oltre il tollerabile. Le norme ci sono, i codici deontologici anche, il sistema sanzionatorio è li ad aspettare di essere applicato. Cosa manca allora? Possibile davvero che un giornale si possa permettere periodicamente di lanciare allarmi sanitari, di seminare panico e di spargere menzogne senza subire conseguenze? Credo che di fronte all’ennesima prima pagina disgustosa di Libero la vera domanda sia: quale è il limite di falsità che bisogna superare in questo paese per smettere di continuare a definire giornalismo una certa stampa. È una domanda che giro ai consigli di disciplina dell’Ordine dei giornalisti che si troveranno, di nuovo, a dover esprimere un giudizio su un titolo come quello di oggi sul colera a Napoli portato dagli immigrati. Ma in realtà è una domanda che dovremmo porci tutti noi che facciamo questo mestiere. Quanto siamo disposti ancora a tollerare la violazione delle più elementari regole del mestiere prima di avere una reazione di dignità professionale? C’è un problema profondo di credibilità da recuperare, che viene affossata ogni volta che si propone una prima pagina come quella di oggi. Il tema dei migranti è quello che più di ogni altro riesce a stimolare il lavoro degli “spaventatori” di professione. Ci hanno parlato di imminenti diffusioni di epidemie di lebbra, di ebola, di tubercolosi. Da anni si ripete costante un allarme sanitario terrificante che se avesse un minimo fondamento, dovrebbe prevedere misure di profilassi severissime e riguarderebbe tutti noi. Ma chi si trova di fronte un titolo come quello sul colera come può non aver paura? Dicono che è la verità che è spaventosa, ma quali sono le prove della diffusione di queste malattie? Dove sono i riscontri agli allarmi continui che vengono diffusi attraverso questi messaggi terrorizzanti? Non basta trincerarsi dietro l’articolo 21 della costituzione. Qui non si tratta di libertà di opinione. Questa è propaganda che diffonde paura. Col giornalismo non ha nulla a che fare. Non sta a noi stabilire se viola il codice penale. Sta a noi stabilire se viola le regole fondanti del mestiere di giornalista, la ricerca della verità sostanziale dei fatti. Sta a noi decidere se questo è giornalismo o semplicemente propaganda.
M5S: "La Repubblica dell’inganno è indifendibile, questo non è giornalismo", scrive Silenzi e Falsità l'8 ottobre 2018. “Il direttore della "Repubblica dell’inganno", Mario Calabresi, stamani prova a difendere l’indifendibile con un imbarazzante editoriale pubblicato sul suo giornale”. Così il Movimento 5 Stelle in un post sul proprio blog ufficiale. “Che La Repubblica sia diventato un quotidiano di regime è sotto gli occhi di tutti, – prosegue il post – basti pensare che tra i senatori del Pd c’è Tommaso Cerno, fino allo scorso gennaio condirettore de La Repubblica. Ma il quotidiano "piddino" ha superato ogni limite ‘deontologico’: oltre ad essere fazioso, mentre un giornale dovrebbe essere sempre super partes, ha deciso di avviare una campagna denigratoria contro il MoVimento 5 Stelle. E lo fa sfornando continuamente fake news”. I 5Stelle elencano poi le “bufale e notizie infondate che minano l’informazione italiana” pubblicate dal quotidiano romano:
– La beffa fiscale: tasse più alte per 3,2 milioni di partite iva;
– Di Maio è garante di Marra la prova è nelle chat “Lui è uno dei miei, un servitore dello Stato”;
– I segnali tra grillini e Lega e l’incontro Salvini-Casaleggio contro le larghe intese;
– La Lega contro Salini dg Rai. Tg1, Di Maio vede Sangiuliano;
– Vaccini, Di Maio come Salvini: “No all’obbligo, siamo per le raccomandazioni”;
– Reddito di cittadinanza, ipotesi mini-sussidio: 300 euro al mese a 4 milioni di persone;
– Vitalizi, così è impantanata la riforma bandiera del M5S.
“Per non dimenticare – aggiungono – il video pubblicato da La Repubblica con gli applausi taroccati in occasione del funerale di Genova. Applausi destinati al Governo che La Repubblica ha montato e smontato per attribuirli invece al presidente Mattarella”. “Anche La Stampa, – proseguono i pentastellati – stesso gruppo editoriale de La Repubblica, è riuscita a dare linfa a questa meschina propaganda anti-M5S con la diffusione di una fake news sconcertante. Vi ricordate la storia di Beatrice Di Maio, che secondo la La Stampa era un account chiave della cyber propaganda del MoVimento? Dietro a quell’account, invece, c’era la moglie di Renato Brunetta”. “E questa sarebbe informazione? Con la pubblicazione di notizie false e intenzionalmente alterate viene fatto del male all’informazione e ai cittadini italiani. Con questo comportamento scorretto ed in mala fede La Repubblica danneggia gravemente l’interesse pubblico per dare linfa a interessi privati. Inoltre con la diffusione di notizie false viene destabilizzata l’informazione nel nostro Paese. Lasciatecelo dire: questo non è giornalismo, questa è solo propaganda di partito,” concludono.
Repubblica cieca, scrive il 10 ottobre 2018 Augusto Bassi su "Il giornale". «Caro Di Maio, non abbiamo paura: continueremo a raccontare la verità». Questo il titolo del poderoso editoriale firmato Mario Calabresi. La cui parafrasi è: «Detestato Di Maio, ci stiamo cacando in braca: continueremo a taroccare la verità». La letterina di richiamo del direttore di Repubblica al leader dei 5Stelle metterebbe tenerezza, non facesse ribrezzo. Il dettato è infallibilmente pedestre, la cifra stilistica malconcia, e quanto ai contenuti vale ciò che già avevamo segnalato in passato: un genuino compendio della depravazione intellettuale e morale dei galoppini di un regime boccheggiante, chiamati con una pernacchia a fottere l’opinione pubblica e oggi furenti, frustrati all’idea di non poterla più penetrare neppure servendosi della pompetta; crucciati innanzi alla constatazione di essere diventati impotenti. La primitiva impalcatura dell’argomentare si basa su un trito trucco da cialtroni: calunniare come oscurantista chi si ribella all’oscurantismo della stampa garzona. E lo fa ancora e ancora e ancora alla stessa maniera: si maschera un interesse volgarmente opportunistico da nobile slancio democratico, rivendicando il pluralismo dell’informazione, la libertà di stampa. Ovvero si difende la libertà di usare la stampa a fini politici, contro il pluralismo. Per rendere potabile il veleno si accusa preventivamente la controparte di tutte le proprie alterazioni. Sapendo di essere agitatori di una campagna contro il governo, e contro i 5Stelle in particolare, che sta diventando ogni giorno più ossessiva e più aggressiva, si puntano le corna sulla controparte, accusandola di aggredire la stampa; sapendo di essere dispotici, si urla al fascismo; riconoscendosi avidi e meschini, si biasima la spilorceria d’animo; consci di essere scadenti, si taccia di semplificazione, di incompetenza; sapendosi falsi e conformisti, si annuncia di voler smontare falsità e luoghi comuni; sapendosi piromani della malafede che tutto prova a incenerire, si punta il dito sulle fiammate altrui. «Vogliono mandarci fuori strada, lo dicono e ripetono ogni volta che ne hanno occasione, in pubblico e in privato. Con una costanza e una rabbia che non ha precedenti»; «Siamo preoccupati per noi e per il Paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica»; «Per il potente che vuole liberarsi dalle critiche e vorrebbe solo giornali servizievoli che battono le mani sotto il balcone, quale migliore occasione che infilarsi in questo passaggio storico per aumentare le difficoltà?»; «il Movimento 5 Stelle non digerisce, non sopporta che la voce più ascoltata e diffusa della rete sia dalla prima pagina critica con loro. Siamo “pericolosi” proprio perchè Repubblica è leader in quello che considerano il loro territorio, la loro prateria»; «Chi disturba e insiste nel fare domande, nel mettere in evidenza contraddizioni, nello svelare errori e furbizie, deve essere messo fuori gioco. In fretta. Con qualunque mezzo». In queste poche righe c’è il male. Ancora. Ma non il genio diabolico di un oscuro e ragnato manipolatore, piuttosto la manifesta e dozzinale falsificazione del reale al servizio del padrone, incapace di vedere oltre le proprie corna. Il male nella sua banalità, il male cieco. Ignaro che la sua coda mefistofelicamente suina abbia bucato il camice da ministrante catto-progressista e sia visibile a chiunque butti l’occhio. O ancora il titolo che leggerete domani in edicola: «La manovra non piace a nessuno». Così è il giornalismo di Repubblica: indefinito. I rappresentati che hanno delegato ai propri rappresentanti le scelte politiche ed economiche in una democrazia rappresentativa e che stanno sopra il 60% dei consensi in tempo reale… sono nessuno. Provvidenzialmente, la doppia negazione rende giustizia: loro sono qualcuno; Repubblica è niente. Ogni frase «che continua a raccontare la verità» vergata “a occhi chiusi” da Calabresi porta l’impronta della mano, priva di pollice opponibile, che la verità ha da sempre goffamente cercato di rovesciare.
INFORMARE CON DUE PESI E DUE MISURE.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio". È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.
Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.
Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.
Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.
Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».
Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.
Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?
Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.
Talk show: così il populismo ha vinto grazie alla tv, scrive Angela Azzaro l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Anni di tv fondata sulle urla e sull’emotività hanno favorito il passaggio dal popolo al populismo. Aldo Grasso, il critico televisivo e di costume del Corriere della sera, ha scritto sul ruolo che i talk show hanno avuto in questa ultima tornata elettorale. Secondo il professore della Cattolica di Milano i programmi di politica, che in questi anni hanno perso molti consensi, avrebbero favorito principalmente il Pd e Forza Italia, mentre l’assenza dalla tv avrebbe avvantaggiato i Cinque stelle. Il Pd, in realtà, ha avuto contro quasi tutte le tramissioni a cominciare da quelle che in teoria, ma appunto solo in teoria, dovrebbero essere amiche come Carta Bianca su Rai3. Pochissimi partiti al governo sono stati così osteggiati. I Cinque stelle invece hanno potuto contare su quasi tutto il palinsesto di La7: anche quando non erano presenti per- sonalmente in studio, erano rappresentati dai giornalisti ospiti, schierati molto spesso con il loro movimento. La Lega, pur con una strategia comunicativa in parte differente, ha potuto contare sulle trasmissioni di Del Debbio e Belpietro su Rete4. Ma la questione è molto più strutturale di un appoggio che potremmo definire “esterno” alle forze populiste che poi hanno vinto le elezioni. I talk show sono parte del “populismo”, per alcuni versi lo hanno creato, condizionando la percezione della realtà e gli schieramenti, ancora prima che partitici, ideologici e identitari. In questi anni siamo stati abitutati a una tv urlata, che ha dram- matizzato qualsiasi problema, dall’arrivo dei migranti alla sicurezza nelle città. Sono state davvero poche le trasmissioni che non abbiano alimentato la paura, creato l’odio per il diverso, fatto credere che i diritti degli uni ( chi arriva in Italia in fuga da fame e povertà) siano opposti ai diritti degli altri ( gli italiani). È una tv basata non sulla ragione e sui dati, ma sulle emozioni non mediate, sulla cosiddetta pancia, sull’irrazionalità. È una tv che ha creato un suo pubblico, lo stesso pubblico che ha poi votato Cinque Stelle e Lega che usano da questo punto di vista la stessa cifra comunicativa. Pier Paolo Pasolini, parlando prima di tutti in Italia di quel fenomeno che poi avremmo chiamato globalizzazione, teorizzava un mutamento antropologico degli italiani. Era il rimpianto delle lucciole, che aveva un certo sapore reazionario, ma che coglieva un cambiamento profondo della società. Oggi quel mutamento è diventato ancora più radicale e ha avuto come campo di battaglia proprio un modo di intendere la televisione e l’informazione. Il passaggio da popolo a populismo, dal conflitto all’odio, avviene dentro un format televisivo che vive tutto come una guerra, un processo mediatico, uno scontro. Le forze politiche che non hanno questo approccio alla politica hanno pagato un prezzo molto alto, non solo perché la loro voce risalta di meno, ma perché meno rispondono alla trasformazione antropologica e sociale avvenuta in questi anni. Il presidente del Censis De Rita, che ha fotografato la società del rancore, vede nuovi segni di cambiamento. Comunque sia questo cambiamento non può non passare anche attraverso una riflessione sui mezzi di comunicazione di massa, dalla tv a internet.
Sembrava il talk di Kim, ma era la Tv italiana, scrive Piero Sansonetti il 16 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Ho visto in Tv, l’altra sera, un talk show dedicato al pasticcio- rimborsi dei 5 Stelle, e sono rimasto senza parole. Per come era organizzato, per le cose che si dicevano, per i protagonisti. Lo conduceva Enrico Mentana. Mentana, ma come fai un talk? Solo 5stelle a processare i 5stelle? Mentana è sicuramente è uno dei giornalisti italiani più bravi. Ed è un professionista di grandissima esperienza, ha lavorato ai massimi livelli in Rai a Mediaset e ora alla Sette. Eppure la sensazione netta era quella non di assistere a un dibattito ma ad una rappresentazione di regime. Scusate se uso questa parola così aspra, ma è quella giusta. Sia chiaro, non sono mai stato un fanatico della par condicio, anzi penso che sia una pessima cosa. Penso che l’informazione non la si possa fare col bilancino: deve godere di spazi di libertà, e professionali, che le norme della par condicio mortificano. Però una cosa è la discrezionalità della rete, o del conduttore, un’altra cosa è condurre una trasmissione sui 5 Stelle in difficoltà per i rimborsi spariti, con la partecipazione (nella prima parte) del capo dei 5 stelle, di un conduttore simpatizzante dei 5 stelle, del fondatore del giornale dei 5 stelle e basta. E nella seconda parte con l’intervento di altri due giornalisti decisamente simpatizzanti dei 5 stelle (o comunque molto ostili al Pd e a Forza Italia) e di un terzo bravo e giovane giornalista, indipendente, al quale però non si concede, o quasi, di esprimere il suo punto di vista.
I protagonisti della trasmissione ai quali mi riferisco sono, nell’ordine, lo stesso Enrico Mentana, Antonio Padellaro (che, paradossalmente, è stato sicuramente il più serio e anche il più critico verso il movimento di Grillo), Mario Sechi ( tifoso oltre ogni immaginazione dei 5 stelle, a sorpresa per me che lo avevo lasciato tempo fa berlusconiano e poi sapevo che era diventato montiano), Alessandro De Angelis, dell’Huffington Post (il quale ha il merito di avere rivolto a Di Maio l’unica domanda ragionevole, e però il demerito di non avere preteso una risposta) e infine, isolatissimo e, giustamente, un po’ intimidito, Ilario Lombardo, della Stampa. Il risultato di tutto questo è stato paradossale. Diciamo che tutti si aspettavano una specie di processo ai 5 stelle (come sarebbe capitato a qualunque altro partito nelle stesse condizioni), beccati dalle jene con le mani nel sacco e messi di fronte all’evidenza che il loro grado di trasparenza e di onestà non è superiore a quello degli altri partiti. Invece è successo esattamente il contrario. A parte Padellaro (che ha provato a illustrare alcune critiche anche abbastanza graffianti ai ragazzi di Di Maio e a Di Maio), per il resto la trasmissione ha affermato le seguenti verità indiscutibili.
Prima, che i 5 stelle sono e restano il primo partito e che tocca a loro lo scettro del principe e palazzo Chigi.
Seconda, che gli altri partiti sono molto peggio dei 5 stelle e devono solo starsene zitti ed eventualmente garantire in parlamento ai 5 stelle i voti per governare.
Terza, che i parlamentari a 5 Stelle sono gli unici che restituiscono parte dei loro stipendi anche se non proprio tutti lo fanno. (In realtà verso la fine della trasmissione è stato mandato in onda un servizio che dimostrava il contrario, ma nessuno si è sentito in dovere di dire: “ohibò, ma allora stavamo sbagliando tutto…”).
Quarta, che le liste elettorali di tutti i partiti che non siano i 5 Stelle sono piene di inquisiti, cioè di impresentabili.
Quinto, che di conseguenza i 5 Stelle restano il partito dell’onestà, anche se fanno sparire un po’ di quattrini, e che questa caratteristica non viene per niente intaccata dal fatto che un bel gruppetto di parlamentari ha falsificato i bonifici e un altro bel gruppetto di dirigenti del movimento (ma di questo neanche se ne è parlato) ha falsificato le firme. Personalmente penso che nessuna di queste cinque verità sia vera. Si tratta delle classiche verità non vere.
1) Che i 5 Stelle siano e restino il primo partito è un ottimo slogan elettorale, ma è circostanza tutta da verificare. Chi ha vinto si stabilisce dopo le elezioni, non prima. Oltretutto si tratterà di vedere come si calcola la consistenza delle forze politiche: per coalizione o per liste? Per percentuali o per seggi? Per risultati all’uninominale o al proporzionale? Mi chiedo: è compito di un talk show sostituire le analisi politiche con uno slogan a favore di un partito? Può darsi di sì, però è una novità nell’etica giornalistica.
2) Perché mai gli altri partiti sono peggio dei 5 Stelle? E’ una verità rivelata, un teorema che non ha bisogno di dimostrazione? E poi, a nessuno viene il sospetto che se gli altri partiti non hanno linciato i 5 Stelle dopo il pasticcio rimborsi è perché sono più civili e hanno un rispetto maggiore dello Stato di diritto? Certo, è facile immaginare cosa sarebbe successo se le parti fossero state invertite, e se a finire sotto accusa fossero stati il Pd o Forza Italia. Ci sarebbe stata l’ordalia. E’ una colpa – e non un merito – evitare l’ordalia?
3) Non è assolutamente vero che i 5 Stelle sono gli unici a donare. Lo fanno quasi tutti i partiti. Alcuni, come Sinistra Italiana, in misura molto maggiore ai 5 Stelle. Loro però dicono: ma noi li doniamo alle imprese, voi ai partiti. Non ho capito dove sia scritto che donare i soldi a una impresa (senza nessun controllo) sia moralmente più nobile che donarli al proprio partito (nelle cui idee, si suppone, uno crede; e del quale si fida ed è in grado di controllare democraticamente l’amministrazione). Ci siamo tutti convinti che Dio ha stabilito che un imprenditore è un sant’uomo, un missionario, e un partito politico (tranne il proprio) è letame?
4) Inquisiti e colpevoli non sono parole intercambiabili. Possibile che Mentana e Sechi e De Angelis non lo sappiano? Possibile che non conoscano la Costituzione italiana? Un inquisito non è impresentabile. Ognuno poi stabilirà nell’urna se lo considera meritevole o no e se considera meritevole o no un candidato che ammette di avere contraffatto un bonifico e di essersi gloriato di avere donato soldi che ha intascato. Cioè: lo stabiliranno gli elettori, perché tocca a loro questo compito.
5) Può un partito con una percentuale abbastanza alta di disonestà accertata nel suo gruppo dirigente presentarsi con la parola d’ordine (unica): onestà? Devo dire che questa domanda – l’unica vera domanda politica – l’ha posta con una certa insistenza Padellaro, ma non molto ascoltato. Ha chiesto: sicuri che un elettore possa fidarsi del rigore di un partito che non è capace neppure di controllare il suo gruppo parlamentare? Infine vorrei raccontarvi della domanda (a cui accennavo all’inizio) di De Angelis a Di Maio. Gli ha chiesto se accetterà il duello con Renzi in Tv. Di Maio ha preso tempo e ha iniziato a dire che a lui non è chiaro chi sarà il candidato premier del Pd e neanche quello della destra, e dunque finché non saprà questi nomi non può fare nessun duello. Qualunque giornalista un po’ scafato, e in particolare un giornalista “drastico” e bravo come Mentana, avrebbe commentato: «Ho capito, lei non vuole partecipare a nessun duello». Un giornalista un po’ più cattivo avrebbe detto: «Ho capito, lei ha paura di Renzi». Mentana ha detto: «Ho capito, tutto dipende dalla soluzione dei problemi negli altri schieramenti». Beh.
Dire che Grillo è un evasore per i giudici non è reato. Assolto Barbareschi che chiese controlli fiscali sui compensi del comico. Le toghe: "Notizie mai smentite dall'interessato", scrive Luca Fazzo, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale". Finora erano voci insistenti, chiacchiere dell'ambiente, interviste giornalistiche: che ronzavano tutte intorno allo stesso tema, ovvero l'insofferenza di Beppe Grillo verso i suoi doveri di contribuente. Ma ora si scopre che nel febbraio 2015 del singolare rapporto tra Grillo e le tasse si sono dovuti occupare anche i carabinieri. In una caserma di Santa Margherita Ligure, i militari interrogano un signore che con il leader dei 5 Stelle ha avuto a lungo rapporti d'affari. Il testimone mette nero su bianco: Beppe Grillo prendeva i soldi in nero. Un'evasione fiscale in piena regola, da parte del comico trasformatosi nell'alfiere dell'onestà-onestà-onestà. Grazie a quel verbale, d'ora in avanti chiunque potrà dare a Grillo dell'evasore senza venire condannato per diffamazione. Lo ha stabilito, con una sentenza riportata ieri dal Foglio, il giudice per le indagini preliminari di Genova, Massimo Cusatti, assolvendo con formula piena l'attore Luca Barbareschi, che da Grillo era stato querelato. Legittimo diritto di critica, scrive il gip, basato su fatti reali come la testimonianza raccolta dai carabinieri. A sollevare le ire di Grillo era stata una dichiarazione a Radiodue, in cui Barbareschi diceva: «Faremo la verifica fiscale a Grillo dove ci racconterà tutte le volte che è stato pagato in nero, per vent'anni della sua vita». Querela immediata, con l'avvocato di Grillo (ovvero suo nipote Enrico) che accusa l'attore di avere usato un «tono gratuitamente offensivo». Per difendersi, Barbareschi aveva depositato le interviste pubblicate nel 2011 dal Secolo XIX e nel 2014 dal Giornale al re della Milano by night degli anni Ottanta, l'impresario Lello Liguori, creatore anche del Covo di Nord Est a Santa Margherita. «Detesto Beppe Grillo perché va in giro a fare il politico, a sputtanare tutti quanti, ma quando veniva da me, carte alla mano, si faceva dare 70 milioni: dieci in assegno e 60 in nero». Episodi di questo tipo, spiegava Liguori, si erano ripetuti varie volte, sia in Liguria che a Milano. Quasi una prassi costante. Forse sarebbero bastati quei ritagli a fare assolvere Barbareschi. Ma il pm sul cui tavolo è approdata la querela di Grillo, il sostituto procuratore Francesco Cardona Albini, decide di vederci ancora più chiaro. I giornali potrebbero avere forzato le dichiarazioni di Liguori. E così il pm incarica i carabinieri di Santa Margherita di convocare l'uomo: e quello non si tira indietro. È un personaggione, il vecchio Liguori. Per anni nei suoi locali notturni si incrociava di tutto, dai politici ai boss della criminalità organizzata. Lui stesso è stato arrestato per le dichiarazioni del pentito Angelo Epaminonda, processato e infine assolto. Un'autorità nel suo campo: astuto, navigato, e abituato a non parlare a vanvera. Il 21 febbraio 2015, davanti ai carabinieri, mette a verbale: «Beppe Grillo in quegli anni non era molto famoso e io avevo organizzato circa 4/5 serate nei miei locali, sia al Covo di Nord Est che allo Studio 54 di Milano. Per le serate gli accordi erano che io personalmente pagavo nelle mani del comico Beppe Grillo un assegno di dieci milioni delle vecchie lire e i 60 milioni in nero e in cotanti. Ribadisco che tutto ciò avveniva tra me e il comico». Nelle interviste, Liguori era stato ancora più dettagliato e colorito: «Una sera al 54 c'era molto più afflusso del previsto, c'era gente fuori. A un certo momento Grillo mi ha preso da una parte e mi ha detto: guarda che voglio 10 milioni in più altrimenti non lavoro. Naturalmente io non sono l'ultimo arrivato, l'ho preso per le orecchie, l'ho portato in camerino e ha fatto la serata». Ma basta la dichiarazione messa a verbale perché il pm Cardona Albini chieda il proscioglimento di Barbareschi. Grillo viene avvisato, e presenta atto formale di opposizione all'archiviazione. Si tiene l'udienza preliminare. Ma il giudice dà ragione al pm, torto al leader pentastellato e assolve Barbareschi: vista «la circostanza già riferita dal Liguori, confermata direttamente dalla fonte della notizia», e considerati «la dimensione pubblica del personaggio e l'obiettivo interesse che può riconoscersi a tali fatti», va riconosciuto all'indagato il diritto di critica, «essendosi questi limitato al riferimento di circostanze che erano già state rese pubbliche, di obiettiva rilevanza sociale e mai smentite direttamente dall'interessato».
Grillini e "Fatto" da boia a ghigliottinati. Nei Cinquestelle è gara a scaricare Lanzalone. E Marco Travaglio, megafono grillino, parla di sfiga e si arrampica sugli specchi, scrive Alessandro Sallusti, Lunedì 18/06/2018, su "Il Giornale". Adesso si va da «Luca Lanzalone chi?» a «l'ho incontrato una volta al ristorante ma per caso» fino al paradossale «Grillo e Casaleggio non sapevano neppure chi fosse». Nei Cinquestelle è gara a scaricare quello che fino a ieri era l'uomo più potente del Movimento e che ora si trova agli arresti per corruzione e associazione a delinquere. Marco Travaglio, megafono grillino, non si dà pace e firma senza vergognarsi uno dei suoi capolavori. La cui sintesi è: il caso Lanzalone è solo sfiga, era un grande con un curriculum da premio Nobel e nessuno poteva immaginare che fosse un furbacchione probabilmente corrotto. Avete presente quando un genitore si ritrova con un figlio delinquente o drogato e invece che a se stesso dà la colpa alla società: era un bravo ragazzo, me l'hanno rovinato. Già, meglio arrampicarsi sugli specchi che guardarsi allo specchio e ammettere i propri limiti e fallimenti. Soprattutto se l'immagine che vedi riflessa è la negazione di tutto ciò che pensavi di essere e che invece non sei, se scopri sul volto i segni dei mali da cui pensavi di esser immune. Luca Lanzalone non è un caso di sfiga, è un caso dei Cinquestelle probabilmente più diffuso di quanto possiamo immaginare. Tempo al tempo: fino a che non guadagni non puoi evadere le tasse, fino a che non sei sposato tradire la moglie. Ora i grillini tengono lavoro e famiglia: fine del moralismo e della virtù facile perché obbligata dalle condizioni. Il loro mondo è inquinato come tutti gli altri e da inquisitori i Travaglio d'Italia si ritrovano a fare gli agnellini che al confronto Emilio Fede con Berlusconi appare oggi come uno con le palle. Si stanno rimangiando tutti gli escrementi che per anni ci hanno tirato addosso, hanno paura di fare la fine di Robespierre, da boia a ghigliottinati. Essere giustizialisti con i nemici e garantisti con gli amici è cosa da gente senza nerbo e valori. Quel principio «non poteva non sapere» con cui è stato massacrato (e condannato) Silvio Berlusconi ora improvvisamente non vale più. Grillo, Casaleggio, Di Maio e tutta la combriccola potevano non sapere. Anzi, a leggere Travaglio «dovevano» non sapere. Altrimenti casca l'asino. Da «onestà, onestà» a «omertà, omertà».
Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co. Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà, scrive Giulio Cavalli il 16 Giugno 2018 su "L'Inkiesta". Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”
Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo
In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.
Propaganda La7, scrive il 16 giugno 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". In Italia l’unica opposizione tangibile, l’unica coalizione che ha fatto immantinente quadrato contro il governo… è l’informazione. Da che ho l’età per recarmi alle urne non ricordo un fuoco di fila così fitto nei confronti di un esecutivo appena nato. Ma se ci sono gli audaci che cercano sempre lo scontro risolutivo con manovre di sfondamento – fra i quali anche qualche illustre rappresentante della stampa di destra – in questa miserabile guerra di trincea si segnala chi, come il canale televisivo La7, ha scelto la strategia del logoramento. A poco più di cinque anni dall’arrivo di Urbano Cairo a capo della rete e dall’articolo de L’Espresso a firme Di Feo-Gilioli in cui lo stesso imprenditore veniva affrescato come un rampante parvenu, un buffo Berlusconi wanna be, oggi La7 sembra essere la fanteria da prima linea e prima serata della Weltanschauung Gedi, tanto sono manifeste l’interconnessione giornalistica e la profonda affinità ideologica; superando in zelo militante i pusillanimi soldatini di Rai Tre – che vedono la sola Lucia Annunziata ancora bellicosa – e gli scatenati, benché ancora abborracciati, incursori multimediali de il Post. I programmi del canale Cairo Communication (Otto e mezzo, Piazza Pulita, Di Martedì, L’Aria che tira, Tagadà, financo Atlantide…) rispecchiano un pluralismo di ghigne che si dannano quotidianamente per riaffermare il monismo di fondo del pensiero. Abbiamo analizzato tante volte i monotoni comportamenti dei moderatori-insinuatori/istigatori (a seconda della cifra stilistica: Floris insinua, Formigli istiga etc.) come degli ospiti fintamente super partes e grossolanamente partigiani. L’umore stantio che ne fuoriesce è quello della conventicola di affiliati, connotata da un forte accento di provincialismo capitolino, che si raduna una sera a casa di un ospite, una sera a casa dell’altro, manipolandosi reciprocamente le convinzioni fino all’orgasmo di gruppo, senza la reale volontà di un contradditorio. Anche le tiepide voci iconoclaste sono sempre messe in chiara posizione di minoranza, e invitate a comportarsi con i dovuti riguardi. Difficile vedere una coppia Bagnai-Blondet affrontare l’impositivo argomentare di Cerasa; o anche solo Foa-Rossi dialogare con l’integrità intellettuale di Calabresi. L’unico a non essersi fatto ammaestrare, se non nell’orrida abitudine della button-down con giacchetta délavé, è Marco Travaglio, di cui mi occuperò monograficamente in futuro. Lo stesso telegiornale di Enrico Mentana e le relative edizioni straordinarie sulla distanza sono poli magnetici per questa temperie. Mentana è un conduttore straordinario, la cui abilità è persino sottovalutata, malgrado goda di una status da Comizi Curiati fra gli addetti ai lavori e da Osho Rajneesh fra le schiere dei webeti. Ha la presenza di spirito del killer e una naturalezza nell’estrarre la parola assassina anche nel guazzabuglio della pugna davvero rimarchevole. Quando dialoga, poi, mostra i tempi giusti: sa aspettare, ha senso drammaturgico, tiene in mano il proscenio senza dare la sensazione di protagonismo. Persino il suo gigioneggiare, perfettamente ricreato da Crozza, è potabile e non degenera mai in macchietta come in Giletti, forse per un fisico del ruolo più da impiegato pubblico che da play-boy di Viale Ceccarini. Ciò riconosciuto, è palesemente allineato. E poco incline a ribaltamenti di immaginario, poiché intellettualmente permaloso, come sa chiunque sia transitato anche solo una volta sulla sua pagina Facebook. Un’inclinazione evidente anche nell’incedere ancillare dei suoi inviati, Sardone e Celata. Ma la trasmissione che forse più di ogni altra definisce tale ostinata propaganda è appunto Propaganda Live. La pasquinata alla romana di Bianchi e Dambrosio – da sempre molto più divertita che divertente – si compiace nel grufolare in quella disinvoltura da birrazza con gli amici, baloccandosi in un’estetica che definirei “abbrutta” o “da pezze ar culo” per pertinenza regionale. Il programma si sforza di persuadere avvalendosi dell’argumentum ad verecundiam, ovvero di essere eloquente buttandola in caciara… perché loro sono gente schietta, genuina, che dichiara le proprie intenzioni con sincerità, e nel frattempo caca una satira sciolta e ruffianamente popolana. Si direbbe populismo anti-populista, ma definirò meglio più avanti la schiatta di riferimento. Emblematico di questo modo di essere ossimorico un intervento di “Zoro” durante la puntata di Otto e mezzo dell’altrieri, che ha sottolineato come Matteo Salvini, nel suo agire così affermativo e sprezzante, insulti tutta quella parte d’Italia che non la pensa come lui. Risibile rampogna se fatta da chi dipinge esplicitamente – non si capisce bene da quale atelier di Calle de La Plata – la maggioranza degli italiani come cretinoidi-fascisti nei feriali grillini… e cretinisti-fascistoidi durante i festivi leghisti. Proprio ieri sera si è chiusa la stagione 2018 di Propaganda Live con un coraggioso monito: “Non siate razzisti!”. E il razzismo è la vera ossessione di questa gente, come reduplicato dalla patetica copertina de L’Espresso oggi in edicola: “Uomini e no”, con un ragazzo di colore affiancato a Salvini. Titolo che si dà un tono citando Vittorini, ma che è tetro manifesto di vile divulgazione. Epperò tale fissazione deve avere una causa, un’origine i cui significati superino l’interesse tattico del momento. Mi sono sempre interrogato, soffermato sulla questione… e alfine ho maturato un’opinione. Il razzismo di cui loro blaterano (“sporco negro!”) è talmente fuori dai tempi – in cui piuttosto le nuove generazioni vivono idolatrando-scimmiottando sub-culture afroamericane, fra hip hop, cinema gangsta, basket Nba e ossequiando l’esotismo terzomondista tarato sul mito del buon selvaggio – da meritare solo pernacchie. Eppure c’è un timore sublimato in filigrana: la paura della discriminazione. Come abbiamo scritto in passato la discriminazione è elemento costitutivo dell’esistenza umana, prerequisito di ogni scelta, dalle mele al supermercato alla compagna/o con cui vivere. Loro tuttavia la temono, forse perché furono atavicamente discriminati, e ancora ne hanno panico; magari non erano i più simpatici della classe… erano un po’ catenacci e nella squadra di pallone finivano in panchina… plausibilmente da ragazzi interpretavano l’ingrato ruolo degli scaldafighe o, nel caso delle donne, parti ancor più ingrate. Così oggi, pur cresciuti e affermati, in un remoto stanzino di tremarella dell’inconscio ancora paventano una discriminazione verso la loro razza. Perché epidermicamente si riconoscono intimamente della stessa natura, per cui si cercano, si difendono l’un l’altra e tutti insieme corrono a nascondersi dietro la sottana del Potere. Per il quale, in genere, combattono le guerre, difendendone gli interessi con spirito mercenario, senza eroismo alcuno, sul sempre più sterminato campo di battaglia dell’opinione. Sono tipi umani opposti, ma strategicamente complementari alle anime molto ben acconciate con cestino di vimini e pomate bio alla calendula fra cui vivo in Mario Pagano, perché cooptati dalla stessa consorteria: i primi dolosi, i secondi colposi, entrambi arnesi. Arnesi di quel Potere, neppure più tanto occulto e soverchiante, che ha ritenuto necessario mettere in scena una declamatoria mimesi di carità laicista servendosi di suggestioni proletarie e umanitarie, al fine di proseguire il saccheggio senza venir disturbato da un’eventuale presa di coscienza dei più, che sempre di più sono. A questo punto vorrei sottoporre alle vostre teste post-convenzionali una speculazione, forse un po’ oziosa, ma ai miei occhi accertabile. Come avevo già scritto in passato, se in fisiognomica già da Aristotele si rifletteva sulla possibilità di leggere in un volto alcune peculiarità caratteriali, io mi sono sempre ritenuto in grado di inferire dall’aspetto le simpatie politiche. Anche se il soggetto fosse impegnato a dibattere sulle code alla vaccinara. «Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l’aspetto proclama il cuore e le inclinazioni, basta l’osservazione ad istruirti sui fondamenti della fisiognomica; spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni simili e hanno simili pensieri». Ovviamente non vengo ad affermare che ci siano parametri antropometrici per intercettare un elettore PD, ma una “faccia sinistra” (tradotto dal dialetto piacentino) indubitabilmente c’è e l’uomo coltivato può intercettarla, anche quando è un poco meno manifesta di quelle che portano in giro Orfini, Saviano o Bertazzoni. La7 è un distillato di facce sinistre e la disinformazione che ne segue rappresenta la bio-logica conseguenza di tali fisionomie. Naturalmente ci sono eccezioni al tratto comune: Lilli Gruber somiglia più a una senatrice di Forza Italia, eppure non credo lo sia mai stata. Cionondimeno, guardando i programmi a volume spento, sarebbe sufficiente osservare le smorfie e gli abiti, per immaginare il tenore delle idee. Ma come hanno inoppugnabilmente certificato gli ultimi rivolgimenti domestici e internazionali – ben più indicativi delle valutazioni di una trascurabile figura come la mia – questa strategia di logoramento sta logorando chi se ne serve: perché il “razzista-populista” sente, nasa questa “razza” di propaganda e inizia a schifarla.
Rom e “razza ebraica”, scrive il 19 giugno 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". Molto di ciò che avevo scritto pochi giorni fa a proposito di La7 e del suo telegiornale è stato confermato ieri sera con eloquente tempestività. L’esternazione di Enrico Mentana durante il notiziario delle 20 sul censimento rom ha addirittura rilanciato in bluff sul tavolo da gioco della manipolazione. Se nel pezzo precedente ero stato analitico, qui sarò sintetico. Il parallelismo fra la proposta di anagrafe avanzata da Matteo Salvini e la schedatura della razza ebraica paventato da Mentana è un volgare accozzo di fallacie logiche. Si parte con un argumentum ad populum (ma populista non era proprio il leader leghista?), che fa subdolamente leva sui sentimenti di orrore suscitati dal ricordo delle leggi razziali e sulla universale commozione che ispira la vicenda della famiglia Segre e dell’allora piccola Liliana. Si prosegue con una grossolana fallacia di pertinenza, postulando un’affinità fra la registrazione di individui che vivono entro i confini di uno Stato, ma al di fuori delle sue leggi (le comunità rom) e la schedatura degli ebrei italiani. E si finisce con un doppio errore di ragionamento, formale e di rilevanza, noti in logica come falsa argomentazione a catena e non sequitur: «Si inizia sempre con una schedatura e non si sa mai dove si va a finire», ha affermato Mentana. Il Direttore insinua cioè che da un censimento dei rom, a successivi arresti, alle conseguenti deportazioni, ai campi di sterminio… il passo non sia poi così impervio, anche perché è già successo in passato per gli ebrei. Fregnacce che possono essere persuasive solo per quegli stessi analfawebeti funzionali della cui dabbenaggine si affligge quotidianamente. In questo maldestro tentativo di avvelenamento del pozzo – che vogliamo generosamente giustificare per il forte trasporto emotivo suscitato da una tragedia assoluta ancora viva nel ricordo – vi è infine un effetto collaterale, che folgora come nemesi la propaganda farisaica: suscitare in chi ascolta un’associazione mnemonica fra le abitudini sociali dei rom contemporanei e quelle degli ebrei italiani di allora, vittime delle leggi fasciste. Associazione che trovo disturbante. Perché la famiglia Segre ha il diritto di essere discriminata, separata, distinta, anche solo nell’immaginario, da una famiglia zingara. E non per razza, ma per civiltà.
Così il "monoideismo" ha intossicato anche la democrazia. Un estratto, tratto da Democrazie Mafiose di Panfilo Gentile, scrive Panfilo Gentile, Martedì 19/06/2018, su "Il Giornale". Accanto agli elettori irreggimentati esiste poi quella che gli inglesi chiamano «the floating opinion», la quale non può essere indrappellata e portata a votare a plotoni. Questa opinione deve essere persuasa e può essere raggiunta solo dalla propaganda. In questo campo nell'ultimo ventennio le democrazie hanno mostrato di avere bene imparato dalle dittature l'arte del-l'«imbottimento dei crani o del lavaggio dei cervello». La propaganda diretta, o esaltazione retorica dei meriti del partito, la demagogia delle promesse, l'appello ai temi presuntivamente più popolari, tutte queste che potremmo chiamare le vecchie «armi convenzionali» della lotta politica, sono ancora in uso ma non sono considerate più sufficienti. Gli uffici specializzati dei grandi partiti hanno segnalato concordemente che i comizi, i manifesti, la stampa di partito, gli altoparlanti motorizzati non rendono più come vent'anni or sono, quando la rinata democrazia affrontava i primi cimenti elettorali. Adesso si aggiungono i metodi meno diretti e più perfidi, che sono stati elaborati dai regimi totalitari. Il monoideismo paranoico, che è proprio di codesti regimi è che tutto sempre e dovunque deve essere propaganda. Nessuna attività umana deve essere sottratta alla regola: servire la causa in ogni circostanza e con ogni mezzo, al di sopra anche di ogni norma morale. Soprattutto i sovietici si sono fatti maestri di questo odioso machiavellismo, che ha cancellato secoli di civiltà politica ed ha contagiato non solo i partiti comunisti d'obbedienza al califfato di Mosca, ma anche almeno parzialmente partiti non comunisti. Il monoideismo ha asservito arte, scienza, filosofia, spettacolo, attività ricreativa. Tutto ciò che era ricerca disinteressata, autonoma, politicamente neutrale è stato asservito alla finalità politica ed è diventato mezzo di propaganda. La propaganda poi preferita dal monoideismo non è quella aperta della polemica orale e scritta, ma è la propaganda subdolamente mascherata e clandestinamente somministrata. In questa materia la televisione supera tutti: ad opera delle cellule clericocomuniste che vi sono annidate intossica con veleni nascosti le informazioni, le inchieste, i documentari, le trasmissioni didattiche e scientifiche. Se si occupa dei poliomielitici, dei subnormali, degli illegittimi o dei sordomuti con l'aria di un interessamento caritatevole, non trascura di insinuare che la responsabilità di tutte queste sventure risale alla società capitalistica. Se si occupa del duro lavoro dei minatori o dei pescatori con l'apparente intenzione di segnalare i disagi di queste categorie, non manca di arrangiare le cose in modo che se ne attribuisca la colpa agli intraprenditori. Una buona metà delle trasmissioni televisive è una astiosa istigazione all'dio di classe. Se viene un'alluvione, un terremoto, un'epidemia, si trova sempre la maniera di seminare il sospetto che ciò sia avvenuto per l'ingordigia dei capitalisti, che avrebbero costruito le dighe con la ricotta, le case con la sabbia e le condutture d'acqua col fango. Finanche il maestro elementare clericocomunista, che dovrebbe insegnare il sillabario e la grammatica, riesce ad infilare nelle sue lezioni sobillazioni sociali, magari falsificando la storia con tendenziose mutilazioni dei testi di Mazzini o con la celebrazione del 20 settembre come una data memorabile per il miglioramento della classe operaia, tacendo del tutto il particolare insignificante della caduta del potere temporale dei papi. Questa propaganda non ordina espressamente di votare per un partito anzi che per un altro, ma tende a creare nell'elettore i presupposti psicologici che indirizzeranno l'elettore a votare per il partito desiderato. Ed è chiaro che la captazione dell'elettore attraverso la persuasione occulta non si esercita solo nei periodi elettorali ma è permanente, perché solo la insistenza monotona di un motivo lo fa entrare nell'orecchio del pubblico e inavvertitamente lo conquista come una certezza indubitabile. Ed è chiaro altresì che essa esige l'accesso ai grandi mezzi di propaganda: televisione, editori, giornali, preferibilmente rotocalchi, teatri, cinema, festival, premi letterari, discografici (canzoni di protesta). Ed allora si arriva alla conclusione che una propaganda di questo genere non è possibile senza grandissime disponibilità finanziarie, non è alla portata di tutti ma solo di quei gruppi privilegiati che possono attingere a fonti di finanziamento eccezionali, non essendo sufficienti le risorse normali e lecite dei partiti, nemmeno di quelli più numerosi. Ed a questo punto le democrazie moderne non assicurano più la libera circolazione delle «élites», non garantiscono ai concorrenti che partecipano alla gara eguali punti di partenza ed eguali condizioni di corsa. Nelle «élites» si verifica una distinzione e una graduatoria; «élites» povere ed «élites» ricche. Superfluo dire che la distinzione non si identifica con quella tra classi povere e classi ricche, avvenendo spesso che i partiti che hanno le simpatie dei ricchi sono i più poveri mentre quelli che hanno le simpatie dei poveri sono i più ricchi. Così le moderne democrazie sono tanto poco democratiche che assicurano i suffragi e danno la vittoria solo ai partiti ricchi, trasformando le democrazie in timocrazie.
Ecco la carica dei faziosi L'armata rossa è in tv. Garimberti bacchetta il Tg3, ma è tutta Raitre a tirare colpi bassi al Cav. Per non parlare di La7. A Sky le inviate giocano alla rivoluzione, scrive il 29 Ottobre 2011 Giampaolo Pansa su "Liberoquotidiano.it". Mi ha molto stupito che Paolo Garimberti, il presidente della Rai, abbia preso cappello per la faziosità del Tg3 diretto da Bianca Berlinguer. “Garimba” è un mio vecchio amico, abbiamo lavorato insieme alla Stampa e poi a Repubblica. L’ho sempre considerato un tipo sveglio, tanto che mi ha sorpreso vederlo accettare di presiedere la Rai: un dinosauro senza speranze e un ambiente nel quale non vorrei vivere neppure da deportato. Tuttavia, il “Garimba” dovrebbe sapere come è fatta la Rai. Da anni è un rudere lottizzato, ossia diviso in lotti di partito. Nella Prima Repubblica, un pezzo apparteneva alla Dc, un secondo ai socialisti del Psi, un terzo ai comunisti del Pci. Nel proprio orto ciascun partito era sovrano, poteva disporne come gli pareva e piaceva, senza che nessuno dicesse né hai né bai. Nella Seconda Repubblica la spartizione per lotti è rimasta. Sono cambiati soltanto i partiti proprietari. La prima Rete con il relativo telegiornale è roba del Pdl e dunque del cavalier Berlusconi. La seconda in teoria spetterebbe alla Lega, ma un provinciale come il sottoscritto non ha ancora capito se sia o no così. La terza con il Tg3 è sotto l’imperio del Partito democratico e dei suoi presunti alleati. Con il passare degli anni, i direttori del Tg3 sono sempre stati rossi, a cominciare dal mitico Kojak, ossia Sandro Curzi, oggi scomparso. Kojak era un comunista collaudato, tanto d’aver persino lavorato a Radio Praga. Contava più di molte eminenze delle Botteghe oscure. Da vero paraculo (uso il termine con ammirazione) faceva quel voleva, in barba a tutto.
ARRIVA LA DIRETTORA. I direttori venuti dopo di lui si sono comportati all’incirca nello stesso modo. Gli unici sfortunati sono stati due signore. La prima, Daniela Brancati, durata appena un anno, dal 1994 al 1995, fu segata dalle liti interne al tigì e dagli scioperi. La seconda, Lucia Annunziata, venne messa al Tg3 da Massimo D’Alema dopo la prima vittoria elettorale del centro-sinistra, quella del 1996. Ma anche lei ci rimase poco. A suo giudizio, i tre quarti della redazione del tigì rosso non lavoravano abbastanza. E questo giudizio, diventato pubblico, la obbligò ad andarsene. Chi sta da anni al Tg3 è l’attuale direttora, Bianca Berlinguer, arrivata nel 1991. Ad assumerla era stato Curzi che la stimava come giornalista: brava, bella e lavoratrice. L’unico difetto di Bianca era di essere figlia di Enrico, il segretario del Pci. Il leader comunista chiamò Curzi e osservò che l’assunzione della figlia non gli sembrava elegante né opportuna. Mezzo mondo avrebbe pensato che la ragazza era stata raccomandata dal padre, pur non essendo così… Sembra che l’episodio sia vero, roba impensabile ai giorni nostri. Bianca Berlinguer dirige il Tg3 dall’ottobre 2009. E da quel momento ha fatto un tigì che più rosso non si può. Sempre molto accanito contro Berlusconi. Prima del “Garimba”, qualcuno se ne era adontato. Il sottoscritto no. Ho smesso da un pezzo di guardare il suo telegiornale delle sette di sera, perché è noioso come tutti i mezzi di propaganda. La canzone che canta è sempre la stessa. Il taglio dei servizi idem. I commenti, spesso affidati alla mimica facciale di Bianca, non sono mai sorprendenti. Perché dovrei buttare il mio tempo? Tuttavia so bene che la direttora Berlinguer non viola nessuna legge. È la lottizzazione, bellezza! Qualche ingenuo seguiterà a pensare che la spartizione politica della Rai, un bene pubblico, sia un’anomalia italiana. Ma è un difetto congenito. Per questo, la rossa Bianca stravincerà sempre. Ha il diritto di farlo e lo farà. Aspettate la campagna elettorale e vedrete. Del resto, essere contro il Caimano di Arcore non è uno sport soltanto del Tg3. La maggioranza dei talk show pubblici e privati sta allineata e coperta sulla linea anti-Cav. La 7 si è buttata tutta a sinistra. Il tigì di Enrico Mentana, detto “Mitraglia”, un ultracinquantenne ingrigito, ormai è pronto per trasferirsi nella squadra di Repubblica. Agli ordini di Ezio Mauro, un dittatore freddo che l’ha sempre saputa più lunga di lui. Corrado Formigli, con la sua Piazza pulita, mette in mostra un fanatismo da Santoro dei poveri, privo della geniale cattiveria del vero Michele. Lilli Gruber spasima di fare su Otto e mezzo la diretta del funerale di Berlusconi. Il panciuto Luca Telese vuol dimostrare di essere l’unico comunista rimasto in Europa. E tratta la sua foglia di fico, Nicola Porro, come un fastidioso destrone, erede della Luisella Costamagna, epurata con stile neo-sovietico. Dell’Infedele di Gad Lerner meglio non parlare. I lettori di Libero sanno che non sono mai stato un tifoso di Silvio. Ho predetto per tempo la sua crisi. E l’ho invitato a ritirarsi dalla politica. Ma questo non mi impedisce di staccare la mia spina personale ai programmi troppo faziosi e dunque noiosi. Decidendo che per me sono inguardabili. L’ho fatto da un pezzo con il Ballarò del compagno Floris. La sera dell’incidente di Fini che straparla sulla signora Bossi mi sono goduto la partita Juventus-Fiorentina. E solo da Libero ho appreso il trattamento di super favore riservato da Floris a Fini: venticinque minuti di concione, il doppio del tempo complessivo concesso al ministro Gelmini e al sinistro Vendola. Ma la faccenda non mi scandalizza. Anche Floris coltiva come meglio crede il proprio orto lottizzato. Pagando il canone Rai con la puntualità dei fessi, pago anche il diritto del compagno Giovanni a condursi come un militante. Il vero scandalo è Fini: un presidente della Camera, terza carica istituzionale della Repubblica, che va in diretta tivù a fare propaganda politica. Ma questa è una questione che riguarda la Casta. Un verminaio dal quale non mi aspetto più nulla. Mi aspetterei, invece, qualcosa da un’emittente televisiva che si regge sugli abbonamenti dei privati. Sto parlando di Sky e del suo telegiornale, SkyTg24. Un po’ di giorni fa, il ramo italiano dell’impero di Rupert Murdoch ha festeggiato un evento importante per la sua cassa: l’aver conquistato cinque milioni di clienti. Uno di questi sono io, e da molto tempo: un abbonato storico che versa il costoso gettone allo Squalo soprattutto per le partite di calcio e il telegiornale continuo. Quali diritti hanno gli abbonati di Sky? Soltanto due: pagare o disdire il contratto. Anche il criticare è possibile, ma come succede in molte grandi aziende i clienti contano come il due di picche. Nessuno risponde mai ai rilievi, il vertice e i piani sottostanti se ne fottono. Del resto, che cosa pesa il singolo rispetto a cinque milioni di baionette? Nulla. Tuttavia, poiché fin da piccolo ho imparato a non starmene mai zitto, voglio fare una domanda alla redazione del tigì di Sky. E in particolare alla nuova direttora, Sarah Varetto. Guardo questo telegiornale almeno cinque o sei volte al giorno. Notando un mutamento rispetto al tono di un anno fa. Quello che avevo descritto in un libro dedicato ai media italiani e ai giornalisti che ci lavorano. Sotto la direzione di Emilio Carelli, SkyTg24 era già diventato uno strumento di battaglia politica contro il centro-destra. Un po’ mi stupiva, sapendo che Carelli era un cattolico cresciuto dai salesiani e addestrato come televisionista nelle reti del Berlusca. Ma la brava e bella Varetto ha fatto un passo in più. La mia impressione è che l’equilibrio e l’imparzialità del suo tigì siano diventati un foglio di cartavelina, dietro il quale si nasconde un gioco allo sfascio che non mi piace per niente.
PIANETA SKY. Anche la signora Varetto ha un’attenuante. Mi dicono che il tigì di Sky lo vedano quattro gatti. Ovvero, oltre a me, poche migliaia di spettatori. Un ascolto persino più basso di quello raccolto da Rai News, il telegiornale rosso di Corradino Mineo, figlio malvisto dagli alti comandi di viale Mazzini. Ma si può essere piccoli e, al tempo stesso, brutti. Vale a dire, troppo enfatici nel dipingere con gioia il disastro italiano, la nostra ridicola debolezza in Europa, gli scioperi proclamati dal sindacato, le piazze ribelli con le molotov. Ci sono giornaliste di Sky tragicamente buffe nella loro convinzione di fare le inviate di guerra sul fronte di una rivoluzione proletaria: unica luce nella notte nera del berlusconismo. Questo ammazza la credibilità di un telegiornale che, per di più, appartiene a un capitalista con la dentatura da squalo. Forse la direttora Varetto dovrebbe proporsi una domanda. Se l’Italia sparisse nella voragine della crisi economica, quanti dei suoi cinque milioni di abbonati rimarrebbero in grado di pagare il costoso gettone che tiene in piedi Sky? Toccando ferro, le rispondo così: pochi, davvero molto pochi. Giampaolo Pansa
«Ha vinto il M5S, dateci il reddito di cittadinanza». L'assalto ai Caf del barese. Succede nel piccolo comune di Giovinazzo. Cittadini in fila per ottenere i moduli, centralini tempestati dalle telefonate al servizio di Comune e Regione, scrive l'8 marzo 2018 “L’Espresso. "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per Reddito di Cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone fra ieri e oggi si sono presentate ai Caf locali e, nel capoluogo, anche a Porta Futuro, il centro servizi per l'occupazione. Gli episodi, già resi noti dal sindaco di Giovinazzo (Bari), Tommaso Depalma, che ha parlato di file davanti ai Caf della città, si stanno verificando anche in queste ore. A Porta futuro a Bari, racconta il responsabile, Franco Lacarra, "sono una cinquantina le persone che tra ieri e oggi hanno chiesto i moduli per ottenere il reddito di cittadinanza, si tratta soprattutto di giovani". "A noi sindaci - afferma Depalma - piacerebbe poter comunicare ai cittadini che il problema della disoccupazione è risolto e che per tutti quelli che non hanno lavoro c'è un Reddito di Cittadinanza, ma credo che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali". «Ovviamente - aggiunge Franco Lacarra - non si tratta di folle oceaniche, ma comunque è certo che molta gente è alla ricerca dei moduli per ottenere il reddito di cittadinanza e ci chiede informazioni». «Sono soprattutto i giovani - aggiunge - che ci chiedono informazioni, naturalmente anche i Caf potranno dare una descrizione su quello che sta accadendo».
"Ha vinto M5S, dateci i moduli per il reddito di cittadinanza". Numerose richieste ai Caf da Bari e Palermo. A Giovinazzo e nel capoluogo pugliese decine di richieste. A Palermo un Caf costretto a mettere un avviso all'esterno. Ma i Cinque Stelle della Puglia attaccano: "Una mistificazione", scrive l'8 marzo 2018 "La Repubblica". "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per il reddito di cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone dopo l'esito del voto si sono presentate ai Caf locali. A Bari e a Giovinazzo - ma anche a Palermo dove gira anche un falso formulario - decine di cittadini hanno chiesto informazioni sulla modulistica per accedere al reddito di cittadinanza promesso in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle. Nel job center di Porta Futuro a Bari, per esempio, in tre giorni sono pervenute da persone di età compresa tra i 30 e i 45 anni una cinquantina di richieste di accesso alla modulistica. "A chi si è affacciato chiedendo se fossero già disponibili i moduli per richiedere il reddito di cittadinanza, abbiamo dato una risposta tecnica, dicendo che non c'è al momento nessun provvedimento che codifica questo strumento", ha chiarito Giovanni Mezzina, responsabile dei servizi di orientamento di Porta Futuro Bari. Anche a Palermo le richieste iniziano ad arrivare. Una decina di persone si sono presentate al Caf Asia di Piazza Marina. E al patronato dell'Ente nazionale di assistenza sociale ai cittadini (Enasc), per frenare il via vai di chi chiedeva informazione hanno affisso un foglio con la scritta in italiano e in arabo: "In questo Caf non si fanno pratiche per il reddito di cittadinanza". In Puglia, dal Comune di Giovinazzo, l'assessore alle Politiche Sociali, Michele Sollecito, racconta che le domande su questo specifico provvedimento si aggiungono, ma in termini di curiosità, a quelle che da tempo i cittadini pongono per accedere al Reddito di dignità (Red) della Regione Puglia e al Reddito di Inclusione (Rei) del Governo. "Non c'è nessuna nuova frenesia per il reddito di cittadinanza proposto dai 5Stelle, ma curiosità sì. Ma nessun pugno sul tavolo o nessuna rivendicazione animata. Perché Giovinazzo non è una città di indolenti parassiti". Dal canto suo il sindaco di Giovinazzo, Tommaso Depalma (lista civica), ritiene "che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali. La vittoria del M5S c'è stata, netta e inconfutabile, ma per il reddito di cittadinanza la vedo dura". Ma in Cinque Stella della Puglia parlano di mistificazione della realtà. E raccontano che anche il direttore di Porta Futuro, Franco Lacarra, "che per dovere di cronaca è il fratello del neoeletto deputato renziano Marco Lacarra del Pd ha confermato in maniera molto schietta che non vi era stato alcun assalto". Il comunicato di Porta Futuro, però, non smentisce: "Alcuni cittadini sono passati dal nostro sportello per chiederci informazioni e approfondimenti su questo tema. Vogliamo chiarire che tutto ciò è normale nel nostro Paese: succede ogni volta che vengono divulgate notizie rilevanti per le politiche del lavoro e per la vita dei cittadini, come è avvenuto per altre proposte legislative promosse negli ultimi mesi".
La Fake news contro il Movimento Cinque Stelle delle richieste di massa di reddito di cittadinanza, scrive il 9 marzo 2018 "Positano News". Da questa mattina in Puglia politici e giornali hanno lanciato una nuova bufala: FIUMI di persone avrebbero preso d’assalto alcuni CAF e centri per l’impiego per richiedere il reddito di cittadinanza. A lanciare l’allarme per primo il sindaco di Giovinazzo (BA) (che ha appoggiato il PD in campagna elettorale) che, commentando un articolo di una testata locale, ha parlato di “file davanti ai Caf della città”. La notizia è stata poi ripresa da “La Repubblica” che ha raccontato di “RAFFICHE DI RICHIESTE” anche per “Porta Futuro” il centro per l’impiego di Bari. UNA FOLLIA GENERALE CHE CI E’ APPARSA QUANTOMENO “SOSPETTA” ad appena 4 giorni dal voto, con un Governo nemmeno insediatosi in attesa che si sblocchi la situazione tra le varie forze politiche e dunque nessuna possibilità di legiferare. ABBIAMO DUNQUE DECISO DI ANDARE CONTROLLARE LA SITUAZIONE IN PRIMA PERSONA. Dopo aver girato alcuni CAF senza scorgere neanche lontani tentativi di “assalti”, abbiamo deciso di recarci direttamente a “Porta futuro”. Ingresso vuoto. Corridoi vuoti. (Dell’assalto e delle file interminabili mattutine, neanche un superstite). All’ingresso alcuni addetti ci hanno subito spiegato che “in realtà noi non abbiamo visto quasi nessuno, questa notizia ha lasciato di stucco anche noi”. Ci hanno dunque fatto parlare con il direttore Franco Lacarra (per dovere di cronaca sottolineiamo essere il fratello del neoeletto deputato renziano MARCO LACARRA (PD)) che in maniera molto schietta e onesta ci ha confermato che rispetto agli articoli letti non vi era stato alcun “assalto” ma che è solo capitato, come gli capita sempre per qualsiasi provvedimento compresi quelli regionali, che alcune persone NEGLI ULTIMI 3 GIORNI si siano recate a chiedere informazioni generiche sul reddito di cittadinanza. Abbiamo dunque chiesto al direttore di riportare la realtà dei fatti specificando di come si sia trattato di un fenomeno assolutamente normale e quotidiano per loro. Il direttore, d’accordo con noi, ha dunque richiesto al suo ufficio comunicazione di scrivere una smentita sul canale Facebook di Porta Futuro. Non sappiamo bene come sia potuto accadere ma solo pochi minuti dopo lo stesso direttore è stato contattato telefonicamente, davanti a noi, dallo staff del sindaco renziano ANTONIO DECARO (PD). Abbiamo ascoltato dunque il direttore costretto a “giustificarsi” spiegando che con questa smentita avrebbe voluto solo raccontare la verità dei fatti (a suo parere, testualmente, “una cazzata”). Nel frattempo, mentre eravamo ancora in loco, sono arrivati altri giornalisti del TG RAI, di Repubblica e pare che il direttore sia stato contattato anche dalla CNN. Tutto quanto vi abbiamo raccontato sopra è cronaca, ora traete voi le vostre conclusioni. Dal canto nostro, vorremmo solo dirvi una cosa: è evidente che la lezione di queste elezioni politiche a qualcuno non sia bastata. A questo punto vi preghiamo: se davvero avete così poca considerazione per l’intelligenza dei cittadini italiani continuate pure a diffondere falsi “scandali” e fake news, vorrà dire che alle prossime consultazioni elettorali il Movimento 5 Stelle volerà, da solo, oltre il 41%. A riveder le stelle…
Putin è davvero colpevole? Qualcosa proprio non torna nel caso Skripal, scrive il 27 marzo 2018 Marcello Foa su "Il Giornale". Siamo proprio sicuri che ad avvelenare l’ex spia Skripal e sua figlia siano stati i russi? Permettetemi di avanzare più di un dubbio esaminando con attenzione le notizie uscite finora. I punti che non tornano sono questi:
Primo. Qual è il movente? Quale l’interesse per Putin? Mi spiego: tutti riconoscono al presidente russo grande sagacia nel calibrare le sue mosse. Eccelle sia nella strategia che nella tattica. Da tempo sappiamo che gli Stati Uniti (i quali trainano l’Europa) sono impegnati in un’operazione di logoramento del Cremlino volto a ottenerne un rialliniamento su posizioni filoamericane, che potrà essere ottenuto con certezza solo attraverso un cambio di regime ovvero con l’uscita di scena di Putin. Siccome una rivolta colorata è inattuabile, lo scenario è quello di rendere insostenibile il peso delle sanzioni e dell’isolamento internazionale, inducendo le élite russe a ribellarsi al presidente appena rieletto. In questo contesto, ogni pretesto viene sfruttato per innervosire o indebolire Putin. Conoscendo l’obiettivo finale, bisogna chiedersi: ma che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del pollonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso. Diplomaticamente sarebbe stato un suicidio, perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata, fino all’ultimo atto, l’espulsione coordinata dei diplomatici, a cui l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata, benchè avrebbe potuto – e proceduralmente dovuto – astenersi. No, Putin non è leader da commettere questi errori.
E veniamo al secondo punto, che riguarda il rumore mediatico e il furore delle accuse. Non dimentichiamolo, la comunicazione è uno strumento fondamentale nell’ambito delle guerre asimmetriche (tra l’altro è il tema che tratto nel mio ultimo saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”). Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”.
Se analizziamo attentamente le dichiarazioni del governo britannico, notiamo come la stessa premier May continui a dire che “è altamente probabile” che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi. E nel comunicato congiunto diffuso ieri da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma sviluppato non significa prodotto in Russia. Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come fabbricato – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa, che pertanto andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa. Non come un verdetto. Anche la semantica, in frammenti ad alta emotività come questi, è indicatrice e dovrebbe allertare la stampa, che invece non mostra esitazioni. Eppure di ragioni per mostrarsi più cauti ce ne sono molte. Vogliamo ricordare le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein? Ma esempi in tempi recenti non mancano. L’isteria accusatoria di queste ore ricorda quella delle “prove incontrovertibili” del 2013, secondo cui Assad aveva sterminato col gas 1300 civili, fa cui molti bambini. Scoprimmo in seguito che a usare il gas furono i ribelli per provocare un intervento nella Nato. O, sempre in Siria, nel 2107 quando Amnesty e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un formo crematorio in cui venivano bruciati i ribelli, rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano. Sia chiaro: nessuno sa chi abbia attentato alla vita di Skipal e di sua figlia e nessuna ipotesi può essere esclusa. Ma la propaganda è davvero assordante e i precedenti, nonché l’esperienza, suggeriscono maggior cautela. E un sano scetticismo: perché Putin sarà, per la grande stampa, “cattivo” ma di certo stupido non è.
Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare. Dall'onnipotenza del Mossad alla lobby ebraica e all'idea di "Due popoli due Stati". La complessità del conflitto israelo-palestinese negli anni ha generato una serie di convinzioni che non si basano sui fatti. Il dizionario del conflitto dalla A alla Z, scrivono Anna Mazzone e Paolo Papi su "Panorama". Israele ha avvertito i palestinesi della Striscia di Gaza di abbandonare le loro abitazioni. La pseudo-tregua è durata un batter di ciglia. I razzi di Hamas continuano a piovere in Israele e lo Stato ebraico ha ripreso i bombardamenti su Gaza e si prepara (forse) a un'operazione terrestre. Compresso tra i suoi falchi, Netanyahu sembra non avere chiara la rotta da seguire e intanto il numero dei morti aumenta di ora in ora. Si parla di più di 200 persone, tutti palestinesi e 1 israeliano. Il conflitto israelo-palestinese affonda la sua storia nella notte dei tempi. Difficile districarsi nelle fitte trame degli eventi, dei passi fatti in avanti e di quelli (tanti) fatti indietro. E, soprattutto, difficile non ascoltare le sirene dei "falsi miti". Idee preconcette, spesso frutto di propaganda da una parte e dall'altra, che a forza di essere ripetute sono diventate realtà. Abbiamo provato a smontarli uno per uno.
Il mito dei Paesi arabi "fratelli". Non è vero, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, che i palestinesi siano vittime esclusivamente delle rappresaglie israeliane. I Paesi arabi che confinano con Israele, Gaza e Cisgiordania sono stati, nonostante la retorica antisionista dei governi arabi strumentalmente usata in chiave interna, tra i più feroci nemici degli oltre 5 milioni di profughi palestinesi della diaspora, considerati - ovunque siano stati ospitati - come dei paria senza diritti, degli inguaribili attaccabrighe da confinare in campi sovraffollati, senza servizi né diritti e controllati a vista dalle onnipotenti polizie locali. Dalla Giordania - dove durante il settembre nero del 1970 la polizia giordana lanciò una sanguinosa operazione contro i gruppi palestinesi nei campi - al Libano - dove i 500 mila profughi che vivono nei campi sono considerati tuttora senza diritti politici e sociali - fino al Kuwait - dove i lavoratori palestinesi furono espulsi durante la prima guerra del Golfo per il sostegno che l’Olp ricevette dal regime di Saddam - non c’è Paese arabo che - al di là delle magniloquenti dichiarazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi - abbia mai offerto un concreto aiuto ai palestinesi fuggiti dalle loro case. Sempre in Giordania (e anche in Libano) un palestinese non può studiare Legge o Medicina e non può essere proprietario di un immobile. Se questi sono "fratelli", allora forse è il caso di parlare di "parenti serpenti".
Il mito dei negoziati. Non è vero, o meglio: è estremamente improbabile, visto anche il disimpegno americano - che una soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere frutto di un negoziato tra i leader dei due campi, come dimostrano i fallimenti di tutti gli accordi di pace degli anni '90 e 2000. È assai più probabile che le tendenze demografiche di lungo periodo dei due gruppi etnici possano mutare, irrimediabilmente, nei prossimi decenni, la natura politica dello Stato di Israele. E questo per una ragione molto semplice: se guardiamo alle proiezioni statistiche scopriamo che al momento in Terra Santa vivono 6.1 milioni di ebrei e 5.8 milioni di arabi. La demografia dice che gli arabi fanno molti più figli degli ebrei. E' inevitabile pensare che nel giro dei prossimi dieci anni, qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione "Due popoli due Stati", Israele potrebbe perdere progressivamente il suo carattere di Stato ebraico. Insomma, quello che non si riesce a raggiungere da più di mezzo secolo al tavolo dei negoziati, potrebbe realizzarlo la Natura.
Il mito degli insediamenti congelati. Nonostante il governo israeliano abbia più volte dichiarato l'intenzione di congelare i nuovi piani di insediamento nella West Bank, questo non è accaduto. L'ultimo esempio è molto recente. Ai primi di giugno di quest'anno l'esecutivo israeliano ha annunciato uno stop nella costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. In realtà, però, su un piano che prevedeva 1.800 nuovi insediamenti ne sono state costruite 381. Forte la pressione da parte di cinque Paesi dell'Unione europea affinché Israele congelasse i suoi piani sui nuovi insediamenti. Ma il governo Netanyahu ha fatto sapere che lo stop è arrivato per motivi "tecnici" e non in seguito alle pressioni europee.
Il mito della lobby ebraica. E' sicuramente il mito più gettonato. Quello dell'esistenza di una lobby ebraica in grado di influenzare qualsiasi avvenimento socio-economico-politico nel mondo è il cavallo di battaglia dell'esercito dei complottisti. Il mito della lobby "giudaica" affonda le sue radici nell'antisemitismo e, come tutti i miti, si fonda su idee fantasiose ripetute a oltranza, nei secoli dei secoli, fino a diventare - almeno per alcuni - delle verità inviolabili. E' il mito che ha gettato le fondamenta dello sterminio nazista e che ha motivato nei secoli l'odio nei confronti degli ebrei, accusati - dopo la Seconda guerra mondiale - di fare "marketing dell'Olocausto" per poter mantenere una situazione di potere nel mondo. In realtà, basterebbe una sola domanda per smontare il mito della lobby ebraica: perché - se la lobby esiste sul serio - Israele non riesce a modificare l'immagine che passa sulla maggior parte dei media nel mondo e che assegna allo Stato ebraico la maglia nera del carnefice a fronte di una Palestina presentata largamente come vittima indiscussa? Il vecchio adagio che la verità sta nel mezzo in realtà vale sia per Israele che per la Palestina, ed è troppo semplice e superficiale credere che esista una struttura monolitica e unica come la potente lobby ebraica, in grado di modificare i destini del mondo.
Il mito di "Due popoli, due Stati". La soluzione "Due popoli due Stati" è l'idea di creare uno Stato palestinese indipendente, che possa esistere "assieme" a Israele. Negli anni è diventata una sorta di "mito", perché sarebbe sicuramente la soluzione migliore per risolvere un conflitto così complesso, ma è pur vero che al momento le parti in causa sono troppo distanti. La creazione di creare uno Stato binazionale non ottiene ugualmente supporto e i sondaggi dimostrano che sia gli israeliani che i palestinesi preferirebbero la "mitica" soluzione "Due popoli due Stati". E allora perché questa soluzione non viene raggiunta? La risposta affonda le sue radici in anni e anni di conflitto israelo-palestinese per la terra, la legittimazione, il potere. Un tema molto sentito dai palestinesi è il controllo delle frontiere e la libertà di movimento. Movimento che Israele restringe e controlla ai check-point e all'ingresso della città di Gerusalemme. E' molto difficile negoziare una soluzione "Due popoli due Stati" se non ci si riesce a mettere d'accordo sui confini come punto di partenza. Un ulteriore motivo di conflitto è la disputa sul controllo di Gerusalemme, casa di molti siti sacri per gli ebrei, ma anche per i palestinesi (e i cristiani). C'è poi la questione degli insediamenti israeliani nella West Bank, che fa parte dei territori palestinesi. L'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank è vista da molti come il principale ostacolo alla costruzione di una pace stabile e duratura. Infine c'è Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla Gaza, che non vuole l'esistenza di Israele e si batte per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa mediorientale. Di fronte a queste considerazioni, è evidente come la soluzione "Due popoli due Stati", pur essendo la migliore da praticare, è anche un falso mito da sfatare. Almeno finché le parti non muoveranno passi in una direzione diversa da quella presa finora.
Il mito dell'estremismo "solo" arabo. Per chi crede che nel conflitto israelo-palestinese il "terrorismo" si esprima solo sul fronte islamico, questo è un altro mito da sfatare. In Terra Santa gli estremisti sono anche ebrei e rappresentano un serio problema per il governo israeliano. Ultra ortodossi, gli estremisti ebraici si sono spesso distinti per attacchi di gruppo a donne. Come nel caso della ragazza presa a sassate a Beit Shemesh (nei pressi di Gerusalemme) perché stava attaccando dei poster della lotteria nazionale per le strade del villaggio. In occasione della recente visita di Papa Francesco in Terra Santa, le autorità israeliane hanno vietato a cinque noti estremisti di mettere piede nella città di Gerusalemme. Considerano lo Stato israeliano "un nemico" e attaccano con bombe e attentati, esattamente come gli omologhi della controparte palestinese. Un nome su tutti è quello di Yigal Amir, il terrorista ultranazionalista che nel 1995 ha ucciso Yitzhak Rabin, perché non accettava l'iniziativa di pace sposata dal premier israeliano e la sua firma sugli accordi di Oslo.
Il mito dell'onnipotenza del Mossad. I servizi segreti israeliani vengono spesso portati a esempio di infallibilità, ma non è così. Anche perché è umanamente impossibile. Tuttavia, il mito dell'onnipotenza del Mossad è uno delle fondamenta su cui si articola il mito della lobby ebraica, e pertanto resiste tenacemente nel tempo. Eppure, i flop del Mossad (e dello Shin Bet, l'intelligence israeliana per gli affari interni) sono sotto gli occhi di tutti. Cominciano nell'ottobre del 1973, quando Aman, i servizi militari israeliani, giudica "Poco probabile" lo scoppio di una guerra con i Paesi arabi, Qualche giorno dopo l'esercito sirio-egiziano attacca Israele, cogliendo il Paese del tutto impreparato. Il capo di Aman fu costretto a dimettersi. Poco prima, a luglio dello stesso anno, gli agenti del Mossad danno la caccia ai leader di Settembre Nero, l'organizzazione terroristica islamica responsabile dell'uccisione di 11 atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del '72. Gli 007 israeliani credono di avere individuato Hassan Salamé (uno dei leader) in Norvegia. Lo colpiscono, ma poi scoprono di avere ucciso per sbaglio un cameriere di origine marocchina. In tempi più recenti, a gennaio del 2010 in un hotel di Dubai viene ucciso Mahmoud al Mabhouh, uno dei comandanti di Hamas. Le foto dei killer (agenti del Mossad) fanno il giro del mondo con i loro passaporti, su operazione della polizia locale. Infine, a giugno 2011 i siti dell'IDF, di Shin Bet e del Mossad vengono violati da un gruppo di hackers di Anonymous, che minaccia un attacco cibernetico contro Israele. Per due ore i siti non sono accessibili.
Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la 'Grande marcia del ritorno' che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, scrive il 30 marzo 2018 "La Repubblica". Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi.
L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.
L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane". L'esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira "i principali istigatori" delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l'esercito è intervenuto perché ha "identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti". Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell'arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas,Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che "è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi". Fonti dell'esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: "Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".
L'esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata "mandata verso Israele per superare la barriera difensiva". "Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l'esercito - l'hanno presa e si sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori". Secondo l'esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che "cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite". La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l'obiettivo di realizzare il "diritto al ritorno", la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell'esercito per monitorare la situazione. L'esercito ha dichiarato la zona "area militare interdetta". Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l'attenzione dal pantano politico all'interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. "Condanniamo in modo forte l'uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza", ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. "È necessario che Israele ponga fine rapidamente all'uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione", afferma Ankara, lanciando un invito "alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile".
Israele spara sulla marcia palestinese: 15 morti a Gaza. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti, scrive Michele Giorgio il 30.3.2018 su "Il Manifesto". Manifesto Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. Gli ospedali già in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al torace. «I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci diceva Aziz Kahlout, un giornalista.
Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di tiratori scelti.
Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato lanci di pietre e di molotov, ha parlato di «manifestazioni di massa volte a coprire attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima di essere uccisi da una cannonata.
La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla marcia e che si unirà alle prossime proteste «perché la vita è difficile a Gaza e non abbiamo nulla da perdere». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta «porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza».
Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.
Si rischia la Pasqua di rappresaglia. In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia, scrive Fiamma Nirenstein, Sabato 31/03/2018 su "Il Giornale". C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas. 15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati. La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba. Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.
Il silenzio assordante sul massacro dei curdi, scrive Marco Rovelli il 29 marzo 2018 su Left. Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali. Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante. Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.
Le prove non ci sono, ma Trump spara lo stesso: orrore! Scrive Marcello Foa il 14 aprile 2018 su "Il Giornale". L’attacco di questa notte rappresenta un grave errore e una svolta nella politica estera americana. E’ un gesto di intimidazione nei confronti del regime di Assad, ma anche – e forse soprattutto – nei confronti della Russia e dell’Iran. Non ci sono prove sull’uso di armi chimiche alla Douma. Giovedì Macron assicurava di avere riscontri sulle responsabilità di Assad, riscontri che però non ha esibito. Infatti nelle stesse ore il segretario alla Difesa degli Usa James Mattis, in audizione al Congresso, dichiarava che non ci sono vere prove ma solamente indizi forniti da media e social media. Ciò nonostante l’attacco è stato lanciato lo stesso. Il messaggio, pertanto, è chiaro e grave: l’America torna ad essere il gendarme del mondo. E Trump rinnega se stesso. L’ho già scritto e lo ribadisco: Il Trump di queste ore non ha più nulla a che vedere con quello che è stato eletto 18 mesi fa. La nomina di un supefalco come John Bolton a Consigliere della sicurezza nazionale, segna la conversione del presidente americano sulle posizioni che egli stesso condannava con forza. Lo dimostrano i suoi tweet, lo dimostra il suo discorso di insediamento, in cui disegnava un’altra America, meno interventista, più equilibrata, mèiù saggia. Il Trump di oggi è irriconoscibile. E’ diventato un neoconservatore ovvero ha fatto proprio lo spirito aberrante che ha guidato la mano di Bush, in buona parte quella di Obama, e che ispirava quella di Hillary Clinton. Bolton è alla Casa Bianca da poche settimane e gli effetti si vedono. Fino a pochi giorni fa l’America sembrava sul punto di ritirarsi dalla Siria, ora, a suon di missili, dice: noi ci siamo e continueremo a farci sentire. Questo nuovo corso della politica estera americana non promette nulla di buono. Esaspera ancor di più i rapporti con la Russia di Putin, ma questo non è nel nostro interesse di europei ed espone il mondo a crisi ancor più gravi e dalle conseguenze imprevedibili. Che errore, che orrore, Trump.
Siria: l’attacco chimico, tragico pretesto, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Un altro attacco chimico in Siria scatena la reazione internazionale. “Ora l’America di Trump dovrà colpire. Dovrà rispondere alle immagini spaventose che giungono dalla Siria”, scrive Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi. Si potrebbe concordare. Ma difficilmente Washington bombarderà Ryad, che sostiene i jihadisti di Jaysh al-Islam, l’organizzazione jihadista che ha lanciato l’attacco. Perché, con ritornello ripetitivo quanto stantio, i politici e i media dell’Occidente accusano Damasco e Putin. E si preparano a colpire la Siria.
Un attacco chimico annunciato. Solo che stavolta Mosca non starà a guardare. Ha allertato le difese schierate in Siria, e sono tante. Sarà la terza guerra mondiale? Washington dovrebbe riflettere prima di compiere passi fatali. L’escalation è una possibilità, anche se ad oggi remota. Sull’attacco chimico è inutile spiegare che Assad non ha alcun interesse a usare i gas contro i suoi nemici, anzi, sui quali sta avendo la meglio usando armi convenzionali. Per un beffardo incrocio di destini, proprio oggi sembra si sia chiuso l’accordo con gli assassini di Jaish al islam che controllano Douma, il quartiere nel quale sono stati sganciati i gas. Dovrebbero andarsene altrove, liberando l’area dalla loro nefasta occupazione. Ma al di là, degli sviluppi, resta che non interessa a nessuno accertare i fatti. La responsabilità di Assad è dogma inderogabile. Come furono le armi di distruzione di massa di Saddam. E anche se gli interventisti palesano qualche dubbio, restano fermi nell’asserire che Assad va colpito. Come fa Venturini con quel cenno col quale abbiamo iniziato questa nota. Nel proseguo dell’articolo, infatti, ammette che la responsabilità del governo siriano è dubbia…A fine marzo avevamo riportato che “i ribelli siriani che combattono nel Ghouta avrebbero simulato un attacco chimico contro i civili come pretesto per un attacco americano”. Una constatazione non nostra, ma del sito Debkafile, collegato ai più che informati servizi segreti israeliani, che pure non hanno in grande simpatia Assad, anzi. E da giorni media russi e iraniani avevano allertato su un attacco chimico imminente ad opera dei cosiddetti ribelli per incolpare i siriani. Sempre Debkafile, oggi riporta: “Alcune fonti a Washington sospettano che alcuni gruppi dell’opposizione siriana stiano innescando l’escalation nella speranza di provocare un’azione militare USA in Siria, ribaltando l’intenzione annunciata dal presidente Trump di riportare a casa le truppe statunitensi”.
Trump e il ritiro dalla Siria. Trump, obnubilato dai fumi dell’incendio che ieri è divampato alla Trump Tower, (funesto presagio), si è scagliato lancia in resta per un’azione militare. La sua idea di ritirare le truppe dalla Siria sembra dunque appartenere al passato. Oggi le difese siriane danno notizia di aver abbattuto alcuni missili Tomahawk lanciati contro una loro base aerea, un attacco che Mosca attribuisce a Israele. Gli autori della strage di Douma sembrano dunque aver conseguito i risultati sperati. Resta la perplessità per un complesso mediatico unidirezionale, come riscontrato durante la guerra in Iraq e quella in Libia. L’Unione sovietica aveva la Pravda, parola russa che significa verità. Ai media occidentali è consentita certa libertà su temi secondari, ma, quando il sistema si compatta su una decisione che riguarda il suo stesso destino, hanno anche loro una Pravda alla quale attenersi, pena l’esclusione dal sistema stesso. Una Pravda più sofisticata, certo, ma non meno perniciosa. Pericolosa deriva. Totalitaria.
Attacco chimico a Douma: se gli jihadisti scagionano Assad, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Strano strano: l’Osservatorio siriano per i diritti umani, totalmente consegnato alla causa del regime-change in Siria, quindi non certo uno strumento in mano ad Assad, non dà alcuna notizie dell’asserito attacco chimico che sarebbe avvenuto a Douma, presso Ghouta orientale. Attacco che l’Occidente attribuisce ad Assad. L’Osservatorio è dedito alla propaganda contro il governo siriano. I suoi oppositori lo accusano di Inventarsi o distorcere notizie alla bisogna; un po’ come quando si narrava che i comunisti mangiavano i bambini. Allo scopo si avvale di fonti sul campo, fonti jihadiste, ovvio, e terroriste. Ha quindi un rapporto diretto con gli attori presenti nel teatro di guerra. Nel caso specifico, la banda Jaysh al-Islam, finanziata e armata dall’Arabia Saudita, che controllava Douma.
Il resoconto dell’Osservatorio siriano dei diritti umani. Bene, l’Osservatorio dedica alle interna corporis di Douma tantissimi articoli, di cui cinque solo oggi (almeno fino al momento in cui abbiamo realizzato questa piccola nota), dettagliando cosa è successo nel quartiere assediato di Damasco. Note in cui si narra che ci sono stati pesanti bombardamenti da parte delle forze russo-siriane, e che in seguito a queste la popolazione civile si è ribellata agli jihadisti e gli ha chiesto di accettare l’accordo proposto dai loro nemici e di abbandonare il quartiere. Hanno persino manifestato sotto la casa del capo della milizia, per fargli capire che doveva sloggiare. Magnanimamente, i jihadisti alla fine hanno accettato, spiegando in un comunicato che lo facevano per il bene della popolazione civile. E ora pare che stiano andando via, sotto la “pressione popolare”, imbarcati su 26 autobus messi a disposizione da Damasco. Saranno destinati ad un’altra zona della Siria controllata da altri jihadisti. Bene, in nessuno di questi articoli si parla di gas tossico, attacco chimico o quanto altro. Solo in un articolo del 7 aprile si accenna a “11 persone, tra cui almeno 5 bambini, soffocate, dopo il bombardamento di un aereo da guerra”. Al di là della veridicità o meno della notizia (l’Osservatorio non è molto attendibile, per usare un eufemismo), resta che non parla di gas, ma di generici sintomi di soffocamento di 11 persone. Va da sé che se si lancia un attacco chimico i sintomi sono ben più gravi e le persone colpite risulterebbero in numero ben maggiore. Inoltre, di solito, le notizie riguardanti gli asseriti attacchi chimici del passato erano corredate con foto raccapriccianti. In questo caso di foto ne sono circolate pochine e tutte molto più che generiche: potrebbero essere state scattate ovunque. Quella che circola di più l’abbiamo messa in esergo al nostro articolo e inquadra un bambino con un respiratore, mentre la sua compagnetta non ha nulla, se non legittima paura. Foto che non provano nulla insomma, se non l’innocenza violata dei bambini in questa sporca guerra. Una sporca guerra che si alimenta di menzogne. I siti russi rilanciano le dichiarazioni della Croce rossa siriana, che dice di non aver trovato tracce di gas a Douma. E in realtà, non si capisce perché i jihadisti incistati nel quartiere non hanno denunciato quell’attacco nel comunicato rivolto ai cittadini di Douma che l’Osservatorio siriano per i diritti umani riporta tutto nel dettaglio: non una riga sull’asserito attacco chimico. Perché tacere? Si poteva ben denunciare che a seguito dell’attacco chimico avevano deciso di andar via… Si noti che questo articolo, e soprattutto il comunicato degli jihadisti, è successivo all’attacco in cui L’Osservatorio denuncia i presunti sintomi di soffocamento. Non una riga su gas e attacchi chimici. Nemmeno una… Vuoi vedere che si sono inventati tutto?
Ps. Ovvio che da oggi tutto può cambiare e magari anche sul sito dell’Osservatorio scorreranno fiumi di inchiostro su gas e quanto altro. Ma il dato rilevato resta. E conferma quanto scritto stamane: la storia dell’attacco chimico è una messinscena costruita ad arte per attaccare Assad.
Armi chimiche ad orologeria, scrive Sebastiano Caputo il 9 aprile 2018 su “Il Giornale”. Presunte armi chimiche, ancora. Il governo siriano è sotto inchiesta dal potere mediatico internazionale per aver colpito la città di Duma, dove è in corso una battaglia contro Jaish al Islam, con gas tossici. In poche ore i video dal campo diffusi sono diventati virali e senza alcuna verifica tutti i mezzi d’informazione occidentale gli hanno rilanciati sui loro siti web e ritrattati in forma cartacea sulle prime pagine. E’ evidente però che siamo di fronte ad un’evidente operazione di “spin” giornalistico, vale a dire di una notizia che è stata fabbricata, confezionata o per lo meno riadattata, per poi essere gettata in mondovisione in un contesto geopolitico, militare e diplomatico molto preciso. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni e quando vengono organizzate queste campagne mediatiche così corali non è mai per caso per cui occorre inserirle in un quadro molto più ampio altrimenti diventa solo becera e lacrimevole propaganda. Per capire quanto siano davvero autorevoli tali accuse è necessario analizzare le fonti della notizia, poi la campagna mediatica che ne è seguita, e infine tracciare le conseguenze dirette. Il presunto uso di armi chimiche è stato diffuso da due organi. Prima dai canali informativi legati a Jaish al Islam, poi dai White Helmets, un’organizzazione che è stata più volte denunciata per connivenza con i gruppi terroristici in Siria e di fornire un racconto parziale e mai obiettivo del conflitto. Eppure nonostante questa mancanza di obiettività i media occidentali hanno riportato ciecamente la notizia facendosi portavoce di una fazione creata coi soldi sauditi nel settembre 2013 per intercessione della famiglia Allouche – che oggi vive comodamente a Londra facendo fare il lavoro sporco allo sceicco Isaam Buwaydani, detto “Abu Hamam”, succeduto a Zahrane Allouche ucciso da un raid siriano – e che per anni ha comandato Duma con metodi mafiosi, imponendo la propria legge ai commercianti della Ghouta e giustiziando pubblicamente, senza esitare, chi ne ha contestato il potere (per credere è sufficiente ascoltare le testimonianze dei civili fuggiti dai corridoi umanitari aperti dalla Mezzaluna Rossa in collaborazione con l’Esercito Arabo Siriano). La campagna mediatica che ha seguito questi fatti è stata perfettamente sincronizzata in un lasso di tempo cortissimo. Tutti i giornali e i telegiornali hanno aperto con le stesse fotografie, gli stessi titoli, gli stessi slogan, e così anche gli intellettuali, uno fra tutti Roberto Saviano, che sulla scia di quel monologo fazioso di qualche settimana fa su Rai 1 che avevo commentato con un video, si è accodato a questa narrativa a senso unico inventandosi persino un gesto virale – la mano che tappa bocca e naso – per denunciare, senza prove, il governo siriano. Questa traiettoria informativa con l’intento di trascinare emotivamente l’opinione pubblica, si iscrive come detto sopra in un contesto geopolitico molto preciso. Siamo di fronte ad una vittoria militare di Bashar Al Assad e dei suoi alleati russi, iraniani, e libanesi, allora a rigor di logica è quanto mai legittimo domandarsi che interessi avrebbe il presidente siriano, sapendo di avere gli occhi puntati della comunità internazionale e dei media, per lo più in una posizione di forza, di utilizzare le armi chimiche nella battaglia di Duma? Sarebbe un errore da principiante e Assad un principiante non lo è affatto per come ha condotto la guerra mediatica e militare. La verità è che questa campagna arriva una settimana dopo le dichiarazioni di Donald Trump sul ritiro delle truppe dal nord della Siria (circa 2mila soldati), mentre all’interno della sua amministrazione c’è una componente legata al complesso militare-industriale che vuole continuare a seguire un’agenda alternativa a quella della Casa Bianca, con degli obiettivi molto chiari: difendere i pozzi petroliferi, coordinare i curdi sempre più propensi ad un riavvicinamento con il governo di Damasco e controllare zone altamente strategiche nella parte settentrionale del Paese. Per ultimo e non meno importante, è da ricordare che pochi giorni fa Erdogan, Rohani e Putin si sono riuniti per dare seguito ai colloqui di pace, perseguendo il processo di Astana, dove gli americani non sono invitati a prendere parte, ed è evidente che tutto questo servirà a spostare l’attenzione diplomatica sulle Nazioni Unite dove gli Stati Uniti, insieme a Francia e Inghilterra, la fanno da padroni.
Cosa c'è da sapere sulla guerra in Siria. Assad punta a riconquistare i pozzi petroliferi dell'Est, la Turchia a controllare il Nord. Mentre la Russia gestisce la situazione e gli Stati Uniti vogliono rafforzare il ruolo regionale di Israele. Ecco cosa sta succedendo, scrive Alberto Negri il 16 aprile 2018 su "L'Espresso". Nel pieno di una nuova guerra fredda ci avviciniamo a grandi passi alla balcanizzazione della Siria. A Nord la Turchia punta a cacciare dai suoi confini i curdi siriani e gli Stati Uniti non sembrano impegnati a difendere coloro che hanno utilizzato per sconfiggere l’Isis nell’assedio di Raqqa, ex capitale del latitante “califfo” Al Baghdadi. L’eroismo dei curdi di Kobane contro i jihadisti dell’Isis, così esaltato in Occidente, è stato presto dimenticato di fronte alla realpolitik. Nei villaggi curdi che non cadranno in mano ai turchi e alle loro milizie arabe resteranno i ritratti dei martiri. Chi scrive ha visto morire i curdi iracheni nel 1988 ad Halabja, asfissiati dai gas di Saddam Hussein nella più completa indifferenza internazionale; li ha visti fuggire dall’Iraq nel 1991, quando Bush padre fece appello a loro e agli sciiti per insorgere contro Baghdad - e anche allora furono abbandonati al loro destino - poi li ha visti tornare nel 2003 dopo la caduta del raìs, quindi combattere a Kobane quando occupavano soltanto il 20 per cento della città e i jihadisti li attaccavano alle spalle con la complicità di Erdogan: pagano oggi l’ennesimo tradimento delle loro speranze, forse illusorie, di irredentismo. Al centro, lungo l’asse vitale della Siria “utile” Aleppo-Hama-Homs-Damasco, il regime sta consolidando le sue posizioni con il sostegno della Russia e dell’Iran. Bashar Al Assad sta espellendo le ultime sacche di resistenza intorno a Damasco, poi, con l’aiuto dei russi e dei pasdaran iraniani, punterà decisamente a Est verso i campi petroliferi di Deir ez Zhor, essenziali per ricostruire un paese i cui danni di guerra sono stimati almeno 400 miliardi di dollari. Per Assad - come per Erdogan al Nord - l’obiettivo è sostituire la popolazione ostile, in questo caso i sunniti e coloro che hanno appoggiato la rivolta, con quote di minoranze più fedeli al regime come i cristiani, gli sciiti e gli alauiti. In poche parole andiamo verso la pulizia etnica e settaria che ha caratterizzato molte epoche della storia del Medio Oriente. Anche il ritorno dei profughi siriani - tre milioni in Turchia dove rappresentano l’arma di ricatto di Erdogan nei confronti dell’Europa - verrà gestito in questa direzione: distribuire la popolazione non secondo le esigenze di un ritorno a casa ma in accordo con le nuove linee di separazione etnica e religiosa. Dal 2011 a oggi quasi otto milioni di siriani hanno dovuto cambiare indirizzo e molti di loro non lo ritroveranno. Idlib, al Nord, non lontano da Aleppo e dal confine con la Turchia, intanto sta diventando la “discarica” dei jihadisti sconfitti. Qui le donne sole, rimaste single o vedove, vengono radunate dagli islamisti in appositi campi di concentramento. Qui si spengono, in un’atmosfera cupa e carica di presagi inquietanti, le ultime speranze della rivoluzione siriana cominciata con la rivolta di Daraa nel 2011. Quale sarà il loro destino? È un interrogativo di non poco conto, tenendo presente che tra loro ci sono molti dei settemila combattenti con passaporto europeo che imboccarono anni fa l’“autostrada del Jihad” aperta da Erdogan con l’appoggio degli Stati Unti e delle monarchie del Golfo. Nella sedicente pax syriana è il Cremlino che taglia le fette di torta, bisogna quindi sapersi accontentare e inghiottire qualche boccone amaro. Con il vertice di Ankara tra Erdogan, Putin e Hassan Rohani si è definito il nuovo triangolo mediorientale, una sorta di Sikes-Picot dei nostri giorni: si tratta dell’evoluzione più paradossale della guerra di Siria. Un membro della Nato dagli anni Cinquanta, bastione dell’Alleanza contro Mosca, si è messo d’accordo con la Russia e con l’Iran, bestia nera degli Stati Uniti e di Israele. In sintesi un Paese dello schieramento atlantico è sceso a patti contro gli avversari, veri o presunti, dell’Occidente per spartire la Siria in zone di influenza. Non è neppure secondario che Erdogan, incline a presentarsi come paladino dei sunniti, abbia stretto intese con gli ayatollah sciiti, nemici dei jihadisti e del mondo islamico salafita. Se il progetto troverà riscontri nel prossimo futuro, significa che Russia e Iran hanno vinto la guerra di Siria due volte: la prima tenendo in piedi Assad, la seconda portando nel loro campo un pilastro della Nato. La Turchia ospita, oltre alle basi, anche i missili americani puntati contro Mosca e Teheran. Quale è il piano americano da contrapporre al triangolo Russia-Turchia-Iran? Pur mantenendo le basi in Turchia e nel Golfo, lasciare che se la sbrighino sul campo potenze esterne e regionali: in realtà gli Usa contano sulla disponibilità di Israele - che dal Golan siriano occupato nel 1967 scatta con i suoi raid aerei - a fare il poliziotto della regione. Ma la partita non è finita. L’Arabia Saudita, con le dichiarazioni del principe ereditario Mohammed bin Salman sul diritto di Israele ad avere un suo Stato, segnala che vuole trascinare le monarchie del Golfo dal lato di Tel Aviv pur di contenere la Mezzaluna sciita. Le prossime mosse ci daranno le sfaccettature di quello che sarà nei mesi a venire il prisma del conflitto mediorientale. Trump, sulla spinta dei neo-con della Casa Bianca, Mike Pompeo e Bolton, rispettivamente segretario di Stato e consigliere della sicurezza nazionale, intende cancellare l’accordo di Obama con Teheran sul nucleare. Si aspettano nuove sanzioni e ulteriori difficoltà per Paesi europei in affari con gli iraniani, tra cui anche l’Italia. Nonostante le indicazioni di un disimpegno americano, in realtà il Medio Oriente “allargato” resterà nel mirino Usa: la partita è strategica ma anche economica, dalle rotte del gas nel Mediterraneo orientale alle nuove “vie della Seta”, ferroviarie, autostradali, marittime e portuali, in mano agli investimenti cinesi. Da queste parti forse non sarà più America First, ma Israel First, che per altro tiene sempre aperta la linea rossa con il Cremlino. La guerra per procura contro l’Iran ha balcanizzato in un massacro infinito la Siria ma non è ancora finita.
Cara Botteri, sulla Siria sbagli e ti spiego perché, scrive il 17 aprile Marcello Foa su "Il Giornale". Il mio intervento di giovedì scorso a TG 3 Linea notte è diventato virale sui social media. Decine di migliaia di condivisioni per aver detto – in un estratto di due minuti – che, come dimostra la Siria e come già avvenuto in Iraq, i giornalisti abboccano troppo facilmente alla propaganda e non imparano dai propri errori. In collegamento, purtroppo solo nei minuti finali, c’era da New York Giovanna Botteri, corrispondente dalla Rai, che naturalmente, dalla mimica facciale, pareva non essere molto d’accordo con me. Diversi lettori mi hanno chiesto: ma com’è andata a finire? Cos’ha detto la Botteri? Potete giudicare voi stessi, seguendo la sequenza completa (sono appena cinque minuti). Io mi auguro di avere presto l’occasione di confrontarmi nuovamente con lei, però non posso rimanere indifferente riascoltando l’ultima affermazione della mia nota collega, secondo cui la differenza è che “nell’Iraq del 2003 i giornalisti erano sul campo e potevano testimoniare, mentre oggi in Siria non ci sono giornalisti sul posto”. Avrei voluto replicare subito ma purtroppo eravamo alla fine della trasmissione. Rimedio adesso. No, cara Giovanna, non ci siamo. Io non ho mai citato l’Iraq come esempio positivo per la stampa ma – e lo dimostro nel mio saggio, uscito da poco, Gli stregoni della notizia. Atto secondo – ma, al contrario, come precedente molto negativo, in cui proprio la grande stampa internazionale, a cominciare dal New York Times e dalla Cnn, fecero da volano a tutte le bufale istituzionali, appiattendosi totalmente sulla posizione del presidente Bush. Allora le poche voci critiche venivano intimidite ed emarginate, fino alla criminalizzazione morale. Avevano ragione ma dovevano sentirsi soli, dovevano discolparsi, fino a dubitare delle proprie isolate convinzioni. In Siria la grande stampa mainstream sta commettendo lo stesso errore, come spiego nel mio intervento a Tg3 Linea Notte, ma la Botteri non può sostenere che in Siria mancano i giornalisti sul campo. Ci sono stati eccome, pensiamo al giovane Sebastiano Caputo, a Gian Micalessin, a Fausto Biloslavo. Talvolta basterebbe ascoltare le testimonianze dei preti che vivono in Siria, anziché quelle, tuitt’altro che neutrali, di molte Ong. Le voci alternative non mancano, per chi vuole ascoltarle. Il problema, è che la maggior parte dei media le ignora, preferendo affidarsi ciecamente alla voce dei governi, senza mai dubitare, senza mai interrogarsi, senza mai cogliere le incongruenze e le contraddizioni, nemmeno quando sono palesi. Ovvero muovendosi come docili greggi al seguito del solito Pastore. Il giornalismo, cara Giovanna Botteri, è un’altra cosa: significa coraggio, significa indipendenza, significa capacità di critica e di sana autocritica. Significa riscoprire virtù che la stampa occidentale mainstream smarrisce di giorno in giorno.
Douma: non fu attacco chimico. Parola di Robert Fisk, scrive il 17 aprile 2018 Giampaolo Rossi su "Il Giornale".
IL PRIMO AD ENTRARE. “Questa è la storia di una città chiamata Douma, un luogo devastato e maleodorante di palazzi distrutti – e di una clinica sotterranea le cui immagini di sofferenza hanno permesso a tre delle nazioni più potenti del mondo occidentale di bombardare la Siria la scorsa settimana”. Inizia così, sul quotidiano britannico The Indipendent, il racconto di Robert Fisk, uno dei più famosi giornalisti al mondo, direttamente da Douma. Fisk, reporter di fama internazionale, è stato il primo ad entrare nei giorni scorsi nella città liberata dall’esercito siriano; ha visitato il famoso ospedale dove sono state girate le immagini dei bambini con le maschere di ossigeno, prova fondamentale che l’Occidente ha preteso per accusare Assad di aver usato armi chimiche e scatenare il bombardamento su Damasco e Homs. Fisk ha parlato con Assim Rahaibani, il medico che era presente quel giorno quando i feriti giunsero nell’ospedale. E ciò che viene raccontato è sconvolgente: il video è vero ma la verità è un’altra: “quei civili erano sopraffatti non dal gas ma dalla carenza di ossigeno dentro i tunnel e negli scantinati in cui vivevano, in una notte di vento e bombardamenti pesanti che hanno scatenato una tempesta di polvere”. Quella notte, continua il testimone, “ci furono molti bombardamenti [da parte delle forze governative]” ma c’era anche “molto vento e le nuvole di polvere cominciarono a invadere gli scantinati e le cantine dove vivevano le persone”. Il video di dei bambini di Douma con le maschere d’ossigeno è vero… ma la verità è un’altra. Quelle persone furono colpite da ipossia (cioè da mancanza di ossigeno) non da gas nervini. Ecco il perché delle immagini di quei bambini con le maschere sul volto; sarin e agenti nervini non c’entravano nulla. Poi, continua l’anziano medico siriano, “qualcuno alla porta, un «Casco bianco», gridò “Gas!”, ed è cominciato il panico. La gente ha iniziato a gettare acqua l’una sull’altra. Sì, il video che è stato girato qui, è autentico, ma quelle che vedi sono persone che soffrono di ipossia – non di intossicazione da gas“. Robert Fisk afferma anche che quella del dott. Rahaibani non è l’unica testimonianza. A Douma: “ci sono molte persone con cui ho parlato tra le rovine della città che hanno detto di non aver mai creduto a storie di gas, che di solito venivano messe in giro dai gruppi armati islamici”; quelli che l’Occidente chiama Ribelli e che gli abitanti di Douma chiamano jihadisti o “terroristi”, perché “il termine che usa il Regime è un termine usato da molte persone in tutta la Siria”. Fisk afferma nel suo reportage di aver “attraversato la città abbastanza liberamente ieri senza soldati, poliziotti o agenti di sicurezza a seguire i miei passi, solo due amici siriani, una macchina fotografica e un taccuino”. Eppure nessuna traccia di gas e nessuna testimonianza che ne comprovasse l’esistenza.
SMENTITI GOVERNI OCCIDENTALI. Il reportage di Fisk smentisce categoricamente la versione di Usa, Gran Bretagna e Francia, secondo i cui governi vi era “un alto grado di fiducia” (non la certezza) che il regime siriano avesse bombardato con armi chimiche. Secondo l’intelligence occidentale la fiducia proveniva da rapporti di “Organizzazioni mediche non governative attive nella regione come la Syrian American Medical Society” composta da medici americani di origine siriana che operano in Turchia e nei territori sotto il controllo dei ribelli, e poi da “testimonianze, foto e video apparsi spontaneamente su siti Web specializzati, sulla stampa e sui social media”. In altre parole i governi occidentali hanno deciso di sferrare un attacco contro la Siria sulla base di un’accusa provata da video su You Tube e dai “sentito dire” di profughi fuggiti da Douma con i ribelli e che lo avrebbero raccontato ad organizzazioni anti-Assad. Nessun prova confermata da esperti internazionali, dall’OPCW o da organismi preposti. Fisk si chiede: “com’è possibile che i profughi di Douma che avevano raggiunto campi in Turchia abbiano descritto un attacco di gas che nessuno oggi a Douma ricorda?” Bella domanda. Forse perché l’attacco chimico non c’è mai stato.
VERITÀ NASCOSTE. D’altronde lo stesso bombardamento occidentale presenta strane verità nascoste. Come abbiamo raccontato in questo articolo, il laboratorio di Barzah a Damasco, distrutto da ben 70 missili americani, non era un Centro di produzione di armi chimiche, e lo confermò un mese fa l’OPCW dopo aver effettuato due ispezioni senza riscontrare la benché minima attività illegale, né presenza di sostanza vietate. Fisk è stato il primo giornalista arrivato a Douma a testimoniare una possibile manipolazione della verità su ciò che è accaduto; ma non il solo. Il reporter Pearson Sherp ha documentato per il canale OAN (One American News Network, emittente conservatrice filo-Trump) che secondo le testimonianze raccolte nella città, sono stati i ribelli ad inscenare l’attacco chimico allo scopo di generare il caos necessario ad fuggire dalla città. Insomma, il caso Douma è l’ennesima messa in crisi della verità su cui si è costruita tutta la guerra in Siria. Rimane l’assurdità di un bombardamento occidentale al di fuori del Diritto internazionale, voluto per ragioni che non hanno nulla a che fare con i motivi umanitari e, se il reportage di Fisk fosse confermato, anche fondato su una colossale bugia. Se il reportage di Fisk fosse confermato ci troveremmo davanti ad una colossale fake news della quale i governi occidentali, i media e gli “intellettuali umanitari” potrebbero dover rispondere al mondo.
Siria 1957: False Flag e la storia che si ripete, scrive il 13 aprile 2018 Giampaolo Rossi su “Il Giornale”.
SIRIA: IL PRECEDENTE. È il 1957; il Presidente americano Eisenhower e il Primo Ministro britannico Mcmillan decidono che è arrivato il momento di un “regime change” in Siria. Shukri al-Quwatli il presidente siriano che aveva vinto le prime elezioni democratiche, l’eroe dell’indipendenza non era più affidabile; si stava avvicinando troppo all’Unione Sovietica e Washington e Londra non potevano correre il rischio di perdere il controllo del petrolio siriano, né che la Siria diventasse un caposaldo comunista in Medio Oriente. E così furono messi in campo Cia e Sis per studiare la soluzione migliore. E fu trovata: scatenare una serie di attentati terroristici a Damasco facendo finta che ci fosse una rivolta in corso; compiere alcuni omicidi mirati sulle figure più influenti del governo e una serie di provocazioni alle frontiere turca, irachena e giordana che spingesse quelle nazioni ad intervenire. CIA e SIS avrebbero dovuto usare “le loro capacità sia nel campo psicologico che in quello dell’azione”. Tra gli uomini del governo siriano da uccidere, il primo era Afif al-Bizri il capo di Stato Maggiore accusato di essere un uomo di Mosca.
Il piano per il “regime change” prevedeva il finanziamento ad un “Comitato Siriano Libero” e armi a “fazioni politiche paramilitari”; gli antesignani degli attuali “Ribelli moderati”. L’operazione, ormai approvata ed esecutiva, si arenò per la rinuncia di Iraq e Giordania a scatenare una guerra disastrosa in Medio Oriente. La storia del tentato golpe in Siria emerse qualche anno fa dai documenti privati di Duncan Sandys, Segretario alla Difesa del Premier britannico e pubblicati dal Guardian. È impressionante la similitudine con ciò che sta accadendo oggi; ma in fondo non c’è nulla di nuovo né in Siria né altrove.
FALSE FLAG: MANIPOLARE E DESTABILIZZARE. Quello che allora non si realizzò, si è realizzato molte altre volte. Si chiama False Flag ed è una delle tecniche con cui scatenare guerre, regime change o perseguire disegni geopolitici senza incorrere in apparenti violazioni del Diritto internazionale o in pressioni contrarie dell’opinione pubblica. I False Flag sono operazioni segrete attraverso le quali un Governo o un’Agenzia d’Intelligence commettono atti di terrorismo, assassinii mirati, destabilizzazioni per far ricadere la colpa sui nemici o avversari e così legittimare una propria azione aggressiva. Nel secolo scorso l’adottarono un po’ tutti: i giapponesi per annettere la Manciuria cinese, i sovietici per invadere la Finlandia), i nazisti per preparare l’invasione in Polonia. Ma da dopo la Seconda Guerra Mondiale sono state le potenze occidentali quelle che hanno fatto il maggior uso di False Flag. Britannici, israeliani e americani ne sono diventati i maestri. Dagli attentati nel 1946 del M16 contro le navi che trasportavano gli ebrei in Palestina, attribuendoli ad una fantomatica organizzazione palestinese; all’Operazione Susannah, con cui nel 1954 Israele compì una serie di attentati in Egitto per far ricadere la colpa sui Fratelli Mussulmani e bloccare l’avvicinamento americano a Nasser. Il colpo di Stato della Cia in Iran del 1953, per sostituire il Primo Ministro nazionalista Mossadeq con lo Scià, fu preceduto da una serie di attentati contro leader religiosi organizzati dagli americani e attribuiti a fazioni comuniste per destabilizzare il Paese. Molti piani approvati dai governi rimasero poi sulla carta, come il Piano Northwoods con cui nel 1962 gli Usa cercarono il casus belli per invadere Cuba progettando attentati contro esuli cubani da parte di finti terroristi castristi. Con la «Guerra preventiva» di Bush e Obama, i false flag sono diventati narrazione, storytelling, pura fiction ad uso del mainstream globale.
FALSE FLAG DI BUSH E OBAMA. Nel nuovo secolo, i False Flag sono diventati lo strumento preferito di Washington per manipolare l’opinione pubblica e legittimare false guerre umanitarie. Anzi di più. Con la teoria della “Guerra Preventiva” di Bush continuata da Obama, i False Flag si sono trasformati in narrazione, storytelling, pura fiction ad uso del mainstream globale. E così è bastato andare all’Onu a mostrare in mondovisione una fialetta di antrace preparata dalla Cia dicendo che era stata trovata in Iraq, per legittimare l’invasione di quel Paese. Oppure consegnare ai media finti report su presunti crimini di Gheddafi commessi (o addirittura da commettere) contro innocenti “ribelli moderati” finanziati dall’Occidente per creare lo sdegno internazionale affinché la Nato potesse radere al suolo la Libia ed eliminare lo scomodo dittatore che faceva affari con tutto l’Occidente. La Siria è oggi il teatro della grande manipolazione con cui l’Occidente e i suoi alleati sunniti cercano di abbattere un governo non allineato. E i leggendari “bombardamenti chimici” di Assad sono i più straordinari False Flag degli ultimi anni.
IL PRECEDENTE DI KHAN SHAYKHUN. Già a Khan Shaykhun un anno fa, la storia della armi chimiche di Assad fu utilizzata in un’operazione mediatica senza precedenti; un’operazione a cui l’Onu, alla fine, ha dato legittimità producendo un rapporto incredibile per incongruenze e inaffidabilità; un rapporto redatto dal JIM (il Joint Investigative Mechanism) nel quale si ammette per esempio che gli esperti “non hanno mai visitato il luogo dell’incidente avendo deciso di soppesare i rischi per la sicurezza contro i possibili vantaggi per l’inchiesta”. In cui si dichiara che l’intero documento è stato costruito sulla base di relazioni, immagini redatte da “fonti aperte” in un’area che ricordiamolo, era sotto il controllo dei ribelli di Al Nusra e dei miliziani di Al Qaeda. Un rapporto che riconosce (ma decide di non indagare) incongruenze come quella delle molte vittime ricoverate negli ospedali in orari precedenti a quello del presunto bombardamento (p. 28-29). Un rapporto che decide di non tenere conto di una serie di studi di esperti indipendenti che sono giunti a conclusioni completamente diverse come quello clamoroso di uno scienziato del Mit di Boston che abbiamo pubblicato qui. Un rapporto che si dice “sicuro” che la Siria sia responsabile di un attacco chimico ma che per esempio alla pagina 22, ammette che ad oggi il JIM “non ha trovato informazioni specifiche che confermino che un SAA Su-22 operante dalla base aerea di Al Shayrat (quella che poi bombardò Trump per rappresaglia) abbia lanciato un attacco aereo contro Khan Shaykhun il 4 aprile 2017″. Il bombardamento di Douma sembra far parte della stessa identica narrazione: ci sono alcuni video che girano in rete e sul mainstream terribili di bambini morti ma senza alcuna reale elemento di identificazione e per chi volesse approfondire la questione lasciamo l’articolo di Sebastiano Caputo che da quella regione è tornato pochi giorni fa. È curioso che in entrambi i casi, l’attacco chimico di Assad avvenga quando l’esercito siriano sta per vincere la battaglia contro i ribelli e quindi non avrebbe alcun motivo di utilizzare armi che in termini tattici sono del tutto inutili (un retaggio della Prima Guerra Mondiale) ed in termini mediatici disastrose per chi le usa (mentre al contrario utilissime per chi le subisce). Ed è curioso anche che ogni volta, l’attacco si materializzi subito dopo che Trump ha annunciato cambi di politica in Siria: un anno fa, 4 giorni dopo dopo aver dichiarato che Washington non era più interessato all’allontanamento di Assad e ora 6 giorni dopo aver annunciato il ritiro delle truppe dalla Siria. Ed ogni volta, puntualmente, un oscuro e inspiegabile attacco chimico del regime impone a Washington e all’Occidente di riaprire la crisi con Assad.
GIÙ LE MANI DALLA SIRIA. Assad sta vincendo la guerra, Putin sta scombussolando i piani del nuovo Medio Oriente progettato da Occidente, Arabia Saudita e Turchia. L’America rischia di uscire a pezzi dai 20 anni di errori, guerre criminali e arroganti tentativi di ridisegnare la regione compiuti da Bush e Obama su ordine dell’élite neo-con che ha dominato Washington in questi anni. Trump, nonostante i toni bellicosi da cowboy di frontiera, sta forse provando ad arginare la pressione dell’élite globalista e del Partito della guerra che imperversa nei media e dentro il Deep State. Ma non è detto che ce la faccia. Ed è proprio nella lotta interna alla democrazia Usa che si gioca la partita della Siria e il futuro equilibrio del mondo.
ALL’1% GLI UTILI IDIOTI DELL’UCCIDENTE. La Siria di Ghouta e la Ghouta di Amnesty, Palmira e Babilonia, i nazifascisti in agguato, il gender e i migranti: quando i “sinistri” condividono distruzioni e distrazioni di massa, scrive Fulvio Grimaldi sul suo blogspot, riportato da Davide il 10 marzo 2018 su ComeDonChisciotte.
Quelli “del popolo”. Quelli che risultano più nauseabondi sono sempre gli ipocriti. A partire dal “manifesto” e da tutta la combriccola pseudosinistra dell’imperialismo di complemento, che volteggia nel vuoto dell’interesse e del consenso di un elettorato italiano che, per quanto disinformato o male informato sulle cose del mondo, ha dimostrato di badare più alla sostanza che alle formulette di palingenesi sociale incise sulle lapidi della sinistra che fu. E la sostanza ci dice che mettere tutti sullo stesso piano, 5Stelle e ologrammi nazifascisti, Putin e Trump, opposti imperialismi, migranti in fuga da bombe Nato e migranti attivati dalle Ong di Soros, jihadisti a Ghouta Est e truppe governative, a dispetto dell’immane e unanimistica potenza di fuoco mediatica, poi produce al massimo l’1 virgola qualcosina per cento. Brave persone, certo (esclusi i paraculi fessi dei GuE), ma fuori dal mondo, da chi è il nemico e da come si muove l’1% finanzcapitalista e tecno-bio-fascista nell’era del mondialismo e dell’high-tech. E, permettetemi una risatina, neanche bravi, ma di un narcisismo solipsista che rivela tratti patologici per quanto è dissociato dal reale, quelli della Lista del Popolo (Chiesa, Ingroia, bislacchi e farlocconi vari), trionfalmente giunti allo 0,02%. Ma si può!
Di Maio tra omaggi a San Gennaro e Mattarella e rifiuto degli F35. Sebbene questo unanimismo di fondo in fatto di geopolitica tra gli ambiguoni o catafratti della sinistra ausiliaria del sistema e del sistema i militanti in divisa, possa aver confuso le idee a molti sulla partita che si gioca in Medioriente, o nei trasferimenti via Ong di popolazioni, o a proposito dello “Zar Putin” e dei suoi maneggi per non far vincere Hillary, basta a volte una piccola crepa e la luce passa e illumina quanto si voleva restasse al buio. Possiamo dire tutto e il contrario di tutto su Di Maio, ma credo che siano davvero pochini gli italiani che condividono l’idea che spendere 80 milioni al giorno per muovere guerre a chi non si sogna di disturbarci e che quindi non abbiano apprezzato il voto 5 Stelle contro ogni missione militare e contro l’acquisto degli F35. Questo al netto delle promesse di “normalizzazione” profferite ora a tutto spiano dal leader 5Stelle e che lo fanno apparire come il pifferaio di Hamelin le cui liete marcette si trascinano dietro tutti i ratti della prima e seconda repubblica. Pensano di salire sul carro del vincitore, ma nella storia il pifferaio i ratti li porta a precipitare nell’abisso. Di Maio se lo ricorda? Non vorremmo che si finisse come la fiaba: che poi quelli trascinati via sono i bambini.
La Siria si riprende anche Ghouta: pacifisti e diritto umanisti a stracciarsi le vesti. Prendiamo la Siria, insieme a tutte le altre guerre, una dopo l’altra, che con ripetitività parossistica ci vendono come difesa dei diritti umani di un popolo massacrato dal proprio governante. Ci hanno seppellito in un bunker di menzogne: i tondini li forniscono le Ong tipo Amnesty International, HRW, MSF, la malta che li tiene insieme sono i media. Date un’occhiata a questo osceno appello di Amnesty perché si costringa Damasco a levare l’assedio alla Ghouta. Ancora una volta questo sempre più lurido arnese del bellicismo imperiale si fa riconoscere. Non una parola sul golem terrorista che da 7 anni sbrana la Siria e tiene ostaggi, ogni tanto massacrandoli, gli abitanti delle zone occupate. Mille parole perfide e lacrimose su Aleppo in corso di liberazione, non una parola su Raqqa polverizzata dai bombardamenti Usa, con tutti i suoi abitanti, mentre elicotteri prelevavano quelli dell’Isis per reimpiegarli, insieme agli ascari curdi, in altri crimini contro il popolo siriano.
Bimbi a Damasco. Ma poi nel calcestruzzo si apre una crepa. Ed è la pigrizia degli stereotipi. C’è sempre un dittatore che bombarda il proprio popolo, una massa sterminata di bambini uccisi, come se, per esempio, Ghouta, fosse tutta una scuola materna, ci sono sempre gli Elmetti Bianchi e i Medici senza Frontiere, grazie ai soldi di Soros, che stanno inevitabilmente dalla parte dei “ribelli” e che poi vengono esaltati e premiati dagli strumenti di comunicazione di coloro che le guerre le promuovono. Non mancano mai le “armi chimiche di Assad”, linea rossa che poi regolarmente sfuma, cancellata da prove e testimonianze (grazie russi!), come sono insostituibili i sanguinari jihadisti di Al Qaida e Isis contro cui gli imperiali dicono di combattere, ma dopo averli addestrati, armati e poi salvati dalle offensive dell’esercito siriano e suoi alleati. Qualcuno rovistando nel web si accorge, a dispetto della furia anti-fake news della Boldrini, che l’attacco siriano alla provincia di Ghouta avviene dopo sei anni che da lì i terroristi hanno ininterrottamente bombardato con razzi e mortai i 7 milioni di civili della capitale Damasco; che le centinaia di vittime dell’offensiva governativa su Ghouta, “soprattutto bambini”, sono il dato inventato dall’Osservatorio che i servizi britannici e i jihadisti gestiscono a Londra; che, se il governo spedisce colonne di autobus a evacuare la gente di Ghouta, o la Croce Rossa siriana prova a creare corridoi umanitari per rifornire di cibo e medicinali, a bombardare queste colonne e questi corridoi, voluti dal governo, saranno difficilmente gli stessi governativi. Nel documentario “Armageddon sulla via di Damasco” ho illustrato alcuni effetti del martellamento su Damasco, fino a 90 missili in una settimana. Dal mercato Al Hamidiyya, il più antico e bello del Medioriente, colpito nel momento di maggiore affollamento, alla stazione di autobus disintegrata nell’ora di punta, con schizzi di sangue e parti di corpo spiaccicati fin sul cavalcavia alto 20 metri. Immagini mie e di canali siriani che nessuno in Occidente ha mai ripreso. E’ successo mille volte, come centinaia sono state le incursioni aeree dei pirati israeliani. Avete sentito qualche sussurro di disapprovazione da Amnesty e compari?
Il “manifesto”: tutti uguali ma uno più uguale. Così, un po’ per volta, si aprono crepe, delle quali la più grossa è il dubbio che il “manifesto” e affini, quelli che si precipitano a fornire palchi e ghirlande ad Amnesty, non te la raccontino giusta quando mettono sullo stesso piano chi spara da Ghouta e chi avanza da Damasco e, anzi, trovano che i più cattivi siano coloro che “assediano” il sobborgo della capitale per eliminare uno degli ultimi bubboni tumorali incistati nel proprio territorio dai gangster imperialsionisti e mica quelli, sicari e mandanti, che vogliono mantenere, ai costi più inenarrabili, un presidio che tenga sotto tiro Damasco e impedisca la pacificazione e la vittoria dei giusti. Che sono poi anche le forze popolari siriane precipitatesi in soccorso ai curdi sotto attacco turco ad Afrin, a dispetto delle pugnalate alle spalle che questo mercenariato di Usa, Israele e sauditi, ha inflitto a chi ne aveva accolto, con tanto di cittadinanza, le centinaia di migliaia di fuggitivi dalle persecuzioni di Ankara.
Quando parla il popolo, non gli gnomi da giardino, il re buonista resta nudo. Le ambiguità e distorsioni dei media, a qualsiasi obbedienza politica pretendano di rifarsi, hanno iniziato a frantumarsi contro il muro della realtà. Elezioni politiche che mozzano gli arti alla principale forza di dominio e relegano nell’irrilevanza chi gli opponeva formule di rito anni ‘50, del tutto avulse da quanto una chiara percezione dello stato di cose reale richiederebbe, dimostrano che il re è nudo e nudi sono anche principi, duchi, baroni, paggi, nani e ballerine. La menzogna ha esaurito la sua capacità mistificatrice. Da fuffa e nebbia, demagogia presidenziale e pontificale, sono scaturiti irresistibili gli abusi inflitti dai dominanti ai dominati sul piano sociale, economico, ambientale, di lavoro, scuola, salute. Ma forse anche i crimini dei quali ci hanno voluto partecipi, anche a spese nostre, compiuti contro altri popoli. Non sarà un caso che gli unici vincitori di questa contesa elettorale siano coloro che a spese e avventure guerresche, come alle sanzioni che a queste si accompagnano, si sono sempre opposti. E se questa barra la manterranno dritta, sarà già molto.
Al potere via decostruzione e migrazione. Che sono poi anche quelli che, in un modo o nell’altro, quale corretto ed equo, quale rozzo e falsamente motivato, hanno messo in dubbio la sacralità dei facilitatori delle migrazioni “per fame, guerra, persecuzioni”. Il che ci porta a un’altra considerazione. Invasori e terrorismo jihadista ha posto particolare accanimento nella distruzione delle vestigia storiche delle nazioni che sono stati mandati ad assaltare. Ong, umanitaristi, sinistre, Don Ciotti e missionari nelle colonie, Soros, briciole sinistre, sostengono l’accoglienza dei rifugiati senza se e senza ma. Ci sono punti di contatto, affinità di obiettivi, tra queste forze e le campagne che condividono? Non penso al semplicistico discorso che individua causa ed effetto nelle bombe e nelle conseguenti fughe. Lo stereotipo del “fuggono da guerre, fame e persecuzioni”. Penso a una manovra a tenaglia che cancella corpi e spirito di comunità formatesi nel sangue, nei progetti, nelle sconfitte e nelle rinascite, nella lingua e nei costumi, su una comune terra, in rapporto con lo stesso ambiente ed è così che ha acquisito conoscenza e coscienza di sé, identità, autostima, volontà di perpetuarsi e crescere. Un fiore nell’infinita ricchezza della varietà dei fiori. Prima di manipolazioni e ibridazioni. Se, io élite di infima minoranza, perseguo un progetto di dominio mondiale assoluto che solo a me e ai miei subalterni obbedienti convenga, delle forze così formatesi e così composte, altrettante negazioni al mio disegno, devo liberarmi. E’ conditio sine qua non per l’affermazione del progetto mondialista. La mia operazione a tenaglia consiste, primo, nel cancellarne i segni della storia, delle opere compiute, le fondamenta dell’edificio che una comunità, un popolo, una nazione, devono avere sempre in corso d’opera se intendono avere un futuro. Del resto, senza queste tessere del mosaico, l’umanità si estingue. L’élite regnerà sul deserto o su un altro pianeta. E, secondo, nello sradicarli, spostare quelli che non ho decimato con guerre militari o economiche, tagliare radici, staccare il fogliame dal tronco, disperderlo, alienarlo da se stesso, confondendolo in quello che chiamano “meticciato”. Erano le mie ultime ore nella Baghdad che ho illustrato in “IRAQ: un deserto chiamato pace”, aprile 2003. I carri Usa, penetrati in città avevano sparato i primi colpi contro l’Hotel Palestine, dove stavamo noi giornalisti che non avevamo seguito l’ordine di Bush di far parlare solo gli embedded al seguito degli invasori. Morirono un mio amico di Al Jazeera e un reporter spagnolo. Uscendo dalla città in taxi passai accanto al Museo Nazionale: Protetta da reparti angloamericani, manovalanza importata dal Kuweit stava già saccheggiando la più ricca testimonianza della storia araba e irachena, dai sumeri agli Abbassidi, anche a beneficio dei predatori dei caveau occidentali. Subito dopo avrebbero disperso e bruciato i testi, resi sacri dal tempo e dall’amore dei loro lettori, della Biblioteca Nazionale, dalle tavolette cuneiformi della prima scrittura, alla magnificenza letteraria delle Mille e una notte e ai traduttori arabi di Aristotele. Intanto i carri americani si preparavano a travolgere sotto i propri cingoli Babilonia, Ur, Niniveh, Samarra, Nimrud, Ctesifonte, Hatra. Quattromila anni di creatività umana, di civiltà, di culla della civiltà. Meticolosamente, sistematicamente polverizzati o predati. E poi stessa procedura in Siria, Aleppo, Palmira, Libia, Gaza, ovunque la pianta umana fosse più antica, robusta, rigogliosa, degli stenti arbusti, delle misere gramigne di chi a una cultura annegata nel sangue ha sostituito centri commerciali, tecnologie decerebranti e arsenali atomici.
Mosul. In parallelo i migranti, pezzi interi di popoli, 6 milioni di siriani spodestati, un milione a disposizione dei minijob di Angela Merkel. E, logicamente, afghani, iracheni, libici, pachistani e, soprattutto africani: basta seccare con una megadiga Impregilo un fiume come l’Omo in Etiopia e 60mila perdono l’acqua, i coltivi, la sussistenza, diventano foglie secche al vento che qualche Ong seduce a farsi schiavi “meticciati” in un bengodi di sfruttati europei. Come si vede in ogni sequenza che ci induce a impietosirci e a condividere “l’accoglienza”, sono in stragrande maggioranza giovani con i tempi e le forze capaci di futuro. Un futuro abbandonato alle multinazionali a casa propria, ma per il quale fornire braccia e saperi In Occidente. Sono giovani, in grado di affrontare i pericoli della filiera del traffico di carne umana, ma non procreeranno più per la continuità di una comunità arrivata fin ad oggi a dispetto di prove di ogni genere, procreeranno per il “meticciato”. A compensare ciò che da noi, nell’esaltazione dei generi e transgeneri della sterilità, non nasce più. E se crediamo che da tutto ciò noi siamo esenti, proviamo a gettare uno sguardo fuori dalla finestra, tra un asilo nido che non c’è e una famiglia che il precariato di sistema rinserra in sogni frustrati. Diamo un’occhiata ai territori terremotati, banco di prova e cartina di tornasole di un altro fronte della stessa guerra. Credete che, a quasi due anni dal sisma con migliaia ancora nei campeggi al mare, in alloggi di fortuna lontani, con attività produttive sparite per sempre, con la ricostruzione neanche di una stalla, si tratti solo di inefficienza, ritardi, risse per appalti? Ho girato per quelle terre palmo a palmo (“O la Troika o la vita – Non si uccidono così anche le nazioni”). Paesi con le radici nell’impero romano e le chiese del Medioevo, dove hanno lasciato segni Arnolfo da Cambio, Mantegna, Leopardi, Piero della Francesca: tesori inenarrabili. I terremotati li vogliono scoraggiati, esportati, migranti anche loro, i territori privati di una economia nativa, sorta dal genius loci, anacronisticamente non sovranazionale, ma legata ai bisogni locali, ai biotopi naturali e umani. Spopolare per nuove destinazioni d’uso. Sovranazionali. Come quando sradicano con gli ulivi l’anima della Puglia, per far posto a gasdotti e resort di Briatore. Rifugiati nostrani di cui nessuno tiene conto e né Soros, né alcuna Ong dei diritti umani reclamano un’accoglienza senza se e senza ma. Tutto questo Pippo non lo sa. Tutto questo quelli dell’1% “rosso”, PaP (Potere al Popolo), i PC (le scissioni dell’atomo), o LuE (i neoliberisti, NATOisti, Bruxellisti, insofferenti di Renzi), non lo sanno. Sepolti nell’altroieri, del progetto capitalista e della relativa strategia non studiano e non vedono neanche la più abbagliante evidenza. Nanetti da giardino occupati a strappare erbacce, mentre fuori cresce una giungla di piante carnivore. E non si accorgono che, ignorando quella strategia, ogni lotta contro il precariato di vite e lavoro è già persa, mentre sono del tutto compatibili quelle contro le molestie, per i matrimoni e le adozioni gay, per ogni più fantasiosa invenzione di genere come fieramente esibite in quelle manifestazioni d buongusto e di cultura popolare che sono i Gay Pride, contro la minaccia dell’Onda Nera nazifascista. Minaccia eroicamente combattuta, da Macerata a Milano a Roma a Palermo, con l’illusione di ricavarne dividendi boldriniani e poi spassosamente risultata pulviscolo littorio allo 0,9%, Casa Pound, e allo 0,37% Forza Nuova. Tocca scioglierli per salvarci dall’orrore di nuovi Farinacci e Himmler, era l’invocazione tonitruante della Boldrini, grande specialista di armi di distrazione di massa. Intanto, però, il mondo reale scioglieva lei e i suoi scioglitori. E senza neanche un sorso di olio di ricino. Ma più compatibile, anzi, più gradita di tutte, è la campagna per l’accoglienza dei migranti. Roba di sinistra, ca va sans dire.
I non detti di Ghouta, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2018 su "Il Giornale". Tutto ciò che accade in queste ore nella periferia di Damasco, di preciso a Ghouta, è filtrato da una sconcertante quanto irresponsabile narrativa. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni eppure i grandi e autorevoli mezzi d’informazione sembrano accorgersene solo ora perché gli ingredienti per la mistificazione della realtà non mancano affatto. La meccanica comunicativa è più o meno sempre la stessa: una produzione di notizie scollegate fra loro e confezionate dentro un frame, cioè la cornice giornalistica da cui è impossibile sfuggire, in questo caso “la mattanza di Ghouta perpetuata dall’aviazione del governo siriano”. Seguono immagini scioccanti – in larga parte riportate dai “White Helmets”, il braccio umanitario e mediatico dei gruppi terroristici- che mostrano le tragiche conseguenze “dell’offensiva”, intere abitazioni rase al suolo, cadaveri sulla strada, donne in lacrime, ambulanze, soccorritori in cerca di cadaveri tra le macerie. Le riprese sono di qualità, il logo con l’elmetto bianco appare di continuo, le fotografie vengono scattate con cura. Nell’album emerge un’istantanea che diventa il simbolo di un assedio: una bambina col pigiama rosa – la scelta del pigiama non è casuale e richiama di riflesso i campi di concentramento nazista – che viene tratta in salva da casa sua. Esattamente come ad Aleppo, quando il piccolo Omran Daqneesh fu immortalato coperto di sangue e polvere nell’ambulanza, peccato che poco tempo dopo il padre svelò la tecnica dei White Helmets i quali presero il bambino ancora sporco e scosso dai bombardamenti e lo gettarono in mondovisione sul loro profilo Twitter certi che le agenzie occidentali lo avrebbero alzato come trofeo. Alla sequenza di immagini trasmesse a ripetizione – peraltro sempre le stesse – seguono i dati. A contare i morti ci pensa il generatore di notizie diretto da un solo uomo che vive in Inghilterra: l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Ad accodarsi a questo macabro spettacolo del dolore sono le organizzazioni non governative occidentali – Unicef, Save The Children, Médecins Sans Frontières – che mentre mettono in primo piano i cadaveri putrefatti di donne e bambini raccolgono donazioni – tramite squallidi banner pubblicitari – dai lettori distratti e travolti da un flusso ininterrotto di lacrime. Nessuno vuole negare le conseguenze immonde della guerra, il problema, ancora una volta, sono i non detti dell’offensiva di Ghouta. Chi vive nel sobborgo di Damasco? Chi sono questi ribelli (che se ci fate caso non vengono più nemmeno definiti “moderati”)? Come agiscono? E come fa un’enclave, senza sbocchi autostradali, a fornirsi di armi e munizioni? Questo spazio geografico si è ritagliato nella contorta mappa militare nel lontano 2012 e si colloca sul lato nord-orientale, alle porte della capitale. Quasi 400mila civili sono tenuti praticamente in ostaggio da tre fazioni jihadiste legate a doppio filo con Al Qaeda - Faylaq al Rahman, Tahrir al Sham e Jaysh al Islam – che da anni attaccano i quartieri centrali di Damasco – non lontani dal Suk – a colpi di mortai. L’offensiva dell’esercito siriano è stata rafforzata per rispondere agli attacchi contro i damasceni che si sono intensificati proprio in questi giorni. Molti di loro hanno perso la vita ma se ne parla poco perché la narrativa occidentale è monodirezionale e classifica i civili siriani in due categorie: alcuni sono più vittime di altri. Ghouta è anche quel luogo in cui vengono fabbricate e utilizzate armi chimiche come dimostrò l’attacco del 21 giugno del 2013 in cui inizialmente furono lanciate accuse contro il governo di Bashar al Assad, poi smentite dal premio Pulitzer Seymour Hersh e rispedite al mittente fornendo le prove che invece incolparono proprio quei ribelli “angelizzati” dalla stampa occidentale, i quali le utilizzarono per trascinare l’amministrazione Obama in guerra. Ecco, fin quando i grandi esperti con i loro look confortevoli o i commentatori isterici non vi risponderanno a queste domande precise vorrà dire che sono alimentatori inconsapevoli di questa grande macchina della disinformazione, o furbetti che coprono per chissà quali interessi veri e propri gruppi terroristici complici dei peggior crimini che loro stessi denunciano.
Erdogan tuona sui civili di Ghouta, ma quelli di Afrin sono “terroristi”, scrive il 27 febbraio 2018 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". In questa guerra di Siria tutto assume connotati incredibili, anche Erdogan che si erge a paladino del diritto internazionale e umanitario. Parlando della tragedia umanitaria della Ghouta orientale, il portavoce del presidente turco ha scritto che “il regime sta commettendo massacri” e che “il mondo dovrebbe dire stop a questo massacro insieme”. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, venerdì scorso ha invitato la Russia e l’Iran, alleati della Siria di Assad, a “fermare” le bombe su Ghouta Est, parlando del bombardamento del sobborgo damasceno come qualcosa che passerà alla storia come la “Srebrenica siriana”. Il presidente turco ha deciso di sposare, in questi giorni, una linea fortemente negativa nei confronti dell’avanzata di Damasco nel sobborgo della Ghouta orientale. Rompendo quasi definitivamente il patto di Astana con Putin e Rohani, Erdogan ha deciso di intraprendere una campagna assolutamente contraria al governo facendo tornare indietro le lancette dell’orologio ai tempi delle prime rivolte contro Assad, quando Ankara sosteneva il rovesciamento del leader siriano e le milizie che si ergevano in tutta la Siria. E ovviamente sfrutta la questione della Ghouta orientale per colpire il governo siriano e imporre la propria linea nello scacchiere settentrionale siriano. Erdogan è così: chi lo tutela ha la sua collaborazione e chi non lo tutela diventa nemico. E sono sempre i curdi dell’Ypg l’ago della bilancia. Quando gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere le milizie del Rojava e del nord dell Siria, il presidente turco ha abbandonato nella sostanza l’alleanza con Washington schierandosi con Mosca e sostenendo il piano delle de-escalation zones con l’Iran e la Russia. Adesso che ha intrapreso l’operazione “Ramoscello d’ulivo” e ha scatenato le forze armate contro i curdi di Siria, ottenendo il confronto diretto con la Siria, eccolo di nuovo andare contro il governo di Damasco e provare a riallacciare i rapporti con gli Usa. Nel frattempo, ha intrapreso contro i curdi una campagna militare cruenta, che sta tenendo sotto scacco intere città e dove ci sono già le prime accuse di uso di gas contro i villaggi. Soltanto che, secondo Ankara, c’è una differenza. Mentre per Erdogan la risoluzione Onu sulla tregua è giusta per fermare il massacro della Ghouta orientale, la stessa cosa non vale per Afrin, Manbij. La Turchia ha accolto positivamente l’approvazione della tregua umanitaria in Siria, ma ha subito messo le mani avanti, dicendo che questo non avrà alcuna conseguenza su Afrin e l’offensiva di terra nel nord della Siria perché “resterà risoluta nella battaglia contro le organizzazioni terroristiche che minacciano l’integrità territoriale e l’unità politica della Siria”. Non c’è discussione sul fatto che questa decisione” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu “non abbia alcun effetto sulla operazione che la Turchia sta portando avanti”, ha confermato il vice premier turco, Bekir Bozdag, mentre Erdogan ha sottolineato che l’offensiva “continuerà fino a che l’ultimo terrorista sarà distrutto”. “Sembra che sarà una estate dura e calda per i terroristi e per i loro sostenitori. Prima ripuliremo Manbij, poi tutta l’area a ovest dell’Eufrate”, così si è espresso Erdogan. Parole non troppo dissimili da quelle rivolte dal blocco a sostegno di Assad nei riguardi dell’offensiva contro Ghouta Est e altre sacche. Eppure, se per Erdogan questi sono massacri sui civili, quella che ha intrapreso la Turchia è solo un’offensiva contro il terrorismo. Un interessante punto di vista che fa riflettere su quanto sia importante l’uso del linguaggio in un conflitto che si svolge anche con le definizioni.
Ghouta Est: quando i ribelli mettevano i civili in gabbie, scrive "Piccole note" il 27 febbraio 2018 su "Il Giornale". La Russia ha stabilito che da oggi, ogni giorno, ci sarà una tregua umanitaria per Ghouta Est, dalle 9 alle 14 e chiesto l’apertura di vie di fuga per i civili che vi abitano. La pressione internazionale per fermare l’attacco dell’esercito siriano diretto all’enclave di Damasco controllata dai cosiddetti ribelli ha sortito un primo effetto. Vedremo gli sviluppi: anche la campagna per la riconquista di Aleppo Est fu uno stillicidio di stop and go, a causa da una pressione internazionale diretta a contrastare le operazioni dell’esercito siriano.
La Caritas siriana denuncia lo squilibrio dell’informazione. Esattamente quanto accade adesso, grazie una fortissima campagna mediatica che dipinge l’operazione contro Ghouta Est come brutale e i ribelli come eroi in lotta contro il sanguinario regime di Assad. La guerra è brutta, anche quelle giuste (quella di liberazione dal nazifascismo, ad esempio, conobbe ombre terribili: Dresda, Cassino, Hiroshima e Nagasaki…). Ma questa sembra più brutta di altre. E i ribelli che la combattono più umanitari di altri: ecco che foto e video li immortalano mentre, premurosi, soccorrono i feriti e altro e più stucchevole. Nessuna notizia di quanto da essi perpetrato a Damasco in questi giorni. Tanto che anche la Charitas siriana, in un raro comunicato, ha sbottato: «La maggior parte dei reportage giornalistici si concentra sui bombardamenti effettuati dalla Siria e dalla Russia su Ghouta Est». Nulla si dice invece di quanto avviene a Damasco, martellata ogni giorno «dall’inizio del 2018» da «colpi di mortaio» sparati da quel quartiere (vedi anche Piccolenote). Come anche nessuna notizia sul raid degli Stati Uniti a Deir Ezzor compiuto in questi stessi giorni: 25 i civili uccisi (Xinhua). D’altronde tale silenzio è in linea con quanto accaduto a Raqqa, città coventrizzata dagli Stati Uniti per scacciarne l’Isis (questa la narrazione ufficiale).
Le gabbie umanitarie degli eroi di Ghouta Est. Resta che se il quartiere di Ghouta Est non viene liberato, gli altri quartieri di Damasco resteranno preda dei bombardamenti dei ribelli cari ai circoli che stanno perpetrando il regime-change siriano. A meno che i loro sponsor internazionali non li fermino, cosa che non hanno alcuna intenzione di fare. Gli servono perché sono fonte di destabilizzazione permanente della capitale siriana. Così anche le campagne umanitarie servono a uno scopo prettamente bellico: a evitare che Ghouta Est cada ed essi perdano un tassello prezioso nella prospettiva di portare al collasso il governo di Damasco, logorandone la resistenza.
Ma chi sono gli eroi di Ghouta Est? Si tratta di alcune milizie jihadiste, subordinate ad al Nusra (al Qaeda), la più forte e organizzata. Istruttivo un report di Human Rights Watch, organizzazione non certo filo-Assad, del 2015: «I gruppi armati siriani mettono in pericolo i civili, incluse le donne» che espongono «in gabbie di metallo in tutta Ghouta orientale». Un crimine di guerra, spiega HRW, che i miliziani hanno usato per evitare gli attacchi del governo siriano. Importante quel cenno a «tutta Ghouta orientale» contenuto nel testo: indica che le gabbie dell’orrore sono state usate da tutte le milizie presenti a Ghouta, non dalla sola al Nusra. Nel report di HRW un cenno a un altro video che immortala «camion che trasportano gabbie, ciascuna contenente da quattro a otto uomini o donne». I «ribelli di Ghouta hanno distribuito 100 gabbie, ogni gabbia contiene circa sette persone e il piano è quello di produrre 1.000 gabbie da distribuire nella Ghouta orientale». Il bello è che lo sanno anche loro: anche la Cnn, infatti, aveva ripreso quel video (cliccare qui). Allora, quelle terribili immagini servivano per denunciare la brutalità dell’estremismo islamico. E così giustificare un intervento americano in loco. Oggi non servono più, anzi. Così sono semplicemente obliate. La guerra siriana, come anche altre (Yemen ad esempio), è «disumana», come ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica. Quelle immagini lo documentano nella maniera più agghiacciante. Come disumana è la cortina fumogena che intossica le informazioni su quanto realmente sta avvenendo in quel martoriato Paese.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Mulè: «De Benedetti e Silvio? Due pesi e due misure», scrive Paola Sacchi il 16 gennaio 2018 su "Il Dubbio". «La notizia della non-inchiesta di Milano data dalla Stampa e rilanciata in tv ne è la prova. Moralisti contro Berlusconi, partigiani col loro editore, che è tutto tranne che libero e liberale». «Ormai siamo oltre il circolo vizioso, ma in presenza di un circolo davvero inquinato di un’informazione che non è più informazione». Parla il direttore del settimanale Panorama Giorgio Mulè.
Direttore Mulè, la notizia data da “La Stampa” su presunte irregolarità di Silvio Berlusconi nella vendita del Milan, nonostante il Procuratore capo di Milano Francesco Greco abbia nettamente smentito che ci sia un’indagine, è entrata a far parte di fatto del lungo rosario di vicende attribuite dai media al leader di Forza Italia e questo in piena campagna elettorale. Che opinione si è fatto?
«Siamo ormai oltre la stranezza. E’ grave la notizia della non- inchiesta di Milano. Ci troviamo davanti a un giornale che decide di aprire la sua edizione con una notizia che è totalmente falsa a sentire il Procuratore di Milano che è l’unico titolato a dare il marchio di veridicità o no. La cosa peggiore è che La Stampa poi ribadisce la bontà della notizia sulla base di due fonti che sono anonime e che evidentemente presuppongono che il Procuratore di Milano non sappia quello che accade nel suo ufficio. Siccome questa è un’ipotesi che va esclusa in radice, è a tutto tondo, secondo me, una forma di par condicio di tipo politico».
Sarebbe?
«Avendo dato La Stampa rilievo alla notizia delle intercettazioni di De Benedetti, il quale riferiva dei contatti con Renzi, c’è stato dopo pochi giorni questo attacco nei confronti del Cavaliere. Attacco che va ricondotto nel solco dell’interpretazione di una notizia che non c’è. Ci troviamo di fronte a non notizia, che viene pervicacemente ribadita nonostante le smentite».
Con tanto di conferenza stampa di Greco.
«Certo, ma la cosa grave è che nei telegiornali viene data una non notizia come se fosse una notizia. E cioè i telegiornali della Rai danno conto di un articolo della Stampa che è stato smentito. Quindi nel divulgare una non notizia non fanno altro che fare da megafono a una notizia che è destinata alla pattumiera. Provocando così un danno e cioè l’impressione in chi non ha l’attrezzatura per discernere cosa è vero e cosa è falso che ci sia qualcosa di giudiziario nella vendita del Milan. Quindi, io mi sarei aspettato da parte dei telegiornali nazionali un atteggiamento diverso».
Cova avrebbero dovuto fare?
«Non si doveva parlare di un’inchiesta che non c’è, ma di un clamoroso inciampo, di una clamorosa non notizia data da La Stampa, non di una notizia su un’inchiesta smentita proprio perché non c’è. C’è un problema anche da un punto di vista semantico. Perché per il modo in cui si ascolta spesso la televisione. Chi sta in cucina, chi mangia non sta attento alle sfumature, sente solo delle parole chiare: inchiesta, indagine, Berlusconi. E quelle parole restano in testa. Quindi, alla fine siccome La Stampa, anche se è un grande giornale, ha un numero limitato di lettori, il vero megafono lo hanno fatto i telegiornali che hanno presentato la cosa in una maniera distorta. Perché, ripeto, bisognava parlare di un clamoroso incidente giornalistico. Il titolo doveva essere: l’inchiesta che non c’è, inventata da La Stampa».
E perché non è stato fatto?
«Questo avrebbe fatto gridare chiunque a uno schieramento di favore nei confronti del Cavaliere. Visto che tutto si può dire tranne che lui non sia coinvolto in qualche indagine, si sarebbero tutti alzati e avrebbero gridato: ecco, sono schierati con il Cavaliere. E così facendo è stato fatto un doppio disservizio alla verità: prima da parte della Stampa poi da parte di chi l’ha rilanciata in maniera distorta».
Sta dicendo che ormai si rischia che in questo clima venga fuori una campagna elettorale direttamente a base di quelle che si configurerebbero come fake news?
«Il problema, volgarizzando, è che si ciurla nel manico. Siccome un principio banale ci dice che una notizia falsa smentita è una notizia data due volte, si gioca su questo equivoco. E l’equivoco è continuare a pensare che davanti alla tv ci siano dei fini giuristi o delle persone che abbiano strumenti per decriptare un linguaggio che è inevitabilmente ostico. Invece arriva solo un messaggio, cioè che c’è un’inchiesta della Procura di Milano, nonostante la smentita dello stesso Procuratore, perché La Stampa ribadisce che c’è l’inchiesta. Siamo ormai oltre al circolo vizioso, ma in presenza di un circolo veramente inquinato di un’informazione che non è più informazione ma diventa partigianeria o menzogna e falsità».
Lei vede dietro tutto ciò, come ha scritto il direttore del “Giornale” Sallusti, anche la mano dell’Ingegner De Benedetti, editore della “Stampa” oltre che di “Repubblica”?
«L’Ingegner De Benedetti è assai divertente quando dichiara agli ispettori della Consob di essere un king maker che viene chiamato una sera dal ministro Boschi, un’altra da Renzi e da Padoan. E rivendica addirittura la paternità del jobs act. Quindi, l’Ingegnere sfrutta in maniera evidente il ruolo che ha all’interno del sistema editoriale italiano, facendo quello che Repubblica e i suoi moralisti hanno sempre rifuggito. E cioè lui non è un editore puro ma è il massimo dell’impurità dal punto di vista editoriale perché contamina il suo ruolo con frequentazioni politiche interessate. Tanto da essere un soggetto che a tutto tondo diventa politico, definendosi egli stesso scherzando “il grande vecchio” che si permette di dare a Renzi anche del “cazzone” con grande facilità. Ma è poi l’uomo al quale si perdona di avere in capo una condanna in primo grado per omicidio plurimo nella vicenda dell’amianto dell’Olivetti, al quale si perdonano le scorribande finanziarie del passato, al quale si perdona questo straordinario tempismo per il quale c’è una modica quantità di guadagno dopo la vicenda delle banche popolari. E quello se non è un insider trading è certamente l’utilizzo di una informazione privilegiata».
Insomma, emergono sempre più nettamente due pesi e due misure per l’Ingegnere da un lato e per il Cavaliere dall’altro?
«Il moralismo di Repubblica conosce la sua Caporetto laddove dimostra di essere stato volgarmente partigiano nelle vicende che riguardavano il Cavaliere, nelle quali da Giannini in giù erano tutti schierati a dare lezioni di moralismo, e di bendarsi, invece, poi gli occhi per la vergogna quando il proprio editore finisce in vicende che a tutto tondo danno l’idea di quello che De Benedetti è: tutto tranne che un editore libero e liberale».
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
FAKE NEWS, OSSIA BUFALE E DISINFORMAZIONE DI STAMPA E REGIME.
"Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Proverbio Arabo
In Italia - Fabri Fibra
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Pistole in macchine in Italia
Machiavelli e Foscolo in Italia
I campioni del mondo sono in Italia
Benvenuto in Italia
Fatti una vacanza al mare in Italia
Meglio non farsi operare in Italia
Non andare all'ospedale in Italia
La bella vita in Italia
Le grandi serate e i gala in Italia
Fai affari con la mala in Italia
Il vicino che ti spara in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
I veri mafiosi sono in Italia
I più pericolosi sono in Italia
Le ragazze nella strada in Italia
Mangi pasta fatta in casa in Italia
Poi ti entrano i ladri in casa in Italia
Non trovi un lavoro fisso in Italia
Ma baci il crocifisso in Italia
I monumenti in Italia
Le chiese con i dipinti in Italia
Gente con dei sentimenti in Italia
La campagna e i rapimenti in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Le ragazze corteggiate in Italia
Le donne fotografate in Italia
Le modelle ricattate in Italia
Impara l'arte in Italia
Gente che legge le carte in Italia
Assassini mai scoperti in Italia
Volti persi e voti certi in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi…Dove fuggi...
La bandiera neonazista, scrive il 4 Dicembre 2017 maicolengel su "Butac". Durante il weekend mi avete chiesto in tanti di trattare la storia della bandiera definita neonazista dalle tante testate che hanno riportato il fatto. BUTAC, come sa la maggioranza de lettori abituali, da sempre, se non per qualche commento da moderare, durante il weekend va in vacanza. Nel frattempo si era già adoperato l’amico e collega David Puente, con l’aggiornato articolo che potete trovare qui. Per quelli che non hanno la più pallida idea di cosa si stia parlando facciamo un passo indietro. Sabato su moltissime testate appare la notizia che a Firenze, nella caserma Baldissera, sarebbe stata trovata una bandiera neonazista. La notizia non è sbagliata, non è una bufala come tanti sembrano sostenere, è corretto definire la bandiera imperiale del Reich una bandiera neonazista visto che è usata abitualmente nei cortei xenofobi e neonazisti tedeschi. Non sono io a dirlo, e neppure il buon David, ce lo racconta la stessa NATO, che nel suo articolo sulla propaganda e la disinformazione online pubblica la foto qui sopra con questa didascalia: Supporters of anti-immigration rightwing movement PEGIDA (Patriotic Europeans Against the Islamisation of the West) carry various versions of the Imperial War Flag during a march in Cologne, Germany, in January 2016. © Reuters. La Ministra della difesa Roberta Pinotti si è subito espressa in merito tramite la sua pagina Facebook: La Repubblica Italiana e la sua Costituzione si fondano sui valori della Resistenza, sulla lotta al fascismo e al nazifascismo. Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle Forze Armate essendo venuto meno a quel giuramento. I Carabinieri sono un simbolo della sicurezza della nostra comunità, l’Italia, che si basa su questi valori. Per questo è ancora più grave l’esposizione della bandiera neonazista all’interno di una caserma dei Carabinieri. Ho già chiesto al Comandante generale chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso. È un’offesa a tutte le donne e gli uomini dei Carabinieri e delle Forze Armate che quotidianamente condividono i valori della democrazia. Ho trovato gente in giro accusarla di aver detto una bufala visto che quella non è la bandiera del Terzo Reich, ma lei non aveva minimamente menzionato un Reich preciso, e quella è la bandiera del Secondo Reich. L’errore che aveva fatto era nella prima versione di quel post, in cui aveva scritto: Per questo è ancora più grave l’esposizione della bandiera nazifascista all’interno di una caserma dei Carabinieri. Ma il testo è rimasto così per soli sei minuti, venendo subito corretto con quel “neonazista” che avete visto sopra. Sia chiaro, è vero che storicamente parlando non rappresenta l’ideologia nazista, ma poco importa, la bandiera viene usata oggi perlopiù in quel contesto. Ci sono altre curiosità che vanno raccontate, nel video de Il Sito di Firenze, che per primo lanciava la storia, viene mostrata meglio la parete in questione, a fianco della bandiera imperiale appare anche un poster, quello di Call of Salveenee. Per chi non l'avesse mai sentito nominare si tratta di un gioco dove il personaggio da interpretare è Salvini che va al salvataggio dei Marò. Non è una mitizzazione del personaggio ma nella testa dell'autore si tratta di una presa in giro, peccato non tutti se ne rendano conto. La Lega stessa si sentì offesa dal videogioco. Nei commenti al post di Roberta Pinotti troviamo: Signora Pinotti, tutto bello, ma quella NON é una bandiera nazista, ma la bandiera di guerra del paese con il quale eravamo alleati nella Terza Guerra di Indipendenza, paese senza il quale il Veneto non sarebbe mai tornato sotto il tricolore, ed il poster é il poster di un videogame. Cosí, tanto per dire che ha preso una cantonata pazzesca e dovrebbe quanto meno chiedere scusa ai Carabinieri che sta mettendo in croce totalmente a caso con accuse addirittura di nazismo. Ma il meglio viene dall’articolo de Il Giornale, dove viene esposto in maniera corretta cosa sia quella bandiera e come venga usata oggi, ma nei commenti chi si è limitato a leggere il titolo o poco più si è espresso così: Solo qualche demente (persona priva di senno) poteva confondere la bandiera della Marina da guerra tedesca con una bandiera nazista. Che poi questa bandiera venga usata da degli imbecilli (persone con scarsa capacità di discernimento) negli stadi per sostenere la propria squadra non significa nulla se non la loro insipienza. Io utilizzo sempre la bandiera rossa, avendola posta nel mio bagno privato, per detergermi le terga dopo avere espletato le mie funzioni fisiologiche mattutine, mentre le bandiere della R.S.I. e della X MAS hanno il loro posto d’onore, sopra il camino nel mio soggiorno, ai lati del busto del Duce. Camerateschi saluti! La domanda che sorge spontanea è: chi ha attaccato quel poster l’ha fatto conscio della presa in giro? O l’ha attaccato convinto si tratti di mitizzazione del populismo Salviniano? E la bandiera? Il ragazzo colpevole dei fatti si è così giustificato in tarda serata come riportano il Corriere e altre testate: «Mi sono iscritto alla facoltà di Storia dell’università La Sapienza di Roma e voglio laurearmi lavorando. Quella bandiera per me rappresenta solo un periodo storico al quale mi sono appassionato, niente di più. Chiedo scusa se ho violato i regolamenti”. Ognuno a mio avviso può avere quello che gli pare appeso in camera propria (se di quella si tratta), basta che dimostri coi fatti di essere una persona al di sopra d’ogni sospetto di ideologie estremiste. Io ho un poster di un convegno delle scie chimiche nel BUTACbunker, ma questo vi posso assicurare che non significa che creda nell’esistenza delle stesse. Però il cielo è sempre più striato, non trovate?
Firenze, bandiera neonazista nella caserma dei Carabinieri. Una bandiera usata dai gruppi neonazisti appesa in un alloggio della caserma dei carabinieri, a Firenze e visibile dalla strada con una sciarpa della Roma e un fotomontaggio del leader della Lega Matteo Salvini. Il video, pubblicato da Matteo Calì de "Il sito di Firenze", ha subito fatto nascere un'indagine interna nella caserma Baldissera. Il giovane militare proprietario della bandiera ora rischia pesanti sanzioni disciplinari ed eventuali conseguenze penali. Sulla vicenda è intervenuta, durissima, anche la ministra della difesa Pinotti: "La Repubblica Italiana e la sua Costituzione si fondano sui valori della Resistenza, sulla lotta al fascismo e al nazifascismo. Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle Forze Armate essendo venuto meno a quel giuramento. I Carabinieri sono un simbolo della sicurezza della nostra comunità, l'Italia, che si basa su questi valori. Per questo è ancora più grave l'esposizione della bandiera neonazista all'interno di una caserma dei Carabinieri. Ho già chiesto al Comandante generale chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso". Video pubblicato su “Repubblica Tv del 2 dicembre 2017
Bandiere naziste o bandiere delle Marina imperiale tedesca, quando l’ignoranza vince e diventa una bufala, scrive Simone Spiga il 3 dicembre 2017. Un giornale online di Firenze ha accusato l’arma dei Carabinieri che all’interno di una caserma, la Baldissera, vi sia una bandiera utilizzata dai gruppi neonazisti di tutta Europa e subito è scoppiato in caos in tutta Italia. Interventi di ministri, intellettuali, giornalisti e opinionisti di ogni genere. Peccato, però, che la bandiera in questione era dell’Impero Tedesco: una monarchia costituzionale e potenza economica nata nella seconda metà del XIX secolo ed opera del cancelliere Bismarck. La Kaiserliche Marine o Marina imperiale fu la marina militare creata alla formazione dell’Impero tedesco. Esistette fra il 1871 ed il 1919, prendendo avvio dall’unificazione fra marina prussiana e marina della Confederazione Tedesca del Nord (Norddeutsche Bundesmarine). Ovviamente ci si chiede che ci facesse una bandiera del genere in una caserma dei Carabinieri, ma questa è una domanda che ha una sola risposta, l’ignoranza, anche questa volta sovrana.
Come ti creo una fake news: la “bandiera nazista” nella caserma dei Carabinieri, scrive il 3 dicembre 2017 "Primato nazionale". Non bastasse la spiaggia fascista di Chioggia – che nonostante la cagnara mediatica sollevata la scorsa estate ha visto il titolare venire assolto con formula piena – ora arriva il nuovo allarme: la bandiera nazista (o neonazista a seconda delle interpretazioni) in una caserma dei Carabinieri. Siamo a Firenze, la caserma (in realtà l’alloggio di un militare) è la Baldissera sul lungarno Guglielmo Pecori Giraldi e il video di questa presunta bandiera, diffuso dalla pagina Il Sito di Firenze, è immediatamente ripreso e amplificato da tutti i quotidiani italiani. “Firenze, bandiera neonazista dentro la caserma dei carabinieri”, titola Repubblica. “Bandiera nazista in una caserma dei carabinieri di Firenze”, rilancia La Stampa. “Firenze, “bandiera nazista appesa nella caserma dei carabinieri”. La Pinotti: “Chiarimenti rapidi e misure rigorose””, chiosa Il Fatto Quotidiano. Ed ecco che la fake news targata repubblica è bell’e confezionata. Con codazzo di polemiche e vesti stracciate: da Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana che reputa “indecente che una bandiera neonazista sia esposta in una caserma dei carabinieri a Firenze”, al ministro della Difesa Pinotti che definisce “grave l’esposizione della bandiera nazifascista all’interno di una caserma dei carabinieri”, chiedendo “chiarimenti rapidi e provvedimenti rigorosi verso i responsabili di un gesto così vergognoso”. Peccato che la bandiera nazista – o neonazista, o addirittura “simbolo – si legge – di gruppi neonazisti antisemiti” – sia tutto tranne che una bandiera nazista. A meno di non voler retrodatare – ma dalle parti delle redazioni e non solo devono avere qualche problema con la cronologia storica – l’ascesa del partito nazionalsocialista fino ad inizio secolo. Perché quella bandiera, in realtà, è la bandiera della Kaiserliche Marine, la marina imperiale tedesca, creata dal kaiser Guglielmo II e in servizio dal 1871 fino alla sconfitta nella prima guerra mondiale. Siamo dunque ben lontani sia dal 1933 che, a voler essere generosi, anche dal Putsch di Monaco del 1923 quando Hitler si affacciò per la prima volta sulla scena politica di Germania. Un po’ troppo per associare la bandiera incriminata al nazismo o al neonazismo. Ma in tempi di fake news e di ministero della Verità, sembra bastino tre colori – un nero un bianco e un rosso – disposti in un qualche ordine per montare subito il caso. Anche se questo fa a pugni con la storia.
Fake news della Pinotti: "Bandiera neonazista". Ma è stemma prussiano. Il ministro contro il carabiniere di Firenze che espone il vessillo. Ma il caso si sgonfia, scrive Massimo Malpica, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". Una bandiera tedesca della prima guerra mondiale appesa al muro. Subito sopra, una sciarpa della Roma. Lì accanto il poster di un videogame ironico ispirato al leader leghista Salvini (Call of Salveenee) che tra l'altro prende per i fondelli proprio il politico lombardo. Si può certamente discutere sulle scelte d'arredamento, sulla coerenza stilistica, sull'intelligenza e sul senso dell'opportunità del giovane carabiniere che vive in quella stanza della caserma Baldissera di Firenze, ma forse evocare il pericolo dell'«onda nera» per una bandiera di cent'anni fa appesa sopra al letto può risultare ridicolo, in un mondo dove - in molte curve di stadi, per dirne una - fanno bella mostra di sé svastiche e simboli nazisti propriamente detti. E invece quel video girato dalla strada e pubblicato da un sito fiorentino ha scatenato un putiferio. È arrivata a scomodarsi persino il ministro Pinotti, attaccando il militare sbandieratore con notevole violenza verbale: «Chiunque giura di essere militare lo fa dichiarando fedeltà alla Repubblica, alle sue leggi e alla Costituzione. Chi espone una bandiera del Reich non può essere degno di far parte delle forze armate essendo venuto meno a quel giuramento». Non è scontato che alla Pinotti sia chiaro di quale Reich sia quel simbolo. Probabilmente pensa che sia il Terzo, perché il ministro insiste e definisce «grave» l'esposizione in una caserma dei carabinieri di una «bandiera nazifascista». Ma quello immortalato è in realtà il vessillo di guerra del Secondo Reich, dunque non certamente un simbolo della Germania nazista: niente svastiche, ma l'aquila prussiana al centro di una croce nera su fondo bianco, con la croce nordica con il tricolore rosso bianco-nero imperiale tedesco nel quarto superiore sinistro. Più coerente, insomma, accusare il carabiniere di «tradimento» del giuramento di fedeltà alla Nazione. «Quella» Germania, in effetti, era nostra nemica sui campi di battaglia della prima guerra mondiale. Dunque di intelligenza col nemico (passato) il ministro può certamente parlare. Fake news, dunque? Dipende dai punti di vista. Perché anche se col regime nazista quel simbolo c'entra poco, è anche vero che da tempo i gruppi neonazisti non disdegnano di accostare la Reichskriegsflagge alle bandiere con la svastica, visto che già negli anni della Repubblica di Weimar il vecchio vessillo era usato con entusiasmo da revisionisti e ultra-destra contro il governo in carica. Tanto che, oggi, non è difficile vedere anche quella bandiera tra le svastiche appese in curva, per esempio in quella dei tifosi romanisti. Probabilmente perché in Germania ancora oggi le bandiere con la svastica sono proibite, mentre quella non lo è, ed è dunque tra le preferite anche dai gruppi neonazisti tedeschi. Guarda caso, proprio la sciarpa giallorossa appesa su quel muro potrebbe spiegare dove il carabiniere abbia trovato ispirazione per decorarsi l'alloggio. Più che sui libri di storia, all'Olimpico. Certo, un simbolo come quello non dovrebbe trovare spazio all'interno di una caserma. Ma utilizzare il caso per rilanciare lo spauracchio dell'«onda nera» appare strumentale. Se invece della Kriegsflagge imperiale il militare avesse appeso la bandiera Confederata, che pure negli Usa è al centro di dibattiti e polemiche, la Pinotti avrebbe accusato il carabiniere di suprematismo bianco? E quella foto «rubata» dalla finestra avrebbe fatto tanto rumore?
Una bandiera del Kaiser fa impazzire la sinistra, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". In una caserma dei carabinieri di Firenze «è spuntata» una bandiera con croce nera in campo bianco, al centro aquila imperiale. Nel quarto alto una croce (...) (...) ferrea si sovrappone ai colori dell'Impero tedesco (quelli in uso dal 1867 al 1918). È subito partita una polemica al vetriolo, tutta incentrata sul fatto che sia un simbolo neonazista. Tolto l'ovvio assunto che in una caserma italiana è meglio che ci sia solo il vessillo italiano, quello europeo - se e quando previsto - e poco altro, va però detto che una bandiera è un sacco di cose, molte delle quali stanno solo negli occhi di chi guarda. Per rendersene conto basterebbe dare una sfogliata ad un recente e bel saggio di Bruno Cianci intitolato La stoffa delle nazioni: storie di bandiere (Odoya, 2016). Limitandoci al contingente, però, la prima cosa da dire è la seguente: quella bandiera è la bandiera da guerra dell'Impero tedesco (sembrerebbe nel formato utilizzato dalla Kaiserliche Marine, la marina militare del Kaiser) che l'ultima volta sventolò, ufficialmente, nel corso della Prima guerra mondiale. L'aquila è quella che campeggiava sulla bandiera Prussiana, la croce nordica riprende i colori e la tradizione dei cavalieri teutonici, così come l'altra piccola croce posta in alto sui colori imperiali. È considerabile, di per sé, un simbolo neonazista? No, esisteva quando il nazismo non era nemmeno un'idea. Sì, certo, qualche gruppo di estrema destra l'ha utilizzata per aggirare i vari divieti all'utilizzo di veri simboli del Terzo Reich. Insomma, in mancanza di meglio si sono aggrappati al Secondo Reich (incuranti del fatto che un qualunque junker prussiano li considererebbe, con tutta probabilità, solo plebaglia rumoreggiante). Questa però è solo la prova di quanto siano inutili le norme, sempre aggirabili, di cui la proposta legislativa di Emanuele Fiano vorrebbe condensare i rigorismi più inutili. Nulla ci dice sulle intenzioni di chi quel vessillo, che nazista automaticamente non è e nemmeno automaticamente è considerabile di ultradestra, ha appeso. Se al posto di quella fosse stata esposta la bandiera gigliata della Marine Royale (che, per quanto più elegante, sarebbe sempre meglio non esporre in una caserma italiana) si potrebbe accusare, senza altra prova, chi la espone di essere un fanatico dell'antico regime e di Luigi XVI? Di complottare contro la democrazia? La risposta è probabilmente no, in questo caso come nel precedente. Si è insomma costretti a dover indovinare cos'è quella bandiera per chi la guarda. Un esercizio spesso faticoso e inutile. Allora forse meglio insistere senza troppi isterismi sul fatto che nei luoghi pubblici il nostro tricolorino (qui scritto con lo stesso diminutivo affettivo che usava Cavour) basta e avanza. Per il resto la caccia ai simboli lascia il tempo che trova. Se espongo un fascio littorio in campo verde magari sono un neofascista daltonico (o pusillanime) ma magari amo solo il cantone di San Gallo (Svizzera) che lo ha come simbolo. E non può deciderlo nessuno.
Bandiera prussiana, il carabiniere: "Non sapevo fosse neonazista". Il carabiniere si difende. Avviata un'indagine interna e una dalla procura militare. Inviata una relazione alla magistratura ordinaria, scrive Luca Romano, Lunedì 04/12/2017, su "Il Giornale". La bandiera della marina militare prussiana affissa in una stanza della caserma Baldissera a Firenze ha fatto parecchio discutere in questi giorni. Dopo le polemiche, parla il carabiniere che ha deciso di esporla e prova a spiegare il motivo della sua scelta: "Non sapevo che fosse un simbolo neonazista". Questa la giustificazione fornita ai suoi superiori. Il militare è un carabiniere in ferma breve ed è originario di Rieti. Il militare avrebbe anche chiesto scusa per quel gesto e ha anche rivelato di essere un appassionato della storia della prima guerra mondiale e di avere così acquistato sul web il vessillo contestato. Il carabiniere frequenterebbe anche l'università La Sapienza e l'interesse per quel periodo storico potrebbe essere nato proprio durante i suoi studi. Intanto a quanto pare sarebbero già scattati alcuni accertamenti interni per valutare l'ipotesi di una sanzione disciplinare. Il comandante del sesto battaglione, il tenente colonnello Alessandro Parisi ha definito "grave il comportamento posto in essere dal militare". Anche la procura militare ha predisposto l'avvio di un'indagine. Infine è stata anche inviata una relazione alla magistratura.
Roberta Pinotti: Fake News dal Ministero della Difesa, scrive Nicolò Gebbia il 4 dicembre 2017. Voyerismo di Stato e Fake News, altro non è l’accanimento a cui stiamo assistendo in queste ore da parte di media e politica per la bandiera esposta nella caserma Baldisserra, sul lungarno a Firenze. Dodici euro e 37 centesimi. Questa la somma pagata su ebay per acquistare e farsi spedire dall’Inghilterra, Epic Outdoor il venditore, la bandiera nazista che un carabiniere ventenne aveva appeso sopra la sua branda, nella stanzetta che condivideva con altri 3 giovani colleghi, effettivi come lui al Sesto Battaglione Carabinieri, di stanza a Firenze. Le vendono su internet solo dall’Inghilterra, notoriamente paese d’origine del nazismo. Peccato che non si tratti di una bandiera nazista, ma del vessillo della marina militare prussiana fino al 1919. Quella Prussia con la quale combattemmo come alleati la terza guerra d’indipendenza, contro l’impero austroungarico. Noi fummo sconfitti sul campo, mentre i nostri alleati, vittoriosi, ci cedettero il Veneto, che l’Austria rifiutò di concedere direttamente ad un nemico che aveva vinto militarmente, soprattutto con la sua flotta, nella battaglia di Lissa, al termine della quale l’ammiraglio Teghetoff, rivolgendosi al suo equipaggio dal ponte di comando, gridò “FIOI, GHAVEMO VINTO.” Ed i marinai lanciarono in aria il loro berretto, urlando VIVA SAN MARCO. Infatti la flotta austriaca era tutta formata da veneziani e triestini. Che diffusione ha questa bandiera in Germania? Su ogni nave militare ce ne è in dotazione una, che viene issata una volta l’anno, in occasione dell’anniversario della più grande battaglia navale della storia, quella dello Jutland, nella quale la flotta prussiana, grande la metà di quella inglese, inflisse ad essa perdite pari al doppio di quelle che subì. La stessa bandiera è molto presente anche all’annuale festival musicale di Bayereuth, sventolata dagli appassionati wagneriani. Ora che la cappellata è stata commessa, si cerca di accreditare quella bandiera come simbolo criptico del neonazismo, ma è una fake new. Sfugge a tutti, comunque, la cosa più grave, il voyeurismo di stato. Quello che ha avallato uno scatto carpito di nascosto per chiedere a quel povero ventenne contezza dei suoi gusti più privati. Arrivati a questo punto mi sembra doveroso completare l’indagine, chiedendogli delle sue tendenze sessuali. Perché è evidente che se preferisce gli uomini, questo è un ulteriore indizio del suo neonazismo, atteso che, a partire da Hitler stesso, i nazisti puri e duri erano tutti gay. Quale sarà’ la conseguenza indesiderata di ciò? Quel carabiniere si affitterà una stanza fuori dalla caserma, dentro la quale non resterà a dormire più nessuno. In caso d’emergenza lui e tutti gli altri bisognerà’ cercarli a casa propria, come si faceva ai miei tempi con il Piano di recupero ammogliati, visto che i celibi avevano l’obbligo di pernottare in caserma. Ministra Pinotti, ora che ti abbiamo scoperta voyer, noi carabinieri d’Italia ti preghiamo di completare l’opera con un sopralluogo in viale Romania, al nostro Comando Generale, nei cui corridoi vedrai campeggiare una bandiera dell’Italia fascista. E’ quella del Primo Gruppo Carabinieri Mobilitato, sterminato in Etiopia nel 1941 dalle truppe del Commonwealth. Quando fu fatto prigioniero il Duca D’Aosta, gli inglesi gli chiesero di consegnare loro l’unica bandiera britannica mai caduta in mano nostra, quella del governatorato di Berbera, preda bellica del generale Nasi. In cambio gli fecero scegliere una delle tante dei nostri reparti sconfitti. Lui volle quella dei carabinieri perchè considerava il loro sacrificio un gesto di eroismo collettivo irripetibile. Ma quando il Duca morì in Kenia, della bandiera non si trovò traccia. Solo trent’anni dopo, una distinta signora sudafricana, adempiendo alle volontà’ testamentarie del marito, il maggiore Grey, ce la restituì’. Appredemmo così che Gray l’aveva rubata al Duca perchè, scaramanticamente, riteneva che finche’ essa fosse rimasta in mano britannica, l’Inghilterra nulla avrebbe avuto più a temere dall’Italia. Ricordo che al comandante del battaglione, il maggiore Serranti, il soldato keniota che lo trucidò, strappò il cuore dal petto e se lo mangiò, nel convincimento tribale che in tal modo il coraggio del nemico sarebbe transitato a lui. Anche dalla parte di noi carabinieri, una buona metà era rappresentata da soldati di colore, che andavano all’assalto gridando PER IL DUCE E PER ALLAH. Onorevole Fiano, quando lo chiuderemo questo covo di pericolosi fascisti? A quando la riunificazione sotto il nome di POFICA, polizia finanza e carabinieri?
La bufala della bandiera prussiana dimostra la morte della stampa di centrodestra, scrive Augusto Grandi il 4 dicembre 2017 su "Il Secolo Trentino". Tutti indignati, sui social, contro l’ignobile bufala della bandiera prussiana spacciata per vessillo nazista dai media di servizio. Peccato che la disinformazione di regime se ne freghi dell’indignazione popolare e insista con le bufale dell’antifascismo militante. Con in testa il ministro Pinotti. E fa benissimo. Il regime dispone dei media ed è sacrosanto che li utilizzi per difendersi, per garantirsi il potere. L’unica arma rimasta, di fronte alla rabbia popolare per i disastri del governo, è rappresentata dall’antifascismo e, dunque, la utilizza in ogni occasione. Approfittando di tutti i media a disposizione. D’altronde chi ha impedito all’opposizione di dotarsi di giornali, radio, tv di successo? Nessuno, se non la totale stupidità e ignoranza di questa opposizione che ha preferito utilizzare i denari in modo diverso. Quando il centro destra era al governo non è stato capace di occupare la Rai con direttori e dirigenti di area, intelligenti e competenti. Non ha occupato le redazioni con i propri giornalisti. Non ha fatto crescere quotidiani di successo perché i giornali di centro destra puntavano solo al risparmio e non assumevano i migliori ma solo i più disperati che accettavano retribuzioni più basse. La qualità ne risentiva ed i giornali perdevano lettori. Nel frattempo Berlusconi puntava sull’ammiraglia di Canale 5 riempiendola di conduttori politicamente corretti e di giornalisti che oggi sostengono in modo indecente il governo Gentiloni dopo aver tifato spudoratamente per il bugiardissimo e prima ancora per Monti e Fornero. E più a destra? Spariti dalle edicole Il Secolo d’Italia e la Padania, niente radio e tv mentre i quotidiani online sono organi di partito e non di informazione. Però, di fronte alle proprie scelte ed alla propria incapacità, si attaccano gli avversari colpevoli di far bene il lavoro di disinformazione. Perché mai Repubblica, il Corriere o il Fatto quotidiano dovrebbero tutelare il centro destra se sono schierati su posizioni opposte? Se la bufala della bandiera nazista viene riproposta dal Tg5 senza che gli alleati protestino con Berlusconi significa che dell’informazione continuano a fregarsene, colpevolmente. Dunque dovremo rassegnarci a bufale continue per alzare il livello della tensione. Dovremo sorbirci le chiacchiere inutili di Mattarella a favore dell’invasione ed il suo silenzio sulle violenze compiute dagli allogeni a danno degli italiani, donne e bambini compresi. Ma si eviti di accusare i media di servizio perché svolgono il loro lavoro, appunto di servizio. E invece di dedicarsi all’onanismo intellettuale sulla modifica di un simbolo di partito, il centro destra si interroghi sulla propria incapacità di informare.
L’ignoranza degli italiani inizia sui giornali, scrive il 16.01.15 Massimiliano Calì su "La Voce.info". L’Italia ha il dubbio primato di paese peggio informato. Un risultato preoccupante perché il grado di informazione sulla realtà circostante è un elemento vitale per stabilire le priorità e aiutare i cittadini a valutare l’efficacia delle politiche pubbliche. Le “colpe” dei media poco indipendenti.
GLI ITALIANI E L’INDICE DI IGNORANZA. Diceva lo scrittore e medico umanista François Rabelais che l’ignoranza è la madre di tutti i mali. Se credessimo ai ricercatori britannici di Ipsos Mori, secondo il cui sondaggio internazionale gli italiani risultano i peggio informati sulle caratteristiche di base del proprio paese, avremmo ottime ragioni per preoccuparci ulteriormente. L’indagine si basa su interviste a un campione di oltre 11mila individui in quattordici nazioni ad alto reddito per misurare le percezioni su caratteristiche sociali, demografiche ed economiche del proprio paese, quali la percentuale di immigrati, il tasso di disoccupazione, la percentuale di musulmani e di cristiani e l’affluenza elettorale alle ultime elezioni. I risultati mostrano come le percezioni degli individui siano in genere piuttosto lontane dalla realtà in cui essi vivono. Per esempio, in tutti i paesi, gli intervistati ritengono in media che la percentuale di immigrati sia molto più alta di quella reale. Si va dagli australiani che pensano che gli immigrati siano il 35 per cento contro il 28 per cento effettivo, agli italiani che li valutano il 30 per cento della popolazione quando il dato reale è solo il 7 per cento. Allo stesso modo in tutti i paesi il campione sottovaluta il tasso effettivo di partecipazione elettorale. Gli americani sono quelli più informati (indicano il 57 per cento invece che il reale 58 per cento), mentre i francesi hanno la percezione più distorta (57 per cento contro l’80 per cento reale). Una delle aeree in cui l’opinione del pubblico è più lontana dalla realtà è il tasso di disoccupazione. Gli italiani sono di nuovo i meno informati, ritenendo in media che un concittadino su due sia disoccupato, quando invece il tasso di disoccupazione è del 12 per cento. Ma anche i tedeschi, che hanno la percezione più precisa, sbagliano di molto: 20 per cento contro il 6 per cento effettivo. Aggregando le discrepanze tra percezione e realtà tra tutte le domande, i ricercatori hanno creato un indice – chiamato “indice di ignoranza” – che classifica i paesi dal meno al più informato sulle propria situazione sociale, demografica e politica. L’Italia conquista il dubbio primato di paese peggio informato, seguito dagli Stati Uniti e dalla Corea del Sud. I più informati (o meglio i meno "ignoranti") sono tedeschi e svedesi. Il risultato è preoccupante visto che nelle democrazie il grado di informazione sulla realtà circostante è un elemento vitale per stabilire le priorità di politica pubblica e aiutare i cittadini a valutare l’efficacia delle politiche pubbliche.
IL REDDITO NON C’ENTRA. Per cominciare a capire da che cosa sia determinato questo grado di "ignoranza" si possono calcolare delle semplici correlazioni tra la classifica dell’indice Ipsos e quella ottenuta sulla base di alcune possibili variabili esplicative. La figura 1a mostra la correlazione con la classifica sulla base del reddito pro-capite nel 2013. L’ipotesi è che il livello e la qualità dell’informazione dei cittadini vadano di pari passo con il reddito. La relazione tra le due classifiche è negativa (come ci si aspetterebbe), ma debole e non statisticamente significativa. La relazione rimane debole anche quando si utilizza il valore in dollari del reddito pro capite invece che la classifica dei paesi (figura 1b). Fonte: World Bank (World Development Indicators)
LA QUALITÀ DELL’INFORMAZIONE. Un’altra possibile ipotesi è che sia la qualità dell’informazione a determinare quanto il pubblico sia informato sulla realtà nazionale. In mancanza di una misura diretta, è possibile utilizzare l’indice della libertà dell’informazione giornalistica prodotto annualmente dall’associazione Reporters Without Borders. Oltre a misurare la libertà e l’indipendenza delle testate e dei giornalisti, l’indice prende in considerazione anche la trasparenza della regolamentazione dei media da parte del legislatore e dell’esecutivo e il grado di concentrazione della proprietà dei mezzi di informazione. Al contrario di quanto avviene con il reddito, la figura 2 mostra una relazione con il grado di "ignoranza" negativa e statisticamente molto significativa. L’Italia, la Polonia e la Corea hanno indici di libertà di informazione tra i più bassi e livelli di "ignoranza" tra i più alti del campione. Esattamente il contrario di Svezia, Germania e Giappone. Quasi due terzi della variazione nella classifica di "ignoranza" sono spiegati solamente dalla variazione nella classifica della libertà dell’informazione. E aggiungendo il livello di reddito pro-capite si raggiunge un potere esplicativo dell’80 per cento (con il coefficiente della libertà di informazione che rimane altamente significativo). I nuovi media dovrebbero permettere ai cittadini di informarsi direttamente attraverso una molteplicità di fonti anche estere, bypassando l’informazione tradizionale. In effetti, paesi con più alta percentuale di utenti internet tendono in genere ad avere più bassi indici di "ignoranza"’ . Per esempio, l’Italia ha la più bassa penetrazione di internet del campione, mentre la Svezia, ultima nell’indice di ‘ignoranza’, ha quella più alta. Tuttavia, la classifica di penetrazione di internet smette di essere correlata con quella dell’indice di ignoranza una volta che si include nell’analisi statistica anche la classifica della libertà di informazione. Un’ulteriore ipotesi è che sia la qualità del sistema educativo a formare cittadini informati fornendo loro gli strumenti per essere aggiornati sulla propria realtà. La blanda correlazione (e statisticamente non significativa) tra la classifica dell’Ipsos e la classifica delle competenze di lettura nel test Pisa (Programme for International Student Assessment) dell’Ocse non corrobora questa ipotesi. E l’assenza di correlazione persiste anche quando nell’analisi si inserisce questa variabile assieme a quelle precedenti. Questi risultati sono da prendere con molta cautela visto il basso numero di paesi considerati e la mancanza di un’analisi causale. Tuttavia forniscono una prima ipotesi su cosa determina il grado di informazione dei cittadini nei paesi ad alto reddito. Quando il giornalismo non è pienamente indipendente dal potere politico ed economico e la legislazione che regola i mezzi di informazione non è trasparente, stampa, tg e nuovi media non informano i cittadini adeguatamente anche su temi sociali e politici di centrale importanza per la società. E visto che gran parte dei cittadini attingono queste informazioni principalmente dai media (tradizionali), finiscono per essere male informati. Suona familiare?
DEMOCRAZIA POLITICA, DITTATURA SOCIALE. Scrive Valerio Passeri. Fonte: visto su Ecco Cosa Vedo del 3 gennaio 2011. Siamo in democrazia. Sentiamo costantemente questa affermazione come risposta a qualsiasi questione che possa mettere in discussione il governo eletto dal popolo e il suo operato. Essa è una certezza imperturbabile, nulla la può minare. Nonostante ciò può risultare arduo dare una definizione generale al termine democrazia, poiché ne esistono molti tipi in tutto il mondo. Possiamo però trovare dei caratteri generali comuni a tutte: sovranità popolare, suffragio universale, pacifiche elezioni, principio di maggioranza, cambiamento dei governi, responsabilità dei governanti davanti ai governati. La storia insegna che il maggior pericolo per una democrazia è il tramutarsi nel suo esatto opposto, ovvero in uno stato totalitario, una dittatura. La dittatura è una forma di governo in cui tutti i poteri sono incentrati nelle mani di un solo uomo e degli uomini a lui fedeli. A differenza delle monarchie e tirannie del passato però, la dittatura è fondata come la democrazia sul consenso popolare, prima di passare, e solo se si è “costretti”, alla repressione con la forza. Troviamo quindi al centro di due forme di governo opposte, che sono accomunate solo dall’esser nate assieme alla società di massa, un carattere comune, l’opinione pubblica. Quando tutto il popolo, o la gran parte, vuole cacciare il dittatore, in un modo o nell’altro esso viene spodestato, quando un governo non ha più i consensi della maggioranza esso viene rimpiazzato. Ovvio che i meccanismi sono molto diversi, ma il risultato generale possiamo dire esser molto simile. Tutto questo discorso può sembrar avere solo aspetti positivi, il popolo è sempre sovrano, la maggioranza vince sempre. Eppure va considerata un’altra forma di governo che pur mantenendo gli stessi caratteri descritti prima di democrazia ne ha degli altri comuni alla dittatura. E’ definita da alcuni “post-democrazia” o addirittura “contro-democrazia”. In essa l’opinione pubblica è solo un canale di consensi, non serve a moderare l’attività politica dei suoi rappresentanti. Il campo d’azione dell’individuo e della società intera è una scelta tra opzioni definite da chi detiene il potere, non può proporre nulla di nuovo. Il cittadino elettore non è parte attiva della politica, ma solo un consumatore, ha l’unico potere di scegliere cosa “acquistare” dal cesto della politica mettendo una croce sulla scheda, il suo campo d’azione termina uscito dalle urne. Lo stato non detiene più le sovranità che gli spetterebbero come quella monetaria o sui mezzi di comunicazione. “Pubblico sovrano” diventano parole vuote adatte solo a talk o reality show. In uno stato come questo, chi detiene il controllo sul maggior numero di media, può facilmente manipolare l’opinione pubblica, quindi il consenso ed il voto. Teorici della democrazia come Tocqueville avevano, già due secoli fa, compreso lucidamente molto di tutto questo. Egli stesso scrive a riguardo: “…vedo una folla innumerevole di individui simili ed eguali, che incessantemente si ripiegano su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri, di cui riempiono la propria anima. Ognuno di essi, ritratto in disparte, è come estraneo al destino di tutti gli altri… Al di sopra di costoro si eleva un potere immenso e tutelare, che, da solo si incarica di assicurare loro piaceri e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, capillare, regolare, previdente e dolce… gli piace che i cittadini siano contenti, a condizione che pensino solo ad essere contenti… prevede ed assicura la soddisfazione dei loro bisogni…”. Tutto questo è quindi definibile come una sorta di “dittatura sociale” che è assai più temibile di quella politica almeno per quanto riguarda l’aspetto temporale. Se nella mente della maggioranza delle persone si creano nuovi stereotipi e mode che fanno sì da mantenere un consenso “semi-libero”, poiché indotto, a favore del governo in questione, esso diventerà molto più duraturo di quello imposto con la forza e più difficilmente spodestabile. Anche se siamo in democrazia, non pensiamo che questo da solo assicuri la nostra libertà, la democrazia è una condizione indispensabile ma non sufficiente. E’ essenziale informarsi, diventare persone consapevoli e diffondere questa conoscenza, non tenerla per se’ per magari sentirsi superiori. Che qualcosa abbia il consenso della maggioranza non vuol dire sia la migliore, ma se la maggioranza è consapevole, è più facile che lo sia.
LA TELEVISIONE È LA DETENTRICE DELLA VERITÀ? Scrive Rolando Tavolieri. Fonte da Più Che Puoi del 14 novembre 2012. In tanti anni di televisione, di programmi seguiti, di talk show, di approfondimenti ed altro, possiamo notare come tutto ciò che viene detto, commentato e scandito dai programmi televisivi viene accettato per vero, viene recepito come reale, senza però accertarci se questa o quella notizia sia vera. In pratica da tanti anni ciò che ascoltiamo in televisione attraverso vari programmi televisivi, nei talk show, nei programmi di intrattenimento, nei telegiornali, nei programmi di informazione o di approfondimento, tutte le informazioni che ci vengono date, tutto ciò che viene detto o riferito, i dibattiti che ne seguono e le interpretazioni di ciò che accade da parte di presentatori, giornalisti, politici, persone coinvolte ed altri, viene accettato in modo passivo come reale, come vero. Ad esempio ti è mai capitato di sentire diverse persone affermare:
– “questa cosa è vera, l’hanno detta in tv!”
– “dobbiamo comprare quel farmaco, l’ha detto un medico in tv”
– “dobbiamo mangiare quel cibo, l’ho sentito dire in quel programma”
– “domani piove, l’ho ascoltato in tv!”
– “hai seguito il caso di quell’omicidio? Sicuramente è stata la tal persona, perché l’hanno detto in televisione”. Potrei andare avanti facendo centinaia di altri esempi in cui puoi constatare come la televisione è diventata ERRONEAMENTE la detentrice della verità, questo fenomeno di percepire le notizie e le interpretazioni che vengono fatte come reali, spesso è un fenomeno inconscio, ad esempio quando un personaggio famoso, politico, sportivo o del mondo del cinema viene “indagato”, la prima impressione che possiamo avere è che sia “colpevole”, in pratica scambiamo le indagini in corso fatte su una persona per sapere se è realmente colpevole o se è innocente, per colpevolezza prima ancora che le indagini vengano fatte o approfondite. Certo lo facciamo inconsciamente, inconsapevolmente, ma una volta che questo processo viene innescato, è difficile controllarlo, perché il messaggio che viene assorbito dalla mente inconscia è quello in cui crederemo dopo, quindi se il messaggio che la parola “indagato” equivale per noi a “colpevole”, quel messaggio sarà per noi la realtà, quindi il “Messaggio” che la parola usata in tv o la notizia data ha per noi diventa la nostra verità e la nostra realtà. La cosa importante che possiamo fare è quella di “Prenderne Coscienza”, cioè di prenderne atto a livello cosciente e riflettere bene su cosa stiamo pensando, perché una cosa è avere un’impressione su una persona e un’altra è essere certi della sua innocenza o della sua colpevolezza, la differenza la può fare il fatto di informarsi a 360 gradi, verificare tramite altre persone, tramite il web, seguire da vicino le indagini, avere più notizie ed informazioni e verificarle tutte, solo dopo tante verifiche, le informazioni ricevute e la capacità di “discernere” (separare) le informazioni vere da quelle false, solo allora possiamo pian piano affermare con attenzione e sempre con un margine di potenziale errore se quella notizia è vera o falsa o se quella persona è innocente o colpevole. Il fatto che molte persone credano immediatamente a questa o a quella notizia, il fatto di dare subito un’interpretazione o di giudicare quella situazione di cui si parla, o addirittura di criticare o giudicare immediatamente quella persona di cui si parla senza approfondire o verificare se quelle notizie su di lui sono reali, dipende da vari fattori, vediamo assieme quali sono:
– Intanto i programmi televisivi vengono seguiti da milioni di persone, sia nel nostro paese che in altri stati, grazie alle potenzialità tecnologiche come il decoder, internet, ed altro ancora, e tutto ciò che viene visto, ascoltato e seguito da tantissime persone, è come se ci “unisse” un poco, è come se vedendo gli stessi programmi ed ascoltando gli stessi discorsi o dialoghi di approfondimento in tempo reale, tutti noi telespettatori avessimo qualcosa in comune, qualcosa che ci unisce , come una condivisione mediatica del mondo.
– Quando i riflettori della tv vengono puntati su questa o quella persona, è come se mettesse noi spettatori nella posizione di diventare i “critici” o i “giudici” dei soggetti in questione, di ciò che accade e di ciò di cui si parla.
– La notizia data in tv viene spesso amplificata in quanto qualcosa che è vista e sentita da milioni di persone assume in un certo qual modo un potere forte, in positivo o in negativo, dipende dalla connotazione che le viene data, mettere l’accento su questa o su quella notizia le conferisce potere ed anche per questo viene amplificata. Ecco perché il fatto di parlare tanto e per tanto tempo di qualcuno, gli porta potere se se ne parla bene o può infangarlo se se ne parla male.
– La tv ha il potere di “dirigere” l’attenzione del telespettatore passivo, verso questo o quel fatto, verso questo o quel personaggio, ed ovviamente dirigendo l’attenzione verso una situazione, la distoglie da un’altra notizia che magari è più importante o che non si vuole approfondire in quel momento per vari motivi. In questo modo la tv può monopolizzare l’attenzione delle persone a piacimento, e questo è un grande potere, che però noi possiamo imparare a gestire e controllare attraverso un po’ di riflessione e di analisi.
– Anche la “Ripetitività” di una notizia le conferisce potere, perché più una notizia viene ripetuta e approfondita e più se ne parla, più questo circolo vizioso tende ad aumentare e ad amplificarsi. Ecco perché una notizia di cronaca nera sembra non finire mai, viene data e ripetuta anche per anni, addirittura si sono inventate trasmissioni apposite per approfondirne ancora di più i contenuti come se i tg non bastassero, questo perché l’audience aumenta gli introiti, è le notizie sono dunque legate anche ai soldi che si possono ricavare da esse.
– Il fatto di ascoltare una notizia ci mette nella posizione di assumere il ruolo di “critico” o di “giudice”, e quindi di sentenziare, di accusare o di dare clemenza al personaggio di turno, in questo modo possiamo “liberarci” inconsciamente delle nostre azioni sbagliate, delle nostre “colpevolezze”, del fango che c’è dentro di noi proiettandolo sugli altri, in questo caso sui soggetti protagonisti di questa o quella situazione del momento. Infatti scagliare accuse su una persona è come se ci liberasse o ci distogliesse dalle accuse che dovremo a volte dirigere su noi stessi, anche questo fenomeno è inconscio (ma forse non sempre).
Come puoi notare le implicazioni su ciò che accade a livello psicologico e sociale quando diventiamo spettatori spesso “passivi” di una notizia raccontata in tv, sono implicazioni “sottili” ma potentissime ed a volte “inconsce”, di cui cioè non ci rendiamo conto a livello cosciente, ma che seguono una direzione ben precisa e raggiungono l’obiettivo. Come possiamo dunque “Controllare” tutto questo? Come possiamo “Gestire” noi telespettatori questi fenomeni complessi al fine di non venirne trasportati come da un fiume in piena? Ecco alcuni consigli Pratici ed Utili che puoi seguire prima di accingerti ad assumere il ruolo di spettatore:
– Intanto diventa giorno dopo giorno uno spettatore “Attivo”, come? Avendo la mente aperta, evitando cioè di credere ciecamente ad una notizia senza averla prima approfondita, verificata ed assorbita a 360 gradi, osserva la notizia da più punti di vista, soprattutto mi riferisco ai fatti importanti, tralasciando il gossip, o le notizie inutili che parlano di pettegolezzi su questo o quel personaggio.
– Ascolta le “parole” che vengono usate per dare una notizia, infatti anche “Come” viene data una notizia è importante, a volte più del contenuto, perché “Come” viene data una notizia può amplificarla o ridurla, mettere l’accento sulla notizia o lasciarla sfuggire nel dimenticatoio, “Trasmettere Emozioni” o renderla insignificante.
– Chiediti perché viene dato risalto ad una notizia e viene tralasciata un’altra notizia più importante. Ogni tanto le notizie vengono pilotate in una direzione particolare, alcune possono aumentare gli ascolti, altre meno, così il metro di misura diventa l’audience, il denaro che si può ricavare attraverso le pubblicità associate a notizie forse poco importanti ma che, se producono altissimi ascolti arricchiscono chi sta dietro le quinte, anziché privilegiare l’importanza di alcuni fatti, o l’impatto sociale che possono avere sulla popolazione, anziché stimolare l’interesse degli ascoltatori verso notizie di pubblica utilità o innovative in campo scientifico, nella fisica, nella medicina, nella psicologia, ed altro ancora.
– Ascolta le notizie che ti vengono date in modo “neutrale”, senza far pendere la bilancia delle tue credenze da una parte o dall’altra, cerca di essere il più obiettivo possibile, anche quando ti sembra che quella notizia particolare sia vera, reale, o difficile da confutare, lasciati sempre un margine di “possibilità contraria”, cioè la tua mente deve essere sempre aperta ai colpi di scena, alle sorprese, al fatto che puoi sbagliarti, ok?
– Cambia l’Atteggiamento con cui segui le trasmissioni ed ascolti le notizie. Con questo intendo dire che se il tuo atteggiamento con cui sei abituato ad ascoltare le notizie, le informazioni, gli approfondimenti è quello di credere subito in ciò che ti viene detto solo perché lo sta facendo la televisione, se la tua prima impressione sui fatti raccontati è quella di darne subito un giudizio a priori, fermati un attimo, rifletti e poniti delle “domande Costruttive” come ad esempio:
“cosa mi fa pensare che quella notizia sia vera?”
“cosa mi porta a dare subito un giudizio su ciò che ho ascoltato?”
“cosa mi porta a giudicare questa o quella persona?”
“cosa mi fa dire che quel personaggio sia colpevole o innocente?”
“ho approfondito la notizia?”
“ho verificato ciò che ho appreso dalla tv?”
Ecco, rispondi a domande come queste e poi Sicuramente il tuo Atteggiamento nei confronti di ciò che ascolti e di ciò vedi in tv Cambierà. Spero di averti dato alcuni argomenti di Riflessione per analizzare cosa accade quando ascoltiamo la tv e quando ci facciamo un’idea riguardo a ciò che ascoltiamo ed alle persone coinvolte in una situazione particolare.
Ricorda quindi i seguenti punti Importanti:
– Sii una persona con la mente Aperta
– Cambia Atteggiamento nel modo di ascoltare o credere alle notizie
– Cerca di avere un “Ascolto Neutrale”, il più obiettivo possibile
– Verifica ed Approfondisci le notizie in 1000 modi diversi
– Percepisci una situazione da più punti di vista per averne una visione a 360 gradi
– Chiediti se il tuo giudizio o le tue credenze hanno dei riferimenti validi
– Ascolta “Come” vengono date le notizie
– Sii una persona Attiva nell’ascolto
– Dirigi tu la tua attenzione sui vari fatti, e non lasciare che sia la tv a farlo.
COME GLI SPIN DOCTOR MANIPOLANO I GIORNALISTI USANDO IL “FRAME”. Scrive Marcello Foa. Fonte: visto su BYOBLU il 22 marzo 2013. Sono Marcello Foa e sono un giornalista di scuola montanelliana. Oggi dirigo il gruppo editoriale del Corriere il Ticino, in Svizzera, insegno anche giornalismo e comunicazione sia all’USI di Lugano sia in Cattolica e ho incentrato le mie ricerche e la mia analisi, anche quotidiana, sul modo in cui i governi e le istituzioni riescono ad orientare i media, spesso all’insaputa sia dei giornalisti e sia dell’opinione pubblica. Sulla base di queste analisi, mi sono accorto di un’anomalia molto frequente, ovvero che i giornali e i media in generale ripetono tutti gli stessi errori, hanno la stessa visione della realtà, dei fatti. Senza mai differenziarsi, indipendentemente dal loro colore politico. Quando scoppia una grande crisi, quando c’è un grande evento, voi prendete il Corriere, il Giornale, la Repubblica, ma anche grandi giornali stranieri come la Neue Zürcher Zeitung, la Frankfurter Allgemeine, il New York Times, il Times, eccetera, e vi accorgerete come i fatti che vengono riportati siano quasi sempre gli stessi. Allora a metà degli anni 2000 mi sono chiesto: ma com’è possibile che i giornalisti, in democrazia, si comportino sempre tutti allo stesso modo? E ho trovato la risposta in una parola che negli ultimi tempi è diventata di moda, ma che fino a poco tempo fa non lo era affatto, ovvero negli spin doctor.
GLI SPIN DOCTOR. Gli spin doctor cosa sono, per la maggior parte del pubblico? Sono coloro che organizzano le campagne elettorali, e questo è tecnicamente giusto. Però c’è un passaggio che sfugge a quasi tutti i giornalisti e che è fondamentale: quando la campagna elettorale finisce, lo spin doctor in democrazia dovrebbe riconsegnare le chiavi dell’ufficio elettorale al suo leader e dirgli “ci vediamo tra quattro o cinque anni”. Questo non accade. Invece, lo spin doctor cosa fa? Entra nel palazzo con il politico. E questa è una sottigliezza. La maggior parte del pubblico dice “va beh, cosa cambia?”. Cambia tantissimo perché lo spin doctor è di fatto un manipolatore, colui che deve in una certa misura convincere l’elettore e il pubblico a votare per un candidato dandogli in pasto quel che il pubblico vuole sentirsi dire. Quando sei al governo però tu devi avere un approccio e un rispetto della verità istituzionale – la credibilità delle istituzioni di cui tanti si riempiono le bocche, spesso a sproposito – che lo spin doctor non rispetta. Lo spin doctor adotta dentro le istituzioni le stesse logiche della campagna elettorale. Ovvero è parziale, tende a manipolare, non rispetta l’oggettività dell’informazione e questo ha degli effetti devastanti, soprattutto se si considera un elemento che ancora una volta sfugge, quasi sempre, alla coscienza pubblica e anche dei giornalisti. Oggi se voi andate ad analizzare quali sono le fonti a cui attingono i giornalisti, sono le agenzie di stampa, i comunicati stampa. Il che è formalmente corretto, però c’è qualcosa di più. Il 70, l’80, talvolta anche il 90% delle volte l’origine di una notizia è dentro alle istituzioni, anche per gli episodi più banali. Esempio: incidente a Milano. Il giornalista va sul posto, vede le due macchine che si sono scontrate. Poi chi gli dice che cosa è accaduto? Sono i vigili, sono gli infermieri degli ospedali, sono i carabinieri e, sulla base dei report che ottiene da queste persone, che sono rappresentanti delle istituzioni, scrive l’articolo e l’opinione pubblica viene informata. Questo è un esempio banale, ma viene applicato su larga scala anche a temi nazionali e internazionali. Abbinando il tutto a tecniche sia di conoscenza del modo in cui giornalisti operano, sia di psicologia sociale, ottieni un fenomeno di condizionamento esplicito delle masse che è abbastanza preoccupante e a cui i giornalisti stessi molto spesso non si sottraggono. Prendiamo il mito delle donne che fumano. La donna che fuma è il simbolo di ribellione femminile. In origine, negli anni ’50, ma anche oggi nei paesi in via di sviluppo, quando volevi rompere gli schemi delle società conservatrici, le donne iniziavano a fumare e a portare i pantaloni e questo rappresentava un segnale molto forte di ribellione sociale. Io ero convinto fino a poco tempo fa che fosse un fenomeno sociale, che poi ad esempio i media, soprattutto il cinema, hanno propagato. Il fumo ha anche un ruolo sensuale. Ma dagli studi che ho fatto emerge che il fumo come simbolo di emancipazione femminile non è affatto un fenomeno spontaneo, ma fu impiantato ad arte dal padre degli spin doctor, Barneys, nel 1918. Se non ricordo male, su mandato di una grande fabbrica di sigarette che aveva voglia all’epoca di propagare e diffondere l’uso delle sigarette. All’epoca non c’era televisione e nemmeno il cinema: era agli esordi. Allora questo Barneys cosa fece? Poteva fare una campagna tradizionale, che all’epoca significava qualche articolo sui giornali e un po’ di cartellonistica, oppure inventarsi qualcosa di nuovo. Così, attese il giorno di Pasqua, perché c’era la sfilata delle varie comunità a New York, un po’ come accade ancora oggi in molti paesi da noi e in molti villaggi. Alla fiaccolata della brigata della libertà iscrisse e fece sfilare delle modelle bellissime, vestite in maniera molto provocatoria per l’epoca, cioè con dei pantaloni, camicetta, bretelle, un basco in testa reclinato. Bellissime, altezzose, affascinanti, e le fece sfilare fumando ostentatamente. Guardate anche il significato delle parole: la brigata ha una valenza positiva, la libertà nella società americana è un valore positivo, la fiaccolata evoca la sigaretta. Risultato: polemiche infinite, articoli infuriati sulla stampa, “è il decadimento dei tempi”, “dove andremo a finire?”, eccetera. Risultato immediato: quadruplicate le vendite delle sigarette e questa idea di ribellione associata al fumo che è entrata nella coscienza collettiva. Siamo nel 2013, è passato quasi un secolo e questo concetto è ancora molto forte. Perché vi dico racconto questo aneddoto, che è conosciuto agli esperti di comunicazione? Perché quando voi abbinate la conoscenza delle tecniche del giornalismo e della comunicazione con le tecniche della psicologia, create un’arma che è un’autentica arma di distruzione di massa, perché riesce a manipolare le masse senza che le masse stesse se ne rendano conto e provocando degli effetti a breve termine che sono devastanti sulla verità, e nel lungo periodo ti creano delle idee e degli stereotipi che difficilmente riesci ad estirpare.
LA PIRAMIDE DELL’INFORMAZIONE. Oggi un esempio molto importante per far capire come funzionano i media, è appunto la piramide dell’informazione. Le notizie non sono tutte uguali. Se la notizia viene data da un grande media, mettiamo in Italia il Corriere della Sera piuttosto che il TG5, oppure in America il New York Times, ha un peso molto diverso rispetto al caso in cui la stessa notizia venga data da un giornale locale o da un piccolo sito sconosciuto. Perché questo? Un po’ è implicito, perché ovviamente c’è la credibilità di un’istituzione, di un giornale che fa premio. Ma non è solo questo. I giornalisti hanno un atteggiamento tendenzialmente conformista, cioè sono pochi i giornalisti che tendono a pensare con la propria testa. La maggior parte tende invece a replicare quella che ritengono l’opinione condivisa o l’opinione legittima istituzionale. Allora quando tu fai passare un concetto molto forte su un media riconosciuto, provochi quello che è un effetto a cascata nella piramide dell’informazione, ovvero più il media è in alto nella piramide, più la notizia è sensazionale, più tutti i media simultaneamente parleranno di quell’argomento. È la stessa tecnica che viene usata, ad esempio, per le grandi crisi internazionali. Prendete la suina, l’aviaria, la guerra in Iraq, le crisi per il gas, il nucleare, l’ambiente, la capacità di fare aprire i cancelli dell’informazione e far sì che tutto il mondo dell’informazione parli simultaneamente di questo argomento è talvolta spontanea: scoppia la centrale di Fukushima e ne parliamo tutti, c’è un terremoto a L’Aquila e ne parliamo tutti. Ma quanti sono gli eventi che meritano un’attenzione così forte? Pochissimi. Se tu hai uno spin doctor che è dentro al governo, ovvero che è in cima alla piramide dell’informazione, tu hai qualcuno che conosce le tecniche per far sì che i media parlino simultaneamente, col taglio che vuoi tu, della notizia che lui ha scelto molto spesso arbitrariamente. E questo è pericolosissimo, perché l’effetto ultimo è che la nostra percezione molto spesso è falsata, è deviata addirittura. Tu parli molto spesso di argomenti che pensi siano molto importanti, su basi che pensi i tuoi governi ti diano in modo credibile, e in realtà alla fonte c’è qualcuno che sta giocando con la tua buonafede. L’effetto ultimo di queste tecniche è un fenomeno che io vedo da molto tempo, che ho denunciato in coda a un libro che ho scritto su questa tematica e che sta in questo momento rivelandosi molto fondato, ovvero: a forza di manipolare le masse, le masse tendono a non credere più alle istituzioni, che invece dovrebbero essere il collante del nostro convivere civile. Dunque si formano dei movimenti di protesta molto forti, che se indirizzati in modo virtuoso possono rappresentare un fenomeno di rigenerazione della democrazia, ma se vengono usati in maniera arbitraria o finiscono con dei leader che non sono rispettabili o comunque credibili, il rischio è che poi lo sbocco ultimo possa essere anche una dittatura. La nostra storia recente è ricca di questi episodi. Hitler e Mussolini sono nati su onde di disgusto. Negli ultimi tempi la capacità di persuasione di queste tecniche è un po’ diminuita, nel senso che è aumentato a dismisura il numero di persone che oggi non crede più all’informazione ufficiale. A volte lo fa razionalmente perché si è documentata, a volte istintivamente. Questo è secondo me positivo, perché sta rimettendo in gioco le dinamiche più autentiche della democrazia. Io, che sono di matrice di studio montanelliano e sono un liberale, ma sono fondamentalmente, innanzitutto, un democratico, credo che la volontà del popolo debba sempre essere rispettata. Per me il concetto di sovranità è fondamentale.
IL FRAME. Noi viviamo in una società in cui si è creato un nuovo frame, e questo è un concetto molto importante, che pochi osano sfidare. Cos’è il frame? Il frame è una cornice, un concetto molto forte che automaticamente si impianta nella mia psicologia, nei miei valori. Una volta creato questo meccanismo, tutto quello che rientra dentro la cornice rafforza la mia percezione del mondo e mi rassicura. Le notizie, anche vere, che escono dalla cornice, automaticamente tendo a scartarle o minimizzarle o ignorarle. Quando tu crei un frame molto forte, ad esempio il frame dell’euro, quando dicono cioè che “l’euro è fondamentale per il nostro benessere” (lo dissero quando venne adottato in Europa e ancora oggi chi lo mette in dubbio viene considerato come un destabilizzatore che mette a repentaglio il futuro dell’Europa), tu vai a toccare un frame molto forte, una parte molto ampia della popolazione. Se tu vai a toccare questo frame, il riflesso condizionato delle maggior parte delle persone è: io rifiuto o comunque mi spavento di fronte a questa critica perché va a mettere in dubbio l’esistenza stessa. Vale anche per la religione. Se tu vai a mettere in dubbio alcuni dogmi di qualunque religione, cattolica, ebraica, musulmana, chi crede molto le rifiuta automaticamente, anche se l’evidenza dovrebbe portarlo perlomeno a farsi qualche domanda. Lo stesso vale per la politica, vale per il nostro convivere sociale.
L’UOMO-HITLER. Tutto questo, tornando ai media, fa sì che la maggior parte dei media tenda ad assecondare, a rafforzare questo frame anziché dare ai cittadini gli strumenti per valutare autonomamente e indipendentemente quello che accade loro intorno. Ed è questa la ragione per cui, ad esempio, è molto facile orientare le masse in occasione delle grandi crisi internazionali. Quando vuoi demonizzare qualcuno, la cosa che puoi fare è dirgli che è un nemico della libertà, è un nemico delle istituzioni, oppure, in casi estremi, un uomo-Hitler. Quando attribuisci a qualcuno un’etichetta, automaticamente screditi questa persona, screditando automaticamente anche le tesi che porta con sé. Sono tecniche che sono state usate molto, e che vengono usate ancora oggi molto frequentemente. Gli spin doctor sono delle persone estremamente intelligenti, molto spesso sono degli ex giornalisti o dei comunicatori professionali di grandissima intelligenza e hanno delle squadre di psicologi, fanno studi di psicologia che permettono loro di affinare l’approccio. Queste stesse persone si rendono conto oggi che le tecniche che in larga misura sono ancora valide e applicate, non bastano più per procedere a un condizionamento delle masse che fino a qualche tempo aveva un risultato quasi perfetto. Prima era un procedimento quasi matematico. Ovviamente a provocare questo turbamento, questo scombussolamento, è internet.
RIVOLUZIONI PROVOCATE AD ARTE. Internet è un’esperienza molto positiva. Il blog dal quale io in questo momento sto parlando ne è testimone. Questo blog, qualche anno fa, sarebbe stato inimmaginabile. Il blog di Beppe Grillo… tante esperienze belle… una buona informazione su internet la trovi. Però attenzione: su internet gli spin doctor stanno applicando nuove tecniche per raggiungere i loro scopi, dissimulando le loro intenzioni. In questo momento ci sono tante esperienze positive, ma ci sono anche delle tecniche che ti permettono di orientare le masse e spaccarle. Ci sono tecniche per le quali a volte tu pensi che qualcuno che ti è amico lo sia davvero, e invece non lo è affatto, ma viene lì per cercare di distogliere l’attenzione da alcuni obiettivi. Esempio: che fine ha fatto il movimento Occupy Wall Street? Per questo movimento io ho avuto molta simpatia, perché portava alla luce del sole un sentimento molto giusto, di disgusto e di ingiustizia. È successo che l’hanno spaccato usando due metodi. Io diffido sempre quando un personaggio di estrema intelligenza ma di grande cinismo, come Soros, si interessa di certi movimenti. Soros passa per essere un filantropo. Secondo me invece è uno che usa la filantropia per fini non sempre dichiarati. Faccio una piccola parentesi sulle rivoluzioni che hanno scosso l’Est Europa negli anni ’90-2000, in particolare il movimento che ha fatto cadere Milosevich: la Rivoluzione Arancione. In Ucraina, vi ricorderete l’appassionante Natale in cui noi tutti parteggiammo per gli arancioni contro i russi, la rivoluzione spontanea in Georgia. La finta primavera araba non è stata un movimento di massa spontaneo, assolutamente no! Questi movimenti hanno tratto origine dalle teorie di un professore americano che le ha applicate per la prima volta nell’ex Jugoslavia, col fortissimo appoggio dei gruppi di Soros. Lì hanno messo per la prima volta a punto una tecnica per rovesciare i regimi usando le piazze. Per cui di fatto, in parole povere, è come se fossero dei colpi di stato senza l’uso tradizionale del colpo di Stato, cioè l’occupazione. E ha avuto molto successo. La Rivoluzione Arancione fu una rivoluzione pianificata ad arte, pianificata dai movimenti che erano legati a Soros (ma non solo), e che insieme costituivano la think tank che ha finanziato e pianificato quella rivoluzione, che era una messa in scena. Ci sono alcuni dettagli dai quali tu puoi decriptare quando ci sono delle messe in scena e quando i movimenti sono autentici. Se c’è un movimento di piazza spontaneo, noi scendiamo in piazza così come siamo vestiti in quel momento: io ho la mia maglia blu, c’è chi ha la maglia verde eccetera… Anche se fai un passaparola del tipo “andiamo tutti con la maglia arancione”, uno arriverà con l’arancione chiaro, un altro con l’arancione dell’Olanda, un altro ancora con l’arancione della maglietta che ha preso al mare… Per cui sarà un caleidoscopio di arancioni: non saranno tutti uguali. Alla Rivoluzione Arancione, invece, se andate a riprendere su internet le immagini, vi accorgerete che l’arancione era uniforme, che c’erano le sciarpe, che c’erano le tende: c’era tutto! In quel caso tu devi drizzare un po’ le orecchie e dire “ma com’è possibile che una protesta di piazza abbia questo impatto scenografico che televisivamente renderà moltissimo, se è davvero spontanea? Infatti non era spontanea: era una cosa pianificata. Pochi mesi dopo ci fu una protesta spontanea analoga a Minsk, in Bielorussia, contro il dittatore Lukashenko. Non c’erano dietro degli spin doctor. Di quella protesta nessuno ha memoria oggi, durò pochi giorni e finì come quasi tutte le proteste, ovvero con l’arresto e la detenzione di chi l’aveva organizzata. Tornando a Occupy Wall Street, quando Soros ha cominciato a interessarsi e a portare finanziamenti alle persone dentro al movimento, per me quello era il segnale chiarissimo che c’era in corso un tentativo di destabilizzare il movimento dall’interno. Quando c’è un movimento di massa che ti preoccupa, puoi spaccarlo in due maniere: attaccarlo per distruggerlo frontalmente oppure – Sun Tzu in “L’arte della guerra” lo insegna molto bene, parliamo di un manuale di oltre 2000 anni fa – puoi cercare di infiltrarlo per spaccarlo dall’interno. Una volta che l’hai spaccato dall’interno, il movimento perde la sua funzione vitale e quasi sempre, se è basato sulla spontaneità, muore di morte naturale. Esattamente quello che è successo con Occupy Wall Street. Con un’aggravante: articoli usciti sulla stampa americana, e ripresi anche dalla stampa italiana, dimostrano come le grandi banche d’affari americane chiesero e ottennero l’intervento dell’FBI per usare quei metodi tipici non dello scontro frontale, ma insomma con la destabilizzazione che può fare una grande polizia, un grande servizio segreto. Il movimento Occupy Wall Street infatti si inaridì spontaneamente, quasi per inerzia: in realtà è stato spento in maniera che sembrasse un’inerzia.
TECNICHE DI CONDIZIONAMENTO IMPLICITO. Perché dico tutto questo? Perché oggi si può leggere l’attualità nazionale e internazionale in due modi possibili. Il primo è quello del filtro classico dei giornali, i quali ragionano secondo il concetto del frame, ovvero hanno una visione della realtà e tendono a riconfermarla costantemente. Attenzione, non è che i giornalisti ricevono una telefonata da qualcuno che gli dice “devi scrivere così”. Talvolta capita (a me, devo dire, in venti anni di carriera non è mai capitato), ma non è necessario. Una volta che tu, spin doctor, hai stabilito la cornice, gli scopi, e hai stabilito una visione che è legittimamente corretta mentre tutte le altre non lo sono, tutto il resto viene automaticamente: i giornalisti vanno in modo inerziale nella direzione che crea consenso intorno a loro, consenso nei confronti del pubblico, nei confronti del proprio elettorato e nei confronti dei propri colleghi. Accade in quasi tutti i giornali del mondo. Questo meccanismo poi si alimenta da solo: se compri tanti giornali o guardi molti telegiornali, sei colpito dal fatto che la scelta delle notizie sia quasi sempre la stessa, e trattata nella stessa maniera. Prendete le prime pagine dei grandi quotidiani nazionali: hanno sempre gli stessi titoli e sempre gli stessi argomenti. Ma voi sapete quanti lanci di agenzia arrivano in un giornale ogni giorno? Tra i sei e i diecimila (per un giornale di media grandezza). Hanno diecimila notizie a cui attingere eppure la scelta cade sempre su quelle dieci che finiscono in prima pagina e vengono trattate sempre alla stessa maniera. Questo non è possibile condizionando i giornalisti: è possibile applicando queste tecniche di condizionamento implicito che hanno un effetto straordinario.
BEPPE GRILLO. Un esempio secondo me classico, da cui la stampa non esce bene (alcuni lo dicono, oggi, ma bisognava dirlo qualche tempo fa), è il modo in cui il fenomeno di Beppe Grillo è stato trattato. Non mi riferisco né alla campagna elettorale né a quel che sta accadendo in queste ore, ma prima. Cioè Beppe Grillo è stato un fenomeno sociale giornalistico interessantissimo: ha dato voce, ha interpretato un malessere diffuso della società italiana. Non era difficile, non era un mistero interpretare quel malessere. Però, se andate a vedere gli archivi dei quotidiani, magari facendo una ricerca online, non troverete se non occasionalmente articoli in cui i giornalisti hanno cercato di spiegare chi era Beppe Grillo davvero, così come il perché della sua evoluzione da comico a capopopolo, o che cosa lui dicesse nei suoi comizi, quale fosse il pubblico che andava a trovarlo, quali erano le aspettative, un’analisi anche economica scientifica delle sue teorie, giuste o sbagliate che fossero, ovvero un meccanismo di buon giornalismo di inchiesta. Non è stato fatto. Di tanto in tanto, quando lui fece il Vaffaday a Bologna qualche tempo fa, dove ci fu una folla immensa, i giornali e i media con grande fastidio, con grande ritrosia si occuparono dell’argomento, ma solo per liquidarlo in poche righe come populista e poi non occuparsene più. Perché questo? Perché Beppe Grillo non rientrava in nessun frame: non poteva essere considerato berlusconiano, non poteva essere considerato tipico della sinistra antiberlusconiana, non poteva essere considerato leghista, non era rifondarolo, non era vendoliano, non era dipietrista. Era una cosa strana, ibrida, che usciva sia dagli schemi classici del giornalismo e sia dalla politica. Qual è stato il riflesso condizionato dell’insieme dei giornali? Una cosa strana, anomala: non parlarne. Sentivano che questo fenomeno rompeva il loro schema, rompeva il loro mondo, rompeva il loro frame, non era gradito ai partiti politici. Hanno cercato di applicare una tecnica, riprendendo un libro molto azzeccato in America il cui titolo era “La peggior punizione che tu puoi fare a qualcuno è il silenzio”. Ecco, nel caso di Beppe Grillo è stata applicata la tecnica del silenzio. Non parlavano di Beppe Grillo e pensavano che se nessuno ne avesse parlato lui sarebbe stato destinato – secondo le vecchie regole – ad afflosciarsi. In realtà questo era vero finché i giornalisti – questa è un’altra grandissima rivoluzione – avevano il monopolio di quel che si poteva denunciare o meno sulla stampa….
ECCO TUTTE LE TATTICHE CHE MEDIA, GIORNALI E TV USANO PER MANIPOLARE L’OPINIONE PUBBLICA. Fonte Salto Quantico. Manipolare l’opinione pubblica. Ecco tutte le tattiche di disinformazione che media, giornali e tv usano per manipolare l’opinione pubblica, inducendo le persone a pensarla in modo surreale. Ci sono tattiche precise che i maestri della disinformazione tendono ad applicare, ve ne sveleremo 25 in questo articolo. Le persone possono essere comprate, intimorite, o addirittura ricattate con lo scopo di diffondere disinformazione, così anche le “persone perbene” in molti casi, possono diventare sospette. E’ compito di un professionista della disinformazione è interferire con queste valutazioni, perlomeno per indurre le persone a pensare che i collegamenti siano deboli o spezzati quando, in realtà, non lo sono… O presentare soluzioni alternative che allontanino dalla verità. Molto spesso la verità viene “rallentata” attraverso tattiche di disinformazione, un risultato assicurato perché l’apatia cresce con il passare del tempo e con la retorica.
Le accuse non dovrebbero essere “abusate” tienile per i colpevoli recidivi e per quelli che usano tattiche multiple.
Le repliche non devono mai cadere nelle trappole dell’emozione o deviare dalle informazioni, a parte che non ci sia qualche osservatore venga facilmente distratto dall’inganno.
ECCO QUI DI SEGUITO LE VENTICINQUE REGOLE DELLA DISINFORMAZIONE.
1) Elusione: Non Vedo, Non Sento, Non Parlo. Indipendentemente da quello che sai, evita di parlarne in particolar modo se sei un personaggio pubblico, un conduttore televisivo, ecc. Se non viene riportato, non è accaduto, e tu non devi mai parlarne e mai affrontare il problema.
2) Diventa Incredulo e Indignato: Non discutere questioni chiave, al contrario concentrati su notizie marginali che possano essere usate per dimostrare come l’argomento di altri gruppi o temi, altrimenti ritenute veritiere diventato invece criticabili. Questa mossa è chiamata: “Come ti permetti!”.
3) Crea Persone Che Diffondono Pettegolezzi: Evita di parlare dei problemi entrando in merito alle accuse, non considerare il luogo o le prove, falli passare come semplici pettegolezzi e accuse fantasiose. Questi metodi funzionano in modo particolare con una stampa imbavagliata, perché l’unico modo in cui il pubblico viene a conoscenza dei fatti è attraverso “dicerie discutibili”. Se hai la possibilità di associare il materiale con Internet, sfrutta il web per dichiarare che si tratta di un “pettegolezzo infondato” proveniente da un “gruppo” di ragazzini che giocano su internet” che non può avere nessun fondamento su fatti concreti.
4) La Logica di Alice Nel Paese Delle Meraviglie: Evita la discussione dei problemi ragionando a ritroso o con un’apparente logica deduttiva; tralascia tutti i fatti concreti.
5) Confondi: Invoca, reclama la tua autorità o chiama in causa qualcuno che la abbia e presenta la tua tesi con “linguaggio tecnico” e “sottigliezze” sufficienti per mostrare che sei “uno persona che sa”, e dì semplicemente che le cose non stanno così senza parlare dei problemi o dimostrando concretamente il perché oppure citando fonti.
6) Fai Finta di Non Sapere: Non preoccuparti di fornire prove o argomenti logici, evita di discuterne tranne che con la negazione che tali questioni abbiano qualche credibilità, qualche scopo, forniscano qualche prova, contengano o diano un senso, abbiano una logica. “Impasta” bene per il massimo effetto!
7) Gli Enigmi Non Hanno Soluzioni: Facendo riferimento all’insieme di scenari che fanno parte del crimine ed al gran numero di protagonisti e di eventi, traccia un quadro della situazione tale da farla apparire troppo complessa per essere risolta. Questo fa sì che quelli che altrimenti seguirebbero la questione inizino a disinteressarsene più rapidamente senza aver affrontato concretamente la questione.
8) Cambia il Soggetto: In connessione con una delle altre tattiche elencate qui, trova un modo di deviare la discussione con commenti caustici o controversi, cerca di spostare l’attenzione su un argomento nuovo e più gestibile. Questa tecnica funziona particolarmente bene con complici che riescano a “litigare” con te sul nuovo argomento e polarizzare lo spazio di discussione con lo scopo di evitare che si affrontino i problemi chiave.
9) Non dar retta alle Prove Presentate, Chiedi Prove Impossibili: Questa è forse una variante della regola “Fai finta di non sapere”. Ignora il materiale presentato da un antagonista nei forum pubblici, dichiara che il materiale fornito è irrilevante e richiedi prove impossibili da ottenere per l’avversario (possono esistere ma non essere a sua disposizione, o può trattarsi di qualcosa che, si sa con certezza, è andata distrutta o è nascosta in luogo sicuro, ad esempio l’arma usata per un delitto). Per evitare completamente di discutere dei problemi, potrebbe essere necessario che tu debba criticare e negare che i media e libri siano fonti attendibili, negare che i testimoni siano degni di fiducia, o anche negare che dichiarazioni fatte dal governo o altre autorità abbiano qualche significato o rilevanza.
10) Inventa Distrazioni Più Grandi: Per distogliere l’attenzione da problemi delicati, o per prevenire coperture mediatiche indesiderate di eventi inarrestabili come i processi, crea notizie di cronaca più importanti (o presentale come se lo fossero) per distrarre la gente.
11) Attacca: Puoi utilizzare un Fantoccio trova o crea un elemento credibile della tesi dei tuoi avversari che puoi facilmente buttare giù per farti sembrare dalla parte della ragione e mettere in cattiva luce l’informatore. Oppure tira fuori una questione della quale puoi con sicurezza insinuare l’esistenza basata sulla tua interpretazione dell’informatore, dei sui argomenti, della situazione, oppure seleziona l’aspetto più debole delle accuse più deboli. Amplifica il loro significato e distruggile in un modo che sembri ridicolizzare, allo stesso modo, tutte le accuse reali e costruite, evitando inoltre che la discussione si sposti effettivamente su problemi concreti.
12) Distrai Gli Avversari con Insulti e Ridicolizzandoli: Viene chiamata: “attacca il messaggero”. Associa gli avversari a titoli impopolari come “pazzi”, “conservatori”, “liberali”, “di sinistra”, “terroristi”, “fanatici della cospirazione”, “radicali”, “fascisti”, “razzisti”, “fanatici religiosi”, “maniaci sessuali” e così via. Questo spinge gli altri a ritirarsi dal sostenerli per paura di venire etichettati allo stesso modo, e tu eviti di confrontarti con i problemi.
13) Colpisci e Scappa: In ogni forum pubblico, e social, fai un breve attacco ai tuoi avversari o alla posizione avversa e poi scappa via prima che ti rispondano o più semplicemente ignora ogni risposta. Questa tattica funziona benissimo su Internet nelle lettere alle redazioni dove un flusso regolare di nuove identità può essere utilizzato senza dover spiegare critiche, ragionamenti – semplicemente lanciando accuse o altri attacchi, senza mai discutere problemi, e senza mai rispondere ad ogni replica successiva, perché quello darebbe dignità al punto di vista degli avversari.
14) Associa le Accuse Degli Avversari Con Vecchi Avvenimenti: Una tattica derivata da quella del fantoccio, va bene in qualunque situazione dove si abbia grande visibilità, qualcuno all’inizio farà accuse sulle quali si può discutere o si è già probabilmente discusso un tipo di investimento per il futuro qualora la situazione non fosse facilmente controllabile. Dove puoi prevederlo, crea un problema “fantoccio” e trattalo come una parte contingente del piano iniziale. Le accuse successive, indipendentemente dalla loro validità o dalla scoperta di nuovi elementi, possono poi di solito essere associate con l’accusa originale e liquidate come un rimaneggiamento della stessa senza bisogno di affrontare problemi attuali – ancora meglio se l’avversario è, o è stato coinvolto, con la fonte originale.
15) Richiedi Soluzioni Complete: Evita le questioni chiedendo agli avversari di risolvere totalmente il problema, tale strategia funziona meglio trattando temi del tipo “Associa alle accuse agli avversari vecchie notizie”.
16) Impressiona, Contrasta e Pungola Gli Avversari: Se non puoi fare nient’altro, rimprovera e schernisci i tuoi avversari e trascinali a risposte emotive che tenderanno a farli sembrare stupidi ed eccessivamente motivati, e generalmente rendono il loro materiale in qualche modo meno coerente. Non solo eviterai di dover discutere i problemi in prima istanza, ma inoltre se la loro risposta emotiva riguarda la questione, puoi evitare ulteriormente i problemi focalizzandoti su quanto “siano suscettibili alle critiche”.
17) Falsifica: Metti in dubbio tutto; distorci o amplifica ogni fatto che può essere utilizzato per insinuare che l’avversario agisce in base a secondi fini nascosti o altre faziosità. Questo evita che si discuta dei problemi e costringe l’avversario sulla difensiva.
18) Crea e Fai Affidamento su Una Via d’Uscita: Utilizzando un aspetto o un elemento secondario della notizia segui la “retta via” e “confessa” con candore che qualche errore in buona fede, col senno del poi, in realtà è stato commesso, ma gli avversari ne hanno approfittato per ingrandirlo in modo esagerato ed insinuare il dubbio di un notizia più grave, solo che “non è così”. Altri in seguito possono rafforzare questa tesi a nome tuo, ed anche chiedere pubblicamente che “si ponga fine a certe dicerie” perché tu hai già “fatto la cosa giusta”. Eseguita in modo corretto, questa tattica può farti ottenere comprensione e rispetto per aver “detto la verità” e “confessato” i tuoi errori senza dover affrontare problemi più seri.
19) Adatta i Fatti a Conclusioni Alternative: E’ richiesto di pensare in modo “creativo” a meno che il “crimine” non sia stato pianificato con idonee previsioni dei possibili sviluppi.
20) Crea Prove False: Dove puoi presenta fatti nuovi o indizi progettati e creati per essere in contrasto con quelli presentati dagli “avversari” come strumenti utili per neutralizzare problemi delicati oppure impedirne la soluzione. Questo funziona meglio quando il crimine è stato progettato tenendo conto delle peculiarità adatte allo scopo, e i fatti non possono essere separati facilmente dalle menzogne.
21) Costruisci Una Nuova Verità: Crea i tuoi esperti, i tuoi promotori, i tuoi leader o condiziona qualcuno già esistente disposto a forgiare una nuova verità tramite ricerche scientifiche, investigative o sociali o una testimonianza che si concluda a tuo favore. In questo modo, se devi effettivamente affrontare i problemi, puoi farlo con autorevolezza.
22) Nascondi le Prove: Fai Sparire Prove e Testimonianze. Se non esiste, non è un fatto e tu non dovrai affrontare il problema.
23) Fai Appello a un Grand Jury, a un Procuratore Speciale, o ad un Altro Corpo Investigativo Autorizzato: Sovverti (il processo) a tuo favore e neutralizza efficacemente tutti i problemi più delicati senza una discussione aperta. E’ necessario che le prove e le testimonianze, se trattate correttamente, restino segrete una volta che sono state raccolte. Per esempio, se controlli il procuratore, questo può assicurarti che il Grand Jury non prenderà in esame le prove più utili ed anche il loro occultamento in modo che non siano disponibili per gli investigatori. Una volta che hai ottenuto un verdetto favorevole, la questione può essere considerata ufficialmente chiusa. Di solito questa tecnica è applicata per far assolvere un colpevole, ma può essere utilizzata anche per acquisire accuse quando si cerca di incastrare un innocente.
24) Fai Tacere i Critici: Se i metodi descritti non funzionano, valuta la possibilità di togliere gli avversari dalla circolazione con qualche soluzione definitiva in modo che non ci sia più bisogno di affrontare i problemi. Questa soluzione può essere la loro morte, l’arresto e la detenzione, il ricatto o la rovina della loro reputazione con la diffusione di informazioni compromettenti, o semplicemente puoi distruggerli dal punto di vista finanziario, psicologico o danneggiare gravemente la loro salute.
25) Sparisci: Se custodisci segreti chiave o sei comunque al corrente di dettagli non noti.
Cinque fantastiche fake-news…scrive Piero Sansonetti l'1 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Ius soli, Salvini, Caridi, Ruby, Spada, casi diversi accomunati dallo stesso metodo: il totale travisamento della realtà. Si dice così: fake news. Cioè notizie false, disinformazia, come la chiamavano una volta i sovietici. Fake news però non sono solo le notizie false ma è anche quel genere di informazione, molto diffuso, costruito su presupposti di non verità. Talvolta questa non verità è prodotta da apparati che vivono esattamente con questo scopo (appunto come erano i centri organizzati dallo spionaggio e dal controspionaggio sovietico, ma anche americano e di altri), talvolta invece è prodotta dai partiti e dalle loro macchine della propaganda. Fantastiche fake: Ius soli, Salvini, Caridi, Ruby…Talvolta viene direttamente dalle istituzioni o dai giornali o dalla Tv.
In genere le notizie false – trattate in un certo modo dal sistema dell’informazione e dai partiti – finiscono per avere un valore sociale esattamente uguale a quello delle notizie vere. Perché vengono ripetute, e ripetute, e ripetute, in barba a qualunque smentita, finché l’opinione pubblica non si convince che se una cosa è detta così tante volte deve essere necessariamente almeno un po’ vera. (Questo meccanismo massmediologico fu studiato e definito molto bene, negli anni trenta, da un giornalista e politico tedesco di grande ingegno, Joseph Goebbels, che fu il braccio destro di Adolf Hitler). Vogliamo vedere qualche caso, recente, di informazione fondata sulla non verità? Casi molto diversi tra loro ma tutti saldamente ancorati all’idea che la verità è quella che un apparato informativo o politico riesce a imporre, non è la realtà delle cose.
IUS SOLI. E’ diffusissima l’idea che il Pd voglia lo Ius soli per ottenere il voto di migliaia di immigrati. Ma è del tutto falso. Lo Ius soli concede la cittadinanza ai bambini che sono nati qui, che sono ancora piccoli, che non si sognano nemmeno di votare, e che quando saranno grandi, e avranno l’età per votare, comunque potranno avere la cittadinanza, anche con la legge attuale, senza Ius soli, perché dopo dieci anni di residenza regolare tutti possono avere la cittadinanza. Così come è diffusa l’idea che lo Ius soli possa attirare in Italia orde di africani. Nessun africano prende un gommone e mette a rischio la sua vita (i dati statistici dicono che ha il 3 per cento di possibilità di morire affogato in quel viaggio) per un calcolo sulla futura cittadinanza di bambini che ancora non sono nati e neppure concepiti. Nessuno. Eppure per rendere chiara l’idea che non esiste alcuna ragione plausibile per opporsi allo Ius soli è stato necessario l’impegno di un uomo dello spettacolo come Fabio Volo. Che è andato da Berlusconi e da Renzi (cioè da due dei leader politici più moderati e meno ostili a politiche di accoglienza, ma entrambi timorosi della potenza di fuoco della propaganda leghista e grillina e populista) e ha chiesto loro perché non riescono a capire una cosa così facile da capire che l’ha capita anche suo figlio di quattro anni. E cioè che i bambini neri sono bambini come i bambini bianchi e vanno trattati con umanità. Berlusconi e Renzi non hanno risposto. Perché non hanno risposto? Perché tutti e due sanno che Volo ha ragione, ma tutti e due sanno che lus soli è un principio che è stato abbattuto da una raffica di fake news, e che è molto difficile da difendere senza perdere voti. E la raffica di fake news è stata possibile perché nessun giornalista, finora, ha posto a Berlusconi e Renzi la domanda semplice e quasi ingenua che ha posto Volo.
CARIDI. Ne ho parlato e scritto molte altre volte di questo senatore della Repubblica che da un anno e mezzo vive, disperato, in una cella di Rebibbia. Non mi è mai tornata indietro neppure una eco flebile flebile delle mie proteste. Nessuno le ha riprese e nessuno ha avuto la faccia tosta di respingerle. Su Antonio Caridi si son abbattute le fake news guidate dalla magistratura. Che è giunta a immaginarlo come il capo di una supercupola inter-mafiosa. Cioè, in parole povere, il capo dei capi di tutta la criminalità organizzata. Altro che Riina! Altro che Liggio! Poi l’accusa è scivolata un po’, hanno capito che era troppo grossa la balla, e hanno ammesso che forse non è proprio il capo, ma insomma qualcosa c’entra… Prove d’accusa? Le parole di un pentito, cose vecchie di 14 anni, già prese in esame e scartate come infondate da vari magistrati, ma che ora sono tornate a galla e sono state sufficienti ad arrestarlo. Col beneplacito di un Senato fifone e infingardo, che si è lavato le mani e ha detto ai giudici: «Prendetelo pure e fatene quel che volete». E sebbene la Corte di Cassazione abbia definito non motivato l’arresto, nessuno ha avuto il coraggio di sollevare un’obiezione, di fare una domanda. Chissà, forse lo farà di nuovo Fabio Volo… E Caridi, il senatore Caridi, resta in galera, per via delle fake news istituzionalizzate. In occidente – inteso nel senso più ampio – non ci sono molti casi di parlamentari in galera. Non vorrei sbagliarmi ma credo che ci siano situazioni simili solo in Venezuela e in Turchia.
IMMIGRAZIONE. Ancora ieri il capo della Lega, Matteo Salvini, per giustificare l’irruzione dei naziskin in un circolo lombardo che aiuta i profughi, ha detto che il problema non sono i naziskin ma il problema è Renzi e che nessuno può negare che i naziskin dicano una cosa vera quando parlano di una invasione degli africani. Mi interessano poco le simpatie naziste di Salvini, sono sempre stato contro i reati di opinione e per la più assoluta e completa libertà di idee e di pensiero e di parola e di scrittura. Sono contro le leggi che condannano l’apologia. Anche l’apologia di fascismo e di razzismo, eccetera eccetera. Mi limito a osservare che Salvini di nuovo costruisce il suo ragionamento su una fake news, e che nessuno gliela contesta, perché è stata ripetuta talmente tante volte, questa fake news, che ormai è vera anche se non corrisponde alla realtà. La fake news sull’invasione in atto. Sul continuo aumento degli arrivi dall’Africa. La realtà sono i dati. Ecco i dati: nel 2016 gli sbarchi sulle coste italiane furono 173 mila (da gennaio a novembre) quest’anno, nello stesso periodo, sono stati 117.000. Oltre il 30 per cento in meno. Di questi, più della metà non si ferma in Italia. Circa 50 mila, forse meno, si fermano da noi. Cioè meno dello 0,09% della popolazione italiana.
SPADA. L’altro giorno un ragazzone di 29 anni che aveva staccato a morsi l’orecchio a un tassista, e poi gli aveva spaccato il naso e la clavicola, è stato mandato agli arresti domiciliari. Qualche settimana fa un certo Roberto Spada, che aveva spaccato il naso a un giornalista (ma solo il naso, risparmiandogli l’orecchio e la clavicola) è stato mandato al carcere duro di massima sicurezza. Perché? Perché, hanno detto i magistrati, il primo delitto è stato commesso in modalità semplice, il secondo in modalità mafiosa. Roberto Spada è un mafioso? Ha precedenti per mafia? No. Ecco, la mafiosità del delitto di Spada è una fake news. Messa in giro dalla stampa, che ha preteso l’arresto di Spada anche se impossibile a rigor di legge, e lo ha ottenuto. Perché anche la magistratura, intimidita dalla stampa, ha accettato la fake news.
RUBY. La fake news originaria durò pochi minuti ma diventò famosissima. Era quella detta da Berlusconi che sostenne che Ruby fosse nipote di Mubarak. Fu subito smentita e svanì, trasformandosi in argomento di scherzi e lazzi. Poi prevalse la fake news del decennio. Quella che Berlusconi avrebbe commesso un reato molto grave invitando a casa sua un po’ di ragazze. Fu processato e condannato a una lunga pena detentiva per concussione e prostituzione minorile. Le giudici che emisero la condanna aumentarono la pena rispetto a quella richiesta dalla terribile Boccassini. Poi la Corte d’Appello, sorridendo, annullò la condanna per assenza evidente del reato. E la Cassazione fece lo stesso. Ma la fake news restò viva. Non solo sui giornali e nell’opinione pubblica ma in molti palazzi di giustizia. Nacque il processo Ruby- bis e il processo Ruby- ter. E successivamente il processo Ruby- ter si spezzò in tanti filoni, il Rubiter propriamente detto, il Ruby- ter- bis, il Ruby- terter, il ter-quater, eccetera eccetera fino al ter- septies. Nessuno sa quanti soldi siano stati buttati al vento per questa scemenza. Nessuno sa quanto durerà ancora. Si sa solamente che alcuni di questi processi si svolgeranno in campagna elettorale e qualcuno, malizioso, pensa che si tratti di giustizia ad orologeria. Ad orologeria o meno, il fatto è che è accertato (e certificato dalla Cassazione) che il reato era un fake-reato. Ma se dici reato, reato, reato, alla fine il reato, comunque, c’è.
Skinhead a Como, Meloni: «Intimidazione, ma la violenza è dei centri sociali», scrive Mariano Folgori giovedì 30 novembre 2017 su "Il Secolo D’Italia". «Secondo me quello è un atto di intimidazione e per me l’intimidazione è inaccettabile. Mi consenta però di dire che trovo abbastanza ridicolo l’appello di Matteo Renzi, perché la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como: è un atto di intimidazione ma non è un atto di violenza». Giorgia Meloni invita a vedere nella giusta dimensione, senza strumentalizzazioni politiche e forzature ideologiche, l’irruzione di un gruppo di naziskin venetia Como in un centro pro migranti. «La violenza – afferma la Meloni a L’Aria che tira – noi l’abbiamo invece vista un sacco di volte dai compagni dei centri sociali, quelli che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani, e nessuno ha mai fatto gli appelli per la condanna delle violenze dei centri sociali. Quello si può fare. Perché è gente di sinistra e le città si possono distruggere, si può dare fuoco alle macchine della gente, si può dare fuoco alle edicole». La leader di FdI risponde a Renzi che ha tentato di rilanciare l’ennesima mobilitazione antifascista. «Qualsiasi gesto di violenza – ha detto il leader del Pd va condannato senza se e senza ma. Intimidazioni e provocazioni di segno fascistoide vanno respinti non solo dalla sinistra ma da tutta la comunità politica nazionale, senza eccezione alcuna. Su questi temi non si scherza». Salvini: «Il problema è Renzi non i presunti fascisti». Sulla la stessa linea della Meloni è Matteo Salvini: «Il problema dell’Italia è solo Renzi, non i presunti fascisti. Lui – dice Salvini – si occupa di fake news e del ritorno del fascismo che non esiste». «Certo che entrare in casa di altri non invitati non è elegante – ma il tema dell’invasione dei migranti sottolineato dai skinheads è evidente».
Appello Renzi, Meloni: e Centri sociali? Scrive il 30 novembre 2017 "Rai News". "Secondo me è un atto di intimidazione e per me l'intimidazione è inaccettabile. Ma trovo abbastanza ridicolo l'appello di Renzi, perchè la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como". Così la leader di FdI. Il blitz dei naziskin in un circolo Pd di sostegno ai migranti "è un atto di intimidazione, non di violenza. La violenza noi invece l'abbiamo vista un sacco di volte dai compagni dei Centri sociali che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani e nessuno ha mai fatto appelli...".
Bologna, raid dei centri sociali: uova e minacce su sede di destra. Il blitz dei centri sociali del Collettivo Polvere Rossa contro la sede di Azione Universitaria a Bologna, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Un raid notturno dei centri sociali. Mentre a sinistra si sgolano per "l'irruzione" di Veneto Fronte Skinheads all’assemblea di Como Senza Frontiere, nella rossa Bologna la sede di Azione Universitaria in via Turati viene presa d'assalto dal Collettivo Polvere Rossa. Questa mattina i militanti dell'associazione universitaria di destra si sono ritrovati la porta imbrattata dalle uova con annesso volantino minaccioso, già rimosso dalla Digos. "Non è che un pretesto per concedervi dieci minuti di riflessione - si legge nel proclama - Perché mentre pulirete questa vetrina, anche solo per dieci secondi, vi sentirete disprezzati e non tollerati, proprio nello stesso modo in cui voi fate sentire chi diverge dalla vostra idiozia. Non ci aspettiamo che voi capiate e tantomeno che cambiate. Ci basta lasciarvi questo messaggio con la coscienza di chi anche di giorno vi affronta a viso aperto, con il divertimento di chi vi mette alla berlina in una fredda notte d'autunno. Italiano è chi ha fede nella Costituzione. Italiano è che ha memoria degli ideali della Resistenza. Italiano è chi lotta per il progresso della Patria. Fuori i fascisti da Bologna". La sede di via Turati 25 a Bologna è un luogo storico di aggregazione della destra. Soprattutto in ambito universitario. Dibattiti, discussioni politiche, volantini da stampare, colla e bandiere. Poi la foto di Almirante rivolta verso i presenti e la scritta: "Noi possiamo guardarti negli occhi". Niente di pericoloso insomma, chi scrive lo sa per esperienza. Nessun "rigurgito fascista", onde nere, nazismi alle porte. Anzi: tutto democratico, visto che AU da anni partecipa alle elezioni studentesche, eleggendo pure propri rappresentanti. "Due mesi fa abbiamo subìto un'intimidazione ad un nostro convegno sulla Siria e nessuno è stato punito - racconta Dalila Ansalone, Responsabile Azione Universitaria Bologna - A quanto ci risulta, nessuna Istituzione ha preso provvedimenti seri nei confronti di questi soggetti che vivono nell'illegalità permanente. Visto che nessuno gli si oppone, si sentono onnipotenti e tranquilli nel compiere atti di violenza senza subire alcun tipo di sanzione". Il timore è che le azioni degli antagonisti possano degenerare. "Se non la pensi come loro, usano la violenza - attacca Stefano Cavedagna, Dirigente Nazionale Azione Universitaria - Esattamente come facevano i partigiani in queste zone rosse dopo la guerra. Se non eri con loro, facevi una brutta fine. Non abbiamo timore, rimaniamo solo molto tristi nel vedere fino a dove si possono spingere certi soggetti che fanno della libertà di pensiero il loro mantra, ma poi con la violenza cercano di reprimere idee differenti dalle loro". E mentre sugli skinhead i quotidiani discettano da giorni e Matteo Renzi chiede addirittura "condanna unanime" del gesto, difficilmente il raid degli antagonisti scatenerà pari indignazione e preoccupazione. Si sa: alcune uova e minacce risultano meno aggressive di altre. Sono politicamente corrette. "La Repubblica dice che con acqua e sapone si rimedia, come se il gesto intimidatorio non esistesse e non ci fosse nulla da condannare - attacca Galeazzo Bignami, capogruppo in Regione di Forza Italia - Chissà cosa sarebbe successo se degli estremisti di Destra avessero lanciato delle uova marce contro Repubblica. Avremmo già i manifesti firmati dagli intellettuali radical chic, girotondi arcobaleno, manifestazioni antifasciste e così via". Per la senatrice Anna Maria Bernini (FI) si tratta di "un grave atto intimidatorio, che meriterebbe un'indignazione profonda" e invece "viene curiosamente minimizzato, declinato ad 'una ragazzata'". Solito doppiopesismo della sinistra. "Le forme di intimidazione e violenza - dice infatti Maurizio Gasparri - vanno condannate in egual misura dalle istituzioni e da tutti coloro che credono nei valori della democrazia e della legalità". Duro anche il deputato di Forza Italia Elio Massimo Palmizio, che definisce il raid degli antagonisti "inaccettabile" tanto da costituire "una grave compressione della liberta' di espressione individuale e collettiva garantita dalla nostra Costituzione".
EIA EIA, MA VA' LA. Il Duce unisce più di Renzi: bastano quattro cretini per fare gridare la sinistra al nuovo Ventennio. Ma è silenzio sulle violenze dei centri sociali, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Ogni tanto, ma sempre più spesso, scatta l'allarme dell'«all'armi son fascisti». Questa estate la goliardia canaglia di un bagnino di Chioggia che aveva tappezzato il suo lido con frasi mussoliniane era stata spacciata come l'inizio di un nuovo Ventennio. Il malcapitato ha perso il lavoro e si è riciclato come opinionista di avanspettacolo destrorso nelle radio e tv venete dopo essere stato completamente scagionato dai magistrati che avevano aperto un'inchiesta. Nessun tentativo di ricostituire il Partito fascista - hanno concluso i saggi pm - ma solo una gigantesca burla. Adesso ci risiamo con la storia dei quattro ragazzotti di destra che hanno fatto irruzione in un circolo pacifista di Como per leggere ai presenti un comunicato sulla «patria minacciata dagli immigrati». Deplorevole (la violazione di domicilio privato), ridicolo (il gesto), a tratti delirante (il testo), ma comunque fatto anche questo ascrivibile più all'idiozia giovanile che alla fascistizzazione dell'Italia. Il codice penale attuale mi sembra attrezzato a punire eventuali reati che questi ragazzotti possano avere commesso, con i fatti e con le parole, e la cosa dovrebbe finire lì. E invece no, puntuale come la morte arriva da Repubblica il grido di allarme sul pericolo destre. E la panna monta, manco stessimo parlando di un attentato dell'Isis. Facendo una ricerca con Google si scopre che dall'inizio dell'anno i giornali del gruppo Espresso hanno fatto scattare «l'allarme fascismo» 492 volte. Siamo cioè all'antifascismo militante che amplifica ed esalta stupidi episodi e persone ignoranti che sono numericamente, politicamente e socialmente più che marginali. Certamente meno significativi dell'allarme che dovrebbero destare le occupazioni, gli abusi e a volte le devastazioni urbane di quei simpatici ragazzi dei centri sociali; sicuramente meno preoccupanti delle milizie di estrema sinistra che impediscono con la forza la presentazione dei libri di Giampaolo Pansa sul revisionismo della Resistenza, di Magdi Allam sull'islam o una conferenza di Angelo Panebianco all'università di Bologna perché «professore non abbastanza pacifista». Più stupidi dei neofascistelli ci sono solo i tromboni dell'antifascismo a tempo pieno, i quali non si indignano che il leader della Lega Matteo Salvini - democraticamente eletto - possa apparire in pubblico solo se scortato, a volte blindato. A questi tromboni andrebbe ricordato - ironia della sorte - che ancora oggi il nostro codice penale a pagina uno porta in grassetto la firma di chi l'ha promulgato, cioè «Sua Eccellenza Benito Mussolini», come ben sanno studenti di giurisprudenza e addetti ai lavori. Che facciamo, chiudiamo i tribunali, mettiamo al rogo in piazza la tavola delle leggi e proclamiamo la mobilitazione generale? La verità è che il Duce riesce dove ha fallito Matteo Renzi. Cioè unire la sinistra, che - non avendo né presente né futuro - per dare l'impressione di esistere deve per forza attaccarsi ai fantasmi del passato. Diciamolo, i veri nostalgici sono proprio loro.
Assalti, censure e violenze in università. I blitz dei centri sociali non scandalizzano. Da Pansa zittito a Panebianco contestato, le vittime dell'intolleranza rossa, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 1/12/2017, su "Il Giornale". Clima da Repubblica di Weimar, nazismo alle porte, l'ombra nera sull'Italia. Il blitz degli skinhead ha svariati precedenti, ma a sinistra. La sinistra unita solo con la caccia al fascista. Aggressioni, minacce, lanci di uova, però più politicamente corretti rispetto a quattro teste rasate, e quindi non meritevoli di allarme per la democrazia in pericolo. Eppure a lungo, per un giornalista come Giampaolo Pansa colpevole di aver messo in discussione la vulgata partigiana sulla guerra civile italiana dopo l'8 settembre, è stato quasi impossibile presentare un semplice libro, considerato negazionista dall'estremismo rosso che accoglieva le presentazioni con insulti, minacce, propaganda a pugni chiusi. Qualche cenno di solidarietà in privato dai leader di sinistra, ma mai pubblico, perché Pansa è un diffamatore della Resistenza, un nemico del popolo. Identica sorte toccata ad Angelo Panebianco, editorialista del Corriere e docente all'Università di Bologna: «Fuori i baroni dalla guerra», gli hanno urlato i collettivi lo scorso febbraio, durante la sua lezione. «Panebianco cuore nero», la scritta lasciata dai centri sociali sulla porta del suo ufficio anni fa. Imbarazzo, silenzio e poco altro anche per Salvini, nel mirino dei centri sociali, più violenti degli skin head, ma col lasciapassare politico. Il leader della Lega è stato aggredito più di una volta, a Bologna gli hanno sfasciato il vetro dell'auto, in Umbria gli antagonisti lo hanno accolto a sputi e cori «stronzo», a Napoli hanno scatenato una guerriglia con sassi e molotov, violenze annunciate con la massima tranquillità alla vigilia («Non assicuriamo un corteo pacifico») senza creare indignazione, anzi (il sindaco de Magistris è con i centri sociali). A Milano sempre i centri sociali hanno distrutto un gazebo della Lega e malmenato due militanti. Scene che si ripetono, senza che mai si parli di un «allarme centri sociali», mentre quattro skin bastano per mobilitare le massime istituzioni. A Daniela Santanchè, donna di destra quindi meno rispettabile, ha raccontato in diretta, mentre discuteva di ius soli con Fiano del Pd (il deputato che vuol mettere in carcere chi ha una immagine di Mussolini in casa) di aver ricevuto un tremendo insulto più minaccia di morte come se niente fosse («Mi è appena arrivato su Twitter Sei una put... da uccidere»). Ancora a Napoli l'ex candidato sindaco di centrodestra, Gianni Lettieri, denunciò un'aggressione per strada da parte degli attivisti di una casa occupata. Ne sanno qualcosa gli ex ministri Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, bersaglio prediletto degli attivisti e centri sociali per le battaglie sui furbetti della pubblica amministrazione e sulla scuola, feudo della contestazione di sinistra. Brunetta, durante un convegno, fu vittima di un blitz della «Rete dei precari» fischi, insulti, striscioni a cui replicò definendoli «l'Italia peggiore». Non l'avesse mai fatto: «Diecimila post di insulti, minacce, addirittura pallottole, sul mio profilo Facebook. Molti legati anche alla mia statura fisica» calcolò l'allora ministro, sempre preciso anche nella contabilità degli insulti ricevuti. Per la Gelmini, si inventò persino un No Gelmini Day, con i collettivi studenteschi in piazza, al grido «Ci vogliono ignoranti, ci avranno ribelli», ma pure senza un chiaro nesso logico «Siamo tutti antirazzisti e antifascisti». Coi fumogeni e i lanci di uova. Tanto i fascisti sono solo a destra.
Ecco il dossier "centri sociali": quelli pericolosi sono 200. Dal Veneto alla Sicilia la mappa delle occupazioni pubbliche e private. E i delinquenti napoletani fermati dopo gli scontri sono già liberi, scrive Luca Rocca su "Il Tempo” il 14 Marzo 2017. Anacronistici ma violenti. Devastano le città, le vetrine dei negozi e quelle delle banche. Picchiano duro, infieriscono sui "nemici", impediscono di parlare. Scendono in piazza rabbiosi, lanciano molotov e bombe-carta. Imbracciano mazze e danno fuoco alle auto. Picchiano i poliziotti nascondendo il volto dietro il passamontagna. Finiscono spesso sotto processo, ma non mollano. Riscendendo per le vie con la loro brutalità. Sono i "centri sociali" più pericolosi sparsi in tutta Italia che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di inaudite violenze. Circa 200 strutture autogestite, quelle monitorate dall’Antiterrorismo. Ma sono migliaia i luoghi dove nasce l’odio e cresce la violenza. Negli ultimi tempi a far parlare prepotentemente di sé sono stati quelli di Milano (Conchetta, Cantiere, Soy Mendel, Mandragola), Cremona (Dordoni), Napoli (Insurgencia, Ex Opg Occupato-Je so pazzo), Roma (Macchia Rossa innanzitutto, ma nella Capitale ce ne sono 65, 27 dei quali controllati più da vicino da polizia e carabinieri), Torino (Askatasuna), Palermo (Spazio Anomalia-Ex Karcere), Padova (Pedro), Rimini (Casa Madiba), Brescia (Magazzino 47) e molti altri ancora sparsi in tutta la Penisola. Sono dappertutto e vogliono comandare. Al di là della legge, al di là delle regole. Dei 200 della black list l’Antiterrorismo evidenzia 11 centri in Lombardia, 7 in Piemonte, 4 nelle Marche, 12 in Veneto e altrettanti in Emilia, 10 in Toscana, 4 in Puglia, 8 in Liguria, 4 in Trentino, oltre 20 in Campania, 6 in Calabria e 3 in Sicilia.
CENTRI (POCO) SOCIALI. Solo rifacendoci agli ultimi due anni e mezzo, ad esempio, gli "antagonisti" si sono resi protagonisti di scorribande devastanti. Due anni fa a Cremona gli appartenenti al centro sociale "Dordoni" si scontrano con quelli di CasaPound. Molti sono i feriti. Gravissimo un antagonista, Emilio Visigalli (che poi verrà arrestato poco prima della sua rappresaglia). Otto persone finiscono indagate (e un militante bresciano del collettivo "Magazzino 47" arrestato). Pochi giorni dopo oltre 2mila persone, in testa i "black bloc", scendono in strada per solidarizzare coi loro "compagni", lanciando pietre, bottiglie e bombe-carta contro le forze dell’ordine. Nelle stesse settimane, stavolta a Padova, alcuni componenti del centro sociale «Pedro», nell’ambito di un’inchiesta sull’aggressione a un dirigente della Squadra Mobile, subiscono l’obbligo di dimora (uno finisce ai domiciliari). Nel corso delle perquisizioni nelle loro abitazioni la polizia trova fumogeni, una maglia metallica anti-coltello, fionde e un’arma giapponese usata nelle arti marziali. Stesso dicasi per l’operazioni nei confronti di 17 componenti del movimento antagonista "Spazio Anomalia/Ex Karcere" che ricevono l’obbligo di firma (poi annullata dal giudice) per aver devastato alcuni esercizi commerciali a Palermo (ferendo alcuni poliziotti). I reati contestati: associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie di delitti contro l’ordine pubblico, violenza, minaccia, lesioni personali.
VIOLENZA "ANTAGONISTA". Nello stesso periodo otto componenti del centro sociale "Cantiere" di Milano vengono condannati per gli scontri scoppiati nel dicembre del 2010 durante una manifestazione in occasione della "prima" della Scala, mentre alcuni esponenti milanesi di Forza Italia subiscono delle intimidazioni subito dopo lo sgombero del "Soy Mendel". A rendersi protagonista, per anni, di scontri violentissimi, è il centro sociale di Torino "Askatasuna", che nell’ultimo biennio non ha cambiato abitudini. Sempre in prima linea nei cortei No-Tav, uno dei suoi militanti, nel dicembre scorso, finisce in carcere per aver violato i domiciliari ottenuti per gli scontri con la polizia in Val di Susa. Pochi mesi prima sette manifestanti legati alla sinistra antagonista No-Tav vengono identificati durante una protesta e fra essi ancora militanti di Askatasuna. Che di violenti ne sforna a iosa, tanto da subire arresti, fermi, indagini, condanne. Quando poi il leader della Lega Nord Matteo Salvini si reca a Macerata per una visita elettorale, gli appartenenti al centro sociale "Sisma" lo accolgono com’è loro tradizione. Lo scontro con la polizia è inevitabile. Il maggio 2015 è segnato dalle manifestazioni No-Expo alle quali partecipano i membri del "Mandragola". Bastoni in mano, passamontagna in testa e la devastazione di Milano è assicurata.
RABBIA "COLLETTIVA". Nell’agosto del 2015 la Digos di Bologna notifica un divieto di dimora per Gianmarco De Pieri, leader del centro sociale "Tpo", che nel corso degli scontri con le forze dell’ordine, avvenuti in seguito allo sgombero di una villa occupata, aveva aggredito un sostituto commissario e lanciato una grossa trave contro un agente. Poche settimane dopo cinque giovani di Askatasuna vengono raggiunti da misure cautelari per le violenze messe in atto durante un comizio di Salvini a Torino, mentre la procura di Bologna punterà i fari su15 appartenenti al centro sociale "Tpo", protagonisti di violenze scatenate durante la manifestazione degli "Indignati". Passa poco tempo e sono ancora i militanti di "Askatasuna" a mettere in atto scontri violentissimi nell’Università di Torino. Di sé fa parlare anche l’"Ex Opg Occupato-Je so pazzo" di Napoli (fra i movimenti antagonisti anti-Salvini dei giorni scorsi), che mesi fa ha portato in piazza i "suoi" per lanciare uova e pietre verso la Mostra d’Oltremare dove l’allora premier Matteo Renzi stava per recarsi. Gli stessi militanti si sono scontrati e pestati con quelli di CasaPound. Rissa violenta, anche quella scatenata, nell’aprile scorso, dai membri del centro sociale "Casa Madiba" di Rimini contro gli esponenti di Forza Nuova.
"MACCHIA" FURIOSA. E proteste rabbiose anche da parte degli appartenenti a "Insurgencia" di Napoli e dei membri di "Macchia Rossa" a Roma, che nel novembre scorso, armati di mazze, spranghe e bombe-carta, si sono scontrati con quelli di Forza Nuova. Nel gennaio tati condannati due appartenenti al centro sociale "Kavarna" di Cremona. A febbraio scorso, infine, i militanti del centro sociale "Zam" e "Cantiere" di Milano si sono azzuffati con la polizia all’esterno del Municipio 4, dove era in corso un incontro sul Giorno del ricordo delle Foibe. Stesso episodio, ma con protagonisti da una parte CasaPound e dall’altra militanti del centro sociale "Bruno", anche a Trento. Ancora una volta per infangare i morti delle Foibe.
Il Sole 24 Ore: votate pure, intanto lo Stato non esiste più. (Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017). In un paese come l’Italia, anestetizzato e abbindolato dalla propaganda e dalla disinformazione, non si è ancora capito in quale baratro ci hanno portato. E – per quanto possa sembrare incredibile – non lo hanno capito nemmeno quelli che ci hanno trascinato quaggiù. Intendo la classe politica. Infatti, alla vigilia della corsa elettorale, sui giornali si leggono annunci di programmi mirabolanti che stanno per essere sfornati dai diversi schieramenti: dal taglio delle tasse alle pensioni, dal reddito di cittadinanza ai finanziamenti allo stato sociale, dai fondi per la scuola a quelli per lottare contro la disoccupazione fino al ritorno del famoso articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Bene. C’è solo un problema: le chiavi e il portafoglio di casa nostra sono ormai in mano ad altri. In Italia non governano più gli italiani. In maniera molto chiara – quasi brutale – lo ha fatto presente Sergio Fabbrini in un inciso del suo editoriale pubblicato dal “Sole 24 Ore”, dove si legge: «I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno Stato sovrano indipendente». Attenzione, non sono parole pronunciate da un “pericoloso” sovranista, ma da un commentatore che – come il suo giornale – aderisce all’ideologia dell’Unione Europea. Rileggete quelle parole perché sono vere e drammatiche, sebbene quel commentatore – come la gran parte degli editorialisti dei giornali – ritenga tutto questo un gran progresso. Bisognerebbe domandare agli italiani: a voi è mai stato detto che non siamo più «uno Stato sovrano indipendente»? Vi è mai stata chiesta una chiara autorizzazione a disfarsi della nostra sovranità? Vi sono mai state spiegate le conseguenze? Ci rendiamo conto che siamo praticamente sudditi della “Grande Germania” chiamata Unione Europea? Per la verità alcune voci inascoltate lo hanno gridato ai quattro venti, ma sono state fulminate sui giornali con continue accuse di sovranismo, di populismo e di nazionalismo. Oggi, in questa Italia, un Enrico Mattei verrebbe considerato un pericolo sovranista e nazionalista. Perché costruì l’Eni avendo come bussola il nostro interesse nazionale. Nel 2017 gli sarebbe impossibile. Il giornale della Confindustria ieri c’informava del «radicale cambiamento» che si è verificato ovvero che «lo Stato nazionale non esiste più in Europa» (sic!). Ripeto: non sono parole di Salvini o della Meloni, ma degli stessi europeisti. È la realtà dei fatti. Certo, in teoria è ancora in vigore l’articolo 1 della Costituzione secondo cui “la sovranità appartiene al popolo” italiano. Ma nella realtà non è più così. Lo abbiamo visto nel 2011 quando è stato rovesciato l’ultimo governo scelto dagli italiani e lo vediamo continuamente con la sottomissione alla Ue. Quelli del centrosinistra sono stati così zelanti da andare perfino oltre ciò che l’Europa (o meglio: la Germania) chiedeva, attribuendo alle norme europee valore costituzionale. Giulio Tremonti in una intervista a “Libero” ha spiegato che «la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001» ha introdotto «non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitario non solo i trattati, ma anche i regolamenti e le direttive europee». È un’idea così geniale che ovviamente gli altri Stati d’Europa si sono ben guardati dal farsela venire. I volenterosi governanti italiani sono i soli ad averla escogitata. Così siamo obbligati a recepire tutto, bail-in compreso e non importa se contraddice l’articolo 47 della nostra Costituzione sulla tutela del risparmio. Ovviamente la decisiva perdita di sovranità c’ è stata anzitutto quando abbiamo rinunciato alla nostra moneta, errore che paghiamo salatamente. Eppure eravamo stati avvertiti anche da premi Nobel per l’economia, come Paul Krugman, che nel 1999, sul “New York Times”, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica». Ecco la vera questione: non siamo più uno Stato sovrano e indipendente, non abbiamo più una moneta e ci vengono imposte delle politiche e delle norme che fanno l’interesse nazionale altrui, non il nostro. Ci hanno ridotto a un “fake Stato”. Una colonia. La classe politica che ci ha portato a questo punto, e che adesso fischietta distrattamente facendo finta che esista ancora uno Stato italiano sovrano e indipendente, deve rendere ragione di questa follia, alla luce dei risultati devastanti di questi anni. Se le elezioni non affrontano questo problema saranno soltanto un altro modo per prendere in giro un popolo che è stato impoverito, ingannato, tradito ed espropriato perfino della sua sovranità.
(Antonio Socci, “In Italia non governano più gli italiani ma l’Europa, e non fa il nostro interesse”, dal quotidiano “Libero” del 21 novembre 2017).
Il Sole24ore smentisce ItaliaOggi: Trieste nella top10 per qualità della vita. Dal 70esimo al sesto posto: una differenza enorme tra le due classifiche. Per Il Sole24ore il capoluogo giuliano è tra le migliori città d'Italia: anche qui però male in termini di sicurezza e criminalità, scrive Emanuele Esposito il 27 novembre 2017 su "Trieste Prima". Una differenza enorme, una classifica la pone al 70esimo posto, l'altra in sesta posizione. Questo il divario tra le classifiche della qualità della vita relative alle 110 province italiane pubblicate da ItaliaOggi e Il Sole 24 ore. Se ieri avevamo dato la notizia infausta della settantesima piazza, oggi il bicchiere è decisamente mezzo pieno. Infatti il quotidiano economico vede anche un miglioramento, dal 10° al 6° posto in classifica del capoluogo giuliano, prima provincia dell'ottimo Friuli Venezia Giulia (Gorizia 9, Udine 10 e Pordenone 13).
Le classifiche delle università? Sono “fake news”, scrive la Redazione ROARS il 10 giugno 2017. Le classifiche delle università? «Dal punto di vista delle scienze sociali sono spazzatura». A dichiararlo nel 2013 era stata Simon Marginson, intervistata da The Australian a proposito della classifica QS. La stessa classifica che il Corriere non esita a indicare come “la più importante a livello internazionale”, forse per compiacere il Rettore del Politecnico di Milano che primeggia tra gli atenei italiani. Un primato che non deriva da particolari meriti ma da un cambio delle regole, favorevole agli atenei tecnici, operato da QS nel 2015. Risultato? La Nanyang Technological University di Singapore, da 39-esima nel 2014 era salita fino al 13-esimo posto, sorpassando Yale, John Hopkins and Cornell. Su quell’onda, il Politecnico di Milano, 229-esimo nella classifica 2014, risalì magicamente al 189-esimo posto, mentre perdevano oltre 100 posizioni Pisa, Tor Vergata, Federico II di Napoli, Cattolica di Milano, Genova, Perugia e Bicocca. Clamoroso il caso di Siena che dal 2014 al 2015 si trovò ad arretrare di ben 220 (duecentoventi) posizioni in un anno. Il suo rettore Angelo Riccaboni, giusto un anno prima, aveva assicurato che «il ranking QS, redatto da Quacquarelli Symonds, è tra i più autorevoli al mondo». Più saggio il Rettore di Roma Tor Vergata: «È impossibile in ogni classifica anche sportive perdere centinaia di posizioni in pochi mesi se non cambiano gli indicatori». Una grande verità che viene troppo spesso rimossa quando si guadagna qualche manciata di posizioni e fa più comodo attribuirsene il merito. Oltre che per la volatilità dei criteri, la classifica QS è stata messa in discussione per il peso sproporzionato (50% del punteggio totale) che assegna a sondaggi reputazionali la cui aleatorietà e manipolabilità sono da sempre oggetto di discussione. Basta consultare Wikipedia per scoprire che furono proprio queste debolezze metodologiche ad indurre Times Higher Education a divorziare da QS (fino al 2009 esisteva un ranking THE-QS): The rankings of the world’s top universities that my magazine has been publishing for the past six years, and which have attracted enormous global attention, are not good enough. In fact, the surveys of reputation, which made up 40 percent of scores and which Times Higher Education until recently defended, had serious weaknesses. And it’s clear that our research measures favored the sciences over the humanities. Phil Baty (THE World University Rankings Editor): Ranking confession, Inside Higher Ed.
A titolo di cronaca, va detto che, nonostante i buoni propositi, nemmeno la classifica di THE ha mai brillato per scientificità. Basti pensare all’exploit di Alessandria di Egitto, collocata da THE davanti a Stanford e Harvard nella classifica 2010 dell’impatto citazionale. QS è anche nota per le spregiudicate pratiche commerciali: la vendita di consulenze alle università valutate e il suo “infamous star system“, che permette di pagare per veder comparire “stelle di qualità” accanto al nome dell’ateneo. “Valutazioni a pagamento per le università più piccole” (Ratings at a Price for Smaller Universities) aveva intitolato il New York Times. Inutile dire che non pochi atenei italiani pagano i servizi di QS. Se speravano che questo li aiutasse a salire nelle classifiche, il tonfo del 2015 dimostra che hanno fatto male i loro conti. Insomma, in termini di scientificità e imparzialità, le classifiche degli atenei godono di una reputazione immeritata. Poco male, penserà qualcuno: tra le tante “fake news” in circolazione le classifiche degli atenei non sono probabilmente tra le più dannose. In realtà, grazie alla loro pervasività mediatica contribuiscono a plasmare le agende dei governi perché ricacciano sullo sfondo tutti quegli obiettivi che non vengono contabilizzati nei ranking. Sono queste le considerazioni che Stephen Curry, Professore di Structural Biology all’Imperial College, London, ha riportato nell’articolo “University rankings are fake news. How do we fix them?” che ripubblichiamo di seguito per i nostri lettori.
Falsi servizi per Striscia. Mingo rinviato a giudizio, scrive il 28 Novembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il gup del Tribunale di Bari Annachiara Mastrorilli ha rinviato a giudizio Domenico De Pasquale (in arte Mingo) e Corinna Martino (amministratore unico della Mec Produzioni Srl di cui il marito Mingo era socio), per i reati di truffa, simulazione di reato, falso, calunnia e diffamazione. Stando all’ipotesi accusatoria, Mingo, ex inviato barese di Striscia la Notizia, avrebbe truffato Mediaset con la complicità di sua moglie, facendosi pagare 10 servizi relativi a fatti inventati e invece spacciati per veri, e facendosi anche rimborsare costi non dovuti per figuranti e attori. L’importo complessivo delle due truffe ipotizzate dalla magistratura barese ammonta a oltre 170 mila euro. Nel procedimento Mediaset si è costituita parte civile. La prima presunta truffa, quantificata in 21 mila euro (percepiti come compensi aggiuntivi rispetto al forfettario di 160 mila euro previsti dal contratto fra Mec e Mediaset) e relativa al periodo compreso fra dicembre 2012 e dicembre 2013, è contestata a De Pasquale e Martino e riguarda dieci servizi "risultati artefatti, simulando fatti, personaggi, circostanze e condizioni, frutto della fantasia degli indagati» secondo il pm Isabella Ginefra. Dal falso avvocato al falso agente interinale, dalla sedicente maga sudamericana capace di guarire malattie in cambio di denaro al falso assicuratore, al falso medico, al falso manager aziendale che assumeva giovani lavoratori in cambio di prestazioni sessuali: per la Procura di Bari si sarebbe trattato in tutti questi casi di attori ingaggiati per simulare eventi e in alcuni casi percosse in danno di Mingo e della troupe. La seconda truffa, dell’importo di 151 mila euro, è contestata alla sola Martino e fa riferimento a presunte false prestazioni lavorative di figuranti/attori rimborsate da Mediaset. Al termine dell’udienza preliminare il giudice ha prosciolto un’altra imputata, ritenuta la segretaria della società Mec, che era accusata di favoreggiamento. Il processo nei confronti di Mingo e sua moglie inizierà il 3 aprile 2018 dinanzi al Tribunale Monocratico di Bari. «Siamo certi che le ipotesi accusatorie saranno smentite nel corso del dibattimento». In una nota a firma del difensore Francesco Maria Colonna Venisti, gli imputati commentano la notizia del loro rinvio a giudizio. «Saranno contrastate efficacemente le notizie diffuse nel corso di questi mesi - prosegue la nota - che non sono riuscite ad infangare la reputazione di un professionista le cui qualità, non solo artistiche, ultra ventennali, non sono state mai discusse. Un professionista che continua a trovare apprezzamento e stima in Italia e all’estero. La fase delle indagini preliminari, e l’udienza preliminare stessa, non possono essere valutate con presunzione di colpevolezza e fungere così da gogna mediatica. Nel corso dell’udienza preliminare, attraverso la produzione di una copiosa memoria difensiva, documentata, e di una lunga discussione, sono state prospettate ricostruzioni diverse da quelle effettuate dalla pubblica accusa che troveranno il loro riscontro nel corso del dibattimento. Il confronto in aula - concludono - consentirà di citare tutti coloro che potranno attestare la correttezza dei comportamenti e delle persone».
La fabbrica delle notizie gonfiate: come nella Corea del Nord. (Marcello Veneziani, “La fabbrica delle notizie gonfiate”, da “Il Tempo” del 13 novembre 2017, articolo ripreso dal blog di Veneziani). Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne. Non ci sono in queste vicende né morti né stragi, deportazioni di popoli, violenze di massa, minacce alla sicurezza; sono fatti di cronaca che avrebbero meritato un titolo sui giornali ma non il lutto nazionale e l’allarme generale. Ma servono tutti per tenere vivo e dominante il Grande Racconto Ideologico, per alimentare la religione del politically correct. Dove i fatti spariscono e restano le “narrazioni” che aspirano a dimostrare una sola cosa: mafia, fascismo, razzismo, fanatismo, violenza anche sportiva, sono la stessa cosa. A nulla vale obbiettare che “il testa” è un sinti e non un fascio italiano, che simpatizzava per Grillo e magari pure per il Pd, e comunque è irrilevante la sua opinione politica, ha reagito violentemente perché non voleva la troupe addosso e non per motivazione “politica”. E a nulla vale aggiungere che Ostia è come un migliaio di comuni italiani sotto attacco o infiltrazione della malavita, tra mafia, camorra, ‘ndrangheta, simili e derivati. Nel resto dei comuni non comandano i puffi, sono ben inseriti i ladri comuni, i corrotti comuni, i comitati d’affari di ogni giorno. Ma a Ostia si vota, CasaPound ha preso un sacco di voti, è in gara un candidato di destra; ergo la vigilanza democratica e antifascista deve raggiungere il massimo grado di attenzione. E a proposito di mafia & fascismo a nulla vale ricordare per la verità storica che l’unico momento in cui la mafia fu cacciata dall’Italia e poi tornò nel ’43 con gli americani fu – ma guarda un po’ – durante il fascismo. Ora mi chiedo: ma che messaggio diamo ai cittadini, ai lettori, agli ascoltatori se i fatti principali sono questi e servono tutti a una pedagogia ideologica di massa? Poi vi lamentate delle fake news, ma è già la fabbrica delle notizie gonfiate e manipolate a drogare i fatti per veicolare l’opinione pubblica e distorcere la realtà. In uno stupro il colpevole dovrebbe essere lo stupratore, quindi in seconda battuta è complice la leggerezza delle ragazze che si sballano e si accompagnano a gente così. Invece per i media il colpevole è il prete che ha usato un linguaggio troppo aspro per dire una cosa sensata e vera. Ma la verità non esiste nel panorama balengo della disinformazione di massa. Se la prendono coi titoli urlati di “Libero” ma la realtà, la verità, la priorità delle notizie è stuprata ogni giorno anche dall’informazione di Stato. I nostri notiziari sembrano la versione occidentale di quelli coreani. Solo che da noi la dittatura non è nelle mani di Kim ma del politically correct. E giù censure a chi non la pensa così. Poi vi lamentate se la gente trova un alibi per disertare l’informazione, per non comprare i giornali, per barricarsi con le cuffie e i telefonini nella propria egoistica privacy. (Marcello Veneziani, “La fabbrica delle notizie gonfiate”, da “Il Tempo” del 13 novembre 2017, articolo ripreso dal blog di Veneziani).
Quando vengono colpiti esponenti della maggioranza scatta la richiesta di una legge che blocchi le «storie false». In realtà basta applicare le norme attuali, senza pensare a provvedimenti liberticidi, scrive su "Libero Quotidiano" Filippo Facci il 28 Novembre 2017. Facciamo un esempio serio e uno meno serio. Il primo: ieri Repubblica titolava in apertura di prima pagina: «Una legge contro le fake news». Sottotitolo: «Renzi: M5S e Lega, vi abbiamo sgamati». Qualsiasi persona normale capisce che il governo sta facendo una legge sulle fake news e che c’è lo zampino di Renzi. Invece basta voltare pagina e la notizia diventa «Fake news, legge del Pd» (titolo) e si legge che Renzi ha detto: «Non pensiamo a nuove leggi, figuriamoci» e che semmai sta valutando di pubblicare un report quindicinale sulle schifezze in rete. Quindi domanda - quella di Repubblica è una fake news? Risposta: sì e no, dipende, anche perché nello stesso articolo, effettivamente, si parla anche di una legge sulle fake news che altri piddini stanno preparando. Insomma, è anche una questione di opinioni, roba che non si può incasellare banalmente in fake news sì/fake news no, perché significherebbe sindacare il modo personale di interpretare la realtà, e, in questo caso, di interpretare un articolo di giornale. Per casi più gravi o manifesti, in compenso, in Italia la legge punisce già chi pubblichi il falso o il diffamatorio o il manifestamente ingannevole. Di che stiamo parlando, allora? Non lo si capisce neanche dal secondo esempio, quello meno serio: c’è una frase di ieri tratta del blog di Grillo, l’inchiesta sulle fake news è una bufala», che in concreto significa che «l’inchiesta sulle fake news è una fake news», il che trasforma in potenziale fake news anche il contraddirla come fa l’articolo che state leggendo (questo) in cui sosteniamo che la frase del blog di Grillo, «l’inchiesta sulle fake news è una fake news», in pratica è una fake news. Nota: non stiamo facendo gli spiritosi. Per complicare un po’ le cose, ieri, il presidente del Pd Matteo Orfini ha detto che, sul tema, ignora se lo strumento più adeguato sia una legge: però, poi, ne è spuntata subito una chiamata Disegno Zanda-Filippin, anche se non è stata ancora depositata. La norma parla di «delitti contro la Repubblica» e si rivolge principalmente ai social network affinché raccolgano reclami sulle «fake news» e decidano entro 24 ore (o una settimana, nei casi più controversi) se rimuovere uno scritto e «bloccare» l’autore. Se impropriamente non lo faranno, le sanzioni varieranno da mezzo milione a cinque milioni di euro. Le rimozioni potranno essere chieste anche da un pubblico ministero. Una struttura come Facebook, per dire, secondo questa legge dovrebbe vagliare i contenuti di due miliardi di persone, ogni santo giorno, quindi soppesarli, valutarli, ergo decidere entro poche ore ciò che un processo per falso o diffamazione impiega qualche anno a sentenziare, almeno da noi. Limitiamoci a dire questo: per una parte dei contenuti, che si limitano a riprendere articoli o video già pubblicati, la legge esiste già, ed è appunto quella che punisce la diffamazione o il falso a mezzo stampa; per tutti gli altri contenuti, pubblicati da privati, il sistema di vigilanza dei social network non potrebbe che essere - moltiplicato - quello che in parte esiste già: un algoritmo-filtro che blocchi automaticamente testi e immagini basandosi su parole o icone chiave. Ciò che oggi, per dire, già blocca quasi simultaneamente ogni titolo di post privato che contenga la parola «Boldrini» oppure ogni immagine di nudo che appartenesse a notissime opere d’arte. Allo scrittore di questo articolo o ad altri colleghi - che pure sono professionisti dello scrivere - è capitato spesso, come pure non c’è singolo articolo su argomenti nevralgici che non trovi un balordo disposto a denunciare una «fake news» e che, in generale, veda fake news dappertutto. I social sarebbero sommersi dai reclami di milioni di rompicoglioni giustizieri, neo leoni da tastiera. Insomma, il rischio che dall’anarchia della rete si passi a un liberticidio non è fantascienza, anche se certo lo scenario è cambiato e i vecchi strumenti legislativi probabilmente non bastano più, o intervengono quando l’effetto o il danno di ogni fake news è sortito. Se, com’è successo, circola una foto che ritrae Maria Elena Boschi e Laura Boldrini al funerale di Totò Riina, chiaramente un falso, c’è da capire se sia stata una fake news professionale, una satira anonima o solo il cretinismo di un grillino - com’era vero - che però non apparteneva strettamente al Partito. Se ci sono dei siti che danneggiano o promuovono forze politiche pubblicando dei falsi smaccati, pure, c’è da capire il ruolo delle forze politiche in tutto questo. La magistratura ce l’abbiamo, una legge aggiornata no: ma certamente non sembra quella che il Pd ha abborracciato in questi giorni. Così assurda che, se fosse una fake news, per una volta non dispiacerebbe.
Fake news, le principali sono quelle istituzionali, scrive Riccardo Ruggeri, il 28 Novembre 2017 sul blog di Nicola Porro. “Pd: pronta una legge anti fake news”. Mi sfugge perché l’establishment voglia fare una legge anti fake news. Un cittadino comune non crede certamente ad alcune delle balle che ci sono sulla rete, sono talmente eccessive da apparire ridicole, anche a una prima lettura. La storia insegna che dalla notte dei tempi le principali fake news sono quelle istituzionali, ma da sempre non vengono considerate tali dai potenti. Dal mazzo ne estraggo cinque storiche (poi hanno figliato in modo impressionante):
1 Le armi di distruzione di massa di Saddam; 2 Il processo comunicazionale di Obama, Sarkozy, Cameron (e relative consorti) per arrivare all’assassinio di Gheddafi e al disastro che ne è seguito; 3 L’ente Onu IPCC con i dati sul clima manipolati; 4 Motivazioni dei premi Nobel a Al Gore e a Obama; 5 Presunto esodo biblico dall’Africa di 100 milioni di neri, una balla talmente colossale che per fortuna si è subito sgonfiata quando, con 3 mld di euro dati da Merkel a Erdogan, l’esodo biblico in un paio di settimane si è bloccato in Turchia.
2 “Will done girls”. Per questo “Ben fatto, ragazze”, il professor Sutcliffe, docente nell’Oxfordshire, è stato sospeso perché si è dimenticato di contare fino a 10 prima di tacere, come previsto dai protocolli del mondo politicamente corretto. Pur sapendo che fra le allieve c’era una affetta da disforia di genere (lei si percepiva maschio) ha usato questa frase. Le immediate scuse, appena gli hanno fatto notare la scivolata, non sono bastate. Out.
3 “Al Black Friday, il Piemonte risponde con il Bagna Cauda Day 2017“. È stato festeggiato in tutto il mondo, cito solo Mara e Rocco che, lasciata Cavour, si sono trasferiti a Tonga e Helene Solomom e suo marito Bill Stein che nella loro grande villa di Boston hanno chiamato il celebre cuoco (Chef sarebbe offensivo) Matteo Morra di Barolo a prepararla e Sonia Speroni per l’abbinamento con i vini.
4 “Scientific articles pubblished, 2016”. Questo dato numerico, non avrà un valore assoluto, perché i contenuti possono fare la differenza, pensiamo solo che l’articolo sulla “teoria dei giochi” secondo questa classifica sarebbe valso 1, però è un indicatore. Al vertice, in solitudine, troviamo a 25.000 articoli gli Stati Uniti, Cina 10.000, Germania e UK 9.000, Francia e Giappone 5.000, a 3.000 Italia, Spagna, Canada, Svizzera, Australia, Olanda. Alcune curiosità: rispetto agli abitanti la Svizzera sarebbe la prima, l’Europa unita sarebbe il leader mondiale, gli scandinavi, decaduti, non entrano neppure in classifica.
5 “Volkswagen: Maggiolino elettrico a trazione posteriore”. L’articolo più intelligente e ironico, sulle auto tedesche, sulle elettriche, su Tesla, lo trovate sul Blog di Francesco Paternò “Carblogger.it”. Gli dedico lo spazio che avevo riservato al dibattito alla Leopolda: non c’è stato, erano tutti d’accordo.
1 L’ultima generazione del Maggiolino non va granché, tanto che si sussurra di un fine carriera.
2 Ecco allora un Maggiolino elettrico a trazione posteriore (per molti di noi la trazione mito) che verrà affiancato da un Minibus a batteria (il Bulli) entro il 2022.
3 Maggiolino e Bulli alla nascita (1938) hanno avuto un padre prestigioso: Adolf Hitler. Copiò Benito Mussolini, noto come il padre della Topolino (nel 1930 convocò Agnelli, gli impose le specifiche dell’auto e un target prezzo di 5.000 lire: un successo planetario). Furono i primi markettari passati dall’auto alla politica.
4 Maggiolino e Bulli saranno amate alla follia dai californiani hippies. L’importatore per motivare la rete di vendita disse: “Ragazzi, dobbiamo vendere auto naziste in una città di ebrei”. Ci riuscirono. Riccardo Ruggeri, 28 Novembre 2017
Così Dante spiegava le «fake news». Già Dante rimproverava agli italiani il vizio di rincorrere le lingue degli altri: a quel tempo il francese, scrive il 27 novembre 2017 Paolo Di Stefano su "Il Corriere della Sera". Si parla di «fake news» e si potrebbe parlare più semplicemente di «notizie false» o di «bufale». Già Dante rimproverava agli italiani il vizio di rincorrere le lingue degli altri: a quel tempo il francese. Nel Convivio innalzò una delle sue invettive «a perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia, che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano». Ciò accadeva, secondo l’Alighieri, per cinque «abominevoli cagioni».
1. La «cechità di discrezione», ovvero l’incapacità di distinguere;
2. la «maliziata escusatione» di chi si ritiene maestro e aggira la propria ignoranza adducendo scuse ingannevoli;
3. la «cupidità di vanagloria» di coloro che, sapendo parlare la lingua straniera, la lodano per essere più ammirati; 4. l’«argomento di invidia» di quelli che, essendo incapaci di usare il proprio volgare, lo disprezzano per infangare chi lo possiede;
5. la «pusillanimità», ovvero la viltà d’animo di quelli che snobbano le cose domestiche per esaltare quelle degli altri.
Lascio al lettore il giudizio su quante di queste «abominevoli cagioni» siano ancora ben vive nell’antropologia italiana anche al di là della questione linguistica. Ma insomma, Renzi e Di Maio preferiscono parlare di «fake news» e raramente di «bufala», parola italianissima, efficacemente utilizzata nell’accezione metaforica della panzana: «menata per il naso come una bufala», come mostra il linguista Massimo Arcangeli, compare già in una commedia secentesca. Dante avverte che se qualcosa di vile ha la lingua italiana è il dover risuonare sulla «bocca meretrice» degli «adulteri» che la odiano. Mica male. Tornando al punto 1, l’Alighieri vide ben prima di noi non solo le «fake news» ma il conformismo e la mancanza di spirito critico di tanti ciechi privi del «lume de la discrezione»: sono coloro che si lasciano attrarre dal primo «gridatore» di passaggio, non importa se cieco a sua volta o «mentitore». Il quale urlando raccoglierà eserciti di «pecore». Perché, aggiunge Dante, «questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché, se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro…». E se una pecora salta, le altre saltano pur in assenza di ostacoli da saltare: «E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò». Ne sappiamo qualcosa. Passati sette secoli, siamo sempre lì.
"La storia è fatta di fake. Dalla mano di Scevola alle bugie dei sovietici". Il giornalista: "Manipolazioni sempre esistite e la sinistra ne ha abusato. Una legge? Follia", scrive Matteo Sacchi, Martedì 28/11/2017, su "Il Giornale". Il dibattito politico di questi giorni diventa al calor bianco quando si parla di fake news: il Pd vorrebbe addirittura far approvare una legge in materia. Però le fake news sono tutt'altro che una novità, come spiega a il Giornale Lorenzo Del Boca da poco in libreria con un volume che fa le pulci alle molte false notizie che hanno costellato la storia italiana (Il maledetto libro di Storia che la tua scuola non ti farebbe mai leggere, Piemme).
Del Boca, le fake news sono un fenomeno antico o moderno?
«Esistono dalla notte dei tempi, la Storia ne è piena, solo che una volta le chiamavamo balle. Sono, spesso, generate dal potere che può usarle o per vezzeggiarsi o per difendersi. Faccio un esempio: Tito Livio ci descrive un Muzio Scevola che mette una mano su un braciere ardente senza fare una piega... Ovviamente è una cosa senza senso, è solo il modo di glorificare la forza di Roma. Altre volte invece la falsa notizia è funzionale a uno scopo immediato. Amplificare l'irredentismo lo era, altro esempio, all'entrare nella Prima guerra mondiale. Esistono poi fake news che si basano sostanzialmente sull'omissione. Come quando Togliatti impose al partito di silenziare i crimini di Stalin anche se Kruscev li stava rendendo pubblici...».
Ma ha senso immaginare una legge contro le fake news come stanno facendo alcuni esponenti del Pd?
«L'idea di una legge mi fa morire dal ridere. Si creano fake news sul pericolo delle fake news e il potere le usa per mantenere se stesso. Una volta fatta la legge, poi, chi controllerà i controllori? E poi ragioniamo, ma davvero non esistono in questo Paese problemi più gravi? Si suicidano per debiti due persone al giorno e noi ci preoccupiamo di notizie inquinate e ius soli? Davvero non c'è altro su cui legiferare? O come al solito è una legge che serve a distrarre?».
Del resto leggendo il suo libro si capisce che quanto a fake news la sinistra italiana non ha affatto la coscienza pulita...
«Tutta la storia del comunismo sovietico ha prosperato su notizie false. Il Pci sposò in pieno la metodica e la mise in pratica nel caso dell'invasione dell'Ungheria nel 1956 e poi dell'invasione della Cecoslovacchia. Come dicevo prima, Togliatti con Stalin la applicò alla perfezione... Il Pd a sua volta l'ha applicata quando gli è servito».
Resta il fatto che il Movimento 5 stelle con una serie bufale figlie della rete, dall'antivaccinismo alle scie chimiche flirta...
«Il Movimento di Grillo è nato in rapporto strettissimo con la Rete partendo dall'assioma che le nuove tecnologie fossero una panacea. E ora paga il prezzo di quella scelta. La Rete è piena di fake news, e ovviamente distinguere il vero dal verosimile è difficile».
Soluzioni?
«Alla fine era più difficile smascherare una fake news pubblicata da un giornale dei primi del '900, per come la vedo io. Ora la Rete consente molteplici controlli. Però bisogna essere disposti a farli. Un campanello d'allarme è sempre la notizia troppo netta, troppo bianca o nera. Se poi non vuol fermarsi a ragionare sul fatto che in 5mila anni certe malattie ci hanno massacrato e da quando esistono i vaccini invece no...».
Ma quali sono le fake news più pericolose?
«Quelle economiche. Sono difficili da individuare. Ce ne furono al tempo dello scandalo della Banca di Roma e ce ne sono state nei recenti scandali bancari. Ci sono un sacco di similitudini, dalle omissioni di informazione agli strani suicidi su cui è difficile sapere la verità».
Le peggiori fake news della storia italiana?
«Quelle usate per portarci in guerra, come l'irredentismo. Le faccio solo un esempio: il Ce lo chiede l'Europa inizia quando c'era ancora il regno di Sardegna. Lo usò Cavour per trascinarci nella Guerra di Crimea. Una guerra lontanissima e senza senso per noi. Solo per poter presenziare al congresso delle potenze europee, nel 1856, e dichiararci oppressi. Tutto per un ruolo di terza fila come quelli recitati oggi da Gentiloni o Renzi. Era ed è sudditanza allo straniero, nient'altro».
Fake news: cinquecento anni fa si scoprì la più grande bugia storica. Nel 1517 veniva dato alle stampe il testo che smascherava la Donazione di Costantino. Da Napoleone ucciso dai cosacchi ai Savi di Sion, la lunga tradizione dei falsi storici, scrive Gian Antonio Stella il 28 novembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Non c’è gara: la bufala più grande di tutti i tempi, per quanto si sforzino i russi e tutti gli altri fabbricanti di menzogne stranieri e nostrani, è già stata pubblicata. Tredici secoli fa. E cambiò la storia del mondo. Finché non sbucò fuori Lorenzo Valla che nel 1440, mettendo a frutto gli studi di filologia e di retorica ma più ancora esercitando lo spirito di uomo libero, scrisse Il Discorso sulla falsa e menzognera donazione di Costantino. Il documento, scrive Carlo Ginzburg, aveva avuto una «circolazione larghissima» per tutto il Medioevo. E «certificava che l’imperatore Costantino, in segno di gratitudine verso papa Silvestro che lo aveva guarito miracolosamente dalla lebbra, si era convertito al cristianesimo, donando alla Chiesa di Roma un terzo dell’impero». In realtà, continua lo storico, è opinione oggi condivisa «che il constitutum sia stato redatto verso la metà del secolo VIII per fornire una base pseudo-legale alle pretese papali al potere temporale», ma per molto tempo la donazione «non venne assolutamente messa in dubbio». Nemmeno da Dante, convinto che quel potere temporale avesse gettato le premesse della corruzione della Chiesa: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre». Certo è che quando Valla provò in modo inequivocabile e con parole aspre l’impossibilità che il testo fosse autentico («si può parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando ancora non era né patriarcale né una sede né una città cristiana né si chiamava così, né era stata fondata, né la sua fondazione era stata decisa?»), questa prova del falso, per quanto preceduta da opinioni simili come quella del filosofo Nicolò Cusano, sollevò uno scandalo. Sopito per decenni dalla difficoltà con cui circolavano venticinque manoscritti. Ma esploso quando il tedesco Ulrich von Hutten, nella scia di Lutero e delle tesi affisse sul portale della cattedrale di Wittenberg, riprese il testo e decise di stamparlo. Era il 1517: esattamente mezzo millennio fa. Eppure, come ricorda Luciano Canfora nel suo La storia falsa, la donazione di Costantino non è la bufala più antica. Ben prima, infatti, sarebbe falsa una lettera attribuita a Pausania, nella quale l’allora potentissimo «reggente» spartano avrebbe scritto a Serse, il re dei Persiani appena sconfitto: «Ti restituisco questi prigionieri catturati in battaglia volendoti fare cosa gradita e ti propongo, se piace anche a te, di sposare tua figlia e di sottomettere al tuo potere Sparta e tutta la Grecia. Ritengo di essere in grado di realizzare questo piano se mi metto d’accordo con te. Se dunque qualcosa di questa proposta ti piace, manda qualcuno fidato con cui possa proseguire la trattativa». Un’offerta di tradimento da prender con le pinze, scrive Erodoto («Sempre che sia vero ciò che si dice…»), ma che Pausania pagò cara: condannato a morte, si rifugiò in un tempio dove non potevano toccarlo. E lì, senza toccarlo, lo murarono vivo. A morire di fame e di sete. Per un messaggio probabilmente falso scritto da altri. La lettera del resto, insiste Canfora, «è in qualunque epoca il genere falsificabile per eccellenza». E racconta di «una lettera di Cicerone che descrive, con accenti quasi trionfali, come egli avesse smascherato, per semplice analisi “interna”, un dispaccio giunto in Senato mentre si era in seduta, e falsamente attribuito a Bruto, il cesaricida, allora impegnato a organizzare le forze repubblicane in Oriente». Per non dire della misteriosissima missiva che nel 1165, secondo il cronista Alberico delle Tre Fontane, arrivò a papa Alessandro III, all’imperatore bizantino Manuele I Comneno e a Federico Barbarossa da «Gianni il Presbitero, per la grazia di Dio e la potenza di nostro Signore Gesù Cristo, re dei re e sovrano dei sovrani». Il quale si offriva di mettere le sue ricchezze e i suoi eserciti a disposizione per muover guerra agli islamici e difendere la Terra Santa. Era il mitico «Prete Gianni», inventato a quanto pare da un monaco tedesco, ma destinato a diventare una leggenda e spasmodicamente atteso per decenni e decenni…E come dimenticare la clamorosa notizia arrivata a Londra il 21 febbraio 1814? La portò, fingendo d’esser appena sbarcato a Dover, uno spossato «ufficiale» in divisa rossa: «Napoleone è stato ucciso dai cosacchi! L’hanno fatto a pezzi. Letteralmente». La Borsa schizzò all’insù. E poi più su, su, su… Finché scoppiò il panico: era tutto falso! L’inchiesta puntò diritto su Thomas Cochrane, ammiraglio, politico, finanziere: arrestato, condannato, degradato per aggiotaggio. E destinato a fornire lo spunto ad Alexandre Dumas per una delle vendette del conte di Montecristo. Ancora più sensazionale, per la sua diffusione, fu la news sparata dai principali giornali del mondo il 23 maggio 1871: i difensori della Comune di Parigi, e più precisamente le pétroleuses, le donne incendiarie, avevano «incenerito il Louvre». L’eco fu enorme: ecco cosa sono i comunardi! Barbari! Friedrich Nietzsche e Jacob Burckhardt, racconta lo storico Manfred Posani Loewenstein che sta lavorando al tema per farne un libro, «si incontrano e piangono insieme l’“autunno della civiltà”» e «in Italia, mentre in Parlamento si discute dei fatti di Parigi e un deputato ricorda che “una parte del suo patrimonio artistico (…) forse in questo momento è rovinata sotto le bombe a petrolio degli odiatori dell’umanità”, un articolo della “Gazzetta dell’università” (un giornale studentesco pisano) cerca di giustificare le ragioni degli incendiari». Il cattolico «Lo Trovatore» va oltre. E «celebra nella distruzione del Louvre una punizione divina per le conquiste (e i saccheggi) dell’era napoleonica». Troppo ghiotta, la notizia, per non sfruttarla. Al punto che, perfino dopo la smentita ufficiale (già il 24 maggio sui giornali inglesi), c’è chi insiste: «Ci sono quotidiani che riportano la falsa notizia ancora il 13 giugno, come l’italiano (e ultracattolico) “La frusta”, altri che mettono in discussione le smentite»…Un classico, il rifiuto delle smentite. Che si ripeterà ad esempio coi Protocolli dei Savi di Sion. Sono passati 97 anni dall’inchiesta del «Times» del 1921 che dimostrò come il fantomatico piano segreto ordito dagli ebrei nel cimitero di Praga per impossessarsi di tutte le ricchezze del mondo fosse un documento falso frutto di diverse scopiazzature e «prodotto» nel 1903 del Novecento dall’Okhrana, la polizia segreta zarista. Eppure ancora oggi, ricordava Umberto Eco, «il parere dominante è sempre quello dell’antisemita britannica Nesta Webster: “Sarà un falso, ma è un libro che dice esattamente ciò che gli ebrei pensano, quindi è vero”». I risultati sono noti: i lager, le camere a gas, la Shoah…E Orson Welles? La cronaca in diretta dello sbarco dei marziani sul suolo americano trasmessa il 30 ottobre 1938 dalla rete radiofonica Cbs resterà memorabile. Sembrò così «vera» che non solo il giorno dopo era su tutte le prime pagine, ma che un’ascoltatrice fece causa al geniale conduttore per aver fatto avere uno choc.
Più spiritosa era stata due anni prima la reazione di Stalin all’Associated Press che chiedeva conferme alla notizia che fosse morto: «Egregio signore, per quel che mi risulta dalle notizie della stampa estera, io ho già da tempo lasciato questa valle di lacrime (…). Poiché alle notizie della stampa estera non si può non accordare fiducia, a meno che non si voglia venir cancellati dal novero delle persone civili, La prego di credere a queste notizie e di non violare la mia pace nel silenzio dell’aldilà. Con stima I. Stalin».
"Da Moro al terrorismo Quante fake news negli intrighi politici". L'ex ministro dell'Interno Scotti: "Spesso la disinformatia è gestita da uomini di Stato", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 29/11/2017, su "Il Giornale". Le fake news come strumento di lotta politica. «Ci sono sempre state - attacca Enzo Scotti - anzi noto una certa analogia fra quello che capita oggi e quanto successe ai tempi del sequestro Moro. Certo quello fu un passaggio drammatico senza paragoni, ma allora come oggi c'era chi voleva intorbidare le acque. È la disinformatia, tecnica collaudatissima. E antichissima». Scotti sorride: a 84 anni l'ex ministro dell'Interno e sindaco di Napoli è presidente della Link Campus University. Ma quel che avviene nell'arena del potere è sempre il suo pane quotidiano. Come nel 1978. «Ero da pochi giorni ministro del Lavoro nel governo Andreotti. Qualcuno mise in giro la storia che Moro era tenuto prigioniero a Gradoli. La notizia era falsa ma era anche vera perché in realtà le Brigate rosse avevano un covo importantissimo in via Gradoli a Roma. In ogni caso quella voce era verosimile, credibile per un'opinione pubblica ipnotizzata e frastornata, incapace in quella fase di avanzare obiezioni critiche». Quel che colpisce è che quel nome, Gradoli, spuntò ufficialmente al termine di una seduta spiritica cui prese parte, nientemeno, Romano Prodi. «Sembra impossibile, ma quella spiegazione fu presa per buona nel clima di esasperazione e disperazione che attanagliava il Paese. Non solo - aggiunge Scotti che fu titolare del Viminale nei primi mesi cruciali del '92 - quella trama fini con il sovrapporsi ad un'altra macchinazione, quella che portò al falso comunicato numero 7 delle Brigate rosse e alla convinzione che il corpo di Moro fosse nel lago della Duchessa». Alla fine, le due storie si risolsero lo stesso giorno, il 18 aprile. Dopo ricerche estenuanti ed errori di ogni genere, le forze di polizia entrarono nel covo di via Gradoli negli stessi momenti in cui i sub si immergevano inutilmente sotto la superficie ghiacciata del lago. Difficile raccapezzarsi. «Io ero ministro del Lavoro, osservavo con sgomento quel che succedeva, era difficile tenere la rotta e non perdere i punti di riferimento in quel continuo alternarsi di indiscrezioni. Nebbia, nebbia, ancora nebbia: soggetti diversi conducevano quel gioco che poteva avere contemporaneamente più obiettivi». D'accordo, chi poteva avere interesse a confondere le carte, ma anche a far arrivare singoli messaggi a diversi destinatari? Scotti si fa prudente: «Non si può parlare di disinformatia di Stato, ma si può sostenere che in quel vespaio abbiano messo le mani uomini dello Stato». Distinzioni sottili. Ragionamenti complessi su crinali scivolosissimi. «Si può pensare - riprende il navigatissimo leader, fra i big della Dc - che il piattino di Prodi sia servito per nascondere una fonte ben accreditata ai confini della galassia terroristica, ma si può anche ipotizzare che qualcuno abbia manovrato per non far arrivare subito la mano delle istituzioni al cuore delle Br. Ancora si può sostenere che il depistaggio della Duchessa sia servito prima per testare le reazioni della gente all'eventuale morte di Moro, poi per rilanciare un filo di speranza nel Paese». Mistero. Fumo. Visioni. Sempre in bilico, come in molte storie italiane, fra banalità e dietrologia. «L'operazione Gradoli e quella della Duchessa - sostiene un brigatista di rango come Alberto Franceschini - vanno tenute insieme. E sono un messaggio ai terroristi: vi abbiamo in pugno». Chissà. Scotti non si pronuncia: «Ormai quella è storia. Le diverse interpretazioni coesistono. Noto - è la conclusione non proprio ottimistica - che anche oggi i pozzi sono avvelenati e nessuna legge può purificare le fonti inquinate. Ci vorrebbe la buona politica». Ma a 84 anni è arduo coltivare illusioni.
Le Fake News e la Pravda, scrive il 27 novembre 2017 "Il Giornale". La Repubblica di oggi annuncia trionfante la prossima nuova legge sulla Fake News. Non ci sarebbe che da felicitarsi per la realizzazione di una norma riguardante il selvaggio web, luogo in cui dilaga la diffamazione e la violenza verbale grazie all’anonimato e all’immunità garantita. Però, a questa giusta opera di legiferare sull’odio via etere, si affianca un’opera di contrasto alle notizie false, le cosiddette Fake News, le cui finalità restano dubbie. Anzi pare siano proprio queste ultime il punto cruciale della questione. I media spiegano che l’esigenza di avere una regolamentazione di internet nasce proprio dalla necessità di porre un freno a tali Fake news. Un’esigenza, spiegano tanti analisti, nata dopo la vittoria della Brexit, di Trump e in parte dalla vittoria del No al referendum italiano sulla riforma costituzionale. Quindi la legge ha una valenza politica molto stretta. Insomma, l’odio dilagante sul web non aveva mosso i fautori della “legislazione eterea”, mentre si muovono in conseguenza a inattesi rovesci politici. Detto questo, imputare alle Fake News tali rovesci appare alquanto offensivo per l’intelligenza dei cittadini, che hanno attinto dal web Fake dell’una e dell’altra parte. Ma più offensivo ancora per l’intelligenza dei cittadini è il quadro che va delineandosi, dove non si capisce chi garantisca che una notizia sia una Fake o meno. Un esempio su tutti: i media che oggi tuonano contro le Fake sono gli stessi che hanno propalato la balla dell’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Una balla che ha causato milioni di morti ammazzati. Nessun direttore di giornale si è dimesso dopo che è stata scoperta l’infondatezza dell’accusa. E nessun giornalista. Nessuno ha chiesto scusa o si è mortificato per le nefandezze di allora. Anzi tanti di loro oggi pontificano, dai loro scranni più o meno nuovi, sulla necessità di arginare le Fake news.
Altra considerazione: se allora qualcuno avesse messo in dubbio la notizia delle armi di distruzione di massa (come ho fatto io nel mio piccolo), sarebbe stato bollato come produttore di Fake News. E come tale censurato e sanzionato. Una cosa che può ripetersi, oggi come allora. Oggi che l’informazione vive di Fake News, di narrazioni più o meno congeniali a gruppi di potere, essere voce discorde è a rischio. Si pensi alla narrazione sulla Siria. Tutti i media mainstream hanno cantato la ballata della primavera araba. La “guerra civile” siriana nasce come repressione della rivolta dei cittadini siriani da parte del regime dittatoriale di Assad, che ha massacrato il suo popolo. Da qui la ballata, dove eroi della libertà hanno combattuto, con l’aiuto dell’Occidente, contro un regime sanguinario. Una ballata distonica con quanto abbiamo riportato sul nostro sito, riprendendo anche le osservazioni di tutti i patriarchi e vescovi siriani. Testimoni oculari del massacro quotidiano, essi hanno invece parlato di una “guerra incivile”, stante che i siriani armati contro Damasco erano davvero pochi rispetto alla legione straniera arruolata in tutto il mondo da sauditi e Occidente per essere scatenata in Siria. Una guerra nata per guadagnare ai nemici regionali e internazionali di Assad il regime-change, come fu per Saddam. Testimoni che hanno anche spiegato che c’è una indistinzione di fondo tra la cosiddetta opposizione moderata e le bande armate dichiaratamente terroriste. La voce dei patriarchi e vescovi siriani sarebbe stata quindi classificata tra le Fake News. E se non la loro, sicuramente altre meno autorevoli che, attingendo a fonti diverse da quelle mainstream, hanno spiegato la “guerra incivile” siriana in altro modo rispetto alla ballata dominante. Da notare anche l’altra trovata: chi sarà a decidere in maniera insindacabile chi ha prodotto Fake? Le aziende Facebook e Twitter che dovranno rimuovere tali notizie, pena sanzioni salatissime: da mezzo a cinque milioni di euro.
Insomma, lo Stato demanda a un privato il giudizio e la sanzione, proprie della sua potestà. Un privato deciderà quindi le sorti dell’informazione, pilastro fondante della democrazia. Si tratta di un mostro giuridico. In base a tale riforma, di quel che scriveremo sul nostro sito non dovremo rispondere ai lettori o, eventualmente, ai magistrati, ma a un privato. Che ha i suoi interessi privati. Per inciso, e per assurdo, da alcuni mesi circola la notizia che alle prossime elezioni presidenziali si presenterà mister Facebook, ovvero Mark Elliot Zuckerberg. Nel caso avvenisse, sarebbe lui (per interposta persona, stante che si dimetterebbe dalla carica) a vigilare su come verrà descritta la corsa alla Casa Bianca, competizione dove in genere abbondano le Fake incrociate…Un esempio di libera informazione notevole. Detto questo, al di là dell’allucinante e ancora aleatorio scenario Zuckerberg, è assurdo immaginare la privatizzazione del monitoraggio informativo e l’instaurazione di una pubblica censura. Un servizio peraltro che sarà attivato per delazione. Infatti a indicare le possibili Fake saranno (anche) gli utenti di Facebook e Twitter. Alimentare la delazione è proprio dei meccanismi totalitari, come da spiegazione di diversi storici.
Detto questo, il giudizio insindacabile resterà a un team di esperti di Facebook o Twitter. Esperti di cosa? Il fatto poi che tali esperti, nel caso fallissero, provocherebbero danni patrimoniali all’azienda, sarà un ulteriore incentivo a usare la mannaia. Perché infatti rischiare? Insomma, chi scrive è più che perplesso sulla bontà della legge e sulla sua applicazione. Ma il mondo va in questa direzione. Va cioè verso la sovietizzazione dell’informazione. Non è un’accusa o un allarme, semplicemente una banale constatazione. Se esiste un’informazione consegnata alle Fake esiste, necessariamente e di converso, un’informazione che produce Verità. Come l’organo ufficiale dell’Unione sovietica, che si chiamava appunto Pravda, ovvero Verità. Questo il bollino che avrà tutta la stampa mainstream, che appunto è, e sarà, depositaria della Verità. Altri organi di informazioni, quelli che sono nati e vivono nel web, non solo per esigenze di modernità, ma anche perché non hanno i soldi per produrre giornali cartacei o per creare una redazione, saranno monitorati. E, nel caso non rispettassero i criteri dettati dalla Pravda, censurati.
Gli apparati di regime e l'argomento "bufale": "Non sottovalutiamo la portata di questo attacco", scrive Mauro Gemma, Direttore di Marx 21, su “L’Antidiplomatico" il 02/01/2017. E' in atto la campagna per la creazione del "Ministero della verità" di orwelliana memoria. E in prima fila, come al solito, sono impegnati gli apparati di regime. Basta osservare l'accanimento (sull'argomento "bufale") che caratterizza i commenti di gerarchi e gerarchetti del PD in molti dei loro profili facebook. I veri propagatori di menzogne e bufale macroscopiche, funzionali a tutte le operazioni di destabilizzazione, guerra e aggressione, stanno cercando di imporre le loro regole a colpi di autentico fascismo mediatico, con l'introduzione di strumenti di controllo nei confronti di chi non si sottomette alla versione "ufficiale" di fatti e misfatti, che non deve più essere messa in discussione. E intendono agire anche attraverso l'utilizzo di misure censorie e repressive. I gerarchi dell'establishment, in Italia e in Europa, cercheranno di riparare in questo modo ai rovesci subiti dalla volontà popolare. Non sottovalutiamo la portata di questo attacco. Prepariamoci, nel 2017, a fronteggiare una micidiale offensiva contro la libertà di opinione sferrata nel tentativo di imporre come "verità rivelata", anche in nome della lotta alle cosiddette "bufale", le versioni menzognere che quotidianamente ci vengono propinate dal mainstream dominante.
Il Regime: “LE BUFALE SONO MIE”. Giù le mani dalla Rete! Scrive Giorgio Cremaschi su Micro Mega -L’Espresso il 3 gennaio 2017. La campagna contro le cosiddette bufale della Rete è la reazione in malafede di tutti i poteri politici, economici, militari, dell’informazione, che temono di perdere il loro “monopolio della Verità”. Certo sulla rete viaggia di tutto, anche invenzioni e fesserie, ma nessuna di queste “bufale” ha mai superato il controllo e la contestazione della rete stessa. Perché nella rete ci sono milioni di persone in carne ed ossa che contribuiscono alla sua funzione critica, a volte pagando di persona proprio per questo. Al contrario le falsità del palazzo sono sempre state sostenute ed amplificate dal sistema dei mass media e dagli intellettuali complici, con danni drammatici per tutti noi. Ricordate il Segretario di Stato di Bush, Colin Powell, mostrare all’ ONU la fiala che avrebbe dovuto contenere le prove delle armi chimiche di Saddam Hussein? Era un falso voluto dal governo USA per giustificare l’invasione dell’Iraq. Tutti i governi occidentali, tutti i mass media, tutti i commentatori dei grandi giornali, fecero propria questa colossale menzogna e gli USA scatenarono quella guerra che ancora oggi fa strage ovunque, da ultimo nelle discoteche di Istanbul. Per anni il regime della grande finanza internazionale ha potuto presentare i suoi più sfacciati interessi e affari come una necessità comune. E questo grazie alla stessa Propaganda, che esaltava la guerra come strumento di esportazione della democrazia. Mentre l’Unione Europea distruggeva ovunque lo stato sociale e sottoponeva la Grecia ad una dittatura coloniale, tutto il regime mediatico vantava la bellezza dell’europeismo. Le élites politico economiche hanno potuto nascondere il loro dominio sulle nostre vite presentando il loro potere come la più nuova e moderna delle democrazie. Per anni il dominio della bugia a reti unificate ha determinato i passaggi fondamentali delle nostre società, fino a che ad un certo punto la macchina del consenso si è inceppata. La crisi è nata dal divario enorme e crescente tra la propaganda ufficiale ed i risultati reali. La guerra che doveva liberarci dal terrorismo lo ha importato nelle nostre città, la crisi economica sempre più pesante e discriminatoria nei suoi effetti, ha mostrato la vacuità degli inni alla ripresa. La rete non ha prodotto nulla di proprio, ma ha registrato e diffuso la crescente insoddisfazione di massa e reso sempre più insopportabili e ridicole le bugie di regime. Il sistema di propaganda ufficiale è diventato meno credibile, e dal referendum greco a quello sulla Brexit, dall’ elezione di Trump alla vittoria del NO in Italia, ha potuto solo registrare pesanti sconfitte. I pronunciamenti popolari sono stati diversi, opposti anche, ma in comune hanno avuto il rifiuto e persino il dileggio delle bufale della propaganda dei governi e del mondo degli affari. È questa sconfitta che ha indotto i poteri forti, i signori della propaganda e i loro servi sciocchi a lanciare la campagna per il controllo della rete. Da noi il massimo della sfacciataggine lo ha toccato la presidente della Camera in piena campagna referendaria. Mentre tutte le TV e il 98% dei giornali sostenevano fanaticamente il SI, Boldrini ha convocato un convegno per denunciare i rischi per la democrazia provenienti dalla rete. Poi, dopo il presidente dell’antitrust che avrebbe ben altro da fare, anche il presidente Mattarella ha auspicato un controllo sulla comunicazione in internet. Vorrebbero che la rete funzionasse come la Rai, Mediaset, Sky, o come quasi tutti i quotidiani, vorrebbero che la rete fosse cosa loro. Tutti questi censori, da quelli di casa nostra a Obama al Parlamento Europeo, non vogliono capire che la loro verità è andata in crisi non per colpa della rete, ma perché troppo lontana dalla realtà. Cercando di imbrigliare nei loro giochi la rete, essi dimostrano soltanto di non aver capito nulla della crisi attuale e di voler continuare con le politiche disastrose sin qui seguite, cercando solo di silenziare il dissenso. Le élites hanno trasferito nella comunicazione la loro campagna contro il populismo. Per loro è populista tutto ciò che non accetta il loro potere ed è contrario ad una corretta informazione tutto ciò che smentisce le loro verità. La rete non è il paradiso della libertà, anzi anche lì bisogna lottare perché le verità nascoste emergano, ma il regime della bugia che ci ha finora governato non tollera neppure parziali spiragli di luce e vuole controllare tutto. Per questo bisogna dire a questi imbroglioni: giù le mani dalla rete!
I TELEGIORNALI DI PULCINELLA. La manipolazione dell'opinione pubblica nei Tg italiani, scrive Antonella Randazzo su disinformazione.it il 19 febbraio 2007. Autrice del libro: "DITTATURE: LA STORIA OCCULTA". I giornalisti dei nostri telegiornali sono diventati presentatori e pubblicitari. Altre competenze, ben diverse dall'informazione obiettiva e "sul campo". I servizi giornalistici sembrano creati ad arte per mostrare alcune cose e nasconderne altre. In un paese in cui sempre meno persone leggono i giornali, l'informazione televisiva rappresenta per la maggior parte della popolazione l'unica fonte d'informazione. Molte di queste persone credono che i telegiornali li informino su ciò che accade nel mondo, e si troverebbero increduli di fronte al solo pensiero che i Tg possano essere utilizzati per manipolare le loro opinioni. Eppure ciò appare sempre più evidente, dall'omissione di elementi indispensabili per capire i fatti, dall'alterazione di alcune notizie e dall'assenza di altre.
L'opinione pubblica è fondamentale per la stabilità di un sistema, e nel nostro sistema viene formata attraverso il bombardamento mediatico. Per mantenere la stabilità, nell'attuale assetto politico-economico, occorre che l'opinione pubblica sia piegata a ciò che è funzionale al sistema e non apprenda alcune verità. Ciò rende il potere mediatico notevolmente importante. Il controllo da parte del potere avviene oggi all'interno delle nostre case, attraverso la Tv. La manipolazione dell'informazione è sempre più sistematica, progettata per essere efficace e per rimanere nascosta agli occhi dei cittadini. Le agenzie internazionali (americane, europee o giapponesi) che forniscono le informazioni, sono supportate da agenzie di propaganda, soprattutto americane, che pianificano non soltanto cosa rendere noto ma soprattutto "come" dare informazione. La quantità di notizie viene sfoltita e ridotta al 5/10% del totale.
La verifica delle fonti e l'utilizzo del senso critico sono ormai capacità atrofizzate dall'assumere passivamente il punto di vista delle poche agenzie che informano centinaia di paesi, come la Adnkronos e l'Ansa. Considerando come assolute alcune fonti e ignorandone altre, l'informazione è già alterata in origine, derivando da un unico punto di vista, che nel contesto appare oggettivo. Di tanto in tanto, nei nostri Tg, appare qualche debole critica, ad esempio contro il governo statunitense. Si tratta delle cosiddette “fessure controllate”, cioè critiche fatte ad oc per generare fiducia nel Tg, ma che risultano vaghe e discordanti. Alcune notizie assumono nei Tg un certo rilievo, soprattutto quelle che evocano emozioni. Suscitare associazioni emotive e commozione è diventato uno degli scopi principali dei Tg. I fatti di cronaca, specie se si tratta di delitti contro bambini, si prestano a questo scopo, e quindi talvolta occupano uno spazio ampio dei telegiornali. Si tratta di un modo per distrarre l’attenzione pubblica da altri fatti assai più importanti per la vita dei cittadini. In altre parole, vengono amplificate notizie (di solito di cronaca o relative ad uno specifico problema) che non mettono in pericolo il sistema, per evitare di trattare altri argomenti "scottanti" e pericolosi per l'assetto che i politici hanno il compito di proteggere. Ad esempio, siamo stati indotti a parlare a lungo dei Pacs (una legge che sarebbe stato ovvio approvare senza tanti problemi), mentre si occultavano, tra le altre cose, le spese ingenti per la "difesa". Nessun telegiornale ha detto che parte del Tfr dei lavoratori andrà per spese belliche.
In questi ultimi tempi, un altro argomento, che viene utilizzato dai Tg per dirottare l'attenzione su fatti non pericolosi per il sistema, è quello dei malati gravi che chiedono l'eutanasia. Invece di approvare una legge che ponga fine al problema, il nostro sistema utilizza questi casi disperati (ieri quello di Welby, oggi quello di Nuvoli), per riempire spazi e suscitare angoscia e commozione. Si stimola la parte emotiva dei telespettatori, per coinvolgere in una questione umana drammatica, senza far capire che il potere di risolvere il problema è nelle mani proprio di chi sta strumentalizzando cinicamente il fatto.
Spesso alcune notizie sono oggetto di "sovrinformazione", cioè se ne parla in molti programmi e abbondantemente. Ciò avviene o per focalizzare l'attenzione soltanto su alcuni aspetti e fare in modo che i cittadini si sentano abbastanza informati e non vadano ad informarsi altrove (come nel caso della finanziaria o del Tfr), oppure per dare l'impressione che ci sia un'abbondante informazione. Ma si tratta di informazioni ripetitive, che non spiegano davvero la questione e talvolta la manipolano. Paradossalmente, il cittadino viene sommerso di "informazione" per fare in modo che rimanga disinformato. La sovrinformazionze può riguardare anche temi banali, come la separazione di una coppia nota, o l'uso di droga da parte di un personaggio famoso. In questi casi si tratta di distogliere l'attenzione da decisioni o eventi politici che stanno accadendo nel paese, e di cui occorrerebbe parlare, ma non risulta conveniente al sistema. Si sta affermando sempre più il metodo americano di creare trasmissioni giornalistiche o televisive organizzate da agenzie di Pubbliche Relazioni, per manipolare l'opinione pubblica su un determinato argomento. L'argomento di solito è emerso all'attenzione pubblica senza che il sistema potesse impedirlo (ad esempio, la Tv spazzatura o la violenza giovanile). A queste trasmissioni partecipano personaggi accuratamente selezionati, che in apparenza sembrano avere opinioni diverse, ma in realtà esprimono tutti un unico punto di vista, che si vuole far apparire come unica verità. Talvolta è l'assunto di base della conversazione ad essere errato, ma viene acquisito come vero da tutti i partecipanti. Spesso si utilizza la figura dell'"esperto" che è abbastanza persuasiva, rappresentando il mondo della "scienza", che si intende come fonte di verità oggettiva.
L'informazione dei Tg viene falsata in maniera sempre più sottile e manipolatoria. Quando vengono sollevate smentite, soltanto in pochi casi viene reso pubblico. Lo spazio e l'ordine dato ad un'informazione sono molto importanti per valorizzare la notizia o sminuirla. Alcune notizie passano inosservate perché vengono dette per ultime e frettolosamente, mentre ad altre si dedica molto tempo all'inizio del Tg. Si stabilisce quindi una gerarchia in ordine all'importanza e al rilievo che si vuole dare alla notizia. Si privilegiano alcune notizie, altre vengono emarginate e altre ancora occultate. L'informazione obiettiva è quella contestualizzata, verificata alla fonte e commentata da opinionisti di diverse tendenze. Sentire le opinioni dei politici di entrambi gli schieramenti serve a dare l'idea che si stanno sentendo più punti di vista, ma ciò spesso non è vero, perché la maggior parte dei politici non attua una vera critica al sistema, e si limita a spiegare le divergenze rispetto all'altro schieramento. Il sistema politico-economico attuale è sempre più intoccabile, e coloro che lo criticano appaiono sempre meno in televisione. Nei Tg, le notizie vengono date come fatti isolati dal contesto, per impedire una comprensione approfondita. Si tende ad esagerarne un aspetto, che è sempre quello più emotivo. Lo stesso titolo talvolta è già gran parte della mistificazione, perché da esso si inferisce se si tratta di una cosa giusta o sbagliata, da approvare o da disapprovare. Ad esempio, quando si danno notizie sull'Iran si tende a far apparire questo paese colpevole di qualcosa, e i titoli sono "L'Iran sfida la comunità internazionale", oppure "L'Iran si ostina sul programma nucleare". I paesi indicati dalle autorità Usa come nemici diventano automaticamente nemici anche per le nostre autorità, che li criminalizzano in modo impietoso, evitando di menzionare le continue minacce e la preparazione alla guerra contro l'Iran da parte degli Stati Uniti. Si manipola l'opinione pubblica italiana a pensarla come le autorità americane, e a ritenere che alcuni paesi debbano essere colpiti perché "pericolosi". Non si danno notizie sui numerosi crimini e attentati terroristici attuati dalle autorità Usa nel mondo, se non quando ciò risulta inevitabile. I nostri telegiornali si limitano a parlare di "attentati terroristici" in Iraq, Afghanistan o in altri paesi, senza raccontare la situazione vera. Ad esempio, non parlano mai della resistenza irachena e afghana, anche se ormai molti sanno che questi paesi sono occupati e che la popolazione cerca in tutti i modi di resistere (anche con metodi pacifici) all'invasore. Difficilmente le notizie su paesi in guerra vengono spiegate in maniera approfondita, fornendo gli antecedenti politici, economici, internazionali, ecc. che possano far capire i fatti e le situazioni attuali. La decontestualizzazione è quindi uno dei modi per disinformare dando l'impressione opposta. Il fatto viene slegato da altri fatti che lo renderebbero più comprensibile. Ad esempio la violenza negli stadi viene slegata dal fenomeno della violenza nei giovani e dalle pressioni mediatiche che incitano alla violenza. Il tono e il tipo di linguaggio utilizzato influiscono su come l'informazione viene percepita. Il tono può essere dispregiativo, di condanna, oppure enfatico ed entusiasta. Il tono dà un significato positivo o negativo alla notizia. La scelta delle parole è molto importante nel lavoro propagandistico, perché ogni parola è evocativa di significati o di emozioni e quindi deve essere scelta accuratamente per ottenere gli effetti voluti. Ad esempio, per trasmettere un senso di negatività, i gruppi considerati pericolosi per il sistema, come gli ambientalisti, i no-global o i comunisti, vengono definiti come "radicali", "fanatici" o "estremisti". La polizia viene chiamata "forza dell'ordine" anche quando reprime. Coloro che sono repressi vengono chiamati "ribelli" o "giovani estremisti". La violenza di Stato, anche quando uccide brutalmente, viene definita "sicurezza" o "difesa". I violenti sono sempre coloro che protestano contro il sistema e mai le autorità dello Stato, anche quando comandano una dura repressione, com'è accaduto al G8 di Genova.
Anche le immagini utilizzate hanno scopo manipolativo. Le immagini servono a dare un'impronta negativa o positiva a luoghi, situazioni o concetti. Ad esempio, quando si parla di cultura araba si mostrano le donne con il burqa oppure immagini di fanatismo e violenza, per indurre un'associazione negativa. Un altro mezzo efficace per manipolare l'informazione è l'uso di cifre. Le analisi statistiche sono relative al campione scelto e al modello utilizzato. Le statistiche possono essere utilizzate come un dato inoppugnabile e incontestabile. Ma basta selezionare un determinato campione che possa alterare i risultati, per dare l'informazione che si vuole. Le notizie sono spiegate dallo stesso punto di vista in tutti i telegiornali. I poteri al vertice del sistema, cioè le banche e le corporation, appaiono sempre più raramente, e soltanto nei casi in cui si annuncia una fusione, l'acquisto di un'azienda o la nomina di un direttore amministrativo. Quando una corporation viene denunciata per gravi reati come l'uccisione di sindacalisti, la schiavizzazione dei bambini o altri crimini contro i diritti umani, non viene quasi mai notificato dai nostri telegiornali.
Fino all'inizio degli anni Ottanta esisteva l'inchiesta televisiva obiettiva, che mostrava la società nella sua verità e complessità. Oggi, invece, la mistificazione mediatica riguarda anche la società stessa. Non appaiono quasi più i lavoratori mentre stanno faticando. Lo spazio dedicato alle proteste sindacali è ridotto al minimo. Alcune manifestazioni di protesta non vengono documentate. Si manipola persino l'immagine della società civile, che deve apparire accondiscendente anche quando non lo è. Non si va mai alla radice delle questioni lavorative o sindacali e non si fa comprendere abbastanza per poter giungere alla soluzione (che richiederebbe cambiamenti al sistema) del problema. Le notizie sul dissenso alla politica di governo sono pregne di accenti nefasti. Spesso vengono utilizzate categorie stereotipate o etichette per puntare il dito contro chi mette in dubbio l'operato politico del governo. I telegiornali fanno in modo che gli oppositori appaiano come poche persone che non vogliono la "modernizzazione", il "progresso" oppure come persone emarginate, fanatiche e "antiamericane". Ciò è accaduto nel caso della Tav in Val di Susa e della Base americana a Vicenza. Nei telegiornali si mostravano singole persone intervistate che esprimevano pareri contrapposti, per far capire che c'erano pareri discordanti e occultare che la stragrande maggioranza dei cittadini era contraria alle decisioni di governo. Si vuole nascondere che il potere dei cittadini è continuamente svilito dal sistema. E che quest'ultimo è distante da ciò che la gente vuole. Le questioni che stanno a cuore alla cittadinanza, come l'ambiente, la pace e la libertà di decidere sul proprio territorio, vengono denigrate dall'informazione tendenziosa e manipolatoria dei Tg. Ad esempio, i cittadini della Val di Susa che protestavano venivano mostrati come un gruppo sparuto di persone che avevano paura di avere il "treno che gli passa sotto casa". La verità che si cercava di occultare era che sotto al Musinè c'è l'amianto. Inoltre, nella Val di Susa esiste già una linea ferroviaria Torino-Lione, attualmente sottoutilizzata, in grado di poter reggere il traffico.
Un'altra tecnica, utilizzata dai Tg, per deviare l'attenzione sulla questione del dissenso e per semplificare i fatti (per non far emergere altri aspetti), è di connotare ideologicamente il problema con "destra" e "sinistra". Quando i cittadini si oppongono ad una questione lo fanno per motivi razionali, ma il telegiornale tende a far credere che siano motivi ideologici, oppure irrazionali e non accettabili. Nelle questioni in cui gli Usa impongono un severo diktat, come nel caso delle truppe in Afghanistan e della base militare a Vicenza, i giornalisti assumono un tono allarmato verso il dissenso. In particolare, nel caso di Vicenza, mettevano in evidenza che anche all'interno della maggioranza c'erano coloro che avversavano la scelta del governo. Il sistema dei due schieramenti è stato creato per impedire un vero esercizio di sovranità. I giornalisti reggono questo gioco e si mostrano stupiti che lo schieramento al potere possa avere persone che ragionano con la propria testa e non eseguono passivamente "l'ordine". I Tg colpevolizzano queste persone facendole sentire responsabili di "indebolire il governo" o di metterne in pericolo la stabilità. Ciò nasconde che i nostri politici non prendono scelte sulla base del benessere dei cittadini, ma per tutelare e rafforzare il sistema stesso. I nostri giornalisti hanno dimenticato che l'essenza della democrazia è proprio il pluralismo. Si sono allineati al sistema in cui tutti gli schieramenti politici sono obbligati ad obbedire ai veri padroni del paese: l'élite economico-finanziaria.
In questi giorni i Tg gridavano "allarme" per la manifestazione di protesta organizzata per il 17 febbraio contro la nuova base militare di Vicenza. Ma in quale democrazia i giornalisti mettono in allarme i cittadini per una manifestazione che esprime la volontà di quasi tutta la cittadinanza? Il 16 febbraio, annunciando la manifestazione di protesta del giorno successivo, i telegiornali dicevano "si temono violenze", come se chi protesta contro il militarismo è violento. Siamo al paradosso di definire violento chi è contro la guerra e il militarismo, e non chi vuole nuove basi per meglio fare la guerra. Un modo manipolatorio di dare notizie relative a proteste o a sgomberi violenti è quello di mettere vicina una notizia di criminalità, in modo da indurre l'associazione fra "delinquente" e chi protesta contro il sistema. Il 17 febbraio i telegiornali annunciavano: "Manifestazione di Vicenza... Imponenti misure di sicurezza". Trasmettevano anche un appello di Prodi: "Le manifestazioni sono il sale della democrazia ma siate pacifici". Il tono era quello del buon padre di famiglia, e non traspariva affatto che la realtà era esattamente l'opposto. Cioè coloro che stavano manifestando erano contro la violenza e il bellicismo americano, mentre Prodi era il politico che, lungi dall'avere a cuore il bene dei cittadini, stava sostenendo gli interessi bellici americani contro la volontà della maggior parte dei cittadini di Vicenza. Quindi, si trattava di scelte politiche non democratiche prese dal governo, ma i Tg facevano in modo da creare allarme attorno a coloro che stavano pacificamente, e giustamente, protestando. Qualche telegiornale osava un "Si temono infiltrazioni", ma non spiegava che soltanto il sistema difeso dai politici ha interesse ad infiltrare falsi manifestanti che creino disordine e violenza (com'è accaduto nel G8 di Genova), per poterli far apparire violenti ed estremisti, come cercavano di descriverli i Tg attraverso messaggi allarmanti. Il Tg3 precisava che le forze dell'ordine erano "a difesa del centro storico della città", come se i manifestanti fossero pericolosi e distruttivi. Poi aggiungeva: "c'è anche chi è preoccupato" e si intervistava una persona anziana che appariva confusa per le tante persone arrivate in città. Il porre l'accento sul "pericolo di violenze" serviva anche a distogliere l'attenzione dal valore che la protesta avrebbe avuto sulle scelte del governo, e a nascondere che la volontà dei cittadini non conta nulla di fronte alle imposizioni americane. Non essendoci state violenze, il giornalista del Tg2 ha messo in evidenza uno striscione che definiva di "solidarietà con i terroristi arrestati". Un altro modo per dirottare l'attenzione e per criminalizzare il dissenso. Impegnati com'erano a colpevolizzare chi protestava contro la nuova base americana, i giornalisti dei Tg hanno omesso la notizia che la nuova base sarà pagata da noi per il 41% delle spese di mantenimento (anche per le altre basi paghiamo parte delle spese). Chi è contrario alla guerra è diventato un "estremista radicale". Chi denuncia i crimini come la tortura è un "antiamericano". Viene messo sotto processo chi avversa le guerre, e non chi le organizza. Nello stesso telegiornale (Tg2, ma anche gli altri erano pressoché uguali) del 17 febbraio appariva Prodi in posa accanto al presidente afghano Hamid Karzai, come se quest'ultimo fosse un vero rappresentante politico del popolo afghano e non un personaggio foraggiato da Washington. Quando i telegiornali notificano gli attentati terroristici in Iraq, in Afghanistan, in Pakistan, in Turchia o in altri paesi, danno soltanto la stima dei morti e il luogo dov'è avvenuto lo scoppio, e non spiegano la situazione del paese. Talvolta menzionano al Qaeda associandola all'attentato, senza indicare le prove a sostegno di ciò.
Le notizie dall'Africa, dall'Asia o dal Sud America arrivano soltanto se c'è un problema che riguarda i nostri connazionali (rapimenti, uccisioni ecc.), oppure quando ci sono le elezioni politiche, che ormai nel nostro sistema sono diventate il simbolo stesso della "democrazia". Come a dire che se non documentassimo le elezioni (che si svolgono ovunque, persino in Iraq e in Afghanistan), non troveremmo altro modo per provare che la "democrazia" esista. Quelle poche volte che i telegiornali parlano delle guerre in Africa, lo fanno in modo confuso e impreciso, parlando di "conflitti etnici", e senza precisare chi organizza i gruppi in lotta e chi li arma. Non viene detto che nella maggior parte dei casi si tratta dei governi e dei servizi segreti europei e americani, che organizzano le guerre per controllare il territorio e saccheggiarne le risorse. Le grandi metropoli e periferie del sud Italia appaiono nei Tg nel loro degrado ambientale, appare anche la microcriminalità e la disperazione dei giovani disoccupati. Tutto questo è descritto in modo fatalistico, come se i governi si trovassero impotenti di fronte a questi problemi. Quando a Napoli c'era il problema dei rifiuti, i telegiornali mostravano la città sommersa dalla sporcizia e dall'immondizia, ma non dicevano che questo stava accadendo perché il servizio era stato privatizzato e si impediva ai vecchi impiegati di operare, negando loro i mezzi idonei alla raccolta dei rifiuti. Per avvantaggiare i privati si stava organizzando il servizio diversamente. I cittadini apparivano "colpevoli" di qualcosa, ma in realtà ricevevano le bollette da pagare senza ottenere alcun servizio. Nessun telegiornale trasmise la manifestazione degli operatori ecologici napoletani che protestavano perché non erano messi in grado di lavorare. I cartelli che essi mostravano avrebbero potuto far capire la vera situazione, mentre i telegiornali rendevano impossibile capirla alla radice. C'è una serie di argomenti "riservati", di cui i telegiornali non parlano. Ad esempio, delle stragi che l'Agip attua in Nigeria, oppure della produzione di armi (ad esempio le cluster bomb), in diverse fabbriche italiane. Armi che vengono esportate in molti paesi, compresi quelli in cui c'è guerra. I Tg non parlano mai di Signoraggio, che è il metodo utilizzato dalle banche per saccheggiare i paesi. Non si parla nemmeno degli statuti delle banche e del sistema bancario della Banca Europea, che ha sottratto all'Italia ben il 38% della finanziaria, impedendo al paese una crescita economica significativa. Sono state tagliate le spese per la scuola e la sanità ed è stata aumentata la pressione fiscale, per pagare le banche e sostenere gli Usa nelle guerre. Quando si è parlato della finanziaria, nonostante lo spazio dedicato a quest'argomento, i telegiornali hanno accuratamente evitato di notificare le ingenti risorse che le banche sottraggono al paese. La trasmissione Ballarò è stata l'unica a rivelare il fatto (ma senza metterlo in evidenza). Un altro argomento tabù è quello delle regole e dell'operato delle istituzioni come il Wto, la Banca mondiale (Bm) e Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Nessun telegiornale ha mai spiegato che a causa di queste organizzazioni, negli ultimi venti anni, la miseria e la fame sono aumentate, e che il collasso economico di molti paesi, compresa l'Argentina, è stato causato dalle misure imposte proprio dalla Bm e dal Fmi. Moltissimi altri argomenti non vengono trattati, ad esempio, la situazione di disuguaglianza degli immigrati, le gravi discriminazioni che essi subiscono, le persecuzioni di cittadini africani da parte dei governi fantoccio al soldo degli Usa, i massacri in Somalia, in Etiopia, in Nigeria, ad Haiti e in molti altri luoghi. Un altro argomento tabù è il denaro che lo Stato dà alle grandi aziende, somme spesso molto elevate.
Il telegiornale parla di droga soltanto quando comunica la notizia che le forze dell'ordine sono riuscite a sequestrare quantitativi di stupefacenti. Ma non parla mai delle implicazioni e connivenze delle corporation e dei governi nei commerci internazionali di droga. Si parla di mafia quando si arresta qualche presunto mafioso o quando avvengono delitti, ma non si spiega cos'è davvero la mafia, e come essa sia in espansione grazie alle liberalizzazioni finanziarie, che hanno spianato la strada al riciclaggio facile. I minuti di politica interna, nei Tg, si risolvono nelle brevi interviste ad esponenti di destra e sinistra, per mostrare come ci sia una questione, una disputa, e come i duellanti siano decisi e forti. Le differenti opinioni sembrano battute teatrali, in uno scenario sempre più avvilente e assurdo. Le questioni sono trattate sempre in modo marginale e superficiale, anche quando si tratta di questioni serie, come l'invio di soldati in Afghanistan. L'informazione si riduce all'opinione dei politici, la maggior parte dei quali non oserebbe sfidare il sistema nemmeno nelle questioni minime.
Alcune questioni interne non sono divulgate. Ad esempio, nel 2002, il Parlamento, quasi all'unanimità, approvò una legge che permette di abolire il tetto massimo di spesa per il "rimborso ai partiti". I cittadini italiani avevano espresso la loro volontà di non dare denaro pubblico ai partiti, attraverso il referendum del 1993, in cui oltre il 90% degli elettori votò contro. La gente crede che oggi questa volontà venga rispettata e non è stata informata quando, nel 1999 è stata approvata una legge che di fatto reintroduceva il finanziamento pubblico ai partiti chiamandolo "rimborso elettorale". Nel 2002 tutti gli schieramenti, ad eccezione dei radicali, votarono a favore di una nuova legge, la n. 156 del 26 luglio 2002, che titolava "Disposizioni in materia di Rimborsi Elettorali". La legge abbassava il quorum di accesso al rimborso dal 4% all'1% e aboliva il tetto di spesa, permettendo a quasi tutti i partiti di ricevere somme molto alte di denaro pubblico. Ad esempio, Berlusconi ha incassato, l'anno scorso, 41 milioni di euro per Forza Italia, la Margherita ne ha presi 20 milioni, l'Udc 15 milioni, i Ds 35 milioni, An 23 milioni, Rifondazione 10 milioni, ecc. Dato l'ingente costo pubblico che ci sarebbe stato, l'approvazione della legge era una questione molto importante per l'opinione pubblica, ma non è stata sottoposta all'attenzione di tutti noi. I Tg non ne hanno nemmeno fatto cenno. Le questioni spinose, come la malasanità o il costo pubblico di aziende privatizzate (come le ferrovie e le autostrade) vengono trattate come se il problema non fosse risolvibile e senza una sufficiente documentazione. Ad esempio, si parla superficialmente dei tagli alla sanità che stanno causando gravissimi problemi nella gestione delle strutture, oppure dei contratti truffaldini che importanti imprenditori (come Benetton) hanno stipulato con lo Stato. Questi contratti potrebbero essere rescissi se il governo volesse. Molti cittadini se lo aspettavano, dato che in precedenza erano stati duramente criticati dall'attuale maggioranza. La povertà o la precarietà lavorativa sono diventate nei telegiornali o nelle rubriche di approfondimento una specie di calamità naturale. I poveri ragazzi trentenni vengono intervistati per sapere quanto guadagnano e che tipo di contratto hanno nei call center, nelle fabbriche o addirittura negli uffici pubblici. Si mette in evidenza che queste persone sono spesso laureate e molto preparate, e alcune di esse svolgono funzioni essenziali nel settore pubblico. Ma non si parla delle leggi che permettono il lavoro precario. Di quando sono state approvate e da chi, e di come sono state peggiorate nel tempo.
Poi ci sono i servizi giornalistici che hanno il compito di prepararci ad accettare il peggio. Ad esempio, quelli che ci allarmano sulla "crisi energetica" (per prepararci all'aumento della bolletta), quelli che ci mostrano i giovani delle gang di Londra, o quelli che documentano gli strani fenomeni atmosferici. Anche in questi casi non si va alla radice e non si spiega come è stato creato il problema e da chi. In un servizio del 17 febbraio, il Tg3 informava sull'omicidio di un ragazzo ad opera delle gang giovanili dei sobborghi di Londra. Il giornalista diceva: "Il problema sono le condizioni sociali... le famiglie non sono in grado, a causa della povertà, di fronteggiare il problema, allora c'è l'alcol, la droga o le armi da fuoco". Nessun cenno alla situazione politico-economica, e al bombardamento mediatico che esalta sempre più la violenza. Anche l'allarme Sars rientrava nelle notizie che avevano l'obiettivo di preoccupare. Per alcuni mesi siamo stati bombardati da notizie allarmanti su presunti casi di questa malattia. Quello che non si diceva era che la Sars è nata da un esperimento avvenuto nell'aprile del 2003 a Toronto, ad opera di associazioni governative statunitensi e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, sostenuti finanziariamente dalla famiglia Rockefeller, dalla Carnegie Foundation, e da importanti produttori di farmaci. L'obiettivo era quello di ridurre la popolazione e far acquistare nuovi farmaci, come spiega il Dott. Leonard Horowitz: La SARS e l'attuale timore per l'influenza aviaria ricevono l'approvazione dei capitani delle industrie militar-medico-farmaceutico-petrolchimiche, che parimenti in molti casi documentati operano al di sopra delle leggi... consideriamo il fatto che il flusso delle informazioni date dai mezzi di comunicazione di massa è stato pesantemente influenzato, se non interamente controllato, dai garanti delle imprese multinazionali, che hanno protetto e fatto avanzare gli interessi di un gruppo relativamente ristretto di imprese globali... Avendo testimoniato di fronte al Congresso USA, ho personalmente verificato come le prime donne dell'industria farmaceutica dirigono dal punto di vista economico e politico i nostri rappresentanti al governo. Le malattie che stanno emergendo sono di complemento alla politica della "Guerra contro il Terrorismo" e alla nostra cultura influenzata dal bioterrorismo. Questa agenda serve per due obiettivi principali: il profitto e la riduzione della popolazione. Realtà politica contro i miti mass-mediologici. Quando è emerso che l'allarme aviaria in Europa aveva lo scopo di indurre ad acquistare il farmaco Tamiflu, e che la sicurezza e l'efficacia del farmaco non erano mai state provate, le notizie allarmanti sono sparite. In questi ultimi giorni stanno ritornando altre notizie sulla variante H5N1 dell'aviaria. Probabilmente è stato prodotto un nuovo farmaco. Nei nostri Tg, dopo pochi minuti di notizie di politica interna ed estera, arriva la parte più lunga della cronaca e dell'attualità. La scelta spesso cade su notizie riguardanti nuovi prodotti per la calvizie, la bellezza o tecnologici. Giuseppe Altamore, nel suo libro I padroni delle notizie, spiega che sempre più spesso i giornalisti televisivi presentano pubbliredazionali come fossero semplici notizie. Si tratta di presentare in modo enfatico prodotti che vanno dal nuovo tipo di telefonino a nuovi cosmetici, capi di abbigliamento e addirittura farmaci. Dopo l'impiccagione di Saddam, il Tg2 annunciò la creazione negli Stati Uniti di un nuovo giocattolo: il pupazzo Saddam corredato da cappio. Il giornalista si curò di precisare anche il prezzo e la possibilità di acquistarlo via Internet.
La cronaca rosa ha il suo spazio nei Tg, sempre più ampio: matrimoni o divorzi fra vip, se Madonna adotta un nuovo bimbo, oppure se un'attrice si è gonfiata di silicone o si droga. I servizi sulla moda, sull'elezione di Miss Italia o di Miss Universo non mancano. Talvolta i Tg riempiono spazio raccontando la storia di un animale o spiegando l'esecuzione di una ricetta. Viene documentato persino il "Raduno internazionale delle Mongolfiere", e ci informano anche sugli ultimi modelli dei vestitini per cani e gatti. Si tratta di modi per confondere su ciò che dovrebbe essere veramente la comunicazione giornalistica, che negli ultimi venti anni è stata declassata e fuorviata nel modo stesso di intenderla.
L'informazione dei Tg segue ormai il "pensiero unico" e anche la regia è unica. Si tratta delle grandi agenzie di propaganda americane, come la Heritage Foundation, l'American Enterprise Institute e il Manhattan Institute. Le agenzie di propaganda americane provvedono affinché l'opinione pubblica subisca pesanti manipolazioni, che rendano difficile una vera consapevolezza di quello che sta accadendo nel mondo di oggi. Per riuscire a capire occorre utilizzare Internet e leggere le notizie dal mondo. E' una cosa che soltanto pochi si possono permettere di fare; e di solito non si tratta di anziani, casalinghe o persone che lavorano per molte ore al giorno, e che non hanno tempo materiale di informarsi se non attraverso la Tv. Per queste persone c'è soltanto quell'informazione "emotiva" e distorta che serve a renderli docili e incapaci di difendere i propri diritti. Come osserva Sartori: "Sostenere che la cittadinanza dell'era elettronica è caratterizzata dalla possibilità di accedere a infinite informazioni... sarebbe come dire che la cittadinanza nel capitalismo consente a tutti di diventare capitalisti… È vero che un'immagine può valere più di mille parole. Ma è ancor più vero che un milione di immagini non danno un solo concetto".
I telegiornali sono ormai rotocalchi di una realtà che non è quella in cui viviamo. Sono sempre più orientati allo spettacolo, all'appiattimento e alla banalità. Come in un circo, ognuno fa il suo numero, con l'obiettivo di emozionare, catturare l'attenzione, intrattenere e persino fare divertire. Mentre gli eventi occultati diventano sempre più inaccettabili: quei due terzi del mondo ridotti in estrema miseria, quei milioni di bambini che per mangiare devono cercare nella spazzatura, le nostre regioni soggette al potere mafioso implacabile e crudele, le guerre contro i popoli, le dure persecuzioni contro chi lotta per la giustizia e i diritti umani... Finché il potere mediatico sarà quasi completamente nelle mani di chi vuole un sistema politico-economico basato sulla legge del più forte e sul controllo dei popoli, è ingenuo credere che le risorse umane, spirituali e culturali degli individui stiano ricevendo impulso alla loro libera realizzazione. Le sottili tecniche di coercizione, di diseducazione e di appiattimento culturale sono dirette contro ognuno di noi, come un ulteriore affronto alle nostre menti e alla nostra dignità di cittadini.
Antonella Randazzo ha scritto Roma Predona. Il colonialismo italiano in Africa, 1870-1943, (Kaos Edizioni, 2006); La Nuova Democrazia. Illusioni di civiltà nell'era dell'egemonia Usa (Zambon Editore 2007) e Dittatore. La Storia Occulta (Edizione Il Nuovo Mondo, 2007).
La proposta di Grillo contro le bufale di giornali e Tv. "Sono i primi fabbricatori notizie false, ma tutti contro il Web", scrive il 3 gennaio 2017 Askanews. “Tutti contro Internet. Prima Renzi, Gentiloni, Napolitano e Pitruzzella, poi il ministro della Giustizia Orlando e infine il Presidente Mattarella nel suo discorso di fine anno. Tutti puntano il dito sulle balle che girano sul web, sull’esigenza di ristabilire la verità tramite il nuovo tribunale dell’inquisizione proposto dal presidente dell’Antitrust. Così il governo decide cosa è vero e cosa è falso su Internet. E alle balle propinate ogni giorno da tv e giornali chi ci pensa?” Lo scrive Beppe Grillo, in un post pubblicato sul suo blog. “I giornali e i tg – accusa il fondatore M5s – sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene. Sono le loro notizie che devono essere controllate. Propongo non un tribunale governativo, ma una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo. Così forse abbandoneremo il 77° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa”.
Grillo, nel post, cita anche due “esempi” di notizie non vere pubblicate. “Il quotidiano La Stampa – scrive – ha diffuso un articolo sulla fantomatica propaganda M5s capitanata da Beatrice Di Maio, notizia ripresa da tutti i giornali e i tg, poi si è scoperto che era tutto falso. La Stampa non ha chiesto neppure scusa e nessuna sanzione è stata applicata nei suoi confronti, nè degli altri giornali e telegiornali che hanno ripreso la bufala senza fare opportune verifiche. Poi fresca di oggi la bufala in prima pagina del Giornale di Berlusconi: ‘Affari a 5 stelle. Grillo vuole una banca’. Una falsità totale che stravolge un fatto vero, ossia che Davide Casaleggio ha accettato di incontrare l’Ad di una banca online che ha ricevuto vari premi per l’innovazione tecnologica utilizzando il web per scambiare esperienze e idee sula Rete e sulle sue possibilità, così come incontra decine di aziende innovative. Capite come lavorano i media? Aspettiamo ancora le scuse del direttore de La Stampa e di tutti coloro che hanno ripreso acriticamente un articolo provato falso”.
I cosiddetti siti “antibufala” non pubblicano mai nulla sulle bufale di regime, scrive Stefano Davidson domenica, 20 novembre 2016, su "Imola Oggi". È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla dei quotidiani nazionali che a dire il vero dovrebbero essere la loro maggior fonte. È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla di quanto asserisce il Leopolduce, fin troppo spesso palese menzogna in contrasto con evidenza e dati reali, che a dire il vero dovrebbe a sua volta essere una delle maggiori fonti di ispirazione. È altrettanto surreale che ci sia chi pensa che i siti antibufala non riportino invece bufale a loro volta, solo perché si autodefiniscono “anti”. È evidente e confermato, come sono solito affermare, che i coglioni sono molti più di due.
Le bufale di regime, scrive maicolengel su Butacmag il 23/11/2016. ImolaOggi e Byoblu in pochi giorni hanno deciso di sferrare un piccolo attacco mediatico ai siti antibufala. Un attacco che onestamente vale la pena discutere insieme, giusto per capire quanti di voi abbiano imparato a distinguere la rava dalla fava. Così titolava ImolaOggi il 20 novembre 2016: I cosiddetti siti “antibufala” non pubblicano mai nulla sulle bufale di regime. Onestamente non capisco esattamente quali siano le “bufale di regime”, e credo che anche Stefano Davidson, che firma l’articolo su ImolaOggi, non abbia le idee chiare, visto che invece che fare “fact checking” pubblica un articoletto dove evita attentamente qualsivoglia esempio. Vi riporto le sue parole per intero, perché credo vadano conservate a futura memoria: È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla dei quotidiani nazionali che a dire il vero dovrebbero essere la loro maggior fonte. È assolutamente surreale e sospetto che i siti cosiddetti antibufala non pubblichino mai nulla di quanto asserisce il Leopolduce, fin troppo spesso palese menzogna in contrasto con evidenza e dati reali, che a dire il vero dovrebbe a sua volta essere una delle maggiori fonti di ispirazione. È altrettanto surreale che ci sia chi pensa che i siti antibufala non riportino invece bufale a loro volta, solo perché si autodefiniscono “anti”. È evidente e confermato, come sono solito affermare, che i coglioni sono molti più di due. Quindi secondo Stefano i siti antibufala non trattano mai notizie pubblicate dai quotidiani nazionali. È davvero così? Non mi pare, ovviamente io parlo per BUTAC, ma credo che i colleghi possano dimostrare lo stesso sui loro portali. Facciamo una veloce ricerca su BUTAC con i nomi di alcune delle testate giornalistiche italiane più lette:
Il Giornale – ad oggi 66 articoli
La Repubblica – ad oggi 34 articoli
Il Corriere della sera – ad oggi 21 articoli
il Fatto Quotidiano – ad oggi 13 articoli
Libero – ad oggi 13 articoli
La Stampa – ad oggi 10 articoli
Il Messaggero – ad oggi 10 articoli
Purtroppo non tutti gli articoli che pubblichiamo hanno i tag corretti per cui è facile che gli articoli che trattano testate nazionali siano ancora di più. Quello che sarebbe importante capire, e che i veri lettori dei siti antibufale sanno, è che i nostri articoli vengono dalle vostre segnalazioni, quindi basterebbe per Stefano Davidson e i suoi amichetti di ImolaOggi cominciare a segnalare, usando i canali corretti per trovare (se ce ne fosse bisogno) sbufalate anche di altre testate, e altri articoli. Quello che è importante invece comprendere è che loro sanno benissimo come funzionano le cose e scrivono articoletti come quello che vi ho riportato qui sopra proprio per cercare di delegittimare quanto facciamo noi senza portare alcuna prova. Sanno bene che i loro lettori hanno solo bisogno di sentirsi rassicurati; sono lettori che hanno bisogno di leggere quello che già pensano, lettori incapaci di fare la benché minima verifica dei fatti, lettori che potremmo tranquillamente classificare come analfabeti funzionali. Ma passiamo oltre, perché dopo ImolaOggi abbiamo anche il sempre simpatico e affabile Claudio Messora, che pochi giorni fa, senza far nomi, ha pubblicato un video dove attacca a sua volta tutti i siti antibufala. Il video è lunghetto, e non ho granché voglia di dargli visibilità, l’accusa però è ben precisa: secondo Messora quasi tutti i siti antibufale italiani sono gestiti da soggetti fuoriusciti da partiti politici. Onestamente non conosco a sufficienza i miei colleghi per parlare di loro, ma vorrei che aveste tutti ben chiaro che Messora è supporter di un partito ben preciso (lo stesso – guardacaso – che supporta anche Stefano Davidson, che firmava l’articolo qui sopra); non ne fa segreto, sia chiaro, ma sentire accuse lanciate da chi da anni non fa altro che spargere fango su chiunque non la pensi come lui è quantomeno sospetto. Dopo il video di Messora, con l’amico e collega Maurizio Perrone abbiamo cercato di avere risposte da Claudio, capire a chi stesse rivolgendo le sue accuse, e capire anche quali fossero esattamente le accuse, ma pur essendo stato taggato nel post di Maurizio il buon Claudio ad oggi si è fatto di nebbia. Cosa strana se si considera che Messora è una star del web, e che usa i social network costantemente. Che abbia paura di venire sbugiardato pubblicamente? Che abbia il timore di aver cagato fuori dal vaso? Non lo so, e onestamente poco m’importa. Non sento il bisogno di difendermi, chi legge Butac dalla sua nascita (e chi mi conosce da prima) sa bene che non ho una fede politica da difendere. Come spiego da tempo ritengo che tutti i politicanti italiani siano soggetti incapaci, sia gli ultimi arrivati sia quelli che sono lì da decenni. Non vedo la luce in fondo al tunnel perché nel nostro Paese gli interessi nascosti difesi dai politici sono troppi, l’unica via sarebbe un sano commissariamento europeo del nostro Paese. Ma è un sogno che non vedrò mai realizzarsi. Purtroppo come i politici sono incapaci, non molto diversi sono quelli che dovrebbero mostrarvi le loro incapacità, quindi se siete lettori delle testate nazionali più note non troverete mai attacchi tout court, ma solo editoriali politici dove si attacca l’antagonista, difendendo spesso l’indifendibile, pur di portare acqua al proprio mulino. È triste ma è lo stato delle cose.
Boschi e Boldrini ai falsi funerali del boss Riina: bufala sui siti M5s, scrive martedì 28/11/2017 su "Il Giornale". Sicuramente è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La punta di un iceberg di bufale. La foto ritrae Laura Boldrini, presidente della Camera, Maria Elena Boschi (Pd), sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il senatore dem Francesco Verducci e l'eurodeputato David Sassoli (Pd) con una scritta che dice esplicitamente che i quattro politici si trovavano al funerale del boss mafioso Totò Riina. L'immagine viene condivisa su Facebook il 21 novembre e rapidamente fa il giro del web, ripresa anche dalla pagina «Virus 5 Stelle». In realtà la tumulazione della salma di Riina (senza funerali, erano stati vietati) è stata il giorno successivo alla prima pubblicazione della foto. Che invece è un'immagine scattata durante i funerali del giovane nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, morto a Fermo nel luglio scorso dopo una rissa. Dopo le segnalazioni e oltre 1600 condivisioni sui social network, è arrivata la reazione della Boschi che ha parlato di «schifezza» e «assurda vergogna». Poi la crociata di Matteo Renzi alla Leopolda.
Fake news, Salvini: “Mi difendo coi social dalle bufale di regime”, scrive il 27 novembre 2017 "Dire". “Mai presa una lira da Berlusconi, non vado a chiedere elemosine.” Ad affermarlo è Matteo Salvini (segretario della Lega) intervistato da Luca Telese e Oscar Giannino ai microfoni di 24Mattino su Radio 24. Parlando del sequestro dei conti della Lega, Telese gli chiede: “Lei non accetterebbe neanche un prestito? Ha paura di un condizionamento politico?”. E Salvini non ha dubbi: “No, da nessuno, da Renzi o da Berlusconi. I prestiti li chiedo alle banche se me li danno. Per principio”. “Renzi ha speso 400mila euro per andare in giro in treno. Si vede che a lui ci sono banche che fanno credito, si vede che ha un buon rapporto con alcune banche, mettiamola così”, aggiunge poi Salvini a proposito delle difficoltà finanziarie della Lega e delle accuse mosse da Renzi sugli introiti che la Lega avrebbe dalla diffusione di bufale online. “Noi non abbiamo mai incassato una lira dalla pubblicità. Provo a usare Facebook e social per avere un minimo di voce, per contrastare il Tg1 e il TG5 e le bufale di regime”, è invece la replica di Salvini, “bufale contro cui io non ho nessuna voce. Posso usare i due quattrini che ho in tasca per fare due post su Facebook e Twitter”.
Di Maio: fake news su di me da Severgnini. Attendo che si scusi. Crozza lo ha fatto, scrive Domenica 26 novembre 2017 Luigi Di Maio su beppegrillo.it. riportato da "Affari Italiani". Il gesto di Maurizio Crozza Official in questo video è bellissimo. Ha ammesso di aver creduto a una fake news sul mio conto diffusa da Beppe Severgnini e di aver fatto una gag prendendola per buona. Ma poi, quando se ne è reso conto, ha chiesto scusa in diretta tv. Scuse ovviamente accettate! È difficile distinguere il vero dal falso soprattutto quando delle fake news vengono diffuse da giornalisti accreditati. Grazie Maurizio! Spero che ora arrivino anche le scuse dei giornalisti che hanno diffuso la fake news sui giornali e in tv. Intanto diffondiamo il più possibile questo video che aiuta a ristabilire la verità!
M5S: "L'inchiesta sulle fake news è una bufala". Renzi: "Strani legami con la Lega, dimostrino trasparenza". Secondo il blog di Grillo, che prende di mira il renziano Marco Carrai per il legame con l'informatico che ha scoperto le connessioni tra i siti della Lega e quelli pro M5S, "si tratta di un giochino apparecchiato dal Pd". Ma Carrai ha già smentito: "Io non c'entro nulla". E Renzi in serata ribatte: "M5s grida al complotto? Stanno messi male. Serve trasparenza", scrive Annalisa Cuzzocrea il 27 novembre 2017 su "La Repubblica". I 5 stelle reagiscono alle accuse di fake news piovute dal Partito democratico. "E' una follia ritenerci coinvolti", scrivono sul blog di Beppe Grillo accusando anche New York Times e Buzzfeed: "L'inchiesta sulle fake news è una bufala". Frasi a cui in serata replica Matteo Renzi con un post sulla sua eNews: "Davanti alle prove del New York Times, il blog di Beppe Grillo ha reagito con il consueto stile gridando al complotto, ovviamente complotto “degli amici di Renzi”. Stanno messi male, non c'è dubbio". E lancia la sfida: "La battaglia politica acquisisce più significato dopo che è emerso uno strano rapporto che lega adepti del M5s a sostenitori di Salvini. A noi basta solo una riflessione: chi vuole inquinare il dibattito politico ci troverà fermamente dalla parte della verità. Se gli altri partiti politici vogliono fare altrettanto non importa che gridino al complotto: basta che dimostrino la propria trasparenza. Sono in grado di farla? Me lo auguro, glielo auguro". Nel post sul blog di Beppe Grillo, pubblicato in mattinata, si legge: "Si parla di siti web sensazionalistici, a sostegno di una o l'altra forza politica, che riporterebbero i medesimi codici di Analytics e di Adsense. E non ci vuole un genio a capire che questi siti nascono spontaneamente. Sul web ognuno, anche per mero scopo di guadagno attraverso la pubblicità, chiuso nella sua stanza può scegliere di aprire più di una piattaforma e pubblicare quel che vuole. Ma ciò non significa che ci debba essere un coinvolgimento della forza politica di riferimento". E ancora: "Se sono un tifoso di calcio e apro una pagina in cui diffondo notizie false sul Torino non significa che io sia a libro paga della Juventus. E' una follia solo pensarlo. Speriamo di esserci spiegati. E speriamo che il New York Times e Buzzfeed tornino finalmente ad occuparsi di vero giornalismo". "Le due inchieste - scrive il blog - arrivano alla vigilia della Leopolda di Matteo Renzi, quest'anno dedicata proprio alle fake news. Entrambi i pezzi, apparentemente indipendenti, nascono però da una ricerca condotta da un tecnico del web non strettamente indipendente, Andrea Stroppa, che di fatti viene citato nei due articoli". I 5 stelle accusano Stroppa di essere "arruolato nella Cys4, la società di sicurezza presieduta da Marco Carrai", "braccio destro di Renzi e sostenitore delle sue campagne elettorali". Ma è lo stesso Carrai oggi sul Corriere della Sera a chiarire: "Non c'entro niente con l'inchiesta del New York Times, questo è un esempio di fake news. Stroppa lo conosco e per un periodo ha collaborato con una mia società. Chiunque può andare al registro delle Camere di commercio e vedere che non ho mai avuto società con lui". E anche Andrea Stroppa, l'autore del report che ha provato come due siti pro M5S (News 5 stelle e Video a 5 Stelle) e il sito della Lega Noi con Salvini abbiano gli stessi Google id per il controllo del traffico e la pubblicità, aveva spiegato ieri in un lungo post su Facebook la sua posizione, rispondendo agli articoli del Fatto quotidiano e al suo direttore Marco Travaglio: "Vengo definito da una sua giornalista parte dei “Carrai boys”, “pupillo di Carrai”, e lo comprendo. Quando non si è liberi, si cerca di mettere le catene anche agli altri". Sulle fake news è intervenuto stamattina a Circo Massimo, su Radio Capital, anche Matteo Orfini: "La Lega e i 5 stelle devono dare spiegazioni sulle connessioni tra i loro siti - ha detto il presidente Pd - l'internet inquinato dalle bufale è un problema per la democrazia".
Chi controlla l’informazione? Scrive Alessandro Gazoia il 19 febbraio 2016 su "Prismomag.com". In anteprima per Prismo un estratto da Senza Filtro, il nuovo libro di Alessandro Gazoia dedicato a come il ricambio tecnologico, i social media e il web stanno modificando non solo le forme della comunicazione, ma il nostro stesso rapporto con l'informazione, la politica, la democrazia. In questi giorni minimum fax manda in libreria Senza Filtro – Chi controlla l’informazione, il nuovo saggio dello scrittore Alessandro Gazoia. Ringraziando autore ed editore, ne pubblichiamo un estratto che racconta come, in pochi anni e pur tra molti fraintendimenti e ritardi, l’uso invasivo dei social media sia diventato una costante anche nella politica italiana, da Monti a Salvini, da Grillo a Renzi.
Il 21 dicembre 2012, dopo aver guidato per oltre un anno un “governo tecnico”, Mario Monti si dimette da Presidente del Consiglio. Passati alcuni giorni sceglie Twitter e non l’Ansa, il Tg1 o il Corriere della Sera per rendere più chiaro il suo diretto impegno politico futuro: “Insieme abbiamo salvato l’Italia dal disastro. Ora va rinnovata la politica. Lamentarsi non serve, spendersi si [sic]. ‘Saliamo in politica!”. Il tweet viene lanciato il 25 dicembre 2012 alle 23.31, orario troppo tardivo per comparire (se non con una “ribattuta”) sui quotidiani del giorno successivo, che però non bucano la notizia, il 26 non sono infatti in edicola, mentre il giornalismo online e anche i mezzi tradizionali come radio e tv subito commentano il messaggio e il mezzo. Quell’elaborato tweet, in bilico tra un plurale maiestatico e una comunità elettorale in via di definizione, è in affannata e legnosa rincorsa sulla strategia web di Grillo (“va rinnovata la politica” ma “lamentarsi non serve”) e in diretta polemica con il declinante Berlusconi. “Insieme abbiamo salvato l’Italia dal disastro” allude all’opera di Monti, e viene contrapposto all’ultima fase del governo precedente, con il famigerato spread (la differenza in punti percentuali tra gli interessi di obbligazioni di stato tedesche e italiane) alle stelle. L’espressione inusuale, marcata pure dalle virgolette, salire in politica richiama in filigrana e per contrasto lo storico scendere in campo dell’imprenditore, nel messaggio registrato su videocassetta e inviato ai telegiornali nel 1994.
In Italia la comunicazione politica, senza o oltre il giornalismo professionale, l’ha fatta per vent’anni Silvio Berlusconi, in una forma estrema e paradossale: si manifestava per monologhi – espliciti, come la videocassetta per proporsi leader del centrodestra, o impliciti, come le tante interviste concesse a Porta a Porta e alle sue televisioni – e, nelle rare occasioni in cui si trovava esposto a domande non servite per la facile replica, preferiva dare le sue risposte, spesso con grande abilità e autorità. Berlusconi, al pari del comico Grillo dotato di un gusto per la battuta vivo, seppur non sempre felice, e molto attento alla comunione empatica con l’elettorato, faceva spettacolo coi suoi assoli, e disintermediava l’informazione dall’alto. La “calza” davanti alla telecamera del messaggio della discesa in campo, il filtro rozzo e analogico che rendeva il leader levigato e luminoso, era il correlativo oggettivo dell’immagine magnanima e imperiale che Berlusconi si proponeva di costruire, nei confronti della stampa e dei cittadini (telespettatori). Si doveva al tempo stesso marcare la distanza derivante dall’efficienza, competenza e ricchezza di quell’uomo eccezionale, e creare l’illusione dell’accesso diretto e non filtrato per ciascuno: Berlusconi toccava e rassicurava l’elettore, parlava al cuore della gente (utilizzo qui la retorica delle parole semplici e vere di tanti slogan pubblicitari di Forza Italia ed evoluzioni successive). Quando, verso l’inizio di questo decennio, sia per gli eccessi dovuti alla troppa sicurezza e alla cerchia di assoluto consenso (la “bolla” privata) dentro cui il leader viveva, sia per il logoramento degli schemi di narrazione e contenimento applicati a eventi (personali e collettivi) sempre più problematici, la calza si strappa e il filtro plebiscitario si rompe, un enorme spazio resta aperto per Beppe Grillo, Matteo Salvini e Mario Monti che presto scomparirà, lasciando a propria volta campo libero, ovvero facile salita, nel centro-sinistra a Matteo Renzi.
Col tweet di Monti del dicembre 2012, l’importanza dei social network e della relazione che offrono con l’elettore comincia a essere pienamente riconosciuta. In quella fine del 2012 Renzi è ancora sindaco di Firenze, e Monti all’apice della sua influenza intende disintermediare, ora che, conclusa l’esperienza del “governo tecnico”, si ritrova a dover conquistare i voti degli elettori. Non è certo la necessità a spingerlo verso Twitter, a partire dal basso, dato che ha a disposizione le colonne e il pieno sostegno del Corriere della Sera (del quale è da lungo tempo editorialista di grande peso) per esprimere la sua idea dell’Italia e convincere i millecinquecento lettori che contano di Forcella. Ma nel giorno di Natale e in apertura di campagna elettorale preferisce il social network, l’immediatezza e il tocco personale: vuole produrre quell’empatia che molti gli rimproverano di non saper neppure imitare (il tweet inizia con un significativo “insieme”). L’importanza delle nuove piattaforme digitali e della relazione che offrono con l’elettore comincia infatti a essere pienamente riconosciuta, i politici di primo piano comprendono la necessità di operare anche in questo ambiente e il nostro giornalismo parlamentare deve adattarsi a non considerarlo più una curiosità buona per un pezzo di colore, tra folklore grillino e moda americana. Giusto alcuni mesi prima Pierferdinando Casini aveva compiuto un piccolo ma significativo gesto: dimostrava l’unità della maggioranza governativa di cui faceva parte postando su Twitter una foto che lo ritraeva in una riunione ufficiale e privata con Monti, Alfano e Bersani. Il testo proclamava: “Siamo tutti qui! Nessuna defezione!”, in raddoppio sugli esclamativi e con un noi più ristretto rispetto al tweet di Monti. La foto non era chiaramente scattata dal politico, che sorrideva seduto a destra nell’inquadratura ma venne definita un selfie (parola che stava diventando allora popolarissima), sia perché inviata a Twitter dallo stesso Casini sia per il suo proporsi come testimonianza personale.
Il fantomatico “selfie” di Pierferdinando Casini. Per alcuni professionisti la disintermediazione del giornalista e del fotografo praticata da quel tweet è insieme un mistero, un pericolo e un oltraggio, come spiega, nel contesto di una più ampia riflessione, Michele Smargiassi: “Dirsi come fa Alessandro Di Meo dell’Ansa, forse uno tra i fotografi professionali che assediavano Palazzo Chigi l’altra sera, che è “uno scatto che funziona, ma perché non chiamare noi, che seguiamo notte e giorno i politici?”, è già avere la risposta: perché quello scatto funziona, e funziona proprio perché è un autoritratto del potere che si presenta in modo inconsueto, diverso dalle ingessature dei ritratti ufficiali. Questa fotografia “ufficiosa” che simula una familiarità da tag di Facebook (tipo “Ragazzi guardate, siamo qui, a Palazzo Chigiiii! Con Monti! Wow!”) è sicuramente un fatto nuovo nella comunicazione politica italiana. Ma questa fotografia è tutt’altro che innocente e spontanea, e lo capisce chiunque. Il potere rappresenta se stesso”. Monti e Casini decidono di comunicare attraverso Twitter oltre che con agenzie, giornali, radio e TV, perché è ormai sentita come un’esigenza non procrastinabile l’“orientamento della conversazione” che si sviluppa sui social network e da lì passa nei canali tradizionali. Il tweet ha preso il posto della breve d’agenzia e il post su Facebook del comunicato stampa, ma i politici disintermediano in piena continuità con quanto hanno sempre tentato di fare nell’era delle comunicazioni di massa. La familiarità e spontaneità della comunicazione in rete è un’estensione e un aggiornamento del tradizionale primo lavoro del politico: stringere le mani, baciare i bambini e farsi riprendere mentre compie queste azioni, senza filtro, oltre le “ingessature dei ritratti ufficiali”.
La pizza di Salvini. Quando, alle otto di sera del 24 febbraio 2014, Matteo Salvini invia con lo smartphone a Facebook la foto della sua pizza casalinga fa notizia e lavoro politico: quel piatto è una sorta di gesto di pacificazione con il Sud e segnala la nuova vocazione nazionale della Lega. Buona parte del pubblico lo sa, a cominciare da quelli che lo criticano per la forma – invero peculiare – della pizza e quindi lo accusano, implicitamente o meno, di volersi appropriare di qualcosa che non gli appartiene. L’uso dei social network di Salvini, con le aperture sulla propria vita privata, il linguaggio molto diretto e le frequenti domande retoriche che invitano a uno specifico commento di approvazione per il leader o di denuncia degli avversari, non è meno codificato e strutturato di un comizio degli anni Settanta e vuole ottenere la stessa comunione e “condivisione” con il singolo elettore. Negli anni Trenta i discorsi al caminetto del presidente americano Roosevelt alla radio, il primo mezzo di comunicazione di massa con la diretta, volevano essere un messaggio personale, capace di toccare ogni singolo cittadino: disintermediavano e coinvolgevano empaticamente. Costituivano la risposta democratica alle orazioni fasciste trasmesse alla radio di Mussolini e Hitler che, a propria volta, sussumevano il singolo in una superiore unità – il Popolo, la Nazione – e lo rendevano, in questo movimento, in forma diversa speciale. Vediamo lo stesso desiderio di congiungere la massima copertura in broadcast e la massima individuazione dell’elettore nel messaggio per la discesa in campo di Berlusconi, e nell’uso massiccio da parte di Obama di new e social media. Salvini su Facebook e Twitter non fa nulla di radicalmente nuovo, e la sincerità e l’immediatezza del singolo gesto – il desiderio di cliccare invia sullo smartphone e condividere subito una certa immagine sui social network, esattamente come accade a noi comuni cittadini – non cambiano ma confermano il contesto di cura dell’elettorato e della propria immagine.
Il numero di professionisti della comunicazione politica aumenta e le loro competenze si fanno più varie, ora che i potenziali elettori sono facilmente conoscibili grazie ai social media. Il politico di rilievo, così come la star, è oggi sempre notiziabile, o meglio vorrebbe esserlo sempre e nel modo da lui favorito, e lavora a questo fine attraverso l’attività in rete. Questa comunicazione salta alcune mediazioni tradizionali – nel caso della foto di Casini il fotografo parlamentare, nel caso di Salvini il fotografo privato che Berlusconi utilizzava per mostrare la sua villa e la sua famiglia agli italiani – ma rimane fondamentale l’assistenza degli esperti. Anche sul web, e pure in questo aspetto possiamo dire che Grillo e Casaleggio sono stati fonti di ispirazione. I professionisti dell’informazione vengono coinvolti e “orientati” come un tempo e i professionisti della comunicazione politica continuano a essere impiegati, anzi il loro numero aumenta, le loro competenze si fanno più varie e il loro lavoro più sofisticato, ora che i potenziali elettori, proprio grazie all’attività sui social network, sono facilmente conoscibili in molte preferenze. È quindi possibile andare incontro al voto individuale, in maniera non troppo distante dalla personalizzazione di un sito. I social network sono stati integrati perfettamente nella grande macchina delle due campagne presidenziali di Barack Obama, dove si sono dimostrati utili anche per la definizione di un accurato profilo degli elettori che, all’occorrenza, diventano bersagli di un marketing politico miratissimo. Semplificando diremo che per vincere un certo voto in un determinato luogo si potranno accentuare alcuni temi e mettere la sordina ad altri, come da regola in campagna elettorale in un grande e variegato paese quale è l’America, ma sulla base di una quantità molto più ampia e al tempo stesso molto più raffinata di dati rispetto ai tradizionali sondaggi. Non a caso vi è ormai in America un rapporto molto stretto e pure un flusso di personale tra protagonisti dei social network e della politica. Nicholas Lemann lo spiega attraverso l’esempio di LinkedIn, il social network per l’attività professionale con oltre 375 milioni di iscritti, e del suo ceo Reid Hoffman: “LinkedIn ha fornito alla Casa Bianca una parte della miniera di dati collezionati sull’attività degli utenti nel mercato del lavoro, che sono quindi stati utilizzati nel rapporto economico annuale del Presidente. All’inizio di quest’anno, un ex dirigente di LinkedIn, DJ Patil, è stato nominato chief data scientist alla Casa Bianca. A luglio Hoffman ha organizzato un incontro con persone coinvolte nella nuova fondazione di Obama su come sfruttare al meglio la forza dei social network[…]”.
Selfie con la nazionale di pallavolo prima del summit europeo sull'occupazione. La stretta relazione tra Hoffman e la Casa Bianca non è limitata al suo ruolo di grande political donor. Lui e quelli come lui hanno qualcosa di più potente del denaro da offrire: un modo per gli officials di connettersi con il pubblico più largo possibile. Nel diciannovesimo secolo, questo ruolo lo svolgevano i capi delle macchine elettorali; nel ventesimo, i capitani dei media, specialmente nel broadcasting e nei giornali; nel ventunesimo lo fanno le persone che hanno creato grandi reti sociali online. Il rapporto coi signori delle grandi piattaforme online è molto ricercato pure dai politici italiani che amano volare verso il futuro e la Silicon Valley – e nel pezzo appena citato si parla anche di una cena tra Larry Page (Google) e l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino che desiderava “creare un piccolo gruppo qui”. Le sofisticate forme di profilazione dell’elettorato non sono ancora del tutto sviluppate nel nostro paese e il più frequente travaso di personale verso la politica continua a essere quello molto tradizionale dei giornalisti. Filippo Sensi – ex vicedirettore del piccolo quotidiano Europa (legato al PD e chiuso alla fine del 2014), oltre che famoso blogger e influencer su Twitter – ha acquisito un ruolo strategico nella gestione della comunicazione di Matteo Renzi, e l’enorme interesse che la sua figura suscita sui giornali è dovuto in parte al meccanismo abituale e forzoso del Grande Vecchio o almeno dell’Eminenza Grigia, favorito nell’applicazione alla rete dall’esempio di Grillo e Casaleggio; ma deriva anche da un certo ritardo del nostro contesto, dallo stupore di fronte a una comunicazione politica condotta con grande professionalità e aggiornamento tecnico su tutti i media, di fronte a uno spinning che include e anzi mette in evidenza i social network. Nell’attività di Sensi si individua tuttavia una forte continuità con pratiche antiche, a cominciare dalla piena consapevolezza del ruolo della stampa nel nostro paese: la solerzia con cui ricerca e cura il filtro dei singoli giornalisti e intellettuali è almeno pari all’ingegno profuso nella “disintermediazione” via hashtag arguti di Renzi. Con il governo Renzi si è superata una nuova soglia: la costante e insistente attività sui social fa parte del messaggio stesso di giovanile dinamismo, concretezza antiburocratica e apertura al nuovo. Mario Monti alla fine del 2012 annunciava la sua intenzione di salire in politica su Twitter, Matteo Renzi nel febbraio 2014 sale al Quirinale per presentare la lista dei ministri a Napolitano e durante il lungo colloquio col presidente della Repubblica twitta impaziente il messaggio politico dell’energia e dell’ottimismo: “Arrivo, arrivo! #lavoltabuona”. Con il governo Renzi si è appunto superata una nuova soglia, poiché la costante e insistente attività sui social media fa parte del messaggio stesso di giovanile dinamismo, concretezza antiburocratica, apertura al nuovo e trasparenza del politico. La strategia è ancora una volta orientata alla personalizzazione, sia nel senso dell’enfasi sul leader sempre attivo e presente, sia del singolo cittadino a cui in principio si presta ascolto, e anzi se ne sollecita il contributo sulle reti sociali, con un appello all’unità e alla buona volontà oltre le differenze, per far ripartire il paese. Renzi opta per l’uso sistematico e primario di Facebook e Twitter come agenzia politica, anzi governativa, e al pari di Grillo e Casaleggio, ma in forme più misurate ed eleganti, segue un’ideologia della rete e dell’innovazione. Ritiene quindi un progresso comunicare stabilmente notizie di rilievo per la nazione in prima istanza su quei social network, piattaforme private di proprietà di aziende americane, e le promuove così, nell’ideale della comunicazione empatica, a bene comune – e nel concreto economico e digitale della Silicon Valley, a meta di pellegrinaggio politico.
Tre gradi di separazione, scrive Giovanna Baer su Paginauno n. 18, giugno - settembre 2010. Chi possiede o controlla, seduto nei Consigli di amministrazione, i principali quotidiani italiani? Inchiesta sulla longa manus della banche e dell’industria nella carta stampata. Il doppio livello di lettura dei giornali italiani. Nessuna notizia è pienamente comprensibile se non si capisce da chi viene: la proprietà della testata, gli interessi che rappresenta e soprattutto le relazioni di potere, espresse nei consigli di amministrazione. E nessuna notizia è pienamente comprensibile se non si capisce come viene "offerta" al lettore: il posizionamento all'interno del giornale e le parole usate. Perché ogni quotidiano ha un doppio livello di lettura: visibile e invisibile. E lo si può leggere in modo passivo, da semplici fruitori di notizie, o con spirito critico, sapendo riconoscere, tra le righe, il modo in cui i poteri economico e politico usano l'informazione per indirizzare la pubblica opinione... (leggi...)
La teoria dei "sei gradi di separazione" è un’ipotesi secondo cui qualunque persona può essere collegata a qualunque altro abitante del globo terrestre attraverso una catena di conoscenze con non più di cinque intermediari. Proposta per la prima volta nel 1929 dallo scrittore ungherese Karinthy in un racconto breve intitolato Catene, venne confermata nel 1967 dal sociologo americano Stanley Milgram e più tardi, nel 2001, da Duncan Watts della Columbia University. La ricerca di Watts, pubblicata su Science nel 2003, permise l’applicazione della teoria dei sei gradi di separazione anche in aree differenti, tra cui l’analisi delle reti informatiche ed elettriche, la trasmissione delle malattie, la teoria dei grafi, le telecomunicazioni e la progettazione della componentistica dei computer. La nostra inchiesta vuole dimostrare che la legge di Watts non si applica alle relazioni fra le principali testate giornalistiche italiane e il capitalismo industriale-finanziario, o più precisamente che, analizzando i legami esistenti, andrebbe corretta al ribasso, in non più di tre gradi di separazione.
Con quali effetti sulla libertà di informazione? La cosiddetta linea editoriale è ciò che distingue in sostanza una testata giornalistica da un’altra. Rappresenta, diremmo in linguaggio aziendale, una sorta di missione strategica, l’ipotesi di fondo a partire dalla quale si scelgono e si analizzano le notizie. Dall’esistenza di linee editoriali diverse – il cosiddetto pluralismo informativo – dipende la qualità dell’informazione, perché il pluralismo garantisce al cittadino/lettore la possibilità di conoscere notizie differenti lette da punti di vista differenti. Non solo. Dal pluralismo informativo dipende anche la possibilità che uno Stato possa dirsi democratico, dal momento che un elettore adeguatamente informato è messo in condizione di esercitare un voto consapevole. Il caso opposto, quello cioè di una rappresentazione univoca della realtà socio-politico-economica di un Paese (pensiamo alla Pravda di staliniana memoria), impedisce la corretta formazione del consenso, e quindi il libero esplicarsi dei meccanismi democratici.
Ciò detto, dove si forma la linea editoriale di una testata? Come suggerisce il termine, è espressione della visione dell’editore, e si forma nel luogo in cui questi (che è il proprietario del giornale) prende le sue decisioni strategiche. Nelle moderne società capitalistiche questo luogo è il Consiglio di amministrazione. Diamo quindi un’occhiata a chi siede nei Cda dei principali giornali italiani e valutiamo di quali tipi di interessi siano portatori, dal momento che sulla base degli interessi del Consiglio si forma la linea editoriale.
Partiamo dal più importante quotidiano a diffusione nazionale, il Corriere della Sera. Il suo editore è il gruppo RCS (Rizzoli Corriere della Sera), quotato in borsa. Il Corsera ha fama di essere il giornale super partes per definizione, quello che meglio rappresenta il tipo di linea editoriale tipico dell’informazione anglosassone (come si dice di solito, ‘all’americana’), per definizione indipendente da interessi particolari. Ma, analizzando il suo Cda, più che super partes dovremmo definirlo inter partes: in esso siedono infatti John Elkann, presidente di Fiat e di Exor (la holding finanziaria della famiglia Agnelli); Franzo Grande Stevens, avvocato storico di casa Agnelli, ex vicepresidente Fiat e attualmente presidente della Fondazione San Paolo; Carlo Pesenti, consigliere di Italcementi, Unicredit, Italmobiliare e Mediobanca; Berardino Libonati, consigliere di Telecom Italia e Pirelli; Jonella Ligresti, consigliere di Fondiaria, Italmobiliare e Mediobanca; Diego Della Valle, consigliere di Tod’s, Marcolin e Generali Assicurazioni; Renato Pagliaro, consigliere di Telecom Italia, Pirelli e Mediobanca; Giuseppe Lucchini delle omonime acciaierie; Paolo Merloni, CEO (Chief Executive Officer, ossia amministratore delegato) di Merloni Finanziaria, gruppo Indesit Company; Enrico Salza, consigliere di Intesa San Paolo; Raffaele Agrusti, consigliere di Assicurazioni Generali; Roberto Bertazzoni, consigliere di Mediobanca; e Claudio De Conto, di Pirelli Real Estate. Fra Corsera e Fiat, Pirelli, Telecom Italia, Mediobanca, Intesa, e tutte le altre aziende citate, ci sono zero gradi di separazione, cioè sono direttamente collegate fra loro. Grande finanza, banche, assicurazioni, automotive, telecomunicazioni, cementifici, acciaierie, pneumatici, immobili, moda, elettrodomestici: non c’è praticamente nessun settore del made in Italy che non possa dire la sua sui contenuti e sulla posizione del giornale. Viene da dire che in Italia essere indipendenti coincide col dipendere da tutti, nessuno escluso: la linea editoriale del Corrierone nazionale risentirà quindi delle esigenze e degli accordi reciproci fra le aziende che siedono in Consiglio: nessuna visione strategica a prescindere, e una pletora di manovre tattiche in risposta alle necessità del momento.
Meno compromessa, ma solo all’apparenza, La Repubblica, che fa parte del Gruppo l’Espresso di Carlo De Benedetti. Nel Cda de L’Espresso troviamo Sergio Erede, amministratore di Luxottica; Luca Paravicini Crespi, consigliere della Piaggio dei Colaninno (dove siede accanto a Vito Varvaro, il quale a sua volta è anche nel Cda della Tod’s di Diego Della Valle) e figlio di Giulia Maria Crespi, ex direttore editoriale del Corriere ed ex presidente del Fai; e Mario Greco, consigliere di Indesit Company (dove siede anche Emma Marcegaglia) e della Saras di Massimo Moratti (già rappresentato nel Cda del Corriere attraverso i consiglieri del gruppo Pirelli).
Massimo Moratti rappresenta inoltre il trait d’union fra il Gruppo L’Espresso e la famiglia Berlusconi, poiché siede, oltre che nel Cda della Saras, anche in quello della Pirelli, accanto a Carlo Secchi, ex rettore della Bocconi e amministratore Mediaset.
La famiglia Berlusconi controlla direttamente Il Giornale, edito dal gruppo Mondadori, mentre la famiglia Agnelli è proprietaria del quotidiano La Stampa di Torino.
Il Messaggero di Roma, il Mattino di Napoli, il Gazzettino di Venezia e il Nuovo Quotidiano di Puglia sono editi dalla Caltagirone Editore, di proprietà della famiglia Caltagirone (grandi opere, cementifici, immobili): fra gli altri, siedono nel Cda di Caltagirone Editore, Azzurra Caltagirone, moglie di Pier Ferdinando Casini, e Francesco Gaetano Caltagirone, consigliere di Monte dei Paschi e di Generali Assicurazioni.
Il Resto del Carlino di Bologna, la Nazione di Firenze e Il Giorno di Milano sono invece posseduti dalla Poligrafici Editoriale, collegata con due gradi di separazione a Telecom Italia, Generali Assicurazioni e Gemina (attraverso Massimo Paniccia e Aldo Minucci); e con tre gradi di separazione (attraverso Roberto Tunioli, Sergio Marchese e Giuseppe Lazzaroni), alla Premafin della famiglia Ligresti.
Infine una notazione quasi umoristica. Libero, l’aggressiva testata di destra e Il Riformista, quotidiano timidamente di sinistra, hanno lo stesso editore (e quindi zero gradi di separazione!): Giampaolo Angelucci, proprietario di un impero fatto di cliniche e strutture sanitarie (fra cui l’ospedale S. Raffaele di Roma), e messo agli arresti domiciliari il 9 febbraio dello scorso anno per falso e truffa ai danni delle Asl.
La situazione non migliora, anzi se possibile peggiora, quando si analizzano i quotidiani finanziari. Il Sole 24 Ore, come è noto, è appannaggio dell’universo Confindustria, quindi diretta espressione dei desiderata dei principali gruppi industriali del Paese. Nel suo Cda siedono, fra gli altri, Giancarlo Cerutti, consigliere di amministrazione di Saras; Luigi Abete, presidente di Bnl (gruppo Paribas), fratello di Giancarlo Abete (presidente della Figc) e consigliere anche della Tod’s di Diego Della Valle; e Antonio Favrin, collega di Cda, in Safilo Group, di Ennio Doris, che siede in Mediolanum della famiglia Berlusconi e in Mediobanca.
A proposito dei legami fra industria, editoria e sport, è interessante notare come quattro delle principali squadre di calcio italiane appartengono a gruppi industriali che possiedono, o amministrano più o meno direttamente, almeno un quotidiano generalista: la Juventus degli Agnelli (che influenzano la Stampa e il Corriere), il Milan di Berlusconi (Il Giornale), la Fiorentina dei fratelli Della Valle (il Corriere), e infine l’Inter di Massimo Moratti (il Corriere e La Repubblica).
Milano Finanza e Italia Oggi, quotidiani economici molto conosciuti fra gli addetti ai lavori, sono invece editi dalla Class dei fratelli Panerai, e nel Cda del gruppo “leader nell’informazione finanziaria, nel lifestyle e nei luxury good products” (come si autodefinisce), siedono Maurizio Carfagna, consigliere di Mediolanum, e Victor Uckmar, il più celebre fiscalista italiano, i cui servigi sono stati richiesti in passato da ogni possibile gruppo industriale, e che oggi è amministratore della Tiscali di Renato Soru. Non sorprende quindi che gli analisti finanziari italiani lamentino l’impossibilità di rintracciare informazioni equilibrate sulla base delle quali valutare i bilanci delle società, o che scandali come quello della Cirio o della Parmalat siano stati tenuti nascosti finché non è stato troppo tardi perché i piccoli investitori (ma non le grandi banche!) potessero rendersi conto della reale situazione.
E qui è necessario notare un dettaglio sconcertante. Tiscali è l’editore de L’Unità – il quotidiano del principale partito di sinistra del Paese, il Pd – che risulta pertanto a un solo grado di separazione da Milano Finanza e Capital (attraverso Uckmar); e a due gradi di separazione (lo stesso Uckmar e Carfagna), dalla Mediolanum di Berlusconi.
Esiste poi un Consiglio di amministrazione dove tutti i gruppi industriali e bancari citati, a eccezione della famiglia De Benedetti, si incontrano, ed è quello di Mediobanca, ai tempi di Enrico Cuccia – suo fondatore – il ‘salotto buono’ della grande finanza, quella che dirigeva i destini dell’economia italiana sulla base di un preciso progetto strategico (più o meno condivisibile, per carità, ma almeno un progetto c’era), e ora trasformato in enclave di ogni possibile mediazione. Nessuno stupore che l’economia italiana navighi, per la verità a ritmi piuttosto bassi, alla deriva, priva com’è di un timoniere (una volta questo era il ruolo dei politici), in grado di darle una rotta qualsiasi.
E ora tiriamo le somme: se sei sono i gradi di separazione fra due entità qualsiasi prese a caso, è evidente che tre, due, uno, o nessun grado di separazione non rappresentano un legame casuale. Esiste quindi la precisa volontà da parte di industria e finanza di controllare le notizie. Prova ne sia l’ostinazione con cui tanti imprenditori e manager italiani (un esempio per tutti – senza scomodare Silvio Berlusconi – è Diego Della Valle, che si è sottoposto ad anni di paziente anticamera pur di essere ammesso al Cda del Corsera), cercano di forzare la porta dei circuiti informativi. Ovviamente non è prudente che il legame sia sempre diretto, perché una situazione di controllo trasparente potrebbe far nascere qualche lecito dubbio nella mente dei cittadini lettori/elettori sull’attendibilità di quel che apprendono nella lettura dei quotidiani o addirittura potrebbe obbligare i direttori