Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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CONTROVOCE -
NOTIZIE VERE DAL POPOLO -
NOTIZIE SENZA CENSURA
CULTUROPOLI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELLA DISCULTURA
"L’Italia fondata sul lavoro, che non c’è, fatto salvo per i mantenuti e i raccomandati. L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. La raccomandazione nel pubblico impiego è la negazione della meritocrazia e dell'efficienza, oltre ad essere un reato impunito e sottaciuto, dato che sono gli stessi raccomandati ad occuparsene. Cultura e scienza in mani improprie.
Le scuole non mi invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".
di Antonio Giangrande
CULTUROPOLI
L'ITALIA DELLA DISCULTURA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
«Ecco perchè ci sono tanti "coglioni" in giro, se poveretti non hanno nulla da imparare!»
Dr Antonio Giangrande
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
SOMMARIO PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA NUOVA IDEOLOGIA.
CERVELLI IN FUGA.
ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.
ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.
LA SCUOLA AL FRONTE.
ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.
L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!
ADDIO AL CONGIUNTIVO.
POPULISMO. KITSCH, TRASH E CATTIVO GUSTO.
I NOBEL D’ITALIA.
PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".
FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.
ELOGIO DEL PLAGIO. CHI, COME, E PERCHÉ IL “COPIA E INCOLLA” È LA BASE – NASCOSTA – DELLA LETTERATURA.
GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.
BIBLIOGRAFIA ED OSSESSIONE.
LE ULTIME PAROLE FAMOSE: GLI ADDII DEL SUICIDIO.
ITALIANI CONFORMISTI: FASCISTI DENTRO.
GLI ITALIANI: TRA I POPOLI PIU’ IGNORANTI.
IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?
GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE.
MAFIA: LE CONTRO VERITA’ CENSURATE. FALCONE, FALCE E MARTELLO. IL FILO ROSSO SULLA MORTE DI FALCONE E BORSELLINO E LA NASCITA DEL MONOPOLIO ROSSO DELL’ANTIMAFIA.
IL CORTO CIRCUITO. L'EREDITA' DI FALCONE: LE SPECULAZIONI DELL'ANTIMAFIA.
L'ANTIPOLITICA E L'ASTENSIONISMO.
L’ANTIPOLITICA E LE SUE VITTIME. IL PACIFISMO.
IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.
LA LIBERTA'.
LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?
CHI TRADI' LE BRIGATE ROSSE? I ROSSI!
OWENS: ROOSEVELT PIU’ RAZZISTA DI HITLER.
A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?
RISCRIVERE PER DOMINARE. LA STORIA COME ARMA DEI REGIMI.
BELLA CIAO….UN′ENNESIMO FALSO STORICO.
FEMMINISMO COME DERIVA CULTURALE.
PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?
LE PALE EOLICHE. IL PROGRESSO IDEOLOGICO E LA DISTRUZIONE DI UNA CIVILTA’. L’ISIS COME LA SINISTRA.
E’ STATO LA MAFIA!
LEZIONE DI MAFIA.
GLI ANTIFASCISTI MILITANTI? SONO FASCISTI.
SVEGLIATI ITALIA E LAVORA CON IL TURISMO.
IGNORANTI E LAUREATI. COLPA DELLA SCUOLA? APPELLO DEI GENITORI: NON BOCCIATE I NOSTRI FIGLI.
TITOLATI SI’, TITOLATI NO!
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
IL MONDO DIVISO TRA COLTI ED IGNORANTI.
L’IGNORANZA DELLE PERSONE COLTE.
BENEDETTO SIA ZALONE.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
SOMMARIO SECONDA PARTE
A PROPOSITO DELLE FIERE-MOSTRE DEL LIBRO E LE BIBLIODIVERSITA’. LA LOBBY ROSSA DELLA CULTURA.
L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".
GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.
GLI INFLUENCER.
GLI INTELLETTUALI ITALIANI. NON SOLO CULTURAME.
LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.
CLAUDIO BAGLIONI E LE SOLITE CANZONETTE.
MAI NULLA CAMBIA. 1968: TRAGICA ILLUSIONE.
1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.
A COSA SERVONO...
LE FAKE NEWS CHE GIRANO IN RETE.
L’HA DETTO LA TELEVISIONE! LE FAKE NEWS DI STATO.
LA VERITA' E' FALSA.
LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.
LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.
IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.
GLI ESTREMISTI DELLE NOSTRE VITE.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
ESSERE LIBERALI OD ESSERE DI SINISTRA?
25 APRILE 2015. 70 ANNI DALLA LIBERAZIONE. L'ALTRA RESISTENZA CONTRO IL RITO DELL'ANTIFASCISMO UN PO’ FASCISTA.
NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.
VUOI CANTARE? IL CONCORSO E' TRUCCATO.
POVIA ED I MORALIZZATORI.
EPPURE CHE GUEVARA ERA CONTRO I GAY.
LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).
ALTRO CHE RIVOLUZIONE: E' L'ITALIA DEI FESTIVAL!
LA CONTROSTORIA DELLE CASE EDITRICI ALTERNATIVE.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
VA TUTTO BEN MADAMA LA MARCHESA. INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO E LAVAGGIO DEL CERVELLO.
BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.
LIBERTA'. TERMINE VACUO. PATRIA, ORDINE E LEGGE: SLOGAN CHE UNISCE DESTRA E SINISTRA.
OMOFOBIA E CACCIA ALLE STREGHE. CARLO TAORMINA. QUANDO L’OPINIONE E’ DISCRIMINATA.
LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.
L’ISLAM NON SI TOCCA.
LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.
INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.
LE CROCIATE: ORGOGLIO CRISTIANO!
COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.
L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.
IL NATALE COME TRADIZIONE E CULTURA: GENESI ED EVOLUZIONE.
IL TERRORISMO ISLAMICO CHE VIENE DA LONTANO. QUANDO NEW YORK E PARIGI ERAVAMO NOI.
LA DIFFERENZA TRA RELIGIONI.
INTELLETTUALI A SCARTAMENTO RIDOTTO.
COSA NON VORREMMO PIU' VEDERE IN TV.
COME TI COSTRUISCO UNA BUFALA SUL WEB.
FAMILISMO AMORALE. LE GUERRE PER L'EREDITA' DEGLI ARTISTI.
NEOREALISMO E MODA.
CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
PREMIO STREGA ED AUTOCITAZIONI. LO SCRITTORE NON E’ MAI AUTORE.
ATTORI E REGISTI: UNA CASTA DI IDIOTI DI SINISTRA RACCOMANDATI.
SI CENSURA, MA NON SI DICE.
BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.
SIAMO TUTTI PUTTANE.
LA PALUDE DEGLI SCRITTORI. LE VESTI STRACCIATE E LA LAVATA IN PUBBLICO DEI PANNI SPORCHI DEGLI (A LORO DIRE) INTELLETTUALI.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
LA SOTTOCULTURA IDIOTA DELL'ANTIFASCISMO MILITANTE. L'OSTRACISMO ARTISTICO A DANNO DEI MUSSOLINI.
SESSO E CIVILTA’. IL COMUNE SENSO DEL PUDORE: QUANTO E’ COMUNE E QUANTO E’ IMPOSTO?
LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
WIKIPEDIA DEI ROSSI E L’EGEMONIA CULTURALE DELLA SINISTRA.
SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.
CIAK. SI TRUFFA E SI FLOPPA. IL CINEMA IN ITALIA.
CULTURA, INFORMAZIONE E SOCIETA’. A PROPOSITO DI WIKIPEDIA. L’ENCICLOPEDIA CENSORIA.
SOCIETA' ITALIANA AUTORI ED EDITORI.
PROMOZIONE DELL'ITALIA? NO GRAZIE!
PARLIAMO DI PRODOTTI EDITORIALI E LORO DISTRIBUZIONE.
LA CASTA DEGLI EDITORI: LA CENSURA OCCULTA.
PARLIAMO DI SCRITTORI E PREMI LETTERARI.
LA TRUFFA DELLE CLASSIFICHE DEI LIBRI.
UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
SIAE: LA STORIA.
PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.
LA NUOVA IDEOLOGIA.
La nuova ideologia, scrive Piero Sansonetti il 27 Ottobre su "Il Dubbio". Nelle classi dirigenti, non solo nel popolo, sta crescendo una nuova, terribile, ideologia totalitaria. Gli avvocati, restati soli a difendere il Diritto. È chiaro che bisogna tenere conto del dolore, della rabbia che provano i parenti delle vittime. Non credo che il problema siano loro. Il problema è il clima nel quale vivono. Il modo nel quale si costruisce quello che i filosofi chiamano lo “spirito pubblico”. La reazione dissennata dei parenti che hanno aggredito l’avvocato è maturata dentro lo spirito pubblico che oggi è dominante. E’ uno spirito pubblico intollerante, arrogante, egoista, giustizialista, che spinge ciascuno di noi a cercare di essere prima di tutto giudice severo e spietato. Il massimo della rettitudine morale la si raggiunge giudicando e non perdonando niente. È in questo modo che si contribuisce al miglioramento e alla pulizia della nostra società. Naturalmente in questa idea non c’è posto per il diritto. E tantomeno per l’avvocato, che del diritto è protagonista decisivo. E di conseguenza l’avvocato, e la sua pretesa di far prevalere il diritto sull’etica, o sulla presunta etica, diventa il nemico. L’avvocato non è più visto come una figura essenziale al funzionamento di una comunità civile, ma come l’” arma” del colpevole. Neppure il complice: di più, lo strumento attraverso il quale il colpevole raggiunge la massima abiezione possibile che un delitto può produrre: l’impunità. Se la vetta dell’etica è la punizione, vuol dire che l’infimo dell’etica è l’assoluzione. E l’avvocato è il garante, o almeno il ricercatore dell’assoluzione, e dunque il colpevole dell’assoluzione, e quindi è lui che commette il delitto più grande, più grande ancora del delitto commesso ( o forse anche non commesso) dall’imputato. L’imputato difende se stesso, l’avvocato difende il delitto. E quindi forse l’imputato è innocente, l’avvocato mai. In questa logica terrificante, nella quale tutti i principi della civiltà giuridica vengono travolti, è chiaro che si giustifica pienamente anche l’aggressione di ieri a un avvocato di Pisa. Il problema è che non è una logica che appartiene a una piccola minoranza, a qualche brandello di “plebe”, e che è contrastata dall’intellettualità, dall’informazione, dalla politica. Il contrario: è il fondamento della nuova ideologia dominante, sostenuta dai grandi giornali, da quasi tutte le Tv, dalla politica, dal web. Si dice che le ideologie siano morte. Non è vero. Sono morte le grandi ideologie del novecento, fondate sullo studio, sulla ricerca, sulla filosofia, sul tentativo di creare giustizia sociale e libertà, sull’illusione che la giustizia sociale potesse essere il motore della modernità. Sono morte le ideologie rivoluzionarie – pace, uguaglianza e lavoro – o quelle conservatrici o reazionarie – ordine e patria – ma è nata una nuova ideologia, fortissima, vastissima – trasversale tra sinistra e destra – che riproduce le vecchie idee (vecchie vecchie) dell’aristocrazia. Questa ideologia sostiene che esiste un piccolo gruppo di eletti, di giusti, di puri, in grado di giudicare e punire la grande massa dei reprobi e dei corrotti. Ti dice: se vuoi dimostrare di essere tra i giusti devi giudicare e punire anche tu. Tanto più odierai gli altri e li indicherai come colpevoli, tanto più potrai dimostrare la tua purezza, la tua grandezza. È un’ideologia che ogni giorno dilaga un po’ di più. Moltissime categorie intellettuali si sono prostrate a questo nuovo Dio che avanza. Forse gli avvocati sono gli unici che resistono. Si oppongono. Propongono un modello diverso e si aggrappano al Diritto. Per questo sono indicati come bersagli dell’ira giustizialista. Per questo le persone che ieri a Pisa hanno aggredito un avvocato, oggi, probabilmente, non si pentiranno ma si sentiranno persone migliori.
Esiste un canone etico italiano: ecco il suo decalogo, scrive Dino Cofrancesco l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Quali sono le caratteristiche di questa cultura politica – altrimenti definita “canone ideologico italiano”? Il caso dell’insegnante elementare di sostegno Lavinia Flavia Cassaro è emblematico. La militante dei centri sociali protagonista, a Torino, dell’aggressione alla polizia, per impedire una manifestazione di un gruppo della destra radicale, ha ribattuto alle accuse che le son piovute addosso da ogni parte, di essere «giustamente delusa dal sistema statale, per il vilipendio quotidiano nei confronti della Costituzione, per le connivenze, ma soprattutto le pratiche fasciste, in questo Paese. Sono una persona e sono antifascista. Non mi vergogno della sana rabbia che tutta questa incomprensibile indifferenza scatena nel mio cuore e nella mia mente». Estremista? Sicuramente lo è, ma al modo in cui lo è il memento pauperistico- evangelico del cristianesimo, che le promesse contenute nel Discorso della Montagna intende realizzare già su questa terra, hic et nunc. Lavinia Flavia Cassaro è la fondamentalista di una political culture ampiamente diffusa nel nostro paese e, soprattutto, nelle nostre scuole, dove gli onnipotenti pedagogisti cattolici degli anni cinquanta sono stati sostituiti da altri maîtresà-penser di ben diverso orientamento etico- politico (e i cattolici rimasti sono quelli alla don Milani). Quali sono le caratteristiche di questa cultura politica – altrimenti definita “canone ideologico italiano”? Proviamo a riassumerle in un decalogo:
1. Uno stile polemico che vede la virtù politica nella lotta senza tregua – e senza esclusione di colpi ai nemici del Bene (la Patria, la Classe, l’Ortodossia religiosa).
2. Una visione del mondo che non accetterà mai il principio che i valori e gli interessi degli individui e dei gruppi sociali, quando non contrastino con le leggi, stanno tutti sullo stesso piano, nel senso che sono tutti egualmente legittimi e degni di rispetto e considerazione.
3. Una teoria del sacerdozio universale laico e secolarizzato che, conferendo ad ogni singola persona il diritto di leggere e interpretare la Bibbia laica – ovvero la Carta Costituzionale -, si traduce nel processo sempre aperto alle autorità costituite (Governo, Parlamento, apparati di sicurezza) chiamate a rispondere del loro operato in difesa dei sacri principi.
4. Un rigetto naturale della filosofia liberale delle Forme, in base alla quale il rispetto delle regole del gioco conta molto di più del risultato del gioco e una causa buona che vinca barando non è più tale. Per il canone ideologico italiano, le procedure si rispettano finché fanno vincere i nostri ma diventano strumenti inservibili e nocivi se portano al potere gli altri.
5. Una sorta di teoria della rilevanza costituzionale della piazza che vede nella “partecipazione” (cortei, sfilate, sit in, occupazioni di edifici pubblici, proteste davanti alle sedi dei partiti o delle ambasciate) la quintessenza della democrazia, la manifestazione autentica e diretta della voluntas populi di cui la classe politica è tenuta a prendere atto (e se non lo fa, vuol dire che il paese legale è lontano dal paese reale).
6. La concezione degli organi dello Stato come bracci secolari al servizio non della Legge ma della sostanza etica che regge la comunità nazionale. Per fare un esempio, la polizia non ha il compito di far rispettare le norme volte a rendere efficace l’art.49 della Costituzione («Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» ) ma deve sciogliere con la forza le riunioni di Casa Pound e chiudere la loro sedi.
7. Il ritorno alla divisione medievale dei poteri: da una parte, il potere temporale – lo Stato, l’Amministrazione, i tribunali, le scuole etc. – dall’altra, il potere spirituale – i custodi della Rivoluzione, fascista, comunista, antifascista – al quale il primo dovrebbe sempre sottoporsi. Di qui il Partito carismatico ma soprattutto le associazioni carismatiche che non sono gruppi di pressione accanto ad altri gruppi ma vere e proprie versioni secolari dei Consigli Supremi islamici i cui verdetti sono più importanti delle disposizioni legislative o delle stesse sentenze dei tribunali. Sono loro, ad esempio, che debbono stabilire se Casa Pound abbia o no libertà di riunirsi e di far cultura. 8. Una concezione storiografica edificante che non crede, sostanzialmente, all’obiettività della ricerca e alla regola aurea del “sentire le due campane”: solo la grande autostrada che porta alle conquiste ideali di oggi va tenuta in considerazione – le strade secondarie sono inutili e dannose. Fuor di metafora, i fatti si distinguono in fatti principali – quelli che descrivono le fasi dell’ascesa trionfale del Bene – e in fatti secondari – quelli che enfatizzando i costi in termini di violenza e di barbarie, scatenate dal conflitto ideologico, gettano fango e ombra su stagioni eroiche.
9. Il dovere di rimuovere i simboli del regime abbattuto, sul modello della distruzione di Palmyra da parte dei talebani. Statue, monumenti, intitolazioni di strade vanno tutti abbattuti, come facevano gli antichi ‘ fondamentalisti’ cristiani con gli imponenti resti della classicità pagana. Per fare un altro esempio significativo, una lapide, nell’atrio di un Ateneo, che ricordi Giovanni Gentile, grande filosofo ma soprattutto grandissimo promotore di benemerite iniziative culturali, viene considerata come un vulnus, un’offesa alle vittime del fascismo, una profanazione della Costituzione. Al dovere di rimuovere i simboli del regime abbattuto si lega la “promozione” delle città che diedero un maggiore contributo di sangue alla buona causa, a “città sante” in cui non possono avere sede o, semplicemente, tener comizi o congressi gli eredi dei regimi travolti dalla santa collera popolare.
10. Un legame complesso col populismo. Quello del canone ideologico italiano potrebbe definirsi, con un ossimoro, un populismo elitario: il popolo è, sì, l’autorità più alta ma il potere effettivo sta nelle avanguardie carismatiche gli antemarcia, i resistenti, i movimenti collettivi e le loro guide etc. – che ne interpretano la volontà più autentica, che la conta dei voti non rispecchia. Per dirla con Rousseau, nel populismo senza aggettivi, la volontà del popolo è la volonté de tous, nel populismo elitario è la volonté generale.
Gli interpreti della volontà generale stanno all’Autorità suprema, il Popolo, come in Giappone fino al 1867, gli shogun stavano al Tenno – la fonte di legittimità, che serviva solo a legittimarne il potere. Di qui la diffidenza per le masse – la “plebe” quando non siano dirette dai guardiani della comunità politica. Se si tiene presente questo decalogo, c’è da chiedersi: ma qual è poi, la colpa della «professoressa dell’odio», come Lavinia Flavia Cassaro è stata definita da Matteo Renzi? La pasionaria siculo- piemontese, in realtà, è l’espressione più coerente dell’canone ideologico italiano e di quella giustizia-fai-da-te di cui si è detto al punto 3 – parlando della teoria del sacerdozio universale. È vero che non si inveisce o non si attacca la polizia posta a salvaguardia dell’ordine pubblico, ma una polizia che protegge una compagnia di zombie, lasciandoli liberi di celebrare le loro messe nere e i loro riti satanici non giustifica l’indignazione e la «sana rabbia» che l’ «incomprensibile indifferenza scatena» nel «cuore» e nella «mente» di chi ha preso maledettamente sul serio gli slogan della nostra interminabile guerra civile? La si cacci pure dalla scuola – come peraltro sarebbe giustissimo tanto il suo posto verrà preso da un’altra, da cento, da mille Cassaro.
CERVELLI IN FUGA.
Poletti, il calcetto e tutte le gaffe su giovani e lavoro. Dai "bamboccioni" di Padoa Schioppa alla monotonia del posto fisso di Monti. Oltre Poletti, tutti i politici che sono scivolati sui giovani e il loro futuro, scrive Maria Franco il 29 marzo 2017 su "Panorama". Questa volta non si è trattato di un congiuntivo sbagliato, di un errore di geografia, di una citazione erroneamente attribuita e nemmeno di sviste sulla Costituzione. A scatenare la polemica che ha investito il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stata infatti una frase espressa in italiano corretto, secondo molti anche onesta nel contenuto ma per tutti tragicamente inopportuna.
Il calcetto. Incontrando gli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna, Poletti ha infatti suggerito loro di coltivare il più possibile le relazioni sociali. Nulla di male se non avesse anche aggiunto che per trovare lavoro è “più utile giocare a calcetto che mandare in giro curricula”. Molte ricerche gli danno ragione: secondo i dati Isfol solo il 3% trova lavoro attraverso i centri per l'impiego mentre “l’Italia continua ad essere un paese – ha dichiarato il Commissario straordinario dell'ente pubblico di ricerca Stefano Sacchi - dove per trovare lavoro conta moltissimo la rete di conoscenze che un individuo può mettere in campo”. Eppure il ministro è stato travolto da critiche e attacchi e le opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle in testa, ne hanno chiesto le dimissioni.
I cervelli in fuga. D'altra parte il ministro del Lavoro non è nuovo a questo tipo di esternazioni scivolose. Qualche mese fa, a colloquio con dei giornalisti in difesa del Jobs Act, Poletti usò frasi piuttosto sprezzanti nei confronti di chi decide di lasciare l'Italia per cercare miglior fortuna all'Estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche allora il ministro tentò di correggere il tiro e si scusò: “non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Un'altra polemica risale a circa un anno fa quando sempre Poletti dichiarò che “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.
Fornero e i giovani “choosy”. Tra i ministri meno amati nella storia della Repubblica italiana, Elsa Fornero viene ancora oggi ricordata come la professoressa che ha sbagliato i conti sui cosiddetti “esodati” e che ha dato dei “choosy” (schizzinosi) ai giovani che non si accontentano di ciò che gli viene offerto quando si affacciano al mondo del lavoro. Per esattezza ciò che allora fece la ministra fu elargire loro il consiglio di “non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi”. Ricordando ciò che ella era solita dire sempre ai suoi studenti, Fornero suggeriva che fosse opportuno prendere subito il primo lavoro che capitava per poi “da dentro” guardarsi intorno. Anche in questo caso sarebbe ipocrita negare che il 99% dei genitori italiani suggeriscano la stessa cosa ai loro figli. Ma da un ministro del Lavoro i giovani italiani si aspettano non consigli bensì soluzioni che li sottraggano a un futuro da precari a tempo indeterminato.
Monti e il posto fisso. Certo è che dentro il governo Monti, di cui Fornero ha fatto parte, il posto fisso non ha mai goduto di un particolare favore. “Che noia” dichiarò infatti l'allora premier Mario Monti a Matrix. “I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare”. Peccato che in un Paese dove, secondo dati Istat, la disoccupazione giovanile si attestava a gennaio al 40,6%, il problema non è più nemmeno quello di trovare un posto fisso ma di trovarne uno qualsiasi.
Anna Maria Cancellieri e i mammoni. Quasi che denigrare i giovani fosse diventata l'ossessione di molti dei membri del governo Monti, anche l'allora ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non si fece scappare l'occasione di lanciare la propria personale bombetta. Intervistata da Tgcom24, la ministra che fu costretta a dimettersi quando da Guardasigilli del governo Letta fu coinvolta nel caso Ligresti, in una sola frase Cancellieri rievocò la celebre etichetta di “bamboccioni” appiccicata addosso ai giovani dal Padoa Schioppa e ribadì il giudizio espresso da Monti sul posto fisso: “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città – disse infatti – di fianco a mamma e papà...”.
Martone e gli sfigati. Sui giovani, il lavoro e il loro futuro anche l'allora viceministro al Welfare (sempre del governo Monti) volle consegnare alle cronache una perla di presunta saggezza ma di dubbia opportunità. Alla sua prima uscita pubblica, un convegno sull'apprendistato organizzato dalla Regione Lazio, Michel Martone bollò infatti come uno “sfigato” chi a 28 anni ancora non è riuscito a mettersi una laurea in tasca. “Dobbiamo dire ai nostri giovani - disse il vice della Fornero - che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. Anche in questo caso il consiglio dall'alto, paternalistico e secchione, di un “giovane” particolarmente fortunato, fu respinto al mittente con profluvio annesso di infuocate polemiche.
Padoa Schioppa e i bamboccioni. A conquistarsi il titolo di “madre di tutte le gaffe” fu quella scappata allo scomparso ministro dell'Economia nel secondo governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa. Nel presentare la finanziaria del 2007, l'allora titolare di via XX Settembre disse infatti che le misure a favore delle famiglie sarebbero servite anche “a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa". Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”. Ma quanti sono quelli che non si rendono autonomi per scelta? Una domanda che evidentemente il ministro non si pose o che non ritenne opportuno porsi per evitare di essere in futuro ricordato solo per questo episodio nonostante una prestigiosa e lunga carriera ai vertici sia della Commissione europea che della Banca d'Italia.
Brunetta e l'Italia peggiore. Anche perdere la pazienza in pubblico può giocare brutti scherzi a chi fa politica. È successo per esempio al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta all'epoca in cui era ministro della Funzione Pubblica. Al termine del suo intervento a un convegno sull'innovazione, un gruppo di precari chiede di prendere la parola. Il ministro chiamò sul palco due donne (precarie dell'agenzia tecnica del ministero del Lavoro) e appena quelle pronunciarono la parola “precarie”, Brunetta scese dal palco pronunciando uno stizzito “siete l'Italia peggiore”.
Poletti, Padoa-Schioppa, Berlusconi: dieci anni di battute contro i giovani precari. "Meglio il calcetto del curriculum" è stato solo l'ultimo sfottò di una lunga serie di uscite governative. Da Donne sposate mio figlio! agli sfigati senza ancora una laurea, scrive Wil Nonleggerlo il 28 marzo 2017 su "L'Espresso". Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti "Sfigati", "poco occupabili", "bamboccioni", "choosy"”. Insomma, "l'Italia peggiore". Dieci anni di crisi economica, dieci anni di battutine, sfottò, consigli imbarazzanti per studenti, precari e mondo del lavoro in generale. Ecco la risposta governativa ad una disoccupazione giovanile che veleggia stabile sul 40%, tra le più alte dell'Eurozona. L'ultimo caso riguarda il ministro del Lavoro Poletti: inviare curricula? Meglio il calcetto, crea più opportunità. Scivoloni di questo tipo non riguardano ovviamente solo i governi Renzi-Gentiloni, partono da Padoa-Schioppa e attraversano 10 anni di esecutivi, politici e tecnici. Li abbiamo raccolti per voi.
- Meglio il calcetto dei curricula (Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti agli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna - 27 marzo 2017): Nella ricerca di un lavoro "il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale", si creano più opportunità "a giocare a calcetto che a mandare in giro i curricula".
- Dopo lo scoppio delle polemiche il ministro Poletti prova a spiegare meglio il concetto (28 marzo 2017): "Critiche? È una stupidaggine sintetizzare in una riga due ore di dialogo con i ragazzi. Il calcetto, se volete, è la metafora della relazione sociale".
- Fuori dai piedi (Il ministro Poletti a colloquio con i giornalisti a Fano - 19 dicembre 2016): "Bene così: se 100mila giovani sono andati via non vuol dire che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Quelli che se ne sono andati è bene che stiano dove sono, il Paese non soffrirà sicuramente nel non averli più tra i piedi".
- Consigli per la laurea (Il ministro Poletti - non laureato - durante la convention di Veronafiere "Job&Orienta" - 26 novembre 2015): "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".
- Italiani poco occupabili (Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta - 9 ottobre 2013): "L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro".
- Choosy (Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, durante un convegno a Milano - 22 ottobre 2012): "I giovani escono dalla scuola e devono trovare un'occupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi".
- Sfigati (Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti, alla sua prima uscita pubblica, in un convegno sull’apprendistato organizzato dalla Regione Lazio - 24 gennaio 2012): "Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato".
- Precari, siete l'Italia peggiore! (Renato Brunetta, ministro per la Funzione Pubblica del governo Berlusconi, risponde così ad un gruppo di precari durante la terza edizione della “Giornata Nazionale dell’Innovazione” - 14 giugno 2011): Il ministro invita due donne che chiedono di fare una domanda sul palco, ma non appena pronunciano la parola "precari" Brunetta perde completamente la pazienza: "Grazie, arrivederci. Questa è la peggiore Italia!". Uscendo dalla sala strapperà pure il cartellone dei manifestanti.
- La ricetta di Berlusconi contro la precarietà: donne, sposate mio figlio! (L'allora premier risponde ad una studentessa che nel corso della rubrica del Tg2 Punto di vista gli chiede come sia possibile, per una giovane coppia, farsi una famiglia senza un lavoro stabile - 13 marzo 2008): "Intanto bisognerebbe che in questa giovane coppia - ed è un consiglio che da padre mi permetto di dare a lei - dovrebbe cercarsi magari il figlio di Berlusconi o di qualcun altro... Lei col sorriso che ha potrebbe anche permetterselo!".
- I bamboccioni (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze del governo Prodi, promuovendo agevolazioni all'affitto per i più giovani - 6 ottobre 2007): "Mandiamo i bamboccioni fuori casa!".
“Sfigati”, disse il dottor Michel Martone, viceministro per un quarto di stagione. “Bamboccioni”, disse il ministro Tommaso Padoa Schioppa. “Choosy”, schifiltosi e pigri, così il ministro Elsa Fornero. “Giovani in fuga? Conosco gente che è meglio non averla tra i piedi”, dice il ministro Giuliano Poletti in carica al dicastero del Lavoro. In principio fu Tommaso Padoa Schioppa. Nel 2007 l'allora ministro dell'Economia, scomparso nel 2010, definì "bamboccioni" i giovani italiani. "Mandiamoli fuori di casa", disse all'epoca. E giù polemiche, con l'Italia spaccata tra bamboccioni sì e bamboccioni no. Da allora è stato un susseguirsi di sparate sui ragazzi del Belpaese. Fornero, Martone, Giovannini e il 26 novembre 2015 Giuliano Poletti secondo cui una laurea presa a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico.
Basta! Ora siamo pure incompetenti. Da Padoa-Schioppa a Fornero, da Martone a Giovannini: i ministri se la prendono sempre con gli italiani in difficoltà. Bamboccioni, choosy e chi ne ha più ne metta. Ma perché non si guardano allo specchio? 9 ottobre 2013 da Libero quotidiano. Dopo “choosy”, “scansafatiche” e “bamboccioni”, ora gli italiani sono pure “incompetenti”. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, dopo sei mesi a palazzo Chigi centra subito l’obiettivo: farsi odiare da chi lavora e soprattutto da chi un lavoro non ce l’ha. Intervenendo a un convengo sul Senato sui 10 anni della legge Biagi, Giovannini afferma: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Affermazioni pesanti di per sé, ancora di più se a pronunciare è il ministro del Lavoro”. Ma il ministro non fa marcia indietro: “Quelle cifre – ha aggiunto – ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità. La responsabilità di questa situazione – ha concluso – è di tutti”. Il dato di ieri dell’organizzazione mostrava come l’Italia sia tra gli ultimi posti al mondo per le competenze fondamentali necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e della vita sociale. Ma quei dati di certo non sono il passaporto per poter definire gli italiani come “incompetenti” e “inoccupabili”. Insomma Giovannini si accoda subito alla buona tradizione di offese che sono piovute sugli italiani negli ultimi anni. Giovannini come la Fornero – L’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero qualche mese prima di lasciare il suo incarico disse chiaramente: “Gli italiani costano tanto e lavorano poco”. La bordata era arrivata subito dopo l’attacco ai giovani disoccupati che, sempre la Fornero, definì “choosy”, ovvero “stizzinosi, con poco spirito di adattamento”. Infine l’attacco di Giovannini è in linea con quello dell’ex ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa che definì i giovani disoccupati come “bamboccioni”. Mentre l’ex sottosegretario al Lavoro, Martone disse che “laurearsi dopo i 28 anni, è roba da sfigati”.
Bamboccioni, choosy, pistola: quando i ministri fanno infuriare i giovani, scrive Ugo Barbàra su "Agi" il 20 dicembre 2016. Le scuse non bastano a fugare le nubi di tempesta che si addensano sul ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero" ha detto dopo che sul web si è diffusa alla velocità della luce una sua affermazione riportata dalla stampa su alcuni giovani andati all'estero, "questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi". "Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso", si legge nella nota di precisazione. "Penso, semplicemente", aggiunge, "che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie".
Il Fatto Quotidiano traccia un parallelismo tra le parole di Poletti e quelle di Claudio Scajola, che definì "rompicoglioni" Marco Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle nuove Brigate Rosse. Ricercatori, ma anche liberi professionisti di livello, imprenditori, inventori di start up: per Poletti meglio che se ne siano andati, ad arricchire con le loro conoscenze, la loro capacità di intuito e di analisi, la loro immaginazione e fantasia, altri paesi.
Non è la prima volta che Poletti attira su di sé le ire dei laureati. Poco più di un anno fa se ne uscì con un'altra frase destinata a scatenare ondate di polemiche: "rendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21". Ma non è l'unico, tra i vertici delle istituzioni, a primeggiare per impopolarità tra i giovani.
In ottobre è stato il ministero dello Sviluppo economico a fare una gaffe non da poco: la blogger Eleonora Voltolina aveva trovato in un opuscolo destinato agli investitori esteri un invito forse allettante per loro, ma non lusinghiero per i lavoratori italiani il cui senso era questo: costano poco anche quando hanno un elevato tasso di scolarizzazione.
Nell'ottobre del 2012 fu l'allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a finire sotto il fuoco delle polemiche per una frase sui giovani che non devono essere troppo schizzinosi al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. “Non devono essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Meglio cogliere la prima occasione e poi guardarsi intorno”.
Dieci mesi prima, nel gennaio del 2012, era stato il viceministro del Lavoro, Michel Martone, a dare degli 'sfigati' ai giovani: "Se a 28 anni non sei ancora laureato - aveva detto partecipando a un incontro sull'apprendistato - sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari".
Nell'ottobre del 2007 era stato l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a usare un termine destinato a diventare di uso comune nel dibattito politico. Le misure a favore delle famiglie, disse presentando la finanziaria, serviranno anche "a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa. Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi".
La guerra infame del potere contro i giovani di questo Paese. Da Poletti alla Fornero. Ma il suo capostipite fu il ministro Padoa Schioppa, passato alla storia con la sua invettiva contro "i giovani bamboccioni", scrive Luca Telese il 20 dicembre 2016. Dei pistola. Malagente. Persone indesiderate da tenere - addirittura - fuori dall'Italia. L'incredibile gaffe del ministro al Lavoro Giuliano Poletti questa volta va studiata nel dettaglio. E non per ridicola e flebile richiesta di scuse che ha seguito l'infelice sortita, ma perché - purtroppo - non rappresenta un caso isolato. "Se 100mila giovani se ne sono andati dall'Italia - ha detto il ministro con incomprensibile fare aggressivo - non è che qui sono rimasti 60 milioni di 'pistola'". Il ministro del Lavoro, conversava amabilmente con i giornalisti a Fano e pochi minuti prima aveva difeso il Jobs Act del governo e aperto alla possibilità di rivedere le norme sui voucher. Già questa, a ben vedere, era una manifestazione di stato confusionale, visto che solo tre giorni prima lo stesso ministro si augurava una crisi anticipata del suo governo, pur di impedire il referendum abrogativo sui voucher e sull'articolo 18. Ma evidentemente, mentre fingeva di aprire, Poletti sembrava anche interessato a punire, se non altro sul piano simbolico: "Intanto - osservava stilando il suo atto d'accusa - bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi". E a questo punto che era arrivato il colpo di grazia, la mazzata sui reprobi. "Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". A chi si riferisse Poletti, non è dato di saperlo, resterà un mistero. Però ci sono almeno due indizi importanti da seguire. Il primo: le parole del ministro arrivano dopo un preferendo in cui le tesi del governo sono state bocciate a maggioranza quasi unanime, dagli elettori compresi nella fascia anagrafica fra i 18 e i 35 anni. La seconda, però, è molto più profonda, sottile, e merita una riflessione.
Denigrare i giovani è diventato uno sport nazionale. La guerra infame ed ideologica dei governi italiani contro i giovani in questo paese parte da lontano, e non è stata incominciata da Poletti. Ha il suo capostipite nelle parole scioccanti del ministro Padoa Schioppa che con il sorriso sulle labbra la sua celebre invettiva contro "i giovani bamboccioni". Italiani infantili e colpevoli perché incapaci di trovare una strada, mammoni, desiderosi di protezioni, pappe pronte e tutele. Non era che l'inizio. Quindi dopo il ministro dell'ulivo, fu la volta della ministra Fornero, la sacerdotessa del rigore con la lacrima facile, in uno dei suoi momenti di melodrammatica megalomania, si lanciò in una invettiva contro "i choosy", gli schizzinosi, contro i ragazzini che non hanno voglia di fare la propria parte. La faceva egregiamente lei, peraltro, massacrando i pensionati, battezzando con le sue lacrime di coccodrillo, battaglioni di esodati.
E che dire dell'allora sottosegretario al lavoro, Michel Martone? Anche lui ci era andato giù duro: "Hai 28 anni e non ti sei ancora laureato? Allora sei uno sfigato". A queste frasi, divenute ormai proverbiale, si sono aggiunte decine di dichiarazioni, di gaffe rivelatrici, di infortuni lessicali, seguiti da scuse più o meno maldestre in alcuni casi, e da nessuna scusa, nella maggior parte. Piuttosto che considerare questo florilegio una collezione di parole dal sen fuggite, o casi isolati, bisognerà rassegnarsi a prendere in considerazione questo repertorio di errori come una sorta di inconsapevole ma fluente manifesto ideologico. Come una dichiarazione di guerra a una classe sociale, anagrafica, che le classi dirigenti italiane considerano nemica. Mentre smantellavano diritti in tutte le leggi sul lavoro a partire dal pacchetto Treu, mentre colpivano la #buonascuola, mentre bastonavano, e non solo metaforicamente la precarietà, costruivano una apartheid di diritti, i governi italiani si sono dati la staffetta in un opera di demolizione psicologica delle loro vittime. Non sono loro ad avere colpa dell'esodo, non nel loro la responsabilità della fuga dei cervelli, non sono loro ad essere deficitari nelle loro risposte e iniqui nel loro operato. Con un geniale riflesso istintivo, hanno trasformando le loro vittime in carnefici, e viceversa.
Per alcuni i privilegi sono ormai una grazia dovuta. A sentire le sparate di Poletti e dei suoi epigoni, è chi paga il prezzo delle loro politiche che si deve vergognare e non viceversa. C'è dietro questa retorica cattiva, anche qualcosa di più, un istinto corporativo. La classe dirigente dei garantiti, che pensa a se stessa, ai propri figli e ai propri privilegi come ad una grazia dovuta. Come al biglietto di ingresso nel club dell'aristocrazia e delle elite. A tutti gli altri, invece, guarda come una masnada di usurpatori, disperati che si affollano bussando alle porte delle loro fortezze. I giovani che sono partiti, in verità, sono quelli che non rinunciano a muovere l’ascensore sociale. Sono quelli che non si mettono in fila di fronte ai nonni e ai baroni. Sono quelli che non accettano la geometria di potere delle vecchie e nuove caste, coloro che non vogliono pagare la tassa d'ingresso nelle corporazioni garantite. Fra qualche anno, quando tutto sarà più chiaro, le Fornero e i Poletti, che in questi anni la stampa e i media hanno trattato con i guanti di velluto, saranno ricordati come i razzisti americani degli anni ‘60, quelli che sorridevano con i colletti inamidati, mentre dormono coperture ideologica discorso lui, ai cappi, e ai roghi in cui si bruciavano i "negri" che non volevano piegarsi e accettare la parte dello zio Tom.
ITALIA. PAESE DI SANTI, NAVIGATORI E...POETI.
L'Italia, il Paese con tre milioni di poeti. Sembra che la poesia non ci sia. Poi la incontri in un film, in un centro sociale, tra i libri più venduti. Perché sono tantissimi gli italiani che scrivono, leggono e si finanziano. Con successo, scrive Fabio Chiusi l'1 gennaio 2017 su “L’Espresso”. C’è una “disperata vitalità” nel mondo della poesia in Italia. “Disperata” come in Pier Paolo Pasolini, perché la vita in versi prosegue, muta e si rinnova, eppure ciclicamente bisogna tornare a tastarne il polso, accertarsi che il cuore del paziente batta ancora. Colpa di un mercato inesistente o quasi, che vale oggi secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori appena il 6% del totale dei libri pubblicati per, scrive Nielsen, un venduto complessivo di mezzo milione di copie. Se le stime parlano di circa tre milioni di poeti nel nostro paese, si comprende che i versi si scrivono più di quanto si leggono. Un problema culturale, certo, ma anche un dato che testimonia come la poesia sia e resti «una necessità profonda», dice all’Espresso uno dei massimi autori viventi, Milo De Angelis, «qualcosa che parla alla nostra sete». Un modo per capire quanti però davvero se ne abbeverino, e come, è misurare le sortite della cultura di massa in quella che, anche nell’era del “tutto connesso”, resta una nicchia. C’è una nuova sensibilità nel cinema, per esempio, che si accompagna a successo di pubblico e critica: «Dopo il cannibalismo da reality sulle vite “maledette” dei poeti”», commenta Alberto Pellegatta, classe 1978 e presto in libreria con “Ipotesi di felicità” per Mondadori, «film come “Paterson” e “Neruda” cercano di avvicinare la poesia con maggiore rispetto, e con la cura che si deve alle cose più fragili e preziose, ai dettagli minimi che fanno la differenza, e che quasi tutti trascurano». Ancora, c’è il rinnovato interesse per Giacomo Leopardi, riletto da Alessandro D’Avenia in un libro in vetta alle classifiche di narrativa, e già nel 2014 da Mario Martone nel film “Il giovane favoloso”. Non solo: ci sono i nuovi modi attraverso cui la poesia diventa “partecipata”. In rete, per esempio, il sito “Interno Poesia” sfrutta il “crowdfunding”, cioè il finanziamento tramite donazioni online dei lettori, per lanciare e sostenere le raccolte di autori conosciuti e non. È un modo per ovviare alla richiesta, di buona parte degli editori del settore, di un contributo monetario per pubblicare. E funziona. I progetti, spiega l’ideatore Andrea Cati, vengono sviluppati tramite vere e proprie campagne promozionali della durata di 30-50 giorni basate su presentazioni delle anteprime dei libri proposti, ma anche condividendoli sui social network, nelle newsletter, perfino in video su YouTube dell’autore alle prese con la sua opera. «Si fa una prevendita, come nella musica», dice Cati, parlando di centinaia di partecipanti, la maggior parte giovani, e di budget - duemila euro di norma - raggiunti e superati. Più partecipazione del lettore nell’ideazione stessa del libro, insomma, ma anche più cura per l’immagine, il marketing, il fare della poesia un prodotto di mercato. Idee da cui «gli addetti ai lavori rifuggono», secondo Cati, ma sbagliando: «Senza una buona promozione, le vendite non aumenteranno». Un’altra “innovazione” che fa storcere il naso a chi tradizionalmente detiene le chiavi della poesia sono i “poetry slam”. Lanciate in Italia da Lello Voce nel 2001, queste gare tra poeti con tanto di giuria - votante - selezionata casualmente tra il pubblico sono diventate rapidamente un luogo abituale di aggregazione per poeti e aspiranti tali, ibridando il mondo dei versi con quello dello spettacolo, le qualità del poeta con quelle del performer, ma anche aprendolo a fasce della popolazione che altrimenti non vi entrerebbero in contatto. I numeri sono impressionanti: 250 “slam” in tutto il paese per il solo campionato ufficiale, e presenze dalle poche decine di persone alle centinaia, a seconda della capienza dei luoghi - taverne, centri sociali, biblioteche. «Ma a Perugia ne ho fatto uno con seimila persone», dice Voce, che rivendica l’origine nell’oralità del componimento poetico, e disegna scenari internazionali anche più partecipati. Come in Sudamerica, dove un autore come Arnaldo Antunes, già musicista coi Tribalistas, vende 50 mila copie; ma anche nel resto d’Europa. A partire dalla Germania: «A Monaco 800 persone hanno pagato 15 euro l’una per partecipare», spiega Voce, le cui commistioni di poesia e musica sono reperibili su Spotify, e che non ha timore di parlare di cantautori come poeti a tutto tondo. Posizioni che dividono molto, e con asprezza. «I poetry slam sono creature senza solitudine e riguardano, più che la poesia, l’intrattenimento o il cabaret», attacca De Angelis. «L’intrattenimento è intrattenimento», conferma Maurizio Cucchi, curatore della prestigiosa collana “Lo Specchio” di Mondadori e autore tra i protagonisti del panorama poetico contemporaneo. Quanto alla musica, «ho sempre avuto simpatia per i cantanti, ma ognuno ha la propria arte». Insomma, «prima di darci qualsiasi risposta» sulla vitalità del mondo poetico è «necessario definire cos’è per ognuno poesia», sostiene Mary Barbara Tolusso, giornalista e poetessa pordenonese. «Per me mantiene il suo carattere di eccellenza nella forma scritta, in ciò che è stato l’imprinting di formazione», che deriva cioè dai manuali scolastici e dai libri. E invece, prosegue, «l’epoca impone che tutto è spettacolo, un fenomeno che mira a parlare ai più e di conseguenza deve semplificare i codici. È il motivo per cui si scambiano i cantanti per poeti, i blogger per scrittori e così via». Ma anche limitandosi alla sua forma tradizionale, la poesia è viva e vegeta. Guanda ha appena rilanciato in tascabile la sua storica collana. Elisa Donzelli, responsabile del catalogo di poesia dell’omonimo editore, dice che dal lancio nel 1994 «siamo cresciuti», dimostrando che «non è vero che con la poesia si va in debito». E non solo pubblicando giganti del calibro di Andrea Zanzotto e Charles Simic: il libro più venduto è “Notti di pace occidentale” di Antonella Anedda. L’interesse per la buona poesia, in altre parole, resiste anche limitandosi a quella scritta. Tolusso lo conferma come selezionatrice del premio Cetonaverde Poesia, affollato dai componimenti di «ragazzi giovanissimi che, nonostante i tam tam delle odierne ambizioni, si concentrano su qualcosa di cui sanno in anticipo non darà né soldi né fama e lo fanno concentrandosi sulla parola, senza apporto di musica o microfoni». La stessa divisione, e altrettanto netta, si impone rispetto al ruolo di Internet e dei social media nella produzione e diffusione di versi. L’impressione è che si sia a una frattura generazionale, ma anche concettuale e di potere, che riflette il dibattito in corso in altri settori dell’editoria e nel giornalismo. Da un lato, nuove voci che cercano spazio sfruttando la “disintermediazione” e la “disruption” fornite dalle tecnologie di comunicazione digitale, che consentono di evitare il passaggio da editori e riviste; dall’altro, i detentori delle forme e dei canali tradizionali di creazione e diffusione del sapere poetico, terrorizzati dalla marea montante di incompetenza. Nel mezzo, il problema di mantenere la complessità della poesia senza banalizzarla in “memi” su Instagram - come nel fenomeno di successo, degli “Instapoets” - e insieme il tentativo di non esiliare i versi da Facebook e Twitter, facendo in modo diventino luogo di confronto costruttivo e serio tra autori e appassionati. Per alcuni, una battaglia persa. Tra loro il poeta romano Jacopo Ricciardi, per cui i social «non permettono un reale confronto tra poeti». Anzi, «su Facebook si trova una socialità fatta di coloro che vogliono essere poeti e non lo sono, mentre i poeti che lo sono non vogliono pubblicarsi su Facebook», ma cercano luoghi autorevoli. Cucchi concorda: «Il problema è che con questi nuovi mezzi di comunicazione si pensa più alla propria presenza che alla ricerca poetica. Occorrerebbero mezzi più selettivi». Il rischio è che l’autore prevalga sul libro, il contenitore sul contenuto, e si finisca travolti da un mare di componimenti mediocri, che sembrano perfino adottare le forme comunicative e il linguaggio «delle conversazioni virtuali in rete». E tuttavia, spiega Donzelli, i “mi piace” sui social si traducono davvero in libri venduti. E il bisogno di ricambio, pur urlato spesso con eccessiva insofferenza proprio online, a sua volta è reale. «Per dire che ci sia una nuova vita della poesia c’è bisogno di cambiare facce, uscendo dall’autoreferenzialità dei soliti noti», dice Michelangelo Camelliti, che da trent’anni anima LietoColle, una piccola ma prestigiosa realtà editoriale con sede in provincia di Como. Non c’è soltanto il narcisismo iperconnesso, insomma: c’è anche un vizio antico, aggiunge, l’obbligo di appartenere a “clan” o sparire dal circuito dei premi e dei festival più prestigiosi. Che pure ci sono, e costituiscono un altro dei fattori di vitalità della poesia in Italia. Protagonista indiscusso, secondo tutti gli interpellati, è Pordenonelegge, che tramite la cura e l’organizzazione del poeta Gian Mario Villalta porta centinaia di spettatori a confronto con i massimi autori internazionali, ma anche con quelli emergenti e locali. Camelliti per esempio ne presenta quattro, giovani, alla manifestazione friulana, dopo attenta selezione. La poesia, a Pordenone, ha una propria “Casa”, sempre aperta per letture e confronti, e una libreria dedicata, dove - giura Camelliti - i libri si vendono. Ma gli eventi sono distribuiti durante tutto l’anno, con 100-150 partecipanti alla volta. La questione non è insomma meramente tecnologica. Del resto, alcune riviste cartacee, come Nuovi Argomenti, sembrano vivere più sul web che in edicola. Per Villalta, semmai, i problemi sono di natura più profonda. Il primo è il “settarismo” esasperato, dovuto alla mancanza di un centro culturale capace di riunire e mettere in dialogo gruppi e istanze di realtà territoriali e culturali diverse. Il secondo, conseguente, è che il mondo della poesia non è più capace di concentrarsi su uno stesso tema, e affrontarlo «con un discorso comune». È all’incirca quanto mostra con insofferenza Cucchi dicendo di rimpiangere quasi la pletora di manifesti di poetica che tanto detestava da giovane: oggi quella problematizzazione teoretica manca, così come manca un orizzonte ideologico di fondo. Difficile sia altrimenti, di fronte a uno scenario così composito, così atomizzato e allo stesso tempo conflittuale. Ma non mancano nemmeno i tentativi di cucire gli strappi. A La Spezia, per esempio, a fine febbraio si terrà un evento, “Mitilanza #1, Gli spazi mobili della poesia”, che si propone di riunire le diverse realtà che indagano il limite del versificare contemporaneo, con tavole rotonde su “street poetry” - chi scrive, ma sui muri e i volantini - ma anche nuove forme dell’editoria, incroci con teatro e musica, e soprattutto l’incontro tra la generazione delle avanguardie di Nanni Balestrini e del Gruppo 63 con i giovani sperimentatori di oggi, dagli animatori del sito GAMMM a chi prende parte agli “slam”. «L’intenzione è che ci sia baruffa», spiega Francesco Terzago, consulente di comunicazione per una società di robotica, ma anche poeta e organizzatore. Perché il confronto aperto, anche aspro, è salutare, vitale, e i tempi per il ricambio generazionale «sono maturi». Soprattutto, perché «oggi non è più possibile ignorare il pubblico, standosene chiusi nella propria cameretta». Resta da capire come conciliare l’era della condivisione con l’intimità indispensabile alla poesia - al farla, come al leggerla. È forse su questo che si giocherà il futuro di un’arte che resta «la più semplice e difficile che esista», come dice Cucchi. E che, tutto sommato, non ha bisogno di ritornare, perché - conclude De Angelis - «ogni volta che un poeta va nelle scuole o nelle carceri a parlare dei suoi versi, getta un seme che verrà raccolto».
Levigatori di parole. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità, scrive Wlodek Goldkorn l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". In una recensione su una mostra di dipinti giapponesi, Walter Benjamin dice che nell’immagine c’è qualcosa di eterno. Simili sono le intuizioni dei teorici della fotografia: ciò che vediamo impresso sulla pellicola o in uno scatto digitale è il risultato di una congiunzione tra tempo, luogo e lo sguardo di chi fotografa; ogni immagine è come se abolisse la differenza tra il passato, il presente e il futuro. Ma la stessa regola vale per la parola, quando è usata dai poeti. E forse per questo, perché allude all’eternità e al tempo dopo il tempo, e non solo perché è una preghiera laica, la poesia, anche se vende poco, gode di ottima salute. La poesia è lentezza, perché ogni parola deve essere esatta (nel senso che all’esattezza dava Italo Calvino in “Lezioni americane” dove cita “L’anguilla” di Montale) e precisa. Si racconta di poeti che attendono mesi finché sulla pagina non appaia l’aggettivo o il verbo giusto. La poesia non sopporta il parlar sciatto, non tollera la mancanza di attenzione, richiede uno sforzo meditativo. Non esiste poesia sbrigativa. La poesia permette l’uso di figure retoriche come sineddoche (una parte per la totalità), metafora, metonimia (il trasferimento del significato da una parola all’altra), senza per questo rendere il discorso demagogico, come accade ai politici. La poesia (la buona poesia) traduce, meglio di tutte le altre arti retoriche, le immagini in parole e quindi sollecita l’azione del nostro immaginario e ci permette di pensare all’immortalità. Scrive Seamus Heaney, in “La spiaggia”: «Anche la linea punteggiata tracciata dal bastone di mio padre / sulla spiaggia di Sandymount / è qualcosa che la marea non porterà via». Ecco, la memoria vive più a lungo nella parola che nei monumenti di pietra. Il poeta sovverte l’ordine stabilito. Non solo Neruda o Éluard, direttamente impegnati in politica. Quest’ultimo scriveva nel 1942 in “Libertà”: «Sui miei rifugi distrutti / Sui miei fari crollati / Sui muri del mio tormento / Scrivo il tuo nome». È un classico ormai il dialogo tra Josif Brodskij e i giudici sovietici: «Giudice: Qual è la tua professione? Brodskij: Traduttore e poeta. Giudice: Chi ti ha riconosciuto come poeta? Chi ti ha arruolato nei ranghi dei poeti? Brodskij: Nessuno. Chi mi ha arruolato nei ranghi del genere umano?». In un saggio, il Nobel russo spiegava come la poesia aiuti a resistere alle pressioni del potere, a non piegarsi, a non scendere a compromessi. Tutto questo, perché Brodskij, come pochi altri - e sulla scia di un grande maestro Osip Mandelstam, morto di fame in un Lager sovietico - sapeva quanto l’estetica fosse inscindibile dall’etica. E anche a questo serve la poesia, a capire che una cosa brutta non può essere buona. La poesia trasforma i luoghi del quotidiano in entità mitiche e oniriche. Scriveva il polacco Zbigniew Herbert: «Rovigo non si distingueva per nulla di particolare / era un capolavoro di mediocrità strade diritte case non belle / (…) Eppure era una città in carne e pietra – come tante / una città dove qualcuno ieri è morto qualcuno è impazzito (...)». E infine, la lentezza della poesia ci riporta alla lentezza dell’amore, e quindi di nuovo a qualcosa di eterno. Lo sapeva Mahmud Darwish, poeta palestinese che in “Una lezione di Kamasutra” cantava: «Se arriva in ritardo / aspettala, / se arriva in anticipo / aspettala / e non spaventare gli uccelli sulle sue trecce, (…) e parlale come il flauto / alla coda spaventata del violino, / (…) e aspettala / e leviga la sua notte anello dopo anello». Levigare è un’azione da artigiano che tende alla perfezione. Ecco, amiamo la poesia perché mette insieme il sogno e il quotidiano lavoro delle mani (lo intuiva meglio di tutti Wislawa Szymborska): alla ricerca dell’assoluto.
ITALIA PAESE DI SCRITTORI CHE NESSUNO LEGGE.
Editoria, siamo sommersi di libri che nessuno legge. Continuiamo a ripeterci da anni che il settore editoriale è in crisi perché gli italiani non sono un popolo di lettori, ma non è così vero, perché a vedere i numeri i lettori sono più o meno gli stessi da quarant'anni. Il problema è un altro e assomiglia a una obesità, scrive Andrea Coccia il 28 Gennaio 2017 su “L’Inkiesta”. Anche quest'anno, come da consolidata tradizione, ci troviamo a commentare i dati aggregati dall'Associazioni Italiana Editori, dalla percentuale dei lettori forti sul totale dei lettori, fino al numero delle copie vendute e al giro di affari. Un sacco di cifre cifrette, cifrone, alcune assolute, altre relative, qualcuna fortemente in positivo, qualcuna fortemente in negativo, altre invece sostanzialmente stabili. La fotografia dell'Italia che legge, insomma, è più o meno sempre la stessa: i lettori forti sono stabili sui 3 milioni, come sempre; quelli deboli oscillano in dipendenza del successo o meno del best sellerone, come sempre; le fasce forti sono i vecchi e i givanissimi, come sempre, e via dicendo. Ma la popolazione, in fondo, sembra sempre più o meno la stessa, stabile da quasi quarant'anni: tra i 22 e i 24 milioni di persone. Tra le cifre pubblicate dall'AIE quest'anno, però, un dato interessante sul serio c'è. E curiosamente è uno dei pochi per il quale la statistica non c'entra nulla, perché è un fatto misurabile e riguarda la produzione di libri nel nostro paese, non il consumo. Eh sì, a guardare i dati dalla giusta distanza lo si nota: di fronte a un pubblico dal corpo sostanzialmente stabile nella sua magrezza rachitica, il mercato editoriale è diventato letteralmente obeso. Il fenomeno è macroscopico: nel 2016 il mercato ha visto entrare in libreria più di 66mila nuovi titoli, di cui 18mila di sola narrativa. Nel 1980, sempre secondo l'AIE, quegli stessi numeri parlavano di un mercato totalmente diverso, fatto di sole 13mila novità, di cui soltanto 1000 erano di narrativa. Se andiamo a vedere le stime del numero di lettori fatte dall'ISTAT in quegli anni, il numero assoluto che troviamo è, indovinate un po', sempre lo stesso, circa 24milioni. All'epoca erano il 46 per cento del Paese, ora sono il 41, ma il numero assoluto è sempre più o meno stabile. Quindi, ricapitolando: in quarant'anni circa, a lettori grosso modo stabili, abbiamo assistito a un aumento della produzione di circa il 600 per cento, un aumento che, nel solo campo della narrativa, è di circa il 1800 per cento. Ovvero, se fino agli anni Ottanta per ogni lettore uscivano circa 3 libri all'anno, ora ne escono 10. Una vera e propria marea di carta che viene rovesciata nel mercato, un mercato che però non si è allargato, è rimasto più o meno della stessa grandezza. Le conseguenza sono molteplici: più libri vuol dire meno tempo per sceglierli, lavorarli e promuoverli. Ma anche meno tempo a disposizione di ogni libro per trovare i propri lettori. Il risultato? Abbassamento della qualità, crollo del tempo di permanenza sullo scaffale, ridotto a volte a poche settimane, vendite medie sempre più basse. Negli ultimi dieci anni l'industria editoriale ha chiamato tutto ciò “Crisi dell'editoria”, dando la responsabilità ai lettori. Già, perché l'industria editoriale è parecchio brava a scaricare le colpe sui propri clienti: “in Italia stanno sparendo i lettori”, si dice sempre, tanto che ormai è diventato un ritornello, un mantra che ci siamo ripetuti di continuo negli ultimi anni. Eppure, a vedere i numeri, non è esattamente così. O meglio, è vero che la maggior parte degli italiani non leggono, ma non è una novità. Era così anche quando l'industria editoriale era sana, negli anni Ottanta, per esempio, quando non c'era la Crisi. Ma se il crollo dei lettori non c'è, allora qual è l'anello che non tiene? La domanda non è di quelle semplici da risolvere. La sensazione però è che una parte della risposta sia proprio in questa dieta all'ingrasso, iniziata proprio nel pieno degli anni Ottanta, esattamente quando l'editoria italiana è diventata una vera e propria industria, quando sono cominciate le concentrazioni editoriali, quando ha iniziato a svilupparsi la grande distribuzione organizzata (la modalità di distribuzione più in crisi negli ultimi anni). È questa industrializzazione che ha trasformato il campo di gioco dell'editoria italiana in una giungla affollata, in cui ogni anno vengono fatti piovere 66mila libri — sei volte la quantità che si pubblicava quarant'anni fa — libri che però, più che arrivare ai propri lettori elettivi, assomigliano a una moneta di scambio. Una moneta in forte svalutazione che alimenta il circolo vizioso delle rese, che permetterà anche alle case editrici più grandi di tenere in piedi i propri fatturati, ma che, non essendo prodotta per soddisfare nessuna esigenza particolare dei lettori, sta soffocando l'intero settore.
Il circolo vizioso dell’editoria libraria, scrive il 2/02/2017 Antonio Tombolini. Di tanto in tanto qualcuno prova a spiegare come mai in Italia, paese in cui tutti si lamentano del fatto che si leggono pochi libri e che ci sono pochi lettori, poi si pubblichino ogni anno così tanti libri nuovi. Ci ha provato di recente Andrea Coccia, con questo articolo su Linkiesta, ma sbaglia anche lui: è vero il contrario di quello che scrive l’autore dell’articolo, non è la sovrapproduzione ad alimentare il vortice delle rese, è invece il meccanismo delle rese ad alimentare la proliferazione dei nuovi titoli. E il digitale non c’entra niente (se aumento l’offerta digitale non faccio del male a nessuno: non distruggo carta, non inquino, non butto via soldi inutilmente eccetera). E non c’entrano niente neanche “l’industrializzazione” né “le grandi concentrazioni editoriali” (ridicolo, su scala mondiale Mondazzoli è un microbo). C’entrano invece, e molto, gli usi consolidati della filiera tradizionale del libro, che gli operatori dominanti (grandi editori e distributori, che in Italia sono poi la stessa cosa) non solo faticano a superare, ma tentano disperatamente (e dissennatamente) di difendere, con una distribuzione fatta di una miriade di librerie sparse ovunque, e ora in crisi profonda, abituate come sono a un mercato drogato dal “tanto se non lo vendo lo rendo”. Ecco come funziona.
Io sono un piccolo editore. Pubblico un libro perché ci credo, mi piace, lo ritengo bello e utile. Lo pubblico di carta, perché sono un “vero” editore “tradizionale”. Bene. Vado in tipografia, dove mi dicono che ne devo stampare almeno mille copie, ché farne di meno tanto costa uguale. Parlo col distributore (lì sì c’è non la concentrazione, ma il monopolio ormai: Messaggerie), che mi dice che “Ehi, se non mi dai almeno duemila copie per coprire significativamente le librerie io non posso impegnarmi a distribuire il tuo titolo”. Diciamo che ne stampo duemila. Diciamo che stamparle mi costa 5.000€, 2,50€ a copia. A quanto lo vendo? Vediamo… il 60% del prezzo lo vuole il distributore, che poi se lo divide con la libreria che vende il libro al privato. Io devo pagare il costo di stampa, l’impaginazione, l’illustratore, i diritti d’autore. E ovviamente anche l’affitto dell’ufficio, le utenze, il mio stipendio, il commercialista ecc… Se lo vendo a 10€ me ne tornano 4, e 2,50 sono già spesi per la stampa, mi bastano 1,50€ per coprire tutte le altre spese? Mi sa proprio di no. Vendiamolo a 15€, e speriamo bene.
Il distributore a questo punto mi compra (si fa per dire, c’è sempre il diritto di reso!) le 2000 copie, e io, tutto felice, stacco la mia prima fattura, ho venduto 2000 copie, per un importo totale di ben (30.000 – 60%) = 12.000€, wow! Ovviamente il distributore non mi paga subito (figuriamoci, paga a 120-210gg). Sono un editore per bene, e voglio pagare chi ha lavorato per me. L’autore no, perché prenderà le royalties sul venduto, ma gli altri li devo pagare subito: al tipografo devo dare i suoi 2.000€, all’impaginatore (che con la crisi mi fa un buon prezzo) i suoi 300€, il grafico altrettanti, il correttore di bozze. Ah, ci sono anche i 600€ di affitto, altrettanti di bollette, e… URKA! Dove li prendo i soldi? Aspetta, lo so: ho fatto proprio adesso una fattura di ben 12.000€, vado in banca e mi faccio anticipare l’importo, poi quando il distributore mi paga la fattura li restituisco alla banca. “OK, non c’è problema, metti una firma qua, mi dice il direttore della banca, sì, è la fideiussione, una formalità obbligatoria, ovviamente”. Mi ritrovo 12.000 Euro nel conto. Pago chi devo pagare, mi prendo uno stipendiuccio anch’io, e mi fermo, non pubblico più niente, aspetto che mi paghino la prima fattura. Ho pagato tutti, e dopo quattro mesi mi trovo con poco o niente nel conto. Ho dovuto pagare i mensili dell’affitto e le bollette, e un po’ di stipendio per me. Sono passati 120 giorni, chiamo il distributore: “Allora, mi puoi pagare questa fattura?”.
In Italia la media delle rese (libri invenduti) è superiore al 60%: ogni 100 copie stampate, almeno 60 restano invendute. Ed è una media: fatta di alcuni libri, pochissimi, che vendono tutte le copie, e molti libri, moltissimi, che vendono niente o quasi niente. Ma facciamo finta che il mio libro si comporti come il “libro medio”. Dunque ho appena chiamato il distributore per farmi pagare la fattura, e mi fa “ehi, guarda che di quelle duemila copie ne abbiamo vendute ottocento, che facciamo con le altre milleduecento?”. L’editore gli dice “beh, che ne so io”, e il distributore gli dice “beh, lo so io: io non ti pago duemila, ma ottocento copie, quindi intanto fammi una nota di credito per le copie invendute così ti pago i 4.800€ che ti devo”. Già, la mia bella fattura di 12mila euro si è ridotta a 4.800€. Ma c’è dell’altro, mi dice il distributore: “Le altre milleduecento copie devo andarle a prendere dalle librerie dove le ho portate, perché devono liberare i loro spazi per altri libri, e questo ha un costo, che ovviamente ti addebiterò. Poi se vorrai le tengo io nel mio magazzino, e ti costerà un tot a metro cubo per ogni giorno di giacenza, oppure te le porto a casa tua, e ci sarà un altro costo che ti addebiterò.” E io dove le metto? Forse mi tocca affittare un piccolo magazzino per metterci le copie invendute!
A quel punto chiama il direttore di banca “Ciao Piccolo Editore, sono passati i 120 giorni, quell’anticipo sulla fattura è scaduto, devi restituirmi l’importo che ti ho anticipato!”. Il dramma: devo restituire, e subito, alla banca i 12mila Euro che mi ha prestato. Ma il distributore me ne ha dati solo 4.800, come faccio? Già, come faccio a “tappare” il buco senza che venga a pignorarmi la casa che mi ha toccato dargli in garanzia per il fido? Facile: pubblico un altro titolo, stacco un’altra fattura da 12mila euro, e con quelli attappo il buco, e faccio un altro giro di giostra! WOW!
Ecco spiegato come mai ci sono così tanti titoli nuovi in un mercato in cui tutti si lamentano che nessuno legge. Questo è il vero cancro che minaccia di distruggere l’editoria libraria. L’editore si infognerà sempre di più in una gigantesca bolla che prima o poi esploderà, per esempio quando qualcuno gli dirà che valorizzare le scorte di invenduto a bilancio a valori artificialmente gonfiatinon serve a niente, perché il valore del suo invenduto è zero, anzi, è negativo, visto che gli genera costi di magazzino e che per smaltirlo deve pagare). Cui prodest?
Chi prospera in un sistema come questo? Il distributore, e in maniera perversa e vampiresca: il suo guadagno infatti non dipende tanto dalle copie vendute, ma dipende in misura crescente dalla vendita di servizi correlati alla gestione delle rese! Meno libri si vendono e più il distributore guadagna! Come ha fatto Messaggerie a diventare il secondo gruppo editoriale italiano, con marchi come Longanesi, Garzanti, Salani, ecc… acquisiti uno dopo l’altro? Facile: prima o poi il direttore di banca dice all’editore che non può più anticipargli la fattura, l’editore quindi si indebita in misura crescente col distributore, fino a che il distributore se lo compra con quattro soldi. Certo che la cosa regge finché c’è chi alimenta il progressivo indebitamento degli editori. Appena i rubinetti del credito si chiudono, la bolla esplode.
A che punto siamo? Che sta esplodendo. RCS Libri è tecnicamente fallita (sì, ok, acquisita da Mondadori Libri, figuriamoci, una finzione, peraltro finanziata al 100% con, indovina un po’, prestiti bancari!) e tutti sono indebitatissimi. Ma anche Messaggerie ormai ha spremuto lo spremibile, gli editori non hanno più soldi da dargli, e chiudono, così come le librerie, e Messaggerie è costretta a svalutare e azzerare i suoi crediti. Una curiosità. Hai per caso letto la parola “ebook” in tutto questo? No. Il cancro dell’editoria libraria non c’entra niente con un presunto ruolo killer dell’ebook rispetto al libro di carta.
Del libro, del predominante ruolo del caso nella sua fortuna, dei barbari che lo stanno salvando, scrive il 16/05/2016 Antonio Tombolini. [Riporto fissandolo qui un mio sfogo originato da questo post di Zio Josu Facebook, ché lì Zuckerberg continua dolosamente a inghiottire tutto per tutto divorare e tutto condurre al luogo in cui non c’è più memoria.] Il successo di un libro, come il successo di una canzone, di un quadro, di un tiro in porta, è sempre il risultato di una misteriosa alchimia fatta di dedizione e fortuna, fatica e casualità, talento e relazioni. Thomas Alva Edison e/o Albert Einstein (la citazione è di volta in volta attribuita all’uno o all’altro, e non manca chi, in ambiente letterario, la attribuisce devotamente e disinvoltamente a Umberto Eco) se la cavavano riducendo a due le variabili: “perspiration”, il sudore della fronte, e “inspiration”, l’ispirazione del genio. Col cavolo. Non mancheranno mai successi inspiegabili. Non mancheranno mai libri che nessuno mai avrà letto (erano belli o brutti? Nessuno lo saprà mai). Non mancheranno mai successi travolgenti post-mortem, magari a distanza di anni, decenni, o secoli addirittura, come in musica accadde a un intonatore di organi tedesco del ‘600, tale Johann Sebastian Bach. Il Caso. Il caso è il maggior protagonista delle nostre vite, in ogni loro aspetto. Tanto più lo è in relazione ai destini di cose effimere come le “opere dell’ingegno”. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, si tratta di una verità lampante. Eppure l’uomo, nella sua illusoria ansia di dimostrare a se stesso di saper governare la vita e il mondo, da sempre ne sottovaluta, fino a cancellarlo, il peso. Prendi questa: il libro di Fabio Volo vende un sacco. Magari tra cinquant’anni non se ne ricorderà nessuno. O magari tra cent’anni sarà il solo libro rimasto sulla faccia della terra. A molti piace. A molti altri fa schifo. Per alcuni è scritto male. Per altri è scritto benissimo. Per alcuni è una lettura insopportabile. Per altri dedicarsi a leggerlo è il momento più bello della giornata. Ma pensaci bene, torna qui sopra, sostituisci a “Fabio Volo” l’autore che vuoi voi: tutto quello che viene dopo resta vero, incontestabilmente vero.
E allora, che ne è della “qualità” dei libri? A cosa è possibile ancorarla? A cosa ancorare la “qualità” di un libro?
A un atto arbitrario, e in quanto tale non-sindacabile da chicchessia. L’atto arbitrario di un lettore, di un editore che sceglie di pubblicare quel libro invece di un altro, di un critico che decide di osannarlo. E alla stessa “libera-arbitrarietà” sarà possibile ancorare un giudizio di “non qualità” di un libro: l’atto arbitrario del lettore che ne legge una pagina per poi metterlo da parte, quello di un editore che lo cestina, quello di un critico (sia esso, sempre meno, un professionista, o, sempre più, un recensore) che decide di stroncarlo. Così come la qualità di un libro non può prescindere dalla arbitrarietà del caso (che poi vuol dire “del tempo”) che decide addirittura se far accorgere qualcuno dell’esistenza di quel libro, oppure no. Per questo continuo a ritenere sbagliate e di retroguardia le raffinate intellettualistiche analisi dei tanti che, a fronte del fenomeno del self-publishing (dove self-publishing = fenomeno per cui più libri e più autori riescono a raggiungere gli scaffali di una libreria, concedendosi una chance di visibilità) si concentrano sul falso problema della “sovrabbondanza”: oddio, i libri adesso sono troppi, come farà il lettore a scegliere e a orientarsi? Con tutta questa roba, esclamano, c’è un sacco di robaccia, chi ci salverà?
Si tratta di uno spettacolare effetto di illusione ottica: tutti questi libri, che oggi affollano sempre più gli scaffali di vetrine virtuali e non grazie al self-publishing, tutti questi libri c’erano già, c’erano anche prima, perché l’uomo ha voglia di scrivere, e ha voglia di farsi leggere. Punto. Indipendentemente dalle concrete chance di successo, indipendentemente dall’evidenza dei fatti per cui nella stragrande maggioranza dei casi del mio libro non gliene fregherà niente a nessuno, indipendentemente dal fatto che qualcuno possa parlarne bene o male. L’uomo vuole esprimersi. Di più: l’uomo è espressione. Di più: l’uomo è tale nella misura in cui può liberamente esprimersi. E scrivere un libro è uno dei modi della libera espressione, e dunque dell’essere, dell’uomo. Cosa cambia per il lettore ai tempi dei barbari digitali e delle orde del self-publishing? Come potranno orientarsi dentro la giungla della miriade di titoli da cui sono sempre più assediati? Come aiutare il lettore a orientarsi nella scelta dei libri cui dedicare il proprio tempo?
Alt. Un passo indietro: ho definito “falso problema” quello che risulta dalle analisi dominanti sul fenomeno del self-publishing, quello che afferma che i libri ora sono troppi, troppissimi. Non è vero. Quei libri che grazie alle tecnologie digitali e alla rete oggi si possono concedere una chance di incontro con un lettore c’erano già, erano già tutti lì: erano già tutti lì dentro i cassetti degli autori. Erano già tutti lì nei cestini degli editori. O erano già tutti lì rimasti dentro la testa del loro autore, perché se c’è un deterrente alla scrittura del libro ebbene questo consiste nel non intravvedere neanche una chance che possa avere un lettore. Erano già tutti lì, libri “buoni” e libri “cattivi”. “Buoni” per alcuni, “cattivi”, gli stessi libri, per altri. Oggi arrivano tutti, alla pari, sugli scaffali delle librerie online, e la casta di quelli che pensavano di detenere le chiavi del Regno dei Libri (i Guardiani della Distribuzione) si ritrae inorridita a fronte di tanto spettacolo. Tutto ciò non è affatto male. Non è male che tutti possano esprimersi scrivendo libri, così come non è male che tutti possano suonare uno strumento, o prendere un pennello e imbrattare una tela o un foglio, o ritrovarsi con gli amici per dare calci a un pallone nel tentativo di emulare i pallonetti di Maradona o i tiri nel sette di Cristiano Ronaldo. Non è un male, anzi, è un bene! OK, precisato questo il problema resta: ma per i lettori? Come fanno a orientarsi?
Ci sono diversi livelli di risposta. Il primo: a caso. Dal punto di vista del lettore non c’è niente di male nell’usare il caso (i più raffinati, quando gli fa comodo, parlano in questi casi di serendipity, ma riguardo ai “nuovi libri” no, evocano solo drammi lancinanti) per cercare a destra e a manca il prossimo libro da leggere. Che comincerò a leggere e poi butterò via se mi fa schifo, e ne parlerò malissimo se ne avrò voglia. O che viceversa obbligherò tutti gli amici a leggere tanto mi è piaciuto. O che mi lascerà indifferente spingendomi a tentare il prossimo.
C’è poi il livello degli strumenti di “discoverability”, di cui usa dire oggi. Alcuni esistono già, altri se ne stanno inventando, chi investe sugli algoritmi, chi scommette sul fattore umano. Autori che se ne fregano di promuovere il proprio libro, e autori che gli dedicano la vita e ogni energia.
Io ho il mio parere: gli Editori. I nuovi editori, in grado di dire “questi sono i libri che io pubblico, in base a questi criteri, facendolo fare a queste persone, con questa storia”. Editori che hanno il compito di traslare in un catalogo la loro visione del mondo, non perché quel che c’è dentro è il meglio, è “la qualità”, contro il resto che è fuori. Ma per proporre a chi legge con onestà una faccia, condivisibile o meno, piacevole o meno, attraverso cui orientarsi nelle scelte. E anche questo, badate bene, non è la cosa che conta di più, perché quando si tratta del libro, della esperienza di lettura di un libro, la cosa che conta più di tutte è solo una. Che si leggano i libri. Che l’esperienza della lettura di un libro sopravviva, si salvi, e prosperi per sempre. Che si scrivano, per salvaguardare la libera espressione che è l’uomo, e che si leggano, per salvaguardare l’esperienza peculiare che è il libro. Sembrerà sacrilego affermarlo, ma ne sono convinto: da lettore, da editore, da uomo libero. Quello che mi interessa è che l’esperienza di lettura di un libro (così vitale perché qualcuno sia motivato a scrivere, e quindi a esprimere così la sua libertà e il suo essere) sopravviva e prosperi ai tempi del digitale. Parliamo quindi di perché ci piace questo libro e del percome quell’altro non ci piaccia affatto. Ma rallegriamoci per ogni libro che vede la luce, per ogni libro che viene scritto. E per ogni libro che viene letto. E rallegriamoci del fatto che – grazie al digitale – ogni libro ha ormai almeno una chance di essere letto da qualcuno, in qualsiasi parte del mondo, e in un momento qualsiasi del tempo, perché grazie al digitale, e alle barriere abbattute da questi “barbari” (di cui mi onoro di essere parte) ogni libro oggi è subito disponibile ovunque e per sempre. Amen.
LA SCUOLA AL FRONTE.
Scuola, la nevrosi delle riforme. Negli ultimi 25 anni il mondo della formazione è stato investito da cambiamenti continui. Con una progressiva erosione della cultura, scrive Raoul Kirchmayr l'1 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Dagli anni Ottanta una delle parole centrali nel discorso delle istituzioni è stata senza dubbio “riforma”, il cui significato primo, che per molto tempo ha evocato un orizzonte di progresso civile e di emancipazione, è stato sostituito da un altro. La nuova accezione rimanda all’operazione tecnica di accomodamento di una macchina al fine di incrementarne l’efficienza. Con questo significato il significante “riforma” ha preso a circolare a ritmi sempre più spediti, fino a quando è diventato dominante nell’attuale lessico dell’opinione pubblica. La parola “riforma” si è così accompagnata a un ventaglio di attributi (“urgente”, “necessaria”, “ineludibile”, “d’emergenza” ecc.) che affermano tanto l’esigenza di rapidità quanto un rigido determinismo che non potrebbe né dovrebbe essere disconosciuto, pena l’avverarsi di previsioni immancabilmente fosche e dunque da scongiurare. La parola “riforma” comporta sempre, di conseguenza, una previsione (solitamente presentata come scientificamente calcolata) e, in senso più ampio, un’ipoteca sul futuro. In questo senso, la “riforma” non può che essere “responsabile”: il suo carattere di destino astratto si traduce ipso facto in un’assenza di alternative che si vuole perfino etica (del resto, si è compreso da tempo che l’istanza etica è l’ingrediente sempre strutturalmente mancante del mondo tardo-capitalistico, mentre ne rivela, di converso, gli intenti ortopedici e disciplinari). Nell’ultimo quarto di secolo, oltre al mondo del lavoro, un altro ambito è stato parallelamente investito - e non solo nel nostro paese - da ripetuti impulsi alla “riforma”. Si tratta del mondo della formazione e della ricerca, dell’università e della scuola, coinvolto in una vera e propria spirale che ha conosciuto delle tappe importanti nella legge sull’autonomia universitaria del 1990 (la “riforma Ruberti”), nel “processo di Bologna” con cui l’Unione europea ha raccordato i sistemi educativi dei paesi membri, fino alla recente legge 107 del 2015 (la “buona scuola” del governo Renzi). Ciascuna tappa ha introdotto sempre nuovi fattori di cambiamento che, presentati sotto le bandiere della modernizzazione e del miglioramento, non hanno modificato il sistema verso un nuovo equilibrio più avanzato, ma sono stati la spinta per un’ulteriore giro di “riforme”. In questi ultimi anni l’università e la scuola sono state oggetto di una vera e propria “coazione a riformare”. Oltre che con tagli di spesa pubblica, la coazione si è manifestata soprattutto nei sintomatici mutamenti del linguaggio che hanno avuto come scopo la trasformazione irreversibile degli ambienti della ricerca e dell’apprendimento, e con essi l’insieme dei soggetti coinvolti: docenti, ricercatori, studenti, famiglie e, non da ultimi, amministrativi e ausiliari. Il cambiamento è avvenuto con una progressiva erosione della lingua della cultura, quella lingua che sarebbe compito delle istituzioni tramandare come eredità condivisa e memoria collettiva. In altre parole come quell’ethos o “religione civile” di cui il nostro paese sembrerebbe storicamente difettare. Il tentativo di sterilizzare la capacità della cultura a produrre ethos e a figurare mondi (anche utopici, immaginari e impossibili) è progredito con l’iniezione di un vocabolario che, incarnando la visione del mondo neoliberale, ne è l’espressione funzionale. Si pensi solo al lessico, ormai acquisito, dei crediti e dei debiti, all’introduzione seriale di sigle e acronimi, all’equivalenza tra studio e lavoro (fino all’alternanza studio-lavoro), per non citare l’enigmatica nozione di “competenza”, scientificamente farraginosa ma ideologicamente efficace. Non si tratta più del tecnicismo freddo e ingegneristico cui era improntata la lingua dell’ormai lontano boom economico. Quella che da tempo viene inoculata nella scuola e nell’università, diventando forma di vita e di relazione, è una lingua povera che si intreccia con la gergalità di uno pseudo-inglese, mediante la quale si affermano nuovi rapporti di potere e si stabiliscono nuove linee di faglia sociali. Il progetto di “valorizzazione delle risorse” (di cui la meritocrazia è figlia) fa tutt’uno con questa lingua spuria, attuandosi per mezzo di procedure che, mentre si appellano alla libera scelta di ciascuno, spingono invece gli individui a operazioni di accomodamento al discorso dominante. L’adattamento linguistico alla logica dell’efficienza e della performance, cui ognuno è sottoposto, tende a diventare stile cognitivo (in accordo con la recente enfasi pedagogica sui soft skills), quando non preveda addirittura tra i suoi obiettivi espliciti la produzione di nuove forme di soggettività. Il rilievo della lingua non è dunque marginale. A una lettura rapida potrebbe sembrare uno dei tanti esempi di provincialismo nostrano. Visto più da vicino, appare come un sintomo diffuso del modo in cui le forme della riproduzione culturale vengono modellate in senso neoliberale. La parola “riforma” in senso neoliberale non fa che mimare la riforma nel senso democratico dell’estensione dei diritti e dell’eguaglianza dei cittadini, mentre la svuota progressivamente di contenuto, con il risultato di generare nuove forme di diseguaglianza. Perciò l’accanimento riformatore su scuola e università è un tassello strategico nel progetto con cui le forze dominanti cercano di consolidare la loro attuale egemonia economica e culturale. Si capisce allora che il significato della parola “riforma” non può essere dissociato dalla tendenza del tardo-capitalismo a una ristrutturazione perenne che non investe più soltanto il campo dell’economia ma impatta risolutamente sulla vita individuale e collettiva. La conseguenza è che le istituzioni dello Stato, nel caso in cui sia esso democratico e preveda la tutela del “sociale”, sono considerate come dei limiti o degli impedimenti all’estrazione di plusvalore. È per permettere una più massiccia, rapida ed efficace estrazione che le istituzioni, nel loro complesso, vengono dunque riformate. Per il nostro paese questo obiettivo non sarebbe perseguibile senza la cornice più ampia in cui si colloca il modellamento della scuola e dell’università, cioè la “sincronizzazione” delle istituzioni nazionali con quelle europee, in nome dell’efficienza dei sistemi educativi. Se volessimo comprendere il senso della “coazione a riformare” che sta disegnando l’avvenire delle nostre scuole e delle nostre università, è certo nella direzione di questa “sincronizzazione” in corso che dovremmo guardare. In generale, la retorica della “riforma” è un dispositivo discorsivo che intacca il discorso democratico e lo riscrive. A ogni giro cancella il senso “progressivo” precedente e lo sostituisce con un altro che, all’apparenza identico, in sostanza lo nega. Tra i saperi disponibili, la psicoanalisi ci fornisce degli strumenti per riconoscere questo meccanismo di ripetizione che genera spirali regressive. In Al di là del principio di piacere, saggio controverso che impresse una svolta alla sua metapsicologia, Sigmund Freud descrisse una particolare dinamica psichica, consistente nella reiterazione nevrotica di un evento traumatico. Studiando i casi clinici forniti dai vissuti dei reduci dal fronte, che mostravano questa forma di disturbo, Freud si trovò a riflettere sull’esistenza di una forza opposta alle pulsioni di vita: la chiamò, com’è noto, pulsione di morte. La specificità di questa pulsione è di agire vicariamente, legando la pulsione di vita alla ripetizione dell’evento traumatico, di modo che le energie psichiche risultano drenate e incanalate verso formazioni gravemente nevrotiche che, purtuttavia, garantiscono un godimento inconscio. Se si volesse prendere sul serio l’ipotesi di Freud, ci si potrebbe chiedere in quali ambiti della vita sociale contemporanea la coazione a ripetere produce nuove forme di nevrosi e con quali eventi traumatici essa possa continuare ad alimentarsi, sottraendo così energie alla vita e alla trasformazione effettiva, a tutto vantaggio di un godimento mortifero. La psicoanalisi della società è in grado di riconoscere la pervasività delle dinamiche coattive, le quali permettono sì la conservazione di un precario equilibrio individuale e collettivo, ma a un costo psichico crescente. Si potrebbe dunque introdurre il punto di vista dell’economia pulsionale per saggiare le conseguenze concrete del discorso “riformatore” sul piano della psicologia collettiva. Da una parte, il costo psichico potrebbe spiegare il malessere perdurante delle nostre società, dovuto all’attesa di riforme che, invece, si converte presto in un’amara consapevolezza del peggioramento della nostra condizione. Dall’altra, una riflessione sull’economia pulsionale permetterebbe di comprendere la capacità performativa di penetrazione che la parola “riforma” conserva nei nostri discorsi e nelle nostre convinzioni, con una forza di seduzione che pare urgente sottoporre a un lavoro critico, allo scopo di indebolirne quanto meno gli effetti depressivi. Un lavoro che, prima ancora di metterne in discussione i meccanismi coattivi, ci permetta di liberare delle energie collettive che diano forma alla nostra attesa di cambiamento.
Così la scuola resiste alle riforme. Organici, merito, alternanza: la Buona scuola ha provocato mille conflitti. Su assegni, potenziamento e stage ogni istituto decide come può, fra entusiasmi e malcontento. Ecco dove le promesse di cambiamento sono rimaste incagliate. E come prof e studenti, nonostante tutto, cercano di opporsi al caos, scrive Francesca Sironi l'1 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono le 7.55, suona la campanella. Al pianterreno un gruppo di supplenti s’affretta a finire il caffè. «Sono precario da 13 anni», dice l’unico maschio. «Altro che scomparsi, assunti da veterani. Siamo qui. Ora devo andare», e segue una fila di studenti. È lunedì, indossano il piumino: «È un prefabbricato, il problema del freddo dopo il week end è ovvio». Primo piano, terza media. La prof d’italiano, Alessandra Ibba, fa entrare la collega di tedesco. Illustrano insieme una ballata di Goethe. «Wer reitet so spät...». L’insegnante di sostegno passa fra i banchi. «La differenza è che il romanticismo era rassegnato alla sofferenza, l’illuminismo invece era convinto della felicità», dice Matteo. Primo banco, felpa blu, è il più bravo della classe. Ed è romeno. O meglio un nuovo italiano. Uno dei sei alunni “stranieri” su 10 che frequentano l’istituto Scialoia, quasi-periferia Nord di Milano. Un pezzo di futuro e di Stato. Dove filtra, come altrove, la riforma alla prova di realtà. Come nelle altre 41.152 scuole statali, infatti, anche qui diventa dimostrazione l’ipotesi della “Buona Scuola”. Tutto compreso: compresi il caos sugli organici e i festeggiamenti per le assunzioni, le crisi fra insegnanti dal Sud e provveditorati del Nord, gli assegni di merito di cui nessuno fa vanto, i dubbi e gli entusiasmi sull’alternanza scuola-lavoro, la matematica a cui mancano pedagogie e la solitudine dei bimbi con “bisogni speciali”, restati senza professionisti a supporto. Se è sulle lezioni alla lavagna che si è infranta infatti tanta parte della popolarità di Matteo Renzi, se è contro il Miur che si abbattono ricorsi e sentenze, è dentro il testo della riforma, oltre che nei cavilli, nei provvedimenti, post-accordi e burocrazie che si è stemperato presto il colore del cambiamento promesso. Troppe girandole diventano stallo. E se questa è la grande debolezza della scuola, resta però una forza: la sua resilienza. Perché l’antologia del caos continua a fermarsi alla porta di classe. «In aula, ragazzi, silenzio». La preside dell’Istituto Scialoja - infanzia, elementari e medie, un impegno sulla lingua tedesca “per dare un futuro ai nostri giovani” - mostra uno schema. «Il primo settembre ero felice», dice: «la sala riunioni era piena. L’organico completo». Durante l’estate Ida Morello s’era applicata, come i suoi pari, a oneri e onori della “chiamata diretta”, uno dei super-poteri dati dalla riforma ai dirigenti, apprezzati da loro, osteggiati dalla base: aveva elencato le necessità, letto i curriculum dei candidati, organizzato colloqui via Skype per scegliere. «Certo, avrei voluto potenziare la matematica, ma in questa zona c’erano solo cinque nomi. Già richiesti altrove». A fine agosto era riuscita a coprire, per la prima volta, tutti i posti di sostegno alla primaria, con persone titolate. «Ma le maestre arruolate hanno poi chiesto e ottenuto l’assegnazione provvisoria al Sud». Sono tornate cioè vicine a casa. Il 90 per cento delle insegnanti allo Scialoja arriva da Sicilia, Calabria, Puglia, Campania. Non è una novità né un caso: è così ovunque, come ricordano i dossier ripresi da Gian Antonio Stella sul Corriere. Nel paese rimasto diviso, la questione è diventata polemica nei primi mesi dell’anno, con sedi remote assegnate a chi aveva figli e famiglia, da una parte, e il contro-esodo al sole dall’altra. Risultato: disagi per gli studenti, buchi nei programmi e supplenze tardive. «Siamo noi del Sud a istruire i figli del Nord!», dice affranta dalla disputa Salvina, maestra chiamate allo Scialoja, che ha deciso di restare: «Io però sono single, e per me è un’occasione». A 48 anni vive con due colleghe in un appartamento vicino alla stazione. Una nuova vita da coinquiline, a 40 anni, a Milano. «Certo qui ci sono cultura e formazione. L’anno scorso ero finita in un piccolo borgo in Emilia. Uno shock», racconta la sua roomate, Daniela, della provincia di Ragusa. Sono sedute sui banchi mignon nella scuola d’infanzia, per una riunione pomeridiana, che sollevando la questione diventa più riunione carbonara: «Conosco colleghe devastate dal piano assunzioni della riforma», racconta un’insegnante campana: «Per 1.300 euro in una valle comasca, la vita distrutta». «Io invece sono felice del posto che mi ha dato Renzi», dice un’altra, di Lecce, da settembre di ruolo: «Sapevamo le regole. Mio marito non era d’accordo. Ma io ho insistito». Con loro c’è un maestro, siciliano. È supplente, moglie e figlia a carico. In primavera ha tentato il concorso ma è stato bocciato, come il 50 per cento dei candidati. «Per il ministero non andiamo bene. Eppure in provveditorato ci continuano a chiamare perché hanno bisogno di noi». Dopo le prove dello scorso anno dovranno entrare in ruolo 63.712 nuovi docenti. In alcuni settori sono stati scartati fino a otto aspiranti su 10. Lucrezia è una dei cinquemila ricorrenti che hanno ottenuto di fare una prova ad aprile, perché erano sbagliati i criteri con cui si stabiliva chi potesse partecipare al test e chi no. «Ho superato corsi universitari selettivi per l’abilitazione. Speso oltre cinquemila euro in formazione. Insegno da anni. Sono stanca. Vogliamo certezze. Mentre aumenta il caos». Anche Maria Cristina Pulli è finita in un incaglio. Era stata messa di fronte al perdere tutto o prendere un ruolo alle medie, nonostante i suoi 162 punti in graduatoria di greco e latino al liceo. Sotto scacco, aveva accettato. Poi hanno cambiato le regole, ma intanto: «Mi dicevano: “che ti lamenti, ora hai un posto fisso”. Ma non era solo per il contratto che ho studiato e investito per anni», racconta lei: «Mi sono rimessa in gioco. I ragazzi, la scuola, do il massimo. È stata dura. Quando entro in crisi mi ripeto “sta come torre ferma, che non crolla già mai la cima per soffiar di venti”». Dante. «Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi». Isabella ha le unghie laccate d’azzurro. Sta al secondo banco, terzo piano, classe 3DL del linguistico Artemisia Gentileschi di Milano. Lezione di ripasso, parafrasi e commento ai canti. «Qual è il significato allegorico della lupa? Quello di un potere che aspira sempre a crescere. Ricordate? Di una ricchezza che non si pone limite, che diventa fine a sé». Il professore, Davide Bondì, collabora con l’università di Milano, Storia della filosofia contemporanea. È qui da un po’. «I nuovi docenti hanno curriculum impressionanti», dice Gabriella De Filippi, la vicepreside. Secondo gli analisti della Fondazione Agnelli è il contrario, a mediare statistiche: «L’assunzione in blocco di chi era nelle graduatorie ha avuto effetti negativi, abbassando la qualità e ostacolando il rinnovamento», spiegano. «Oltre al mismatch di competenze: sono entrati troppi docenti di materie giuridiche, ad esempio, mentre continuano a mancare in matematica e scienze». Il Gentileschi ha 1.536 alunni, 30 classi di Liceo e 36 di Tecnico economico turistico. Cinzia Celino è la prof di Chimica più amata dell’istituto. Nella sua classe ha scelto per prima le “flipped classroom”: i ragazzi seguono le lezioni a casa, su video registrati, mentre in aula svolgono insieme esercizi e prove. «Dà risultati eccezionali, soprattutto con gli studenti meno bravi». Lei è una degli insegnanti che quest’anno hanno ricevuto “l’assegno al merito”, il bonus ai migliori previsto dalla riforma. «Sì, bene. Però... Il nostro preside è stato serio, ha seguito la griglia di valutazione data dai docenti. Ma a mio avviso i beneficiari sono stati troppi. Tutto questo rumore, per 300 euro. E non si può neanche sapere chi fosse in graduatoria, a che posto. Tanto valeva...». Al Gentileschi l’assegno è stato dato al 33 per cento dei prof. Ogni scuola ha fatto a modo suo: chi l’ha distribuito al 10, chi all’80. E ad ascoltare o leggere reazioni ne sono rimasti scontenti più di quanti non gioiscano di fronte a quest’altro mosaico della legge: chi l’ha ricevuto tace o lamenta criteri e pesi. Chi ne è rimasto escluso borbotta, o asseconda veleni. L’assegno è così diventato presto uno dei tasselli di riforma da riformare, per il nuovo ministro Valeria Fedeli. Fatica alleggerita su altro, però. Pochi giorni dopo l’incarico veniva pubblicato infatti dal Miur un dossier sul risultato più sbandierato della Buona Scuola: l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria per gli studenti delle superiori - 200 ore ai licei, 400 a tecnici e professionali. Lo stage (anche in “imprese simulate” in aula, se serve) è diventato obbligatorio per poter accedere all’esame. Devono, insomma. Ma lo stesso è presentato come un successo l’oltre «95 per cento» di alunni partecipanti al piano. «Da noi non ci sono stati problemi, sono percorsi che abbiamo avviato anni fa», racconta Agostino Miele, il dirigente del Gentileschi: «Grazie a un accordo con Valtour, ad esempio, i nostri ragazzi sono in villaggi in tutta Italia». Dal Volta di Reggio Calabria alcuni adolescenti sono volati al Cern. In altre province sono invece i “campioni dell’Alternanza”, battezzati tali dall’ex ministro Stefania Giannini, a garantire formazione sul campo: come commessi di Zara o Mac Donald’s, ad esempio. È il “modello tedesco”? «Mai manderei uno studente da Zara solo per esaurire le ore. Queste esperienze devono avere attinenza a ciò che studiano», risponde Alessandro Parola. E sì che il liceo che dirige, Classico e Scientifico a Cuneo, è in una delle province più povere di aziende registrate all’albo nazionale per gli stage. «Stiamo costruendo rapporti con musei, biblioteche o centri studi come l’Istituto Candiolo sulle malattie tumorali». Percorrendo il registro delle sue preoccupazioni più gravi, Parola insiste però su altro. «La sicurezza degli edifici è responsabilità di noi dirigenti. Ma non ho soldi in cassa per la manutenzione ordinaria. Così mi invento “fund raiser”, trovo bandi da fondazioni bancarie o dalla Ue. Di notte mi sveglio con gli incubi. A fine novembre il prefetto ha consigliato di chiudere le scuole per il maltempo. Al Darwin di Rivoli proprio in quei giorni è caduto un controsoffitto per le infiltrazioni d’acqua». L’ex governo ha previsto fino a sette miliardi e 800 milioni di euro per rendere sicure le scuole. Alla presidenza del Consiglio una squadra coordina le spese. «Aiutiamo a focalizzare gli obiettivi. Come quello fondamentale dell’adeguamento, e non solo del “miglioramento”, sismico. O l’opportunità di costruire nuovi impianti piuttosto che ristrutturare prefabbricati», spiega Laura Galimberti, l’architetto che guida la squadra: «Sono le regioni però a stabilire priorità e lavori. Noi non possiamo intervenire sulle loro scelte». Così non sempre la mappa dei 3.500 edifici scolastici in zona sismica coincide con la mappa dei cantieri aperti, ad esempio. Un’urgenza improrogabile, come mostrano le foto di Rocco Rorandelli, nate per un progetto con Cittadinanzattiva. È finita l’ora. Nell’ultimo tema la professoressa Ibba chiedeva ai ragazzi di immaginare un colloquio con un 50enne cresciuto senza smartphone. «Io che insegno da 25 anni e ho un gruppo di WhatsApp con gli studenti...». Resiliente, la scuola resiste.
Buona scuola? Solo per gli avvocati: è record di ricorsi. Ventotto cause al giorno: il ministero dell’Istruzione non è mai stato così sommerso dalle battaglie giudiziarie. Più di 7mila nel corso del 2016. La maggior parte riguardano concorsi e graduatorie, scrive Francesca Sironi il 2 febbraio 2017 su "L'Espresso". Ventotto cause al giorno. I ricorsi presentati contro il ministero dell’Istruzione e i suoi rami scolastici sono stati settemila e duecentosei nel 2016, di cui 1.340 solo contro la Buona Scuola. Sono i dati dell’Avvocatura generale dello Stato, l’organo legale dell’istituzione, che l’Espresso può pubblicare in queste pagine. I dati mostrano ancora un’altra scenografia dell’impasse in cui versano cattedre e strutture per la formazione: il contenzioso in tribunale. Dal 2012 le battaglie giudiziarie non hanno fatto che aumentare, passando dalle 3.485 di allora alle oltre settemila dell’anno scorso, un ritmo rimasto inalterato nelle prime settimane del 2017. Le associazioni di categoria, le sigle che rappresentano gli interessi di docenti e personale, pubblicano comunicati quotidiani per festeggiare vittorie collettive, sentenze, risarcimenti. Gli avvocati che difendono il Miur da questo sciame di cause spiegano invece come il boom di processi sia una sorta di “fenomeno ciclico”, un’onda puntuale quanto la marea a ogni nuovo bando o concorso per l’ingresso in ruolo; ricordano poi che i massicci numeri di vertenze contro le scuole siano dovuti anche alla mole titanica di docenti e famiglie coinvolte in un’istituzione “in prima linea” come quella educativa. Di certo però il peso delle liti si avverte e aumenta, al centro come in periferia. Michele Gramazio è il presidente dell’associazione dei presidi pugliesi e dice di «essere diventato una sorta di esperto legale, per forza». Ingegnere elettronico, dirigente scolastico dal 2010, negli ultimi tempi si è difeso da solo – difendendo l’istituzione – per tre volte, perché nelle cause di lavoro più semplici, in primo grado, l’avvocatura generale chiede spesso, ormai, agli uffici scolastici regionali di occuparsi direttamente della pratica. È un modo per lasciare che la struttura centrale di Stato si occupi soprattutto dei macro-ricorsi dalle conseguenze più rilevanti per il ministero. Ma sul territorio restano così i presidi a improvvisarsi avvocati. «Io ce l’ho fatta, però di solito l’amministrazione soccombe. E molti miei colleghi sono in difficoltà», racconta Gramazio. Alcune regioni, come l’Emilia Romagna, hanno costituito un piccolo pool regionale, specializzato in codici e leggi. Altre invece lasciano che siano i dirigenti a presentarsi dal giudice. «L’unico supporto che ho ricevuto», ricorda il preside: «È stata una mail con alcuni suggerimenti. «Si consiglia di precisare quanto segue...». Almeno per impostare la difesa». Le vertenze rilevate nel database dell’avvocatura si dividono in quattro blocchi. Quelle che hanno come oggetto “Concorsi e graduatorie che riguardano gli insegnanti” e sono state 4.043 nel 2016, tre volte tanto tre anni fa; poi ci sono le cause intentate dalle famiglie per la “promozione di alunni” - solo 308 l’anno scorso, un numero stabile da tempo; quindi i processi per la responsabilità civile di infortuni accaduti agli studenti, diminuiti dai 1.715 del 2012 ai 1.515 di oggi. E infine, negli ultimi due anni, sono state conteggiate le oltre 1.300 cause contro la Buona Scuola. La riforma macina vertenze anche perché, spiegano gli esperti, quanto più aumentano le variabili, quanto più complessi si fanno i fattori necessari a stabilire per quale ambito, aggregazione, titolo o categoria, ad esempio, qualcuno viene assunto e altri no, quanto più si moltiplicano gli ami a cui si appiglia il contenzioso, e la difficoltà a districarsi per difendere i migliori. E la Buona Scuola ha vinto forse il record in termini di labirinticità burocratica. Servirà la lezione?
ITALIANI: POPOLO DI IGNORANTI LAUREATI.
Gli antichi popoli citati nella Bibbia inventarono gli alfabeti europei. Egizi, Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Filistei: civiltà bene organizzate. Le iscrizioni e le cronache ci narrano con immediatezza le loro vicende, scrive Livia Capponi il 15 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Assiri, Aramei, Caldei, Cananei, Popoli del Mare, Filistei: i loro nomi affiorano da qualche enigmatico passo della Bibbia: ma chi erano costoro? Non appena ci si avvicina al Vicino Oriente antico, si scopre una varietà di regni, lingue, scritture di impressionante ricchezza, spesso però trascurata a causa di quel complesso di superiorità nei confronti dell’Oriente, definito dallo studioso palestinese Edward Saïd «orientalismo», che caratterizzava molti studiosi europei del secolo scorso, e che abbiamo ereditato dalla nostra beneamata tradizione classica. Il volume della serie La Storia in edicola domani con il «Corriere della Sera» s’intitola Imperi e Stati nazionali dell’età del Ferro e copre il periodo dal 1200 al 539 avanti Cristo. L’oggetto trattato dagli autori nei loro saggi potrebbe sembrare qualcosa di immobile, impenetrabile e perduto. Nulla di più sbagliato. Si tratta di civiltà fortemente burocratizzate, dove iscrizioni, cronache, annali, documenti d’archivio ci restituiscono con immediatezza le parole dei protagonisti a tutti i livelli sociali, dalla propaganda dei re ai registri con le paghe dei lavoratori. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, è una storia molto viva, in cui l’economia e il commercio sono il motore di migrazioni e di contaminazioni linguistiche e culturali, e i grandi imperi territoriali si reggono non solo sugli eserciti, ma anche su paci armate raggiunte tramite complessi accordi diplomatici. In più, questo campo di studi è continuamente arricchito da scoperte e progressi interpretativi, che spesso portano a ribaltare le ortodossie di pochi decenni prima. Per la massa di lettere e circolari (fino a 15 mila l’anno) fra i re e la loro burocrazia, l’impero neo-assiro (IX-VII sec. a.C.) è stato soprannominato «impero della comunicazione». Le iscrizioni ufficiali dei re di Ninive contengono dettagliate res gestae rivolte ai posteri, il cui tono insieme tecnico e ieratico ha lasciato un’eco persino in quelle di Augusto. L’ideologia, espressa in modo martellante dall’edilizia e dai testi scritti, afferma che l’attività del re è guidata e favorita dall’ausilio divino. Il sovrano è il vicario in terra del dio nazionale Assur, che rende ogni sua guerra «giusta» per definizione. Il centro del mondo è l’Assiria, buona e santa; la periferia, cattiva e peccaminosa; l’uomo assiro è civile, lo straniero barbaro. In qualche caso le guerre assire sono favorite persino dagli dei del nemico, che, adirati per i suoi peccati, lo abbandonano alla punizione che merita. E la dea venerata in tutta la cultura mesopotamica è Ishtar, contraddittoria come i cicli della natura, capace di essere al tempo stesso vergine e madre, pura e impura, protettrice amorevole e, all’occorrenza, guerriera sanguinosa. Se si confrontano le storie di Israele scritte in Italia nel XX secolo si noterà un cambiamento radicale ed un progressivo distacco dal racconto biblico, a favore delle fonti archeologiche e documentarie. A partire dalla stele del faraone Merenptah (1230 a.C.), il primo documento che cita il nome di Israele fra i popoli sconfitti dall’Egitto, l’archeologia smentisce la notizia dell’Esodo biblico, cioè di una migrazione ebraica dall’Egitto alla terra di Canaan, seguita da una conquista per infiltrazione o aggressione. Pare invece che gli Ebrei, tribù dedite alla pastorizia e poi alla coltivazione di vino e olio, siano sempre stati lì, riconducibili ad uno sviluppo interno. Un’altra stele egiziana poco più antica menziona una tribù di Raham, rivelando il significato di «Abraham» come il «padre dei Raham», e identificando Israele/Giacobbe in un suo discendente che diede il nome al popolo. La storia di re David, così come la racconta la Bibbia, è oggi ritenuta leggendaria. Il rapporto di amore esclusivo che lega il popolo di Israele a Yahweh si può confrontare con il legame fra il re e il popolo nei giuramenti di fedeltà assiri: «Non cercheremo alcun altro re o alcun altro signore per noi». Molti precetti biblici sono stati confrontati con altri codici legali, come quello babilonese di Hammurabi (1750 a.C.), gettando luce sulla koiné giuridica vicino-orientale. La dichiarazione sulle offerte pronunciata durante la liturgia del pranzo pasquale, che costituisce la professione di fede ebraica, inizia con la frase «mio padre era un Arameo errante». Gli Aramei, regno formatosi intorno a casate di origine tribale, lasciano un segno duraturo con la loro lingua, che nell’impero neoassiro diventa un mezzo di comunicazione internazionale, dalla Persia all’Egitto, dalla Siria alla Battriana. Con essa si sviluppa un sistema alfabetico di 22 segni, che prende piede anche nei porti della Fenicia, seguendo le rotte commerciali. Grazie alla sua praticità e adattabilità espressiva, questo alfabeto è adottato da tutte le lingue semitiche dette «cananaiche», incluso l’ebraico, e servirà poi anche per costituire gli alfabeti greci, precursori di ogni sistema di scrittura in Europa.
Italiani "analfabeti funzionali", incapaci di decifrare il mondo. Uno su tre non capisce un articolo di giornale, un contratto, un foglietto delle istruzioni. E non è un'emergenza elettorale ma sociale e politica, scrive Oscar di Montigny il 5 aprile 2018 su "Panorama". Quando nel 1861 si fece il Regno d'Italia, la priorità successiva fu "fare gli Italiani", come disse Massimo D'Azeglio. Il primo strumento era la scuola: per creare un popolo bisognava metterlo in condizione di leggere, scrivere e far di conto. Ci volle quasi un secolo (e il maestro Alberto Manzi) per passare dal 78 per cento di analfabetismo di allora alla quasi totale scomparsa degli illetterati. Ma i problemi tornano in modo più subdolo. In un mondo in cui 260 milioni di bambini non hanno accesso ad alcuna istruzione, in Italia, secondo l'Ocse, più del 70 per cento della popolazione è oggi analfabeta funzionale; non è analfabeta totale, perché ha ricevuto una minima educazione, tuttavia non riesce a comprendere brevi testi di utilità quotidiana o a compiere le più basiche operazioni di calcolo. Non capisce un articolo di giornale, un semplice contratto, un foglietto delle istruzioni, non sa calcolare la somma di una spesa o lo sconto su un prodotto. Il dato è allarmante: un italiano su tre non sa decifrare il mondo intorno senza una semplificazione o un'intermediazione. Ancora più preoccupante è che queste persone hanno comunque avuto un'istruzione. Se una volta si parlava di analfabetismo di ritorno, cioè di adulti che dimenticavano molte nozioni, ora siamo di fronte a un fenomeno che pare più organico e generalizzato. Si esce dalle scuole con strumenti già insufficienti ad affrontare la società. Il problema dell'analfabetismo non è solo un fattore culturale, è ancor di più un'emergenza sociale e politica. Secondo la dichiarazione dell'Unesco del 1975, l'alfabetizzazione "fornisce gli strumenti per acquisire la capacità critica nei confronti della società, stimola i progetti che possano agire sul mondo e trasformarlo". Spirito critico, progetti, relazioni: senza una capacità di elaborazione elementare tutto ciò è irrealizzabile. Figuriamoci orientarsi fra le varie proposte politiche, rivendicare diritti contrattuali, difendersi dalle ingiustizie. Eppure viviamo nell'epoca del web: lo smartphone sembra aprirci una conoscenza infinita. La maggior parte di noi invece non riesce a cercare né a comprendere questi innumerevoli stimoli. Non stupisce il fenomeno delle fake news: la scarsa capacità di capire i testi rende ancora più difficoltoso discernerne la veridicità. Molto più facile diffonderle. Il mai troppo compianto Tullio De Mauro ha parlato fino agli ultimi suoi mesi di "un processo di atrofizzazione del sapere costante e lievitante": invece di rifiorire per questa abbondanza di conoscenza, facciamo rattrappire i nostri cervelli. Non pretendiamo dunque che milioni di concittadini si approccino alle piccole o grandi cose della vita (come votare) senza preferire la propria pancia alla ragione. Ma attenzione anche a fare troppe distinzioni fra noi e loro: quando ci rifiutiamo di essere curiosi, quando per pigrizia evitiamo la scoperta e la novità, quando non dialoghiamo con le opinioni degli altri, finiamo per essere tutti analfabeti funzionali. (Articolo pubblicato sul n° 15 di Panorama, in edicola dal 29 marzo 2018, con il titolo "La riflessione").
L'analfabetismo delle istituzioni e l'incapacità di cogliere il cambiamento. Big data, fake news, intelligenza artificiale, robot: il mondo cambia e chi gestisce la cosa pubblica non sa più che pesci prendere, scrive Luciano Lombardi il 21 marzo 2018 su "Panorama". Il caso Facebook-Cambridge Analytica ha la forma di una brutta ferita. Che sembra nuova, ma in realtà è una ferita vecchia. Oltre che molto estesa, dai big data della fattispecie alle fake news, per esempio, dall’intelligenza artificiale ai robot e a come questi ultimi stanno cambiando i connotati al mondo del lavoro. In tutte le circostanze che rientrano in ciascuno di questi casi, quello che colpisce, più di ogni altra cosa, è l’incapacità delle istituzioni di intercettare i possibili effetti negativi dell’epifenomeno di turno e neutralizzarli prima della loro degenerazione. Prendiamo il caso di cui si parla in questi giorni: le manipolazioni via social a fini elettorali, ormai puntuali a ogni tornata da elettorale in qualsivoglia luogo del pianeta. Senza andare a scomodare il Russiagate, cioè la "madre di tutti gli scandali" di questo tipo già in tempi lontani (lontanissimi per il calendario della Rete) si andava parlando dei rischi di ingerenza nel contesto politico. E la questione, più generale, degli usi impropri dei dati personali nasce con la stessa Internet nel momento in cui questa ha cominciato a entrare nella vita di tutti.
Prevenzione zero. Eppure, nonostante gli avvertimenti, nonostante gli innumerevoli episodi, le istituzioni hanno fatto poco o nulla se non limitarsi ex post ad avvertire dell’importanza di rispettare le regole, oppure punire. Sempre e solo a posteriori. Trascurando il fatto che, probabilmente, le suddette regole non sono sufficienti, nella migliore delle ipotesi, o più spesso sono completamente inefficaci. Quando non del tutto assenti. Quanto detto finora vale, parimenti, per le altre grandi questioni connesse all’era digitale. Le fake news, altro caso emblematico. Come se, la percezione di veridicità della notizia in base a criteri emozionali e non come conseguenza di un’analisi sull’effettiva veridicità dei fatti fosse un fatto nuovo. Come se la post-verità - e con lei le “bufale” più o meno eclatanti, più o meno sofisticate - fosse un fenomeno dell’ultim’ora, spuntato dal nulla all’improvviso e degenerato tanto rapidamente da non dare il tempo di agire a chi è chiamato a vigilare.
Il sistema ormai fa acqua. La stessa cosa vale per gli altri due aspetti che abbiamo preso ad esempio per questa riflessione. Cosa si legge e cosa si ascolta perlopiù, a tutti i livelli, quando si è di fronte a un ragionamento sui cambiamenti del mondo del lavoro? Che ci sono sempre stati. Ed è un fatto, vero. Come è vero che quando una professione sparisce, quando una categoria di attività commerciali esce dal mercato, quando un sistema di produzione fa il suo tempo non c’è da preoccuparsi troppo perché tanto c’è sempre una mano invisibile che entra in gioco e ristabilisce gli equilibri. Così è stato - più o meno - finora. Eppure gli scenari oggi sembrano tutt’altro che autolivellanti, per esempio perché, rispetto al passato, la velocità con cui l’emergere di una nuova professionalità è infinitamente più lenta di quanto ci metta a sparire quella che sarebbe destinata a soppiantare. O perché, più in generale, banalmente, quelle che chiamiamo rivoluzioni, oggi, hanno una portata ben più disruptive, in senso buono e in senso cattivo, di quelle che le hanno precedute. E anche ammettendo, senza concedere, che questo assunto non sia vero, gli strumenti che oggi si hanno a disposizione per analizzare, prevedere ed impedire sono (dovrebbero essere?) infinitamente maggiori e migliori di quelli che esistevano in passato. Poche storie e poche scuse quindi. Abbiamo un grande, enorme problema: l’incapacità delle istituzioni di leggere lo zeitgeist, di riconoscere il segno dei tempi con sufficiente anticipo e capacità interpretativa e di tradurre poi le conclusioni in azioni concrete, a livello politico, economico e legislativo. Siamo, cioè, di fronte a una diffuso analfabetismo tecnologico, nella sua forma peggiore, perché non riguarda più soltanto il cittadino, l'utente, il consumatore, ma riguarda soprattutto chi gestisce la cosa pubblica.
Impreparati, incompetenti, immaturi: il ceto politico non è mai stato così ignorante. Non si è mai visto un ceto politico così ignorante. Laureati compresi. Colpa della scuola? O di una selezione al contrario? La democrazia rischia di non funzionare se conferisce responsabilità di comando a persone palesemente impreparate, scrive Raffaele Simone il 27 settembre 2017 su "L'Espresso". Anche se la legge elettorale ancora non c’è, le elezioni si avvicinano e gli aspiranti riscaldano i muscoli. Tra i più tenaci candidati a capo del governo ce n’è uno giovanissimo (31 anni appena compiuti), facondo, con cipiglio, determinato e ubiquo, ma non ugualmente solido in quel che un tempo si chiamava “bagaglio culturale”. Dalla sua bocca escono senza freno riferimenti storici e geografici sballati, congiuntivi strampalati, marchiani errori di fatto, slogan e progetti cervellotici (recentissimi l’Italia come smart nation e la citazione dell’inefficiente governo Rajoy come suo modello), anche quando si muove in quella che dovrebb’essere la sua specialità, cioè quel mix indistinto di nozioni e fatterelli politico-storico-economici che forma la cultura del politico di fila. Inoltre, Luigi Di Maio (è di lui che parlo) non è laureato. Si è avvicinato al fatale diploma, ma per qualche motivo non lo ha raggiunto. Nulla di male, intendiamoci: pare che in quel mondo la laurea non sia più necessaria, neanche per le cariche importanti. Nel governo Gentiloni più di un ministero è presidiato da non laureati e non laureate: istruzione e salute, lavoro e giustizia. Se questa non è forse la “prevalenza del cretino” preconizzata da Fruttero e Lucentini, è di certo la prevalenza dell’ignorante. Infatti la legislatura attuale ha una percentuale di laureati tra le più basse della storia: di poco sopra il 68 per cento, un dato che mette tristezza a confronto col 91 per cento del primo Parlamento repubblicano… Qualche settimana fa la Repubblica ha offerto lo sfondo a questo spettacolo, mostrando con tanto di tabelle che la riforma universitaria detta “del 3+2”, testardamente voluta nel 2000 dai non rimpianti ministri Berlinguer e Zecchino al grido di “l’Europa ce lo chiede!”, è stata un fiasco. I laureati sono pochi, non solo nel ceto politico ma nel paese, in calo perfino rispetto a quelli del 2000, ultimo anno prima della riforma. L’età media del laureato italiano è superiore ai 27 anni e la laurea triennale non serve (salvo che per gli infermieri) a nulla. I giovani che concludono il ciclo di 5 anni (il “3 + 2”) sono addirittura meno del totale di quelli che vent’anni fa si laureavano coi vecchi ordinamenti (durata degli studi 4, 5 o 6 anni). Per giunta, per completare la laurea triennale ci vogliono 4,9 anni, per quella quinquennale più di 7,4! Quindi, l’obiettivo principale della riforma, che era quello di aumentare il tasso di laureati, è mancato. Le cause? Certamente non sono quelle che ha suggerito, nel suo intervento a Cernobbio agli inizi di settembre, la non laureata ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli: la colpa dei pochi laureati, ha suggerito (lei ex sindacalista!), è delle «famiglie a basso reddito», che non trovano più buoni motivi per spingere i figli a laurearsi. Non ha pensato, non avendolo frequentato, che invece è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato. Quindi, se il paese è conciato così, come possiamo pretendere che il personale politico sia meglio? Ma non è finita. Un altro guaio, più serio, sta nel fatto che il ceto politico attuale, e ancor più (si suppone) quello che gli subentrerà al prossimo turno, ha un record unico nella storia d’Italia, di quelli che fanno venire i brividi: i suoi componenti, avendo un’età media di 45,8 anni (nati dunque attorno al 1970), sono il primo campione in grandezza naturale di una fase speciale della nostra scuola, che solo ora comincia a mostrare davvero di cosa è capace. Perché dico che la scuola che hanno frequentato è speciale? Perché è quella in cui, per la prima volta, hanno convissuto due generazioni di persone preparate male o per niente: da una parte, gli insegnanti nati attorno al 1950, formati nella scassatissima scuola post-1968; dall’altra, quella degli alunni a cui dagli anni Ottanta i device digitali prima e poi gli smartphone hanno cotto il cervello sin dall’infanzia. I primi sono cresciuti in una scuola costruita attorno al cadavere dell’autorità (culturale e di ogni altro tipo) e della disciplina e all’insofferenza verso gli studi seri e al fastidio verso il passato; i secondi sono nati in un mondo in cui lo studio e la cultura in genere (vocabolario italiano incluso) contano meno di un viaggio a Santorini o di una notte in discoteca. Prodotta da una scuola come questa, era forse inevitabile che la classe politica che governa oggi il paese fosse non solo una delle più ignoranti e incompetenti della storia della Repubblica, ma anche delle più sorde a temi come la preparazione specifica, la lungimiranza, la ricerca e il pensiero astratto, per non parlare della mentalità scientifica. La loro ignoranza è diventata ormai un tema da spot e da imitazioni alla Crozza. I due fattori (scarsità di studi, provenienza da una scuola deteriorata), mescolati tra loro, producono la seguente sintesi: non si è mai visto un ceto politico così incompetente, ignorante e immaturo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nelle parole, le opere e le omissioni. Si dirà, come al solito, che il grande Max Weber lo aveva profetizzato già nel famoso saggio sulla Politica come professione (1919): «lo Stato moderno, creato dalla Rivoluzione» spiega «mette il potere nelle mani di dilettanti assoluti […] e vorrebbe utilizzare i funzionari dotati di preparazione specialistica solo come braccia operative per compiti esecutivi». Ma il povero Max non poteva prevedere le novità cool dei nostri tempi: per dirne una, la rabbiosa spinta che il movimento di Beppe Grillo avrebbe dato alla prevalenza dell’incompetente.
Il caso di Virginia Raggi, per esempio, è da trattato di sociologia politica. Pronuncia carinamente l’inglese, ma è un’icona fulgente dell’incompetenza e dell’improvvisazione. Lo mostra, tra le mille cose, il suo incessante fare e disfare alla ricerca di assessori, alti funzionari e dirigenti per le partecipate: li raccatta dalle più varie parti d’Italia, senza distinguere tra accademici e gestori di night, li licenzia di punto in bianco, non vede che la città affonda nella monnezza e nell’incuria e intanto, svagata e placida, esibisce al popolo sfinito la più granitica certezza del radioso futuro della Capitale. Max Weber non avrebbe mai immaginato neppure che i destini della Capitale potessero esser telegovernati da un paio di signori che nessuno ha eletto, o che una deputata, che nella vita faceva la ragioniera, sarebbe arrivata a spiegare col forte caldo la lieve ripresa estiva del Pil. Gli incompetenti si sono procurati ulteriore spazio sfruttando senza ritegno il tormentone del rinnovamento di generazione, che, partito dall’Italia, ha contagiato quasi tutt’Europa. Esser giovane in politica è ormai un titolo di merito di per sé, indipendentemente dal modo in cui la giovinezza è stata spesa, anche se i vecchi sanno bene che la giovinezza garantisce con sicurezza assoluta solo una cosa: l’inesperienza, una delle facce dell’incompetenza.
La cosa è talmente ovvia che nel 2008 la ministra Marianna Madia, eletta in parlamento ventiseienne, non ancora laureata, dichiarò che la sola cosa che portava in dote era la sua “inesperienza” (sic). La lista che ho appena fatto non contiene solo piccoli fatti di cronaca. Se si guarda bene, è una lista di problemi, perché suscita due domande gravi e serie. La prima è: a cosa dobbiamo, specialmente in Italia, quest’avanzata di persone che, oltre che giovanissime, sono anche I-I-I (“incompetenti, ignoranti e immaturi”)? È la massa dei somari che prende il potere, per una sorta di tardivo sanculottismo culturale? Sono le “famiglie di basso reddito” della Fedeli, ormai convinte che i figli, invece che farli studiare e lavorare, è meglio spingerli in politica? Oppure è l’avanzata di un ceto del tutto nuovo, quello dell’uomo-massa, di cui José Ortega y Gasset (in La ribellione delle masse) descriveva preoccupato l’emergere?
«L’uomo-massa si sente perfetto» diceva Ortega y Gasset, aggiungendo che «oggi è la volgarità intellettuale che esercita il suo imperio sulla vita pubblica». «La massa, quando agisce da sola, lo fa soltanto in una maniera, perché non ne conosce altre: lincia». È una battutaccia da conservatore? Oppure la dura metafora distillata da un’intelligenza preveggente? Comunque la pensiate, queste parole non sono state scritte oggi, ma nel 1930. Forse l’avanzata della «volgarità intellettuale» era in corso da tempo e, per qualche motivo, non ce ne siamo accorti.
La seconda domanda seria è la seguente: la democrazia può funzionare ancora se conferisce responsabilità di comando a persone dichiaratamente I-I-I? Forse in astratto sì, se è vero che (come pensava Hans Kelsen) la democrazia è «il regime che non ha capi», nel senso che chiunque può diventare capo. In un regime del genere, quindi, chiunque, anche se del tutto I-I-I e appena pubere, può dare un contributo al paese. Napoleone salì al vertice della Francia a 29 anni e Emmanuel Macron (suo remoto emulo, dileggiato dagli oppositori col nomignolo di Giove o, appunto, di Napoleone) è presidente della Repubblica a 39. Nessuno di loro aveva mai comandato le armate francesi o governato la Repubblica. Ma ammetterete senza difficoltà che tra loro e Luigi Di Maio (e tanti suoi colleghi e colleghe con le stesse proprietà, del suo e di altri partiti) qualche differenza c’è.
Ocse: pochi laureati e bistrattati. Studenti del Sud indietro di un anno. Pochi laureati, poco preparati e bistrattati. Il divario della performance tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico. Così l’Ocse nel rapporto sulla "Strategia per le competenze" 2017. “L’Italia, negli ultimi anni, ha fatto notevoli passi in avanti nel miglioramento della qualità dell’istruzione”, ma forti sono le differenze nelle performance degli studenti all’interno del Paese, “con le regioni del Sud che restano molto indietro rispetto alle altre”, tanto che “il divario della performance in Pisa (gli standard internazionali di valutazione) tra gli studenti della provincia autonoma di Bolzano e quelli della Campania equivale a più di un anno scolastico”. “Solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni è laureato rispetto alla media Ocse del 30%”. Inoltre “gli italiani laureati hanno, in media, un più basso tasso di competenze” in lettura e matematica (26esimo posto su 29 paesi Ocse). Non solo. L’Italia è “l’unico Paese del G7” in cui la quota di lavoratori laureati in posti con mansioni di routine è più alta di quella che fa capo ad attività non di routine. In inglese il fenomeno è noto come "skills mismatch", in italiano si potrebbe tradurre con "dialogo tra sordi", dove i due potenziali interlocutori sono il lavoratore e il posto di lavoro. Insomma le competenze non risultano in linea con la mansione. Cosa da noi “molto diffusa”, spiega l’Ocse in un dossier specifico sulla materia. “Il livello dei salari in Italia è spesso correlato all’età e all’esperienza del lavoratore piuttosto che alla performance individuale, caratteristica che disincentiva nei dipendenti un uso intensivo delle competenze sul posto di lavoro”. “Attualmente l’Italia è intrappolata in un "low-skills equilibrium", un basso livello di competenze generalizzato: una situazione in cui la scarsa offerta di competenze è accompagnata da una debole domanda da parte delle imprese”. Insomma da una parte la forza lavoro non si presenta sul mercato preparata, attrezzata a svolgere le diverse mansioni possibili, dall’altra le aziende non pretendono.
La scuola superiore? È ancora un fatto di classe (sociale). Meno di un diplomato al liceo classico su 10 è figlio di operai e impiegati. Perché il fattore socio-economico è determinante nelle scelte dei ragazzi dopo le medie. Un gap di partenza che non abbiamo superato. E che incide nelle scelte universitarie, scrive Cristina Da Rold il 31 marzo 2017 su "L'Espresso". Il fatto che 7 diplomati su 10 abbiano intenzione di iscriversi all'università non è sufficiente per poter dire di essere sempre più vicini a rendere davvero equo l'accesso all'università. Il gradiente sociale che emerge se si considera la classe socio-economica di appartenenza dei giovani diplomati a seconda del tipo di diploma è infatti drammaticamente evidente. Anche se frequentare un liceo pubblico costa allo stesso modo di un istituto tecnico o di uno professionale, un terzo di chi si diploma al liceo proviene da famiglie di classe sociale considerata “elevata”, mentre solo il 17 per cento da famiglie che lavorano nell'esecutivo. Lo mostrano i dati raccolti da AlmaDiploma , la “sorella” di Almalaurea che ogni anno cerca di fare il punto sulle condizioni dei ragazzi prima che essi arrivino all'università. Per capire meglio di cosa stiamo parlando vale la pensa sciogliere un po' questa nomenclatura. Secondo le categorie di AlmaDiploma la classe sociale considerata “elevata” è rappresentata da liberi professionisti (medici, avvocati), dirigenti, docenti universitari e imprenditori con almeno 15 dipendenti. La classe “media impiegatizia” comprende impiegati con mansioni di coordinamento, direttivi o quadri intermedi e insegnanti, mentre la “classe media autonoma” coadiuvanti familiari, soci di cooperative e imprenditori con meno di 15 dipendenti. Infine, la classe del lavoro esecutivo è composta da operai, da qualsiasi forma di lavoratore subalterno e assimilato e da tutti coloro che sono considerati “impiegati esecutivi”, con contratti di varie forme e colore. Una specifica che rende ancora più rilevante il fatto che solo un liceale su 6 provenga da una famiglia che lavora nell'esecutivo. Si tratta in realtà di una stima al rialzo. Se consideriamo solo le due “roccaforti”, cioè il liceo classico e il liceo scientifico, il gradiente è ancora più evidente: il 45% dei diplomati nel 2016 nei licei classici è figlio di professionisti, dirigenti, docenti universitari, imprenditori, contro un 8,7% rappresentato da figli di operai e di impiegati. Simile la situazione per i licei scientifici, dove quest'ultima categoria rappresenta il 13,1%, tendendo a preferire, come formazione liceale, i licei delle scienze umane e i licei artistici. Certo, si tratta di un sondaggio, non di una raccolta svolta a tappeto, scuola per scuola. Leggendo il rapporto di AlmaDiploma si apprende infatti che questi dati rappresentano 261 istituti per un totale 43.171 studenti esaminati: 61 nel Lazio, 45 in Lombardia, 40 in Emilia Romagna, 26 in Liguria, 22 in Puglia, 20 in Toscana, 12 in Trentino-Alto Adige, 11 in Sicilia, 9 in Veneto e 15 in altre 7 regioni italiane. Perfettamente omogenea invece la proporzione di studenti esaminata per classe sociale. È ampiamente sottorappresentato il sud, ma anche per questo si tratta di dati interessanti perché ci tolgono dall'imbarazzo di pensare che forse questo gap così marcato rifletta in qualche modo un gradiente geografico, dal momento che solo una piccola parte di questi dati proviene dalle scuole del Meridione. Colpisce molto anche ciò che emerge dalle domande che AlmaDiploma pone ai giovani riguardo al loro prossimo futuro. Se filtriamo i risultati per i liceali italiani, coloro cioè che si presuppone più di tutti proseguiranno gli studi, fra coloro che non intendono iscriversi all'università, quasi il 30% appartiene alla classe dell'esecutivo, che ricordiamo costituisce solo il 15% del totale dei diplomati liceali. Inoltre, sempre solo considerando i liceali, il 30% di chi viene bocciato 2 o più volte appartiene alla classe sociale più bassa, contro il 17% della classe elevata. E di nuovo, ricordiamo che i primi rappresentano solo il 17% del totale degli iscritti ai licei. Un dato che ci fa riflettere ancora una volta sul substrato sociale che stiamo costruendo, e su quanto le condizioni di partenza possano incidere sulle attuali possibilità di un giovane nato in una famiglia con meno possibilità di altre di partenza, di seguire il medesimo percorso di un suo coetaneo e di usufruire delle migliori possibilità formative, curriculari e non. Vale la pena per esempio soffermarsi sulle percentuali di diplomati che hanno effettuato un soggiorno di studio all'estero, a seconda del tipo di scuola superiore considerata. Ancora una volta il gradiente si fa sentire: anche escludendo il liceo linguistico, che per ovvie ragioni propone molte attività di questo tipo, i giovani che fanno questo tipo di esperienza sono il doppio nei licei rispetto agli istituti tecnici o professionali. In media 4 ragazzi su 10 del classico e dello scientifico hanno usufruito di periodi di studio all'estero contro il 15% degli istituti professionali. Il divario aumenta se si considerano solo i soggiorni lunghi, superiori alle 2 settimane, prerogativa scelta da un liceale su 10 e da un diplomato professionale su 100. Si possono guardare questi dati da diversi punti di vista, per esempio notando il fatto che il 33% di chi ha intenzione di iscriversi all'università e contemporaneamente cercare un lavoro, proviene dalle classi sociali elevate. Tuttavia, in termini di disuguaglianze sociali il punto di osservazione – dicono gli esperti – deve essere quello dell'elemento più vulnerabile. Il punto di vista più interessante non è infatti che i figli delle classi sociali più elevate non scelgano le scuole professionali, come è facilmente prevedibile, o che tendano a proseguire gli studi dopo il diploma: l'elemento cruciale per valutare gli estremi di una società disuguale è capire perché ancora oggi meno di un diplomato al liceo classico su 10 sia figlio di operai e impiegati. Un possibile risultato di questo trend lo raccontava un anno fa AlmaLaurea, mostrando come chi proviene da famiglie più istruite sia più propenso a intraprendere percorsi di studio più lunghi, le famose “lauree a ciclo unico”, come medicina e giurisprudenza. Un dato su tutti: il 43% dei laureati in medicina proviene da classi sociali elevate (cioè con entrambi i genitori laureati), e in generale il 34% degli iscritti a corsi di laurea magistrale a ciclo unico. I figli di operai e impiegati rappresentano solo il 15% dei laureati magistrali a ciclo unico, cioè del neo-medici e dei neo-avvocati, contro un 34% costituito dai figli della classe sociale più elevata. Viene da chiedersi dunque se si tratta solo di una condizione economica, specie alla luce del recente dibattito sul Reddito di Inclusione per le famiglie meno abbienti, o se dietro ci sia dell'altro, barriere culturali e sociali. Quello che è certo è che in ballo vi è anche la composizione stessa della classe dirigente del domani.
Il trionfo degli analfabeti: non si è mai scritto tanto e tanto male. Dagli strafalcioni grammaticali dei politici alla dealfabetizzazione resa evidente dai social network, oggi siamo circondati dalla brutta scrittura. E non si tratta di un fenomeno solo italiano, scrive Raffaele Simone il 13 aprile 2017 su "L'Espresso". L’italiano è in declino? I giovani lo stanno perdendo? Nelle settimane scorse queste domande hanno rifatto capolino per via di un fait-divers: 600 professori universitari, tra i quali alcuni nomi noti, hanno scritto una lettera al capo del governo, al ministro dell’istruzione e alla stampa, per denunciare che «alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente» e commettono «errori appena tollerabili in terza elementare». Forti di questa diagnosi, i Seicento hanno stabilito che la colpa è della scuola, troppo disinvolta e liberale: ne chiedono quindi una «davvero esigente nel controllo degli apprendimenti oltre che più efficace nella didattica». Dopo questo rullo di tamburi, che sembrava annunciare chissà quale carica, i Seicento si sono limitati però a proporre qualche ritocchino qua e là all’organizzazione della scuola, di portata così modesta da sembrare, più che un manifesto di riscossa, un post-it passato da un preside ai suoi docenti. Del resto, qualche giorno dopo, quasi a farlo apposta, l’appello ha trovato una brutale conferma nei fatti: in un concorsone per maestri, la metà dei candidati si sono lasciati andare a plateali svarioni e castronerie. Comunque sia, benché il documento fosse scritto in una prosa malferma e burocratica e non tutti i Seicento siano noti come campioni di bello stile, non c’è dubbio che il dominio dell’italiano da parte dei giovani sia in grave declino. Nei miei decenni all’università ho incontrato non meno di dieci coorti di ragazzi, e posso confermare per esperienza diretta che uno smottamento linguistico e culturale presso i giovani era evidente almeno dagli anni Ottanta.
La questione si può affrontare a diversi livelli. Se vogliamo solo farci quattro risate, potremo fare collezioni di un po’ e fà, di un'elemento e i zoccoli ecc. Ci sorprenderà che solo pochi padroneggino l’apostrofo e gli accenti, distinguano sì (segno di assenso e avverbio multiuso) da si, sappiano come si scrivono soqquadro, acquitrino e intravvedere, e coi congiuntivi se la cavino meglio di Di Maio. Va detto però che strafalcioni non si trovano solo nel linguaggio dei giovani, ma affiorano anche in prose premium. Le scemenze pullulano sui maggiori media del paese, nei quali la punteggiatura è ormai traballante, il passato remoto è scomparso (Giulio Cesare è nato…) e la virgola dopo il vocativo è solo dei cruscanti. A un livello un po’ più complesso, ci sorprenderà vedere (esperienza personale) che neanche uno degli studenti di un corso specialistico conosca il senso di imbelle, imberbe, inerme, empio, beffardo e tanti altri aggettivi di questo tono. La sorpresa sarà ancora maggiore scoprendo che nessuno o quasi è in grado di completare un proverbio che a voi pare ovvio (tanto va la gatta al lardo…, bandiera vecchia…). Ma se vogliamo andare un po’ a fondo, bisognerà dire (e ricordare ai Seicento) che a indebolirsi non è la “lingua italiana” come materia scolastica. È molto di più: non stanno andando in fumo solo l’ortografia, la grammatica, la sintassi e il lessico, ma tutta quella formidabile macchina mentale (un tesoro dell’Occidente) con cui si acquista, conserva, elabora la conoscenza. Parlo insomma dell’intera attrezzatura che si usa per acquisire conoscenze e elaborarle, esporle, farle valere, ricordarle, usarle nella pratica.
Qualcuno cercherà di consolarci ricordandoci che il declino, se c’è, colpisce tutti i paesi avanzati. Il saggio The Closing of the American Mind di Allen Bloom, che descriveva con allarme cose esattamente di quel genere che accadevano negli USA, è del 1987. A un livello più basso, in Francia nel 2016 si sono visti costretti a sopprimere per legge alcune trappole ortografiche, tanti erano gli errori (anche dei colti) nella scrittura. Sono state modificate una quantità di grafie ingannevoli (oignon “cipolla” si potrà scrivere anche ognon); poi, arrendendosi al fatto che per i giovani il circonflesso è ormai solo un dettaglio delle faccine, lo si è abolito su i e su u (chissà perché, non su a)! Quindi, per dire, la maîtresse sarà d’ora in poi una maitresse… Questo tentativo di consolazione si può leggere però anche come un allarme da horror: l’attacco ai meccanismi del conoscere (ortografia inclusa) non è locale, ma planetario, e questa non è fantascienza. Ma chi sono i nemici? Non sappiamo dove sono, ma sappiamo chi sono. Da almeno trent’anni i giovani si trovano nella tenaglia di un mondo che è insieme descolarizzante e dealfabetizzante. Quanto al primo punto, è un mondo pieno di attrazioni, tentazioni, trappole seducenti, inviti, richiami a esperienze facilmente accessibili (droga inclusa). Insomma, nel complesso, un mondo così terribilmente attraente che al confronto la scuola, con tutto quel che comporta (pazienza, attenzione, ripetizione, silenzio), ha perduto mordente e appare piuttosto come una gran noia. La vita fuori è mille volte più libera e ricca di quella che si svolge entre les murs (“tra le mura” della scuola, secondo il titolo del bel film francese, in Italia La classe).
A dealfabetizzare queste generazioni già descolarizzate ci pensa il digitale di massa usato senza criterio. Una frase del genere è sicuramente impopolare, ma bisogna ben ammettere che i primi dieci anni dello smart phone, celebrati qualche settimana fa, sono anche i primi dieci anni del crollo della cultura condivisa. Su smartphone e tablet ubiqui, tutti scrivono o leggono qualcosa in ogni momento e luogo, perfino al cinema, in sala operatoria e alla guida di autobus. Ma come scrivono? Cosa scrivono? Cosa e come leggono? Molte di queste cose sono puro trash, junk, monnezza. Per giunta, la loro vita mentale è sottoposta a una perturbazione perpetua, dominata dall’interruzione continua, dallo zapping compulsivo, dalla mezza cultura che circola in rete, dal copia e incolla come pratica standard. Faccine piazzate dappertutto, fusioni di parole (tecnicamente, univerbazioni: massì, mannò, maddai, evvai, eddai, ecc.), contrazioni coatte (dal celebre xché in poi), appunti presi coi pollici e whatsapp per descrivere (fotografandoli) anche i momenti più irrilevanti e triti della vita. Insomma, se è vero che non si è mai scritto tanto nella storia, mai lo scrivere è stato a tal punto privo di ogni potere alfabetizzante.
Il guasto linguistico che ha tanto scandalizzato i Seicento è quindi solo una delle facce della e-cultura ormai prevalente, e neanche la più importante. La scuola, poveretta, non è colpevole che in parte. Nata per caso, la e-cultura è salita dalle aule e dalle discoteche alle professioni e alla vita comune, a partire dai media, e si è propagata viralmente. Basta sentire gli spropositi di pronuncia dei giornalisti televisivi, le intonazioni sballate, le pause viziose, i discorsi letti senza evidentemente capirci niente, per rendersi conto che il virus si è scatenato. I maestri elementari che scrivono svarioni sono i primi frutti maturi e adulti di questa semina.
Basteranno le quattro propostine di riorganizzazione didattica frettolosamente sottoscritte dai Seicento per compensare gli effetti di un bradisismo catastrofico? Cosa può la scuola? Chi può contrastare il blocco computazionale-educativo dominato da corporations come Apple, Google, Facebook e Pearson?
Come sempre, però, nella catastrofe c’è chi corre ai ripari. Mentre la scuola si dequalifica (e la lingua si liquefa), i giovani più svegli continuano a prepararsi seriamente, imparano a scrivere e leggere come si deve e usano i device solo quando gli servono. Ne conosco non pochi. L’esplosione internazionale dello house-schooling (ora si chiama così: far scuola a casa) è un indizio minuscolo, ma eloquente, di questo “si salvi chi può”.
Analfabeti funzionali, il dramma italiano: chi sono e perché il nostro Paese è tra i peggiori. Sono capaci di leggere e scrivere, ma hanno difficoltà a comprendere testi semplici e sono privi di molte competenze utili nella vita quotidiana. Nessuna nazione in Europa, a parte la Turchia, ne conta così tanti. Tutti i numeri per capire la dimensione di un fenomeno spesso sottovalutato, scrive Elisa Murgese il 21 marzo 2017 su "L'Espresso". Hanno più di 55 anni, sono poco istruiti e svolgono professioni non qualificate. Oppure sono giovanissimi che stanno a casa dei genitori senza lavorare né studiare. O, ancora, provengono da famiglie dove sono presenti meno di 25 libri. Sono gli analfabeti funzionali, quegli italiani che non sono in grado di capire il libretto di istruzioni di un cellulare o che non sanno risalire a un numero di telefono contenuto in una pagina web se esso si trova in corrispondenza del link “Contattaci”. È “low skilled” più di un italiano su quattro e l'Italia ricopre una tra le posizioni peggiori nell' indagine Piaac, penultima in Europa per livello di competenze (preceduta solo dalla Turchia) e quartultima su scala mondiale rispetto ai 33 paesi analizzati dall'Ocse (con performance migliori solo di Cile e Indonesia). Non si parla in questo caso di persone incapaci di leggere o fare di conto, piuttosto di persone prive «delle competenze richieste in varie situazioni della vita quotidiana», sia essa «lavorativa, relativa al tempo libero», oppure «legata ai linguaggi delle nuove tecnologie», precisa Simona Mineo, ricercatore Inapp, l'Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (ex Isfol). «Chi è analfabeta funzionale non è incapace di leggere - continua Mineo, che è stata anche National data manager per l’indagine OCSE-PIAAC condotta in Italia - ma, pur essendo in grado di capire testi molto semplici, non riesce a elaborarne e utilizzarne le informazioni». Un monito che riguarda gli italiani tutti perché, come conferma all'Espresso Friedrich Huebler, massimo esperto di alfabetizzazione per l'Istituto di statistica dell'Unesco: «Senza pratica, le capacità legate all'alfabetizzazione possono essere perse anno dopo anno». Come a dire che analfabeti non si nasce ma si diventa. Secondo l'Unesco, nel 2015 gli analfabeti in Italia erano pari all'1 per cento, percentuale che si riduce allo 0,1 se si considera solo la popolazione dai 15 ai 24 anni. «In molte regioni industrializzate, come l'Europa, la maggior parte della popolazione è capace di leggere e scrivere - continua Huebler - L'enfasi, infatti, è da porre sull'analfabetismo funzionale e sui livelli di alfabetizzazione piuttosto che sulle basiche capacità di lettura e scrittura». Al centro dell'analisi dell'esperto dell'Unesco ci sono proprio i dati dell'analisi Piaac, che mostrano come, nonostante l'Italia abbia un tasso di alfabetizzazione che sfiora il 100 per cento, la percentuale di analfabeti funzionali è la più alta dell'Unione europea. D'altronde, «anche se la maggior parte degli abitanti dei paesi ricchi è capace di leggere e scrivere - chiude Huebler - non si deve dimenticare come i livelli di alfabetizzazione non sono gli stessi per tutta la popolazione».
L'identikit dei nuovi analfabeti in Italia. Solo il 10 percento è disoccupato, fanno lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre degli analfabeti funzionali italiani è over 55. Tra i soggetti più colpiti le fasce culturalmente più deboli come i pensionati e le persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito mentre, per quanto riguarda la distribuzione geografica, il sud e il nord ovest del Paese sono le regioni con le percentuali più alte, visto che da sole ospitano più del 60 percento dei low skilled italiani. A tracciare l'identikit dell'analfabeta funzionale italiano sono le elaborazioni dell'Osservatorio Isfol raccolte nell'articolo “I low skilled in Italia”, studio nato per indagare su quella nutrita parte della popolazione italiana che nell'indagine dell'Ocse ha mostrato di possedere bassissime competenze. Tra i risultati più interessanti, l'aumento della percentuale di low skilled al crescere dell’età, passando dal 20 percento della fascia 16-24 anni all'oltre 41 percento degli over 55. «Questo perché chi è nato prima del 1953 non ha usufruito della scolarità obbligatoria - continua la ricercatrice Mineo - ma anche perché nelle fasce più adulte si soffre maggiormente dell’analfabetismo di ritorno». Ovvero, «se non sono coltivate, vengono perse anche quelle competenze minime acquisite durante le fasi di formazione e di inserimento nel mondo del lavoro». Andamento inverso per gli high skilled: in altre parole, mano a mano che i mesi passano sul calendario, aumentano le possibilità di diventare analfabeti funzionali. Balsamo contro la perdita delle nostre capacità può essere tornare tra i banchi di scuola da adulti o partecipare attivamente al mondo del lavoro. Eppure, non ogni occupazione può “salvarci” dall'essere potenziali analfabeti funzionali visto che solo alcune attività garantiscono il mantenimento se non addirittura lo sviluppo di capacità e conoscenze. «Sono le skilled occupations, ovvero professioni intellettuali, scientifiche e tecniche» precisa Simona Mineo. Quale quindi la causa delle cattive performance degli over 50? Colpa dei loro brevi percorsi scolastici e di un precoce ingresso nel mercato del lavoro, ma «ciò che conta più di tutto è la mancanza di una costante 'manutenzione' e 'coltivazione' delle competenze». È l'assenza di allenamento mentale, quindi, la causa che la ricercatrice individua per il declino della popolazione più anziana. «Si dovrebbe garantire un invecchiamento attivo», e sostenere attività di apprendimento in età adulta. «Iniziative che purtroppo, in Italia, continuano ad essere estremamente ridotte». Contraltare degli over 50 sono i Neet (i giovani tra i 16 e i 24 anni che non stanno né lavorando né studiando), visto che secondo lo studio di Inapp coloro che appartengono a questa categoria hanno una probabilità cinque volte maggiore di avere bassi livelli di competenza.
I libri che abbiamo in casa fanno la differenza. Quanti volumi erano riporti sulla libreria di casa tua quando avevi 16 anni? Ecco una delle domande del questione Piaac che può fare la differenza visto che spesso gli analfabeti funzionali sono cresciuti in famiglie in cui erano presenti un numero limitato di libri. «Questo dato è particolarmente accentuato nel nostro Paese -si legge nel report - dove il 73 percento dei low skilled è cresciuto in famiglie in cui erano presenti meno di 25 libri». Una mancanza che può portare i giovani a cadere in un crudele circolo vizioso. «L'assenza di un livello base di competenze - racconta Simona Mineo - rende difficili ulteriori attività di apprendimento», tanto da portare le competenze dei giovani con background fragili a «invecchiare e deteriorarsi nel tempo», rendendo per loro sempre un miraggio «l’accesso a qualsiasi forma di apprendimento». Le nostre competenze, quindi, non sono statiche. La famiglia, l’età, l’istruzione e il lavoro possono determinarne nell’arco della vita lo sviluppo ma anche la loro perdita. E il tessuto italiano potrebbe addirittura aiutare la diffusione dell'analfabetismo funzionale. Tra i punti deboli del nostro Paese, infatti, «l’abbandono scolastico precoce, i giovani che non lavorano o vivono condizioni di lavoro nero e precario, la mancanza di formazione sul lavoro» continua la ricercatrice, puntando il dito anche contro «la disaffezione alla cultura e all'istruzione, che caratterizza tutta la popolazione». D'altronde, come ricordava Tullio De Mauro, «la regressione rispetto ai livelli acquisiti nel percorso scolastico colpisce dappertutto gli adulti». «Occorre -, quindi, secondo lo studioso che più di tutti in questi ultimi anni ha continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, - riflettere su stili di vita e assetti sociali che producono questi dislivelli di competenze e queste masse di deprivati tra gli adulti».
«Gli studenti non sanno l’italiano». La denuncia di 600 prof universitari. Appello accorato dei docenti che chiedono un intervento urgente al governo e al Parlamento. «Nelle tesi di laurea, errori da terza elementare. Bisogna ripartire dai fondamentali: grammatica, ortografia, comprensione del testo», scrive Orsola Riva il 4 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Possibile ritrovarsi a correggere una tesi di laurea dovendo usare la matita rossa e blu come in un temino della scuola elementare? Purtroppo sì. Basta leggere alcune delle testimonianze drammatiche dei 600 professori universitari che in pochi giorni hanno sottoscritto un accorato appello al governo e al Parlamento per mettere in campo un piano di emergenza che rilanci lo studio della lingua italiana nelle scuole elementari e medie. Ripartendo dai fondamentali: «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Può sembrare un ritorno indietro ma, come spiega Giorgio Ragazzini, uno dei quattro docenti di scuola media e superiore del Gruppo di Firenze che hanno promosso la lettera, «forse stiamo risentendo anche di una svalutazione della grammatica e dell’ortografia che risale agli anni 70». E invece, come già si diceva in un film diventato di culto dopo gli anni del riflusso, «chi parla male pensa male». O, come preferisce ricordare il professor Ragazzini citando Sciascia, «l’italiano non è l’italiano, è il ragionare». «E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente - si legge nella lettera -. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana». La notizia non è nuova, ma non per questo è meno drammatica. Anche dall’ultimo rapporto Ocse-Pisa che misura le competenze dei quindicenni di mezzo mondo i nostri ragazzi sono usciti con le ossa rotte. E a sorpresa è soprattutto in italiano che andiamo male. Con buona pace della stanca retorica anti-crociana. Dal 2000 a oggi non abbiamo recuperato mezza posizione, mentre in matematica, dove pure eravamo molto più indietro, abbiamo fatto enormi passi avanti. Tra i firmatari della lettera si contano (al momento) 8 accademici della Crusca, quattro rettori, il pedagogista Benedetto Vertecchi, gli storici Ernesto Galli della Loggia, Luciano Canfora e Mario Isnenghi, e poi filosofi (Massimo Cacciari), sociologi (Ilvo Diamanti), la scrittrice e insegnante Paola Mastrocola, da sempre in prima linea per una scuola severa e giusta (giusta anche perché severa), matematici e docenti di diritto, storici dell’arte e neuropsichiatri. Tutti uniti nel denunciare la condizione di semi-analfabetismo di una parte degli studenti universitari. Come racconta bene questa testimonianza di uno dei firmatari: «Mi è capitato di incontrare in treno una studentessa che non sapeva quale fosse la “penultima” lettera del codice di prenotazione del suo biglietto».
La lettera dei 600 docenti universitari al governo: "Molti studenti scrivono male, intervenite". Il documento firmato da accademici della Crusca, linguisti, storici e filosofi. Nella lista Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari e Carlo Fusaro: "Alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di italiano", scrive Gerardo Adinolfi su "La Repubblica” il 4 febbraio 2017. "Molti studenti scrivono male in italiano, servono interventi urgenti". E' il contenuto della lettera che oltre 600 docenti universitari, accademici della Crusca, storici, filosofi, sociologi e economisti hanno inviato al governo e al parlamento per chiedere "interventi urgenti" per rimediare alle carenze dei loro studenti: "È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente", si legge nel documento partito dal gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità e firmato, tra gli altri, da Ilvo Diamanti, Massimo Cacciari, Carlo Fusaro e Paola Mastrocola. "Da tempo - continua la lettera - i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana". Secondo i docenti, il sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, "anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico". "Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all'aggiornamento degli insegnanti, ma - si fa notare - non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti, oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né l'impegno degli insegnanti, né l'acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti". Nella lettera si indica quindi una serie di dettagliate linee d'intervento per arrivare, "al termine del primo ciclo" di studi, ad un "sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti". Nella lunga lista dei firmatari ci sono molti nomi illustri: gli Accademici della Crusca Rita Librandi, Annalisa Nesi e Piero Beltrami, i linguisti Stefania Stefanelli e Edoardo Lombardi Vallauri, quatto rettori universitari, i docenti di letteratura italiana Giuseppe Nicoletti e Biancamaria Frabotta, gli storici Luciano Canfora e Mario Isnenghi, il matematico Lucio Russo e i costituzionalisti Paolo Caretti e Fulco Lanchester e ancora l'economista Marcello Messori e i docenti di diritto pubblico comparato e romano Ginevra Cerrina Feroni e Giuseppe Valditara. "Circa i tre quarti degli studenti delle triennali sono di fatto semianalfabeti - si legge tra i commenti dei docenti alla lettera - È una tragedia nazionale non percepita dall’ opinione pubblica, dalla stampa e naturalmente dalla classe politica. Apprezzo che finalmente si ponga il problema. Ahimè, ho potuto constatare anch'io i guasti che segnalate, dal momento che il mio esame è scritto e ne vengono fuori delle belle... È francamente avvilente trovarsi di fronte ragazzi che vogliono intraprendere la professione di giornalista e presentano povertà di vocabolario, scrivono come se stessero redigendo un sms, con conseguenti contrazioni di vocaboli, o inciampano sui congiuntivi". Un altro docente invece spiega: "Fortunatamente si incontrano anche ragazzi in gamba e preparati. Dedico ormai una buona parte della mia attività di docente a correggere l'italiano delle tesi di laurea. Purtroppo l'insegnamento di base, invece di concentrarsi su poche ed essenziali competenze, tende ad ampliarsi e a complessificarsi a dismisura, coi risultati che constatiamo. Le maestre elementari - spesso bravissime e motivatissime - devono obbedire a un sacco di circolari che le inducono a fare le assistenti sociali. La situazione, poi, è resa oggettivamente problematica dalla latitanza di troppe famiglie, che mandano a scuola bimbi incapaci di una normale convivenza".
«Si, nò, un’altro strafalcione» L’italiano incerto dei miei studenti. Il racconto del docente di linguistica. Più degli errori, preoccupa la difficoltà di decodificare i testi scritti. La grammatica va rispettata, ma sfidi la lingua in cui viviamo, scrive Giuseppe Antonelli il 6 febbraio 2017 su “Il Corriere della Sera”. La situazione è grammatica, si potrebbe dire riprendendo l’arguto titolo di un libro recente. Anche nel senso che improvvisamente la grammatica si è ritrovata al centro di un’attenzione che di solito non le viene riservata. E questa è un’ottima cosa, se è vero che - come scriveva Pessoa - «la fortuna di un popolo dipende dallo stato della sua grammatica». Va detto, d’altra parte, che la situazione era già ampiamente nota. «Le lamentele sull’italiano approssimativo degli studenti costituiscono un topos abituale», si legge nella prima pagina di un libro del 1991 intitolato La lingua degli studenti universitari. Negli studi degli ultimi anni sull’italiano degli universitari vengono segnalati errori di tanti tipi. Mancanza di capoversi, punteggiatura assente o errata («un centro urbano, gode di maggiore prestigio»), usi impropri dell’apostrofo («un’altro»), dell’accento («si, nò») e delle maiuscole («alcuni Tratti»), fraintendimenti lessicali («tutte le mie speranze si sono assolte»). Ma la questione più urgente riguarda la scarsa capacità di organizzare, o anche solo decodificare, adeguatamente un testo. Ovvero di argomentare il proprio pensiero e di interpretare - comprendendone il senso e lo scopo - quello degli altri. Vale a dire quegli aspetti che fanno della grammatica un elemento determinante non solo per la comunicazione e la socializzazione, ma anche per una cittadinanza consapevole. Ecco perché diventa sempre più importante insegnare la grammatica finalizzandola alla produzione di testi. Solo che per far questo bisogna liberarsi di alcuni riflessi condizionati. Nessuno insegna più la geografia o le scienze come si faceva cinquant’anni fa: il mondo è cambiato, ci sono state nuove scoperte. Bene: è cambiato anche l’italiano, oltre a quello che sappiamo sul funzionamento delle lingue. La grammatica non è granitica, ma dinamica. Che senso ha - ad esempio - demonizzare la tecnologia, quando è grazie alle nuove tecnologie che la scrittura è entrata davvero a far parte delle nostre vite? Tutto acquista un’altra concretezza se lo si mette in relazione con i testi reali. Resta grave, ovviamente, sbagliare l’uso di una acca o di un accento (anche se nel segreto della tua tastiera, la prof non ti vede: il correttore automatico sì). Ma ancora più grave è che la scrittura dei messaggini stia abituando i ragazzi a una testualità spezzettata, incompleta, insufficiente. E allora si potrebbe partire dal confronto tra questi testi e quelli tradizionali, per far capire come si costruisce un testo compiuto ed efficace: che abbia un inizio, uno svolgimento e una fine. Si potrebbe insistere un po’ di meno sulla differenza tra complemento di compagnia e di unione e un po’ di più su quei connettivi che servono a stabilire i rapporti logici tra le varie frasi. Smettere di dire che lui e lei non possono essere usati come soggetto e spiegare bene i casi in cui il soggetto di una frase deve essere esplicitato. Ogni livello della grammatica - dalla punteggiatura al lessico, dalla coniugazione dei verbi alla costruzione della frase - può essere orientato verso questo obiettivo. Anche per evitare la sensazione di un eccessivo scollamento tra l’essere e il dover essere, tra la norma e l’uso, tra la scrittura scolastica e quella di tutti i giorni. La sensazione di una doppia verità, infatti, rischia di alimentare atteggiamenti di lassismo e rinuncia: «tanto la grammatica che insegnano a scuola nella vita vera non serve ...». Per mostrarsi vitale (in ogni senso) la grammatica deve accettare la sfida con la lingua in cui viviamo. Se la situazione è grammatica, la grammatica dev’essere all’altezza della situazione.
Colpa di noi prof se i ragazzi non sanno più l'italiano, scrive Spartaco Pupo, Ricercatore e docente di storia delle dottrine politiche, Università della Calabria, Lunedì 6/02/2017 su "Il Giornale". È davvero singolare che oltre 600 docenti universitari, alcuni anche prestigiosi, abbiano firmato un appello dai toni così semplicistici o, per usare un termine di gran moda, «populistici», per chiedere al governo e al parlamento «interventi urgenti» contro il «semianalfabetismo» dei loro studenti, accusati di scrivere malissimo in italiano e di commettere gravi errori di sintassi, grammatica e lessico. Il problema, in realtà, è più complesso di quanto vorrebbero fare apparire questi colleghi, e investe, oltre alla scuola, anche e soprattutto l'università italiana, che fino a prova contraria laurea i professori delle scuole che formano i ragazzi somari oggi denunciati, i quali esistono per davvero, aumentano ogni anno di più, e di cui è giusto dibattere. Tuttavia, non ci sarebbe nulla di scandaloso se dei genitori italiani firmassero anch'essi un appello per prendersela con l'università che regala lauree ai docenti dei propri figli. Sarebbe, certo, un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, ma una cosa è certa: gran parte delle responsabilità di questo fenomeno è ascrivibile proprio alla crisi dell'intero sistema formativo, che è il prodotto non solo di scelte politiche, teorie pedagogiche e psicologiche e convinzioni ideologiche di origine sessantottina tendenti a un generale livellamento delle competenze, sempre più tecnicistiche e sempre meno umanistiche, a dispetto della valorizzazione del talento e del merito, ma anche dell'indisturbata «selezione» di un corpo accademico che lancia solo oggi l'allarme, piangendo lacrime di coccodrillo. È vero che nella scuola dell'obbligo il buonismo con cui gli insegnanti tendono a promuovere tutti, anche gli analfabeti, è dilagante, ma è altrettanto vero che i nostri ragazzi fanno oggi i conti con un disprezzo generalizzato della lingua italiana diffuso sia nei romanzi di certi autori contemporanei, pieni zeppi di parolacce, sia nei giornali e nella televisione, che fanno largo uso di un linguaggio sempre più sciatto, pieno di scorciatoie e strafalcioni. E che dire del predominio incontrastato dell'inglese oggi peraltro imposto a cominciare proprio dall'università, a tutto svantaggio dell'uso dell'italiano? Gran parte della classe accademica che oggi si lamenta dell'ingresso all'università di gente che non usa bene il congiuntivo, fino all'altro ieri si è abbeverata agli insegnamenti di professori come Tullio De Mauro, che dopo averci per una vita invitato a privilegiare e conservare i nostri dialetti, solo poco prima di morire si è messo a denunciare l'ignoranza della lingua italiana tra i giovani. Ma la nostra è anche una università figlia di intellettuali devoti alla «oicofobia» (letteralmente vuol dire «paura della propria casa»), fenomeno che colpisce soprattutto la classe intellettuale italiana ed europea e che porta al disprezzo della propria cultura e di tutto ciò che ha a che fare con il retaggio identitario della nazione, a iniziare dalla lingua. Sin dal 1965, l'anno del suo Scrittori e popolo, Alberto Asor Rosa non ha mai smesso di prendersela con gli intellettuali nazional-popolari, bollandoli di provincialismo e conservatorismo e accusati di essere l'incarnazione di una cultura paesana e piccolo borghese. Si ricorderà il suo feroce attacco a Francesco De Sanctis, reo, a suo dire, di avere scritto una storia della letteratura che celebrava la civiltà italiana moderna, e ai «ridicoli soprassalti nazionalistici» in cui la cultura letteraria italiana è stata coinvolta. Ancora nel 2009 Asor Rosa pensava di convertire una «normale» storia della letteratura italiana in una storia «europea» della letteratura italiana, come recita il titolo della sua ultima opera. Tutto ciò ha sin qui fatto parte dell'«impegno» del buon accademico e della sua missione «salvifica» del mondo, con risultati assai deludenti e che sono sotto gli occhi di tutti.
"Se potrei" e altri orrori: come si usano i verbi. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 6 febbraio 2017 su "L'Espresso". Oh davvero, il verbo è tutto. Volete fare una frase? Ci vuole un verbo. Voi mi direte: “No, guarda, ci stanno pure le frasi senza verbo." Il che è vero, ma poi vedremo che magari un verbo, in qualche modo, ce l'hanno pure loro. Quindi, il verbo, dicevamo.
Il verbo, nelle frase, fa tutto. Senza, è come fare un aperitivo senza le patatine: si può ma non è granché.
Il verbo è fondamentale perché dice tutto: racconta infatti l'azione. Se non c'è una azione, reale, immaginata, sperata, attesa, pensata, auspicata non succede niente, e non se non succede niente non si racconta, né si fanno frasi. Quindi il verbo è il nostro caposaldo.
I verbi, lo sappiamo tutti, hanno i tempi e i modi e le persone. A scuola, quando ce li fanno coniugare pensiamo tutti: “Eccheppalle!". In effetti coniugare i verbi è operazione noiosissima. Il problema è che per spiegare come succedono le cose è necessario usare i verbi in maniera corretta.
Il modo del verbo, per esempio, ci spiega l'azione: è una cosa reale? E' una cosa immaginaria? La differenza è notevole. Io, per esempio, se adesso ho fame mangio una mela. Perché ce l'ho. Se non ce l'avessi, al massimo potrei dire che mangerei volentieri una mela, ma resto a bocca asciutta. Quindi, capite bene, comprendere il modo del verbo è importante, se non altro per capire se digiunerò e no.
Quando una cosa accade nella realtà il modo da usare è l'indicativo. Io mangio una mela, io incontrai Elena al mercato, io vedrò domani la partita allo stadio. Sul serio, queste cose le faccio, le ho fatte o le farò davvero.
Se invece io non sono certa che una cosa sia accaduta davvero, ma lo penso o me lo auguro, si usa il congiuntivo. Io penso che tu sia buono (lo penso, e magari pure lo spero, ma non ne sono certo, potresti essere una carogna). Magari piovesse! (Ma non è detto che piova). Credo che fosse Luigi quello che ho visto ieri sera per strada (ma magari no, era Carlo, o un tizio qualsiasi, perché non l'ho visto bene e sono pure cecata di mio).
Se l'azione invece può accadere solo a patto che si verifichi una qualche altra condizione, si usa il condizionale (i grammatici hanno una fantasia limitata nello scegliere i nomi, come si nota). Se avessi una mela (condizione)-> me la mangerei (azione). Se invece do un ordine, allora si usa l'imperativo (ve l'ho detto, non hanno una gran fantasia con i nomi), e per essere sicuro che si capisca che è un ordine, l'imperativo di solito viene usato con un bel punto esclamativo dopo: Portami una mela!
Il verbo, in analisi logica, si chiama "predicato" perché racconta quello che succede. È predicato verbale se racconta una azione, è predicato nominale se invece descrive una qualità del soggetto, ed in quel caso è formato dal verbo essere più una parte nominale, che può essere un aggettivo o un nome. Luca mangia - > predicato verbale (racconta una azione). Luca è alto / è un professore - > predicato nominale, racconta una caratteristica o una qualità di Luca.
Ora, se scrivete una frase, mettetecelo, il verbo. Le frasi senza verbo un po' sono zoppicanti e si sentono molto sole. Non fatele bullizzare dai periodi pieni di verbi e di subordinate, che si sentono superiori.
I verbi raccontano il mondo. Del resto anche il Vangelo di Giovanni comincia dicendo che in principio era il Verbo. Il che dimostra che Giovanni forse aveva anche le visioni, ma comunque sapeva bene come si raccontano le storie e aveva capito tutto della grammatica.
E poi c’è il risvolto della medaglia.
Da analfabeti a laureati, la rivoluzione culturale dei nuovi padrini. Da Dostoevskij a Pennac, ma anche Dickens, l’Eneide e le suore mistiche. Ecco le opere sui comodini dei capi di Cosa Nostra, scrive Attilio Bolzoni il 7 febbraio 2017 su "La Repubblica". È LA generazione di mafia più colta. Per forza: sono rinchiusi da anni nella dannazione del 41 bis e tutti soli con Dostoevskij e i fratelli Karamazov, con Tolstoj, Svevo, Pasternak, Pirandello, con i filosofi tedeschi, i teologi protestanti, Virgilio e Kant. In Italia si legge sempre di meno ma "dentro" sempre di più. A parte quello zoticone di Totò Riina che è rimasto come dice lui stesso, "un seconda elementare", gli uomini della Cupola si sono allitterati, hanno studiato, da seminalfabeti che erano molti hanno preso una e anche due lauree, si sono immersi nella storia e nei misteri della religione, avidi di discipline umanistiche e anche scientifiche. È un altro mito che cade nella Cosa Nostra che non c'è più perché ce n'è una nuova dentro e fuori il carcere. Una volta nei loro covi c'era sempre una Bibbia sul comodino e in qualche cassetto Il Padrino di Mario Puzo, non mancavano mai i Beati Paoli e Coriolano della Floresta di Wiliam Galt, romanzi cult di un'aristocrazia criminale che è sottoterra. La mafia del 41 bis ha imparato a proprie spese e si è emancipata intellettualmente, in compagnia de Il Dottor Zivago o di Todo modo. I divieti del regime speciale carcerario non hanno offerto un'altra scelta. Come ricorda Giuseppe Grassonelli a Carmelo Sardo - nel libro "Malerba" - quando è appena entrato nella fortezza dell'Asinara subito dopo le stragi del '92. Grassonelli era uno dei boss della "Stidda", si ritrovò nell'isola del Diavolo in un loculo di cemento dove trovò una brandina di ferro e sopra un'edizione di Guerra e Pace. Provò a leggere qualche pagina e non ci riuscì, al tempo sapeva a malapena mettere la sua firma. Riprovò una, due, tre, quattro volte. E quando finalmente finì il libro scoppiò a piangere. Oggi Giuseppe Grassonelli si addentra con sofisticato piacere nel labirinto del periodo rivoluzionario napoletano del 1799, in particolare sulle "insorgenze" che coinvolsero tutte le province del Regno. E che dire allora di Gaspare Spatuzza, quello della strage di Paolo Borsellino e sempre quello - che a sentire un altro pentito - lo descriveva mentre "con una mano manciava e con un'altra arriminava", con una mano teneva stretto un panino con il prosciutto e con l'altra un mestolo di legno con il quale pestava un cadavere sciolto nell'acido. Spatuzza ha incontrato la sociologa Alessandra Dino in una struttura penitenziaria (lei ne ha poi scritto un formidabile saggio) e l'ha invitata nella sua piccola biblioteca. C'era Delitto e Castigo, c'era La coscienza di Zeno, c'erano tre volumi di filosofia di Reale e Antiseri. Poi le ha regalato una sintesi di un libro di Joe Dispensa, Cambia l'abitudine di essere te stesso, con dedica: "Chi avrebbe mai potuto immaginare che un giorno Gaspare, un seminalfabeta, fosse in grado di spiegare, anche se con le parole del Dott. Joe Dispensa, qualcosa sulla fisica quantistica?". Ma non sono soltanto i boss del 41 bis che si sono raffinati fra trattati storici e testi ancora più impegnativi che sconfinano nell'aldilà. Anche i latitanti passavano o passano le loro giornate sui libri. Pietro Aglieri per esempio, dietro l'altare dove l'andava a trovare un fratacchione della Kalsa, aveva tutte le opere di Edith Stein, la monaca filosofa tedesca dell'Ordine delle Carmelitane Scalze che morì ad Auschwitz - era di origine ebraica - nel 1942. L'imprendibile Matteo Messina Denaro qualche anno fa dialogava per lettera sotto il falso nome di "Alessio" con l'ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino (che si firmava "Svetonio") confessandogli, suo malgrado, "di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto", immedesimandosi nel personaggio inventato dallo scrittore francese Daniel Pennac. Nelle sue corrispondenze con "Svetonio", Matteo ricordava anche l'Eneide, ragionava su Toni Negri, citava Jorge Amado: "Non c'è cosa più infima della giustizia quando va a braccetto con la politica". Una rivoluzione culturale. E forse a iniziarla è stato il capostipite dei Corleonesi, Luciano Liggio, uno che nonostante le "leggende" create intorno a lui sembrava più un gangster che un mafioso. Disse una volta ai commissari della prima Antimafia: "Ho letto di tutto, storia, filosofia, pedagogia. I classici. Ho letto Dickens e Croce". E sfottendoli, ha concluso: "Ma quello che ammiro di più è Socrate, uno che come me non ha mai scritto niente ".
"Parole in cammino": errori, web, neologismi. Tutto rende viva la lingua italiana. È datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari, scrive Pier Francesco Borgia, Venerdì 07/04/2017, su "Il Giornale". Alla domanda sulla salute della lingua italiana vengono subito alla mente gli svarioni dei giornalisti, i lapsus calami dei politici e le ingenuità linguistiche del popolo della Rete. Eppure non è così nero il presente (e il futuro) della lingua trasmessoci, giù «per li rami», dallo stesso Dante. Per capire insomma e per conoscere tutti gli aspetti del nostro comune patrimonio linguistico ora c'è anche un festival: «Parole in cammino». Ideato e curato da Massimo Arcangeli, ordinario di Linguistica italiana a Cagliari, insieme con l'università di Siena che vuole così degnamente festeggiare il centenario (1917-2017) della Scuola di lingua italiana per stranieri. E che avrà come cornice appunto (da oggi a domenica) la città toscana. Linguisti, ovviamente, giornalisti, docenti e insegnanti si confronteranno su un grande e appassionante tema come la lingua italiana. Dimostrando, tra l'altro, che lo studio e la pratica virtuosa di questa lingua è meno isolato di quello che sembri. È vero che i problemi ci sono e sono molti. È di pochi giorni fa, ad esempio, la notizia che a un concorso per diventare maestri di ruolo nel Lazio, l'80% degli aspiranti maestri ha commesso grossolani errori di ortografia. Mentre, ormai, è datato 2016 l'appello che un nutrito gruppo di accademici ha rivolto al ministero dell'Istruzione, lamentando la poca padronanza dell'italiano scritto da parte degli studenti universitari. Eppure trasmissioni e siti web come La lingua batte registrano un ampio consenso. E fenomeni come quello di Fiorella Atzori (la prima youtuber a difesa dell'uso corretto del nostro idioma) sono tutt'altro che trascurabili. La Atzori è giovanissima. E - come racconta lei stessa - non è nemmeno una linguista. Dopo aver usato come «cliente» i più vari tutorial (alla cucina al make up), ha deciso di buttarsi. Scegliendo come argomento la grammatica italiana. «Fin da piccola ero appassionata di grammatica, merito di mia nonna maestra - racconta la Atzori che l'8 aprile presenterà al festival il suo libro Sgrammaticando (salviamo l'italiano dalla Rete) -. E da cinque anni sono a tempo pieno una youtuber». Con un risultato davvero impressionante. Dal primo video trasmesso su Youtube (finora sono quasi 400) ha ottenuto oltre 2,7 milioni di visualizzazioni, con 26 mila persone iscritte al canale di «Sgrammaticando». E dal tutorial (anglicismo che però viene dritto dritto dal latino) ai neologismi che arricchiscono la nostra lingua il passo è breve. E al festival gli «inventori» di parole nuove sono tra i protagonisti più attesi. Come il piccolo Matteo T. ed Enrico Mentana che verranno premiati per il loro supporto nel rendere il nostro lessico sempre più ampio ed efficace. Il primo è arrivato agli onori della cronaca per la parola «petaloso», accettata e registrata dalla Crusca. Il direttore del tg de La 7 per la parola «webete» (decisamente efficace per descrivere i creduloni che abboccano alle notizie fasulle in Rete). La nostra lingua però non è mai stata avara di neologismi. In fondo ogni epoca ha i suoi. Non è quindi la vivacità o debolezza dell'invenzione lessicale a impensierire un linguistica di rango come Francesco Sabatini (presidente onorario dell'Accademia della Crusca). Semmai l'approccio poco scientifico nell'insegnamento dell'italiano fin dalla scuola primaria. «All'inizio del Novecento il 50% degli italiani era analfabeta, contro solo l'1% dei tedeschi - racconta Sabatini -. Da allora di strada ne abbiamo fatta, ovviamente. Però c'è ancora molto da fare». «Soprattutto ora - aggiunge - che la tecnologia ha innalzato le competenze necessarie per vivere e lavorare». D'altronde riflette Sabatini - il cui ultimo libro Lezioni d'italiano (Mondadori) sta avendo un ampio successo di pubblico - non dobbiamo demonizzare la tecnologia. I tablet e gli smartphone, dice, sono necessari. «L'agilità manuale è una cosa - spiega - il contenuto linguistico delle operazioni su tablet o device elettronici è un'altra. Mica demonizziamo le scarpe perché per camminare servono solo i piedi!»
Neologismi a ritmo di tweet. Un dizionario dell'italiano creativo. Dal 7 al 9 aprile si svolge a Siena la prima edizione della kermesse "Parole in cammino", un viaggio tra l'italiano del passato e del futuro: incontri con intellettuali e giornalisti e laboratori per le scuole sulla lingua italiana che cambia. Qui un'anticipazione dell'intervento dell'ideatore del festival, scrive Massimo Arcangeli il 5 aprile 2017 su "L'Espresso". Direttamente dal web: “Io lollo sempre un devasto quando i cazzoni ci lasciano o quasi le penne a fare i lollers con gli animali spaccaculi”, scrive Randolk. “Io me la rido sempre di gusto quando gli stolti rischiano la pelle a trattare con leggerezza certi animali selvaggi”, traduce NickZip a beneficio dei navigatori virtuali digiuni di slang. Prove di neologia giovanile. Un possente onomaturgo è stato Dante. Nel 2015, per celebrare il 750° anno dalla sua nascita, ideai, per la Festa di Scienza e Filosofia di Foligno, un dizionario goliardico di vocaboli o significati inventati cui diedi il nome diTwittabolario. L’iniziativa, ispirata a una analoga di due anni prima e svolta in collaborazione con Scritture brevi, una comunità di affiliati a Twitter, avrebbe visto una grande partecipazione. Fra gli utenti più attivi Anna Petrazzuolo, autrice di una raccolta di parole e definizioni inventate d’autore (Di sana pianta); vi brillavano esempi come questi:
bugivéra s. f. [comp. di bugi(a) e vera]. Né bugia né verità, una bugia che è anche verità o una verità che anche una bugia. Ve ne sono di due tipi: la bugìvera detta a fin di bene (propria delle monache) e la bugìvera detta a fin di male (propria di giornalisti, medici e dietologi). Nella religione cattolica è considerata peccato veniale; in politica è una virtù. La madre superiora disse una bugìvera grande quanto una cassapanca (dalla “Monaca triste” di Alessandro Vermicelli) (FERDINANDO GAETA).
cremlìno s. m. [dal lat. tardo cremum "la parte butirrosa, spessa e opaca che affiora sul latte", sul modello di cremino]. Grande dolce natalizio alla crema, tradizionale della Moscovia: Ivan Alexandrovic tornò a casa con una fame tale che si sarebbe mangiato un intero cremlino (MARCO FULVIO BAROZZI).
enrigolètto s. m. [dal personaggio protagonista dell’opera verdiana Rigoletto, sul modello di Enrico Letta]. Chi ricorda la tragica vicenda di Rigoletto, il buffone vittima del destino e dei capricci dei potenti: Quell’enrigoletto illuso credeva di riuscire a tenere a bada il rottamatore (MARCO FULVIO BAROZZI).
whatsappatóre s. m. [incrocio dell'ingl. whatsapp e del nap. zappatore]. 1 Chi fa uso delle applicazioni di un terminale telefonico in modo rudimentale o approssimativo: Sei proprio uno whatsappatore! 2. (fig.) Chi, nonostante ami la tecnologia, conserva sentimenti filiali: Whatsappatore nun s''a scorda 'a mamma (MAURIZIO DE ANGELIS).
Fra gli esempi prodotti nel 2015:
Acetone. Condimento per insalatone.
Aculeo. Spillone costruito appositamente per punzecchiare i glutei.
Allucinazione. Patria degli alluci.
Arazzo. Dipinto velocissimo.
Astigmatico. Privo di fori nelle mani.
L'ITALIANO: LINGUA MORTA, ANZI, NO!
Gb, questionario a scuola: "Di che lingua sei: italiano, napoletano o siciliano?". Scuse dal Foreign Office. L'iniziativa per stabilire l'area linguistica di provenienza aveva lo scopo di fornire una migliore assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Ma è stata interpretata, alla fine, come una "schedatura" in base all'origine regionale. "Rammarico" del governo britannico per un "errore storico", scrive Enrico Franceschini il 12 ottobre 2016 su "La Repubblica". Parlate italiano, napoletano o siciliano? La domanda fa parte di un questionario che alcune scuole della Gran Bretagna hanno inviato alle famiglie dei nuovi alunni per l'anno scolastico iniziato da circa un mese. L'iniziativa aveva, in teoria, uno scopo non discriminatorio: stabilire l'area linguistica di appartenenza dei figli di immigrati per poter fornire sia ai bambini, sia eventualmente ai genitori, la necessaria assistenza nell'apprendimento dell'inglese. Analizzando il modulo, si notano suddivisioni anche per i vari tipi di lingua punjabi, cinese, arabo. E l'elenco contiene una categoria anche per il sardo (sardinian), considerato una lingua a parte. Ma quale che fosse l'intento, il risultato è stato comunque di far sentire i nostri connazionali come se venissero "schedati" in base all'origine regionale. Come se esistessero almeno tre tipi di cittadino italiano: l'italiano-italiano, l'italiano-napoletano e l'italiano-siciliano. Qualche famiglia italiana ha segnalato la cosa alla nostra ambasciata di Londra e la protesta è stata immediata. "L'Ambasciata d'Italia nel Regno Unito è intervenuta per richiedere la modifica di talune categorizzazioni regionali riferite all'Italia comparse sui moduli online per l'iscrizione scolastica in alcune circoscrizioni in Inghilterra e nel Galles", afferma una nota dell'ufficio stampa della nostra sede diplomatica. "I codici presentati per la selezione dell'appartenenza etnica, utilizzati sui siti di alcune circoscrizioni scolastiche, indicavano infatti una scelta fra italiano, italiano - napoletano e italiano-siciliano. L'Ambasciata ha protestato con le autorità britanniche, richiedendo la rimozione immediata di tali categorizzazioni". Nella nota verbale di protesta si ricorda che "l'Italia è dal 17 marzo 1861 un Paese unificato": un commento all'insegna dell'understatement inglese, cioè senza bisogno di gridare, da parte della nostra ambasciata, che in parole semplici suonerebbe come una tirata d'orecchi al ministero d'Istruzione britannico, non lo sapete che l'Italia non è più un'espressione geografica? A caricare ulteriormente la polemica deve aver contribuito anche la decisione, solo pochi giorni fa, di escludere i ricercatori non britannici da un progetto sulla Brexit alla London School of Economics. Con la differenza che questa volta il Foreign Office britannico non ha esitato a chiedere scusa all'Italia "deplorando l'accaduto" e assicurando "un intervento perché vengano subito rimosse queste categorizzazioni non giustificate e non giustificabili". Il Foreign Office, tra l'altro, ha fatto sapere che "verificherà per quale motivo, in pochi e isolati distretti scolastici, siano state introdotte queste categorizzazioni, che peraltro non avevano alcuna volontà discriminatoria, ma semplicemente miravano all'accertamento di qualche ulteriore difficoltà linguistica per i bambini da inserire nel sistema scolastico inglese e gallese". Alle scuse del Foreign Office segue la dichiarazione di un portavoce per esprimere il "rammarico" causato a Downing Street dall'errore "storico". "Il governo britannico - spiega anche il portavoce - acquisisce informazioni linguistiche come parte del censimento scolastico per assicurarsi che gli studenti di madrelingua diversa dall'inglese possano ricevere la migliore istruzione possibile nel Regno Unito. Ci è stata segnalata la presenza di uno storico errore amministrativo nei codici linguistici in uso fin dal 2006. Anche se tale errore non ha avuto alcun impatto sull'istruzione ricevuta dagli alunni italiani nel Regno Unito, il governo britannico esprime il proprio rammarico per l'accaduto e per le offese da questo eventualmente arrecate. Il ministero dell'Istruzione britannico ha modificato i codici in questione e da oggi tutti gli allievi di madrelingua italiana saranno classificati sotto un unico codice". Soddisfatto l'ambasciatore Pasquale Terracciano: "Si evita così il montare di una polemica su quello che è stato un errore dovuto a ignoranza e superficialità da parte di qualche isolato distretto scolastico più che a una reale volontà discriminatoria. E' importante evitare l'insorgere di equivoci nella fase delicata del post-Brexit". Prima delle scuse del Foreign Office, l'ambasciatore era stato molto duro nel denunciare "iniziative locali motivate probabilmente dall'intenzione d'identificare inesistenti esigenze linguistiche particolari e garantire un ipotetico sostegno. Ma di buone intenzioni è lastricata la strada dell'inferno, specie quando diventano involontariamente discriminatorie, oltre che offensive per i meridionali". Mentre il sottosegretario al ministero dell'Istruzione italiano, David Faraone, si era detto incredulo per il fatto che "ancora oggi siamo costretti ad affrontare pregiudizi di questo tipo. La scuola italiana ha superato da tempo questi stereotipi e in Italia, come nel Regno Unito, si deve lavorare per l'integrazione e la formazione delle generazioni future".
Il questionario inglese che scheda gli studenti napoletani e siciliani. La protesta del nostro ambasciatore a Londra, Pasquale Terracciano, che ha spedito al Foreign Office una «nota verbale» per sollevare il caso, scrive il 12 ottobre 2016 Fabio Cavalera, corrispondente a Londra per "Il Corriere della Sera". Una pagina di un documento del «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles che raccoglie dati su etnia e prima lingua degli studenti, richiesti ai genitori al momento dell’ammissione. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. A essere cattivi, invece, c’è da pensare di molto peggio. Fatto sta che in alcune scuole del Regno Unito, all’atto dell’iscrizione, occorre passare dalle forche caudine della classificazione etnica. E per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. Non poteva stare zitta la nostra rappresentanza diplomatica dinanzi a uno scempio tale e difatti l’ambasciatore Pasquale Terracciano ha spedito alForeign Office una «nota verbale» per sollevare il caso che è stato documentato in un certo numero di scuole dell’Inghilterra e del Galles: al momento della richiesta di ammissione on line richiedono ai genitori «di specificare l’etnia e la prima lingua» del figlio. Una sorta di marchio che «deve essere rimosso con effetto immediato». I primi a inorridire sono stati i nostri connazionali del distretto metropolitano di Bradford i cui consigli scolastici hanno messo in rete la «classificazione». Ma, chissà come, quello che poteva essere un errore isolato è diventato un modulo adottato anche, per esempio, nel Galles. Non in qualche istituto isolato di qualche isolato villaggio. Ma niente meno che dal «Dipartimento dell’educazione» del governo del Galles. Seguiti successivamente, Bradford e Galles, da altri consigli territoriali. I connazionali, dunque, hanno informato l’ambasciata che si è mossa sul ministero degli esteri di sua maestà. Dabbenaggine? Ignoranza? L’ambasciatore Terracciano esclude che si tratti «di una forma di discriminazione attiva». E ha ragione. Nessuna violenza. Ma ritiene che in un momento caratterizzato da una sensibilità particolare sui temi dell’immigrazione e in piena tensione Brexit, sia fastidioso e pericoloso «introdurre una distinzione artificiale» del genere. Un capitombolo di pessimo gusto. La spiegazione non va ricercata in volontà persecutorie contro gli italiani che sono trattati benissimo e apprezzati moltissimo. Più semplicemente, forse, è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento.
Poi c'è la spiegazione di chi dà per scontato che nel 2016 i bambini di famiglie meridionali all'estero ancora non sappiano parlare l'italiano, come se non esistesse la tv o internet per divulgare la madre lingua.
Italiano, napoletano o siciliano? L'autore del post del 12 ottobre 2016 su "Butan" si firma Maicol Engel. In queste ora (ma erano già alcuni giorni che circolava) mi state segnalando in tantissimi la notizia del questionario inglese per le famiglie degli studenti, questionario che secondo tanti sarebbe “scandaloso” visto che prevede quattro caselle diverse per gli italiani, una per i napoletani, una per i siciliani, una per gli “altri” e una generica Italians. Un questionario per «schedare» gli studenti napoletani in Inghilterra. Sono quattro sigle. «Ita», ovvero italiano. «Itaa», ovvero altri italiani («any other»). Poi «Itan», per dire «Italian Neapoletan», e «Itas» che sta per «Italian Sicilian». C’è poco da ridere e da scherzare. A essere buoni siamo di fronte a una manifestazione di stupidità e ignoranza. … per queste scuole pubbliche esistono quattro tipologie di italiani. L’italiano doc. L’italiano meno doc, che sarebbe l’«altro». L’italiano di Napoli. E l’italiano della Sicilia. Insomma, hanno diviso i bambini e gli adolescenti d’Italia figli di emigrati. è solo scarsa o nulla conoscenza della storia da parte di chi rivendica il suo glorioso passato imperiale. E visto che siamo nella patria della ironia sottile e cattiva, l’ambasciata ha preferito ricorrere all’arma che piace tanto ai britannici. Nella nota a verbale inviata al Foreign Office, sempre maestri e professori, la nostra Ambasciata coglie l’occasione per ricordare «che l’Italia è diventata un paese unificato il 17 marzo 1861». Insomma, discriminazione per ignoranza. Qualcuno qui a Londra e dintorni è rimasto fermo all’Ottocento. Queste le parole del Corriere della Sera, che evidentemente, come tutte le testate italiane, si è fermato solo a guardare le notizie circolate in Italia e le lamentele degli italiani residenti in UK, senza cercare il documento da cui si partiva. Non si sta parlando di nazionalità o provenienza diversa, ma di lingua. L’elenco che viene fatto compilare per l’ammissione a scuola spiega chiaramente che viene richiesta la prima lingua (che si parla a casa) e difatti basta guardare con attenzione per accorgersi che l’Italia non è l’unico paese ad avere più caselle possibili. Scelte diverse per lingue diverse. I berberi hanno 4 scelte, gli arabi 7, chi viene dal Bengali 3, i cinesi 6 e così via. Si tratta di dialetti o variazioni della lingua base, dialetti che sono così diffusi da necessitare una casella a parte. Qui potete trovare uno degli elenchi che prevedono questo sistema di codificazione della prima lingua. Noterete che subito prima di Italian c’è Informazione non ottenuta, ovvero chi compila può tranquillamente omettere la lingua. Come potrete vedere ci sono 4 scelte (più una dedicata alla lingua sarda). Chi vuole può tranquillamente scegliere che parla come prima lingua italiano. Il fatto che ci siano altre scelte non condiziona questa possibilità, non è una schedatura etnica, solo un tentativo di capire quale sia la prima lingua dell’alunno. Alcuni di voi storceranno il naso, lo capisco, ma io stesso ho un amica nata in UK da genitori italiani che oggi conosce l’italiano perché l’ha imparato con corsi appositi, a casa sua si parlava solo dialetto (lei viene dalla Basilicata). Ci sono tantissimi nostri connazionali che a casa parlano solo e unicamente i dialetti delle loro zone di provenienza, e così i figli, magari nati in terra straniera, non sono in grado di parlare l’italiano, ma solo il dialetto di mamma e papà. Non c’è davvero nulla di così scandaloso, non se la stanno prendendo con i nostri emigranti, non c’è nessuna intenzione di schedare gli alunni, ma solo l’interesse a sapere quale sia la lingua principale parlata a casa. Sia chiaro, i nuovi quesiti per le ammissioni a scuola hanno infastidito anche alcuni britannici d’altra nazionalità, le lamentele sul web si sprecano. Ma è importante accettare che il nostro paese esporta anche italiani che all’estero, per non perdere le radici di casa, parlano solo nel loro dialetto regionale. Probabilmente il napoletano e un generico dialetto siciliano sono quelli più diffusi. Non ci trovo nulla di così scandaloso, non fosse che gli stessi britannici nello scrivere napoletan hanno commesso un errore, visto che la grafia corretta è neapolitan. Lo so che sembra incredibile, ma dobbiamo accettare che non tutti in Italia parlino l’italiano come prima lingua anche a casa, anche nel 2016. Non ci sarebbe nulla di male, difendere l’identità regionale è qualcosa a cui noi italiani teniamo molto, da sempre, non fosse che alcuni di questi genitori l’italiano se lo sono scordato da anni (se mai l’hanno saputo). Io però con gli inglesi a questo punto sono un po’ arrabbiato. Perché non hanno evidenziato anche il bolognese? Dopo le lamentele del nostro ambasciatore sembra che il governo inglese si sia scusato, alcuni usano la cosa come dimostrazione che fosse una schedatura e che l’articolo qui sopra non abbia senso. Se arrivati fin qua siete ancora di quell’opinione evidentemente non mi so spiegare bene. Resto fermamente convinto che la polemica nata su questa storia sia equivalente alla denuncia fatta dal sindaco di Amatrice contro Charlie Hebdo, un ulteriore via per farci prendere per i fondelli all’estero. La cosa che mi fa sorridere di più è che in altro contesto, pur di difendere l’ufficialità di questo o quel dialetto certi soggetti si sarebbero strappati le vesti.
Supera francese e tedesco: l'italiano è la quarta lingua più studiata al mondo. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese, l'italiano è la quarta lingua più studiata del pianeta. Il dato è stato comunicato durante gli Stati Generali della lingua italiana che si sono tenuti a Firenze, a Palazzo Medici Riccardi, organizzati dal Ministero degli Affari Esteri e dal Ministero dell'Istruzione. Arte, cultura e musica lirica sono parte fondamentale dell'interesse suscitato all'estero dall'italiano. Ma non manca l'appeal esercitato dal buon cibo e il made in Italy.
Tutti pazzi per l'italiano, è la quarta lingua più studiata, scrive Massimo Maugeri il 18 ottobre su "Agi". Quarta lingua più studiata nel mondo dopo l'inglese, lo spagnolo e il cinese. E in crescita esponenziale. L'italiano è sempre più amato e diffuso, e i numeri lo dimostrano: nel biennio 2015/16, oltre 400 mila studenti in più rispetto al biennio precedente, hanno iniziato a studiare la nostra lingua il cui appeal continua a essere legato alla passione per l'arte e la cultura. Negli ultimi anni tuttavia, una forte attrazione è esercitata anche dal Made in Italy in tutte le sue forme, dalla moda al design, fino al cibo e al vino. E lo studio della lingua di Dante è considerata da molti giovani stranieri anche un modo per trovare lavoro nei settori in cui l'Italia è ai primi posti, dal lusso all'enogastronomia. Un impulso "decisivo" alla diffusione della lingua sarà dato in futuro dai nuovi media. In base ai dati diffusi durante gli Stati generali della lingua italiana nel mondo, nell'anno scolastico 2014/2015 sono stati 2 milioni 233 mila 373 gli studenti stranieri di lingua italiana nel mondo. Un numero che gli esperti considerano "estremamente imponente" e che segna "un incremento notevole" rispetto al milione e 700 mila studenti del 2013/14 e al milione 522 mila dell'anno scolastico 2012/13. Secondo le statistiche, la maggioranza assoluta degli studenti di italiano nel mondo (il 55%) studia la nostra lingua a scuola, mentre 324.386 persone lo fanno contesti diversi da quelli scolastici. Circa 42 mila studenti stranieri hanno seguito corsi di italiano presso enti come la società Dante Alighieri o altre associazioni culturali. In crescita anche l'albo degli italofoni, il registro di tutti coloro che parlano la lingua italiana e si sono distinti in vari ambiti professionali, che ha registrato un incremento del 70% nell'ultimo biennio, raggiungendo quota 1.100 nominativi. Resta ferma invece la voce borse di studio: la direzione generale per la promozione del sistema Paese, nel biennio considerato, ha offerto borse di studio solo a 571 cittadini stranieri, pari a complessive 3.836 mensilità. Arte, cultura, letteratura, storia. Ma anche moda e design. Cambiano i fattori che secondo il rapporto stanno alimentando l'appeal della lingua italiana nel mondo da parte degli stranieri. Il nostro patrimonio artistico, architettonico, musicale e letterario resta la prima ragione per cui gli stranieri si avvicinano alla lingua italiana, ma ultimamente, rileva il documento degli Stati generali della lingua, nell'immaginario collettivo vengono associati all'Italia anche le eccellenze dal Made in Italy, come la moda, il cibo e il design. Si tratta, secondo gli esperti, di uno dei principali veicoli attraverso cui attrarre le nuove generazioni verso lo studio dell'italiano, anche con prospettive di lavoro e di business. In ambito europeo i Paesi che registrano una maggiore presenza di studenti di italiano sono la Francia e la Germania. Quest'ultima, in particolare, è il primo Paese al mondo per numero assoluto di studenti della nostra lingua. La maggior parte dei corsi di italiano in Germania si tiene soprattutto nelle Università popolari in cui si concentra l'88% degli studenti, grazie a tasse di iscrizione più basse e offerta di corsi e materiale in settori molto diversi. Anche in Francia il numero di studenti di italiano è in crescita costante, nell'anno 2014/15 sono stati oltre 270 mila. Stati Uniti e Australia sono i paesi anglofoni con il maggior numero di studenti di italiano. In Australia, in particolare, dove l'italiano è parte del patrimonio culturale ereditato dalla forte immigrazione di nostri connazionali, sono stati conclusi una serie di accordi per l'inserimento sistematico di corsi di italiano nei sistemi scolastici locali. L'italiano resta la seconda lingua più studiata e resiste all’assalto delle lingue asiatiche, soprattutto il cinese, che si sta espandendo in maniera molto forte. Negli Usa, l'italiano è la quarta lingua straniera più studiata, e gli Stati Uniti hanno il primato del Paese che ha il più alto numero di cattedre e di italiano e dipartimenti di italianistica nel mondo. Ad oggi negli Usa ci sono circa 50 dipartimenti di italianistica e circa 400 corsi di italiano a livello universitario. Crescono inoltre gli studenti americani che sono venuti a studiare in Italia: nell'ultimo biennio sono aumentati del 4,4% rispetto al biennio precedente. Negli Usa, in circa 800 scuole di ogni ordine e grado, l'italiano costituisce una parte dell'offerta curricolare. Il 60% di queste scuole si concentra sulla costa est, nella fascia Boston, New York, Philadelphia, Washington. Dopo l'inglese, lo spagnolo e il francese, l'italiano si contende con il giapponese, il coreano e il tedesco, il quarto posto tra le lingue più studiate in Cina. Il numero degli studenti di italiano è in crescita, emerge dai numeri diffusi dagli Stati generali, ma la presenza dell'italiano nel sistema scolastico cinese è praticamente nulla e in quello universitario è molto limitata: si registrano infatti solo 2.900 studenti circa, distribuiti nei 30 atenei cinesi che offrono corsi di italiano. Malgrado il forte legame culturale e l'immenso flusso migratorio che nel secolo scorso hanno caratterizzato il rapporto tra i due paesi, l'Argentina è solo il sesto paese al mondo per numero assoluto di studenti d'italiano, che rimane la terza lingua più studiata dopo inglese e francese. L'Argentina resta il paese in cui si registra la più significativa incidenza demografica e sociale di italiani, con oltre 900 mila italiani residenti, ma la popolazione più giovane, secondo il rapporto, sta perdendo interesse per la lingua degli avi emigrati e rinuncia a studiare l'italiano per la mancanza di eventuali sbocchi professionali che invece sono più facilitati dall'apprendimento di altre lingue. Migliora la situazione in Brasile invece: l'anno scorso, è stato concluso un memorandum d'intesa con il ministero dell'Istruzione brasiliano per aumentare i corsi di italiano a livello universitario. L'Albania è oggi il Paese più italianofono del mondo, dopo l'Italia. Grazie alla televisione. Il segnale terrestre che arrivava sugli apparecchi dei cittadini albanesi durante uno dei regimi socialisti più chiusi e isolati dell'ex blocco dell'Est, ha fatto sì che l'Italia si trasformasse in un modello culturale e linguistico di riferimento per gli albanesi. Ma paradossalmente la tecnologia ha bloccato questo fenomeno: il passaggio al digitale terrestre infatti ha interrotto questo canale e la conoscenza della lingua italiana da parte delle giovani generazioni di albanesi è molto meno diffusa che in passato. L'Albania rimane comunque il Paese con una maggiore presenza di studenti di italiano, in particolare nelle scuole locali. Tra i Paesi del Mediterraneo, Tunisia e Egitto sono quelli dove l'italiano si sta diffondendo di più. L'Egitto in particolare è il Paese col più alto numero assoluto di studenti italiani e dove la domanda di insegnamento dell'italiano come seconda lingua, dopo l'inglese, sta crescendo in maniera più veloce. In Tunisia, dal 1989, la lingua italiana è inserita come terza lingua opzionale, (dopo francese, considerata lingua madre, e inglese) in tutti i licei del Paese. I giovani si avvicinano ai prodotti 'lingua-cultura-economia-società italiana', sempre di più attraverso i nuovi media. Moltissime aree del mondo un tempo non raggiunte dall'offerta culturale italiana e dal suo 'fascino', oggi sono invece a portata di mano. Dunque, secondo la gran parte degli esperti, la nuova sfida è quella di riuscire a veicolare il prodotto Italia e la sua lingua attraverso canali di comunicazione del tutto nuovi, a cominciare dai social media. Ma per fare questo servono due cose: "Una strategia politica e istituzionale che promuova i contenuti in italiano sul web" e "un più pieno e consapevole coinvolgimento del sistema imprenditoriale". L'invito è a creare piattaforme condivise tra le imprese italiane impegnate nei processi di internazionalizzazione e i soggetti che operano per diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo. Il futuro della lingua italiana e dello stesso sistema Paese, passa per una linea rossa che unisce economia, cultura e diffusione digitale. (AGI)
Bellezze dell’italiano. La quarta lingua più studiata al mondo, scrive Simona Maggiorelli il 19 ottobre 2016 su "Left". Mentre la Lega pretende che si insegni il dialetto “lombardo” a scuola, l’italiano si prende una bella rivincita. Oggi è al quarto posto fra le lingue più studiate al mondo dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese. Nella Giornata ProGrammatica di Radio3 il 19 ottobre tutto il palinsesto è dedicato all’italiano, con decine di ospiti e il coinvolgimento di Istituti di cultura italiana. Ecco cosa ha detto il linguista Antonelli a Left: La lingua lombarda rischia di estinguersi. Armata di questa convinzione la Lega Nord torna a voler imporre l’insegnamento della lingua lombarda nelle scuole. «Non ha proprio senso insegnare i dialetti», dice però il linguista Giuseppe Antonelli. «Il dialetto è sempre stato la lingua degli affetti, della vita quotidiana», spiega il docente dell’università di Cassino e autore de La lingua batte ogni domenica su Radio 3. «E poi non è vero che i dialetti vadano scomparendo. Una ricerca Istat dice che sono molto vivi. Mentre sono scesi al 2 % gli italiani che parlano solo il dialetto». Una conquista importante. «La grammatica italiana è un diritto», scriveva Gramsci. E gli italiani lo hanno conquistato a fatica, come si evince dalle prove di italiano per l’iscrizione alle liste elettorali che Antonelli cita nel suo nuovo Un italiano vero. La lingua in cui viviamo (Rizzoli). «In tempi di email e social network è più che mai importante studiare l’italiano scritto» aggiunge il conduttore della IV edizione della Giornata pro-grammatica in onda su Radio3. «Per gran parte degli italiani il diletto rappresenta la dimensione familiare, giocosa, colorita. Pasolini, che preconizzava un italiano tecnocratico e freddo, aveva paura che la perdessimo». È accaduto invece che l’italiano è andato incontro a nuove sfide. «Non basta parlarlo, bisogna saperlo scrivere, in modo diverso, dagli sms. Per questo servono più ore di italiano a scuola, invitando alla lettura di romanzi e poesia». Anche il linguista e critico letterario Gian Luigi Beccaria dice, da sempre, che non avrebbe senso studiare i dialetti in classe. «E poi quali? Il lombardo non esiste. Dovremo insegnare il bergamasco, il piacentino, il milanese? Il torinese o il biellese o il langarolo? I dialetti sono moltissimi ed è la nostra grande ricchezza. In dialetto si possono scrivere poesie, c’è un’ampia tradizione da Raffaello Baldini a Zanzotto, ma non per questo possiamo fare a meno dell’italiano», commenta il professore emerito dell’università di Torino, autore di molti saggi, di un dizionario di linguistica e filologia e ora dell’italiano che resta (Einaudi), un appassionato viaggio nella lingua come organismo vivo, in continuo cambiamento. Un libro di ricerca, ricchissimo di informazioni, che trasmette l’emozione della scoperta di parole nuove ma anche di perle ormai desuete. Si scopre così che tantissime espressioni dialettali innervano già l’italiano, che nel corso dei secoli ha mutuato termini da una pluralità di lingue antiche. Non solo dal latino. I prestiti dal latino liturgico vanno scomparendo in una società che oggi è sempre più secolarizzata, come ha documentato Beccaria in libri come Sicuterat, il latino di chi non lo sa e dedicati a santi, demoni e folletti. Molti sono i termini venuti dal greco antico e di uso quotidiano. «L’italiano attuale deve molto al greco» sostiene Antonelli. «Secondo il dizionario di Tullio De Mauro più del 2 % delle parole italiane hanno un etimo greco, non solo termini specialistici, ma anche parole di uso comune come atmosfera, entusiasmo, fase, sintomo ecc.». Ancor più interessante è scoprire la quantità di termini arabi che l’italiano ha assorbito, passando attraverso il dialetto veneziano e quello siciliano. A questo tema Beccaria dedica una parte del suo nuovo libro. Solo per citare un esempio: zecchino nasce dalla Zecca veneziana dal 1540. E zecca è un arabismo. «L’importanza dell’arabo è stata enorme nella nostra storia. Anche se oggi, purtroppo, il mondo musulmano ci offre parole legate ai conflitti, alla guerra, al Jihad ma non è sempre stato così», dice Beccaria a Left. «L’arabo nel medioevo, e anche in seguito, ci ha dato una quantità enorme di parole. Trasformarono la Sicilia in un giardino d’Europa. Lo stesso fecero in Andalusia. Parole come arancio, zucchero carciofo, albicocca, limone sono arabe. E tante vengono dall’ambito della scienza, dell’astronomia, all’algebra ecc. I latini e i greci non avevano una parola e un concetto per indicare lo zero, il nulla, il vuoto. L’uso dello zero nell’espressione dei numeri viene dagli arabi. Ci hanno veramente arricchito di parole e di cultura». «C’è una originaria vicinanza fra la cultura araba e la nostra lingua continua a recarne traccia», aggiunge Antonelli. Prima di parlare di scontro fra culture, dovremmo avere consapevolezza di quanto noi gli dobbiamo anche in termini linguistici». Basta camminare nella parte più antica di Palermo per notare nomi di strade scritti in arabo ed ebraico. Ma si possono vedere anche interni di palazzi, come la misteriosa sala blu, decorati con calligrafie arabe. Per il linguista rivelatori sono gli antichi nomi delle strade che spesso indicano nomi o lavori scomparsi. Anche i graffiti, le scritte sui muri, di cui Pompei era piena, sono tracce preziose, al pari dei testi letterari. Come insegna Beccaria che ne fa uno strumento affascinante di ricerca, insieme a canti anarchici e della resistenza, filastrocche trasmesse di generazione in generazione. La tradizione orale permette di capire molto di come è mutato l’italiano soprattutto in anni più vicini a noi. Più rare e fortunose sono le scoperte di documenti antichi. Ma a volte sono straordinarie come quella avvenuta qualche anno fa nell’archivio di Stato di Roma grazie al linguista Pietro Trifone. Nel borgo di Collevecchio, Bellezze Ursini si manteneva facendo la domestica e la guaritrice, un’attività “mal vista” dalla Chiesa. Nel 1527 fu accusata di stregoneria e torturata. Stremata, scrisse una confessione autografa. Che non servì a niente. Prima di finire sul rogo, preferì suicidarsi. Quelle sue otto paginette ci dicono molto di un italiano popolare allora ancora in fieri, racconta Giuseppe Antonelli. «Ci dicono che nella campagna romana ci poteva essere, agli inizi del ‘500, una donna, una popolana, che sapeva scrivere». Colpisce anche la trascrizione ufficiale che ne fece il notaio Luca Antonio, normalizzando il linguaggio della donna per farle dire ciò che ci si sarebbe aspettati da una “strega”. «Quel modo di tradurre la grammatica di Bellezze in quella del potere mette bene in luce il confronto/scontro tra due mondi sociali e culturali di cui la lingua è al tempo stesso spia e strumento. Emerge la lotta, poi durata secoli, con la lingua ufficiale da parte di persone che invece venivano da situazioni socioculturali meno avvantaggiate», approfondisce Antonelli. Quel 1527, l’anno del sacco di Roma «fu anche un momento di svolta per l’italiano». Nonostante il dominio della Chiesa e il latino liturgico, il volgare si presentava come una lingua fluida, duttile, rivendicata da artisti come Leonardo che si definiva con orgoglio «omo sanza lettere», snobbando i latinisti tromboni. Ma proprio mentre si diffondeva un volgare vivo e popolare (fra romanzi, leggende e grammatiche) nel 1525 Pietro Bembo pubblicò Le prose della volgar lingua. «L’umanista veneziano fu rigidissimo nel prescrivere forme riconducibili al modello di Petrarca e di Boccaccio». Così se Dante e il fiorino, ovvero la potenza economica dei mercanti toscani, «avevano contribuito alla diffusione del fiorentino come lingua di prestigio, tutto questo fu formalizzato dall’umanista veneziano», risponde Antonelli alla nostra domanda sulla discussa egemonia del fiorentino. «Nel 1525 Bembo indicò come modello per la lingua letteraria che oggi chiamiamo italiano quello usato da Boccaccio per la prosa e da Petrarca per la poesia». Quanto a Dante, «Bembo lo teneva un po’ fuori, giudicava il suo fiorentino troppo plebeo e concreto. Da studioso che amava le lingue morte come il latino, Bembo scelse una lingua che all’epoca era già estinta da due secoli». Dando origine così a una lingua letteraria, «basata sugli eccellenti scrittori» protetta dai puristi, anche quelli di fede giacobina, e deprecata da Mazzini che non sopportava di rivestire il pensiero «della lingua de’ morti e d’uno stile pedantesco». Del tutto nuova fu la posizione di Leopardi, al quale – seppur da differenti punti di vista- entrambi gli studiosi che abbiamo interpellato dedicano uno spazio di rilievo nei loro libri. «Leopardi era un amante della tradizione letteraria italiana, era un grande conoscitore della letteratura delle origini, ma non era un purista», spiega Antonelli. «Aveva un’idea della lingua come qualcosa di vivo, ne ammetteva la libertà. Mentre in tanti lottavano contro i francesismi lui li chiamava europeismi. E li considerava, come i grecismi, un patrimonio comune alle varie lingue d’Europa». Anche per liberare il poeta di Recanati da una mitizzazione che lo allontana dai lettori, Giuseppe Antonelli ha scritto il saggio Comunque anche Leopardi diceva le parolacce (Mondadori, 2014). «L’autore delle Operette morali era un raffinato, un fine conoscitore della nostra lingua, sapeva usare registri e toni diversi, passando dalla poesia ai saggi, alle lettere. Quando scriveva agli amici per sfogarsi di un amore non corrisposto o di un insuccesso letterario si lasciava andare. Era capace di passare dal sublime a uno stile concreto, a seconda dell’interlocutore. Tutto questo – ribadisce Antonelli – può avvenire solo si conosce profondamente la lingua, le sfumature le differenze di registro, di costrutto». Ad incipit di Un italiano vero cita, non a caso, un passo dello Zibaldone: «La libertà nella lingua- scriveva Giacomo Leopardi – dee venire dalla perfetta scienza e non dall’ignoranza». Come poeta Leopardi sceglieva le parole per il suo no, ma usando la parola scienza sembrava alludere anche di una scelta legata a una ricerca di conoscenza. «Interessante è ciò che emerge studiando le minute di Leopardi e osservando le varianti» commenta Beccaria con sguardo da filologo. «Nel libro parlo di Giorgio Caproni e di altri autori ma Leopardi è il principe dei poeti. Studiando le “sudate carte”, gli scartafacci, emerge il suo lavorio continuo, e ci permette di vedere la direzione che voleva prendere», commenta Gian Luigi Beccaria, che nel libro, per esempio, pone l’accento su cambiamenti come il passaggio da «infinito spazio», quasi una citazione galileiana, a «infiniti spazi». «Al singolare Leopardi preferisce un plurale, perché è più “astratto”. È un poeta che cerca il vago e il concreto insieme, riuscendo a conciliare le due cose. Ha un dono particolare: saper orchestrare la sua partitura, i suoni delle vocali, i rimandi, le assonanze interne, le consonanze, c’è una musica interna. È come un musicista che cerca l’intonazione».
Italiano lingua morta. In partenza per l’America, Renzi fa tappa a Firenze per difendere e rilanciare la lingua italiana. In dieci minuti di discorso riesce ad elogiare contemporaneamente la lingua di Dante e la globalizzazione, sua mortale nemica, scrive Alessio Sani il 19 ottobre 2016 su "L'Intellettuale Dissidente". Ci sono cose che è difficile credere di poter vedere nell’arco di una vita, eppure una di queste è davanti agli occhi di tutti noi: il Pd è riuscito a partorire un premier nazional-popolare. Matteo Renzi infatti, prima di imbarcarsi per l’ultima cena di Stato obamiana, ha fatto tappa nella sua Firenze per inaugurare il convegno “Gli Stati Generali della Lingua Italiana nel mondo”, due giorni di incontri e studi sullo stato di salute della nostra lingua. Dietro al buon Matteo, nella splendida cornice di Palazzo Vecchio, campeggiava il titolo del convegno: “Italiano lingua viva”. Solitamente, quando si sente il bisogno di riaffermare ciò che fino a ieri si considerava un’ovvietà è bene porsi qualche domanda. In questo caso se l’italiano non sia piuttosto, nonostante gli sforzi retorici del premier e degli altri relatori, una lingua ormai morta o, perlomeno, prossima alla dipartita. L’ultra-fiorentinismo del governo si scorda che l’italiano nasce in Sicilia. Lo stesso Renzi, fiorentino doc, uno che col volgare ci sa fare, è probabilmente uno dei sintomi del grave stato di debilitazione di cui soffre la lingua di Dante. Nei dieci minuti in cui ha tenuto il palco, scherzandoci sopra, il premier ha infilato un paio di anglicismi. Il più grottesco è stato prontamente ripreso da un quotidiano sempre in prima linea in queste cose, Repubblica, che ha titolato: - Lingua italiana, Renzi: “Serve una gigantesca scommessa sul made in Italy”-. Qualcosa, onestamente, laggiù da qualche parte, non ha retto alla forza dell’ossimoro ed ha cominciato a rotolare. Queste sono tuttavia piccolezze. Si può scusare un quotidiano d’impronta estremista (chiaramente liberal), un po’ meno chi ha la faccia tosta di parlare di difesa dell’italiano e poi chiama un documento ufficiale dello Stato “Jobs Act”, quando fino a ieri era il parlamento inglese ad arrogarsi il diritto di scrivere leggi nella propria lingua madre. Miracoli della globalizzazione. Proprio il grande nemico di questi tempi, l’omogeneizzazione economia e dunque culturale del pianeta per interposto libero mercato, rende subito evidente il paradosso del Renzi-pensiero versione Palazzo Vecchio. In politica, perlomeno se si vuol provare a farla seriamente, sarebbe opportuno dotarsi di una ferrea coerenza logica, se non di prassi almeno di pensiero. Quando vengono partorite dal medesimo cervello, le varie idee ed opinioni che riguardano gli innumerevoli argomenti che sfiorano la categoria del politico dovrebbero potersi concatenare l’una all’altra, logicamente, fino a chiudere il cerchio. Avere un pensiero organico purtroppo però è molto difficile e spesso non paga. Generalmente è più facile inseguire consensi colpendo a casaccio, sparando fotogrammi di presunta attività neuronale qua e là in un balenar di telecamere. Così Renzi ha deciso di dar prova della buona formazione liceale di chi gli scrive i testi, scherzando su Dante e referendum, facendo sua una battaglia che potrebbe impressionare positivamente le casalinghe di Voghera superstiti. Eppure quei dieci minuti di palco sono stati un concentrato di anacronismi. Affastellando luoghi comuni in un processo di contaminazione materialista di un discorso prevalentemente culturale, il Premier si è doluto dell’incapacità italiana di sfruttare il fascino, anche linguistico, dei nostri stereotipi positivi artistico-estetici per esportare di più. Questo il succo: l’italiano e l’Italia hanno ancora appeal, siamo la patria del bello, non facciamoci fregare da chi chiama parmesan il parmigiano tarocco e rilanciamo, attraverso la nostra immagine all’estero, i nostri settori di punta. Tutto questo, chiaramente, all’interno del campo di gioco predefinito: la globalizzazione neoliberista. Eppure alcune riflessioni sorgono spontanee. Da un punto di vista strettamente linguistico “parmesan” è un successo: abbiamo esportato un nuovo termine dopo “pizza”, anche se gli incassi non vengono in Italia. O dovremmo forse incazzarci con qualunque non italiano che chiami “pizzeria” il suo ristorante di Nuova Delhi? Nell’ottica di fondo del Premier, l’Italiano diventerebbe la lingua globale della moda e dell’agro-alimentare, anglicizzato e storpiato, ma non sarebbe certo più vivo. La contraddizione profonda infatti è nell’ambivalenza intima del convegno e del premier: difendere l’Italiano e la globalizzazione contemporaneamente è impossibile. Ad un certo punto Renzi dà la sua personalissima definizione di globalizzazione, unita ad una dichiarazione d’intenti: “cornice culturale internazionale in cui l’Italia sia nelle condizioni di essere elemento di attrazione, […] di richiamo, […] di bellezza”. Ecco, forse qualcuno dovrebbe far notare al premier che la globalizzazione non è inter-nazionale, quello era il mondo pre-seconda guerra mondiale, in parte anche post fino alla caduta del muro di Berlino. La globalizzazione è sovra-nazionale, dunque non prevede le nazioni. Vediamo di fare un paragone semplice. Qualcuno disse che la storia si ripete sempre due volte, la seconda in farsa. Non è così semplice, ma è vero che spesso sono esistiti micro-cosmi in grado di anticipare dinamiche e fenomeni che si sarebbero poi ripetuti simili su scala più ampia. Uno ce l’abbiamo in casa. Quando i nostri avi fecero l’Italia erano alquanto stufi della precedente “cornice culturale internazionale”, quella sì tale, cioè la difficile convivenza tra staterelli di piccola dimensione e ancor minore potenza. Così, al di là delle belle speranze federaliste di Cattaneo o del Gioberti, fecero una micro-globalizzazione intramoenia e la chiamarono Italia. Le piccole realtà territoriali e dunque culturali precedenti piano piano scomparvero. I dialetti rimasero fino all’avvento della scolarizzazione di massa e della televisione. Oggi sopravvivono nelle nostre riserve indiane, nello Strapaese dei borghi di montagna, al Sud, in qualche nicchia ben protetta, ma per quanto ancora? Il declino è innegabile, da lingue vivissime sono ormai diventati fantasmi di un passato lontano. Qualcosa di simile, si può prevedere, avverrà all’italiano perché non di ordine tra nazioni si tratta, ma dell’uccisione delle medesime e dunque della loro espressione massima, la lingua. Una seconda contraddizione evidente nel discorso del premier è quella giustamente esposta da Bartezzaghi sul Tirreno: “Una lingua è tanto più forte quante più sono le cose che si possono dire solo in quella lingua, e che in quella lingua sono nate: vestiti, brevetti industriali, libri, musiche, canzoni, film, pietanze. Più cose nascono in italiano, più l’italiano verrà adottato come lingua d’affezione all’estero.” Il secondo numero del Bestiario intitolato “Italianity” (illustrazione di Mario Damiano) raccontava ai lettori come il governo ha trasformato l’identità italiana in un brand, snaturandola completamente. In soldoni: una lingua è viva quando è espressione di una società curiosa, attiva, intraprendente, insomma vitale. Quando ha il proprio baricentro all’interno di sé stessa e può guardare al mondo, quando inventa e crea, invece di assorbire solamente. Dal momento in cui decreti una battaglia di retroguardia, stai difendendo chi è prossimo al trapasso. E l’Italia di oggi è sull’orlo del baratro. Forse un’altra Italia, o più propriamente qualcosa d’altro, di più o meno simile, rinasceranno in questo lembo di terra che si inabissa nel Mediterraneo, ma non sarà più ciò che oggi conosciamo con tale nome. Per tornare al parmigiano, ha senso fare gli schizzinosi quando ormai i casari sono tutti immigrati indiani perché gli autoctoni o non sono nati o hanno preferito andare a far kebab a Londra? Se non altro il lascito della tradizione, il nome, si è trasmesso, visto che perfino i tarocchi cinesi lo utilizzano storpiato. Ma quella tradizione da cui è nato è morente e, soprattutto, non è stata sostituita da una qualche innovazione. Non possiamo fermarci ad un formaggio lodato già da Plinio e lamentarci per una questione di brevetti tardo-imperiali. Non sarà il parmigiano a salvare l’italiano quando praticamente la totalità della produzione letteraria accademica è in lingua inglese. Non lo salveranno neanche le cinquantaquattro app per insegnarlo ai cinesi, così che possano scrivere parmigiano giusto, se nelle nostre università teniamo interi corsi in inglese. Abbiamo donato al mondo il lascito di praticamente tutta la terminologia musicale classica. Quanta musica di qualità produciamo oggi? Quante serie televisive? Quanti film di spessore, quanti romanzi? Se guardiamo alla sfida del presente invece, all’informatica, lo scenario è ancora più tetro. Possiamo discutere su quanto abbia senso la battaglia, ugualmente di retroguardia, giocata da spagnoli e francesi tra un ratòn ed un ordinateur, ma almeno loro ci hanno provato ad appropriarsi di quei concetti, noi no. Figuriamoci proporne uno nuovo, quando migliaia di giovani ben formati scappano ogni anno verso la Silicon Valley. Qualcuno dovrebbe dire a Renzi che là non si parla la lingua di Dante. Non produciamo più concetti originali e non potrebbe essere altrimenti. Già tentennanti nell’identità (perché quando si parla di lingua fondamentalmente si entra anche nel campo delle identità collettive) non abbiamo retto l’urto proprio con “la grande opportunità” (citazione dello stesso discorso del premier) della globalizzazione. Assaltati da telefilm e soap-opera, rigorosamente tradotte per carità, ma certamente non nostre; invasi da prodotti, più o meno tecnologici, la cui origine non si trova certo tra il Resegone e il lago di Como; seguaci di volta in volta della moda orientale od americana di turno, dallo yoga al pilates, abbiamo perduto noi stessi prima ancora della nostra lingua. Non è con le battaglie di retroguardia, difendendo il passato, che i nostri nipoti saranno ancora in grado di leggere la Divina Commedia. Per essere lingua viva, l’Italiano ha bisogno dell’Italia. Peccato che sia scomparsa, un pezzetto a Londra, uno a New York, uno chissà dove. Quando Amerigo Vespucci nomò l’America, per interposto cartografo tedesco, l’Italia politica era lungi da farsi, ma la società italiana era ancora ben vitale, era ancora il centro di sé stessa. Oggi è una nave alla deriva, in gran tempesta, con Renzi come nocchiere.
No, la lingua italiana non è sessista: ci sono il maschile e il femminile. Cominciate a usarli. Le petizioni (a scopi promozionali) lanciate per modificare regole grammaticali non hanno senso. Piuttosto utilizziamo parole come assessora o sindaca. Anche se ci sembrano "brutte". Segnalateci nei commenti gli usi impropri della lingua con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 20 febbraio 2017 su "L'Espresso".
In italiano, le parole sono maschili o femminili. Non è sessismo, è che la nostra lingua è strutturata così. Il nostro “papà” latino aveva anche il genere neutro, che indicava solitamente gli oggetti e talvolta i concetti astratti. In effetti, se ci pensate, è illogico che gli oggetti in italiano siano considerati maschi o femmine. Non c'è alcun reale motivo per cui il pane sia maschio ma la pagnotta sia femmina, e lo stesso si può dire per il tavolo e la scrivania. Fatto sta che, nel gran bailamme dei secoli bui e delle invasioni barbariche, il genere neutro si è perso, come la toga e il latino, e la lingua parlata in seguito, cioè quello che poi è diventato il nostro italiano, non ha conservato il genere neutro. Mai, in nessun caso. Il fatto che non esista un genere neutro non trasforma automaticamente l'italiano in una lingua sessista, o poco adatta alla modernità. Se alcune parole erano un tempo solo maschili, perché, per esempio, indicavano mestieri svolti unicamente da uomini, la nostra lingua ha in sé già anche le regole per creare dei femminili. Nei giorni in cui infuria la polemica sugli studenti universitari che non sarebbero in grado di scrivere in italiano corretto, abbiamo pensato di elargire qualche consiglio di base. Pillole di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso. Per esempio tutti i nomi che finiscono per -o al maschile, al femminile fanno regolarmente la desinenza femminile in -a. Quindi, per tornare su un argomento che negli ultimi mesi ha infervorato le folle, il femminile di sindaco è regolarmente sindaca, di avvocato è avvocata, di ministro è ministra, esattamente come il femminile di maestro è maestra e di segretario è segretaria. Anche i nomi che fanno il singolare maschile in -e fanno il singolare femminile in -a. Nessuno si è mai scandalizzato perché da infermiere è venuto fuori infermiera, quindi mi sfugge il dramma di chi non ammette assessora. Alcuni lamentano che assessora, ministra e sindaca sarebbero “brutti”. Ma la lingua non ragiona per criteri estetici, ed è anche piuttosto curioso che poi chi non vuole usare sindaca magari usi normalmente ottimizzare, randomizzare, input e altri termini che proprio meravigliosamente musicali non sono. In realtà ministra, sindaca o altri nomi femminili non sono nemmeno particolarmente brutti, solo che non siamo abituati a sentirli usare e ci sembrano strani. Ma la lingua delle nostre fisime, per fortuna, se ne frega. Se allora si dice sindaca obbiettano alcuni, dovrei dire anche piloto? No. Pilota è già maschile. Esistono infatti in italiano (come esistevano in latino e in greco e in talune lingue germaniche) anche dei nomi maschili che hanno la desinenza in -a. Poeta e pilota non sono e non sono mai stati femminili, ma dei maschili regolarissimi. Quindi non ha senso pretendere di dire piloto per indicare un pilota maschio. È già maschio di suo. Essendo termini in -a semmai è più facile volgerli al femminile, perché restano invariati. Si dice il pilota (maschio) e la pilota (femmina) quando chi conduce un mezzo è una gentile signora. La sentinella e la guardia vanno bene per entrambi, ed indicano qualcuno che, maschio o femmina, sta di vedetta (che copre maschio e femmina). Entrambi probabilmente fanno la guerra, altro termine femminile anche se per secoli è stata fatta quasi sempre da soli maschi. Per lo stesso motivo Andrea in italiano è un nome maschile anche se termina in -a (come Enea, Elia, Luca). Negli ultimi anni ci sono anche fanciulle che vengono chiamate Andrea, ma per influsso del tedesco, dove Andrea è un nome femminile (e il maschile è Andreas). Il problema del maschile e del femminile che rischiano di essere sessisti (è infatti antipatico che una donna debba fare il “sindaco” solo al maschile, come se non fosse concepibile che questa carica sia affidata ad una signora) si riscontra però solo nei nomi di cariche e professioni. Non ha senso dire che chiamare la scrivania così è sessismo perché è un femminile. Il genere degli oggetti è stato infatti attribuito loro in maniera arbitraria. La padella è femminile, ma il paiolo è maschile, la penna è femminile ma il pennarello e l'evidenziatore sono maschili. Stesso ragionamento vale per i termini astratti: amore è maschile ma bellezza è femminile, come virtù e scienza.
La campagna commerciale per introdurre il neutro. Non è discriminatorio usare amore come termine al maschile, anche perché amore copre tutta una serie di possibilità: può essere amore fra un uomo e una donna, fra due donne, fra due uomini, fra madre e figlio, padre e figlia, genitori e figli, e chi più ne ha più ne metta. Non c'è quindi nulla di discriminante, così come la bellezza copre bellezza femminile e maschile, la scienza è fatta da scienziati e scienziate, la virtù può essere praticata da chiunque. In nessun caso si può proporre, per legge o con una petizione, di inventare in italiano un fantomatico “genere neutro”. Non esiste. Non sapremmo nemmeno come inventarlo. La nostra lingua non lo prevede e di certo non si può imporre per decreto. Per altro, non si capisce nemmeno chi dovrebbe imporre questo uso: il Governo? Il Parlamento? I generi e nemmeno le parole si possono imporre per decreto. Nascono e poi si diffondono, la gente li usa o non li usa e non c'è nulla che possa cambiare questo fatto. Gli istituti come l'Accademia della Crusca, al massimo, dopo un po', possono certificare la diffusione e l'uso di determinate parole o frasi o espressioni idiomatiche, ma non certo costringere la gente a servirsene. Quindi sì, l'italiano è una lingua strutturata con parole che sono o maschili o femminili. Questo non ci obbliga però a costruire una società italiana sessista, in cui maschi e femmine abbiano dei ruoli predeterminati. Quando ci servono parole nuove per indicare professioni svolte da maschi e femmine, semplicemente si inventano o si volgono quelle che già abbiamo al femminile o al maschile. Non è neppure necessario costruire a tavolino un genere, il neutro, che è stato eliminato dall'evoluzione naturale della nostra lingua, e riesumarlo artificialmente non avrebbe gran senso. Usiamo la grammatica che abbiamo già. Funziona benissimo anche per affrontare le sfide del mondo moderno.
Per piacere, impariamo a usare la virgola. La punteggiatura non è un gesto casuale che si sparpaglia come petali di rosa: serve eccome. E se usata male può addirittura cambiare il senso delle frasi. Con risultati imprevedibili. Seconda pillola di grammatica per salvare la nostra lingua maltrattata. Segnalateci nei commenti gli svarioni che più vi infastidiscono o sui social con l'hashtag #italianoEspresso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 febbraio 2017 su "L'Espresso". Fra i misteri italiani, la punteggiatura se la gioca alla pari con i grandi enigmi della Storia repubblicana, e qualche volta li batte. Per la maggioranza delle persone risulta più semplice cercare di risolvere il problema degli intrecci Stato-Mafia che capire dove diavolo vada messa la virgola in una frase. I più optano per una soluzione casuale, cioè seminano i segni di punteggiatura come petali di rose: dove cascano, cascano e amen. In realtà la punteggiatura è in parte così difficile da capire perché entro certi limiti è soggettiva. Il suo compito è infatti rendere il flusso dei pensieri dell'autore e spiegare a chi li vede scritti con che ritmo vadano letti. Siccome il ritmo che voglio dare alle mie frasi è personale, anche la punteggiatura in parte lo è. Alcune regole però ci sono, e vanno il più possibile rispettate. La prima è che la punteggiatura ci vuole. I flussi di coscienza che si spandono per pagine e pagine è meglio lasciarli a Joyce, o limitarli alle pagine di narrativa, e anche lì vanno usati con maestria e moderazione. Se non siete Joyce e non state scrivendo l’Ulisse, ma una semplice lettera di reclamo al Sindaco perché vi spostino da davanti casa un cassonetto della spazzatura, per piacere, usate i punti e le virgole. Lo scrivente vi sarà grato e magari sposterà il cassonetto davvero. La virgola serve ad indicare che leggendo si deve fare una piccola pausa fra un pezzo della frase e l'altro. Dice al lettore dove prendere fiato, quindi ogni tanto mettetene una, se non volete sulla coscienza un lettore morto di apnea. La virgola si usa di regola quando faccio una lista: Sono andato al mercato e ho comprato pane, latte, zucchero. Se la lista la state facendo su un post it da lasciare attaccato alla porta del frigo, lì è concesso saltare le virgole. Se mettere le virgole anche nei post it attaccati al frigo, siete probabilmente un Accademico della Crusca. Altro caso in cui è obbligatorio usare la virgola è dopo il nome di qualcuno che viene chiamato o evocato: Mario, passami il sale! Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? In questo caso Mario e Dio non sono il soggetto della frase, ma un complemento di vocazione, che indica il nome della persona chiamata (vocare in latino significa chiamare, appunto), e siccome dopo il nome viene fatta una pausa (Mario || passami il sale!) la virgola la segnala. Non si deve mai, mai, mai (ho già detto mai? Lo ripeto: mai!) usare la virgola per separare invece il soggetto dal suo verbo o il verbo dal suo complemento oggetto. Se scrivete frasi come: Mario, va a scuola o Dio ha creato, il mondo l'Accademico della Crusca di cui parlavamo sopra (quello che mette le virgole anche nei post it) viene a casa vostra di persona per bacchettarvi le dita. Le virgole sono anche usate per separare le frasi all'interno del periodo. Di regola andrebbero messe prima di una coordinata avversativa (quelle frasi che iniziano con ma, tuttavia, però): Ti ho cercato a casa, ma non c'eri. Non ho finito ancora il libro, tuttavia le pagine lette mi piacciono. Sono molto stanco, però voglio andare al cinema lo stesso. Le virgole possono anche essere usate in coppia, come le parentesi, per indicare una frase che in teoria può essere tolta dal testo senza che questo soffra particolarmente. Queste frasi si chiamano incisi: Questo, come vedi, è lo stato dei fatti. Questa casa, se proprio lo vuoi sapere, sarà messa in vendita presto. Non è questo, a mio modesto avviso, il modo di parlare a tua madre. Le virgole, anche se non sembra, sono piccole ma sensibili. Non abbandonatele in mezzo ai periodi e non lasciatele da sole a vagare per le vostre frasi. Si possono vendicare in maniere terribili e impreviste. La frase: Vengo a mangiare, nonna! vi dipinge come premuroso nipote che va a visitare una parente anziana. La stessa frase senza virgola: Vengo a mangiare nonna! vi indica invece come un pericoloso cannibale epigono di Hannibal Lecter. Quindi occhio alle virgole, se non volete passare per sterminatori di vecchiette.
No, non possiamo mandare in pensione il punto e virgola. È spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 13 marzo 2017 su "L'Espresso". Uno spettro si aggira per l'Europa. Ok, magari per l'Europa no, ma per le pagine della letteratura europea e mondiale sì. È il punto e virgola. Il punto e virgola è spesso simile ad uno di quegli strani aggeggi che ti ritrovi in casa e non sai bene a cosa servano: quando lo hai visto reclamizzato in una televendita in tv hai pensato che dovevi assolutamente averlo, ma poi non sai mai cosa fartene di preciso. Molti pensano che la punteggiatura sia un segno grafico, invece va pensata più come una notazione musicale. Come sullo spartito ci sono note e pause, perché nella musica è necessario che i ci siano dei momenti di silenzio, anche quando si scrive i punti, le virgole e gli altri segni di punteggiatura servono a segnalare le pause. Ora, mettiamola così: il punto è una pausa lunga. Se è un punto-e-basta, quello che mettiamo alla fine di un paragrafo o di un capitolo, diciamo che dopo di lui contiamo fino a quattro prima di ricominciare a leggere. Il punto che invece separa le frasi nel mezzo di un paragrafo dovrebbe essere giusto giusto un pochino più breve, quindi diciamo che dopo di lui contiamo fino a tre. La virgola vale uno, perché è solo una piccola pausa fra due parole o frasi. Il nostro punto e virgola sta in mezzo. In pratica è più lungo di una virgola ma più breve di un punto. Al contrario di molti altri segni di punteggiatura, l'uso del punto e virgola è abbastanza personale. In realtà si può scrivere una intera vita senza sentire il bisogno di usarlo mai. Un gran “puntevirgolista” era Alessandro Manzoni: nei Promessi Sposi si incappa in punti e virgola come se piovessero, tutti messi ovviamente in maniera meravigliosa. Agli amanti della punteggiatura, diciamolo, i Promessi Sposi regalano vere e proprie estasi di goduria. Nell'italiano più recente i periodi lunghi non godono di grandi fortune, e quindi il povero punto e virgola non ha più il successo di un tempo, tanto che molti ne pronosticano l'estinzione. Restano due casi in cui è obbligatorio usarlo. Il primo caso è quello in cui scrivo un elenco puntato di cose da fare. In quel caso, alla fine di ogni voce dell'elenco devo mettere un punto e virgola, e solo all'ultima voce, quando concludo l'elenco, devo mettere il punto.
Esempio: Domani devo:
comprare il latte;
ritirare le camicie in lavanderia;
scrivere il pezzo per l'Espresso.
L'altro caso in cui il punto e virgola è assolutamente necessario è quando voglio fare l'emoticon che fa l'occhiolino, ovvero questa qua: ;) Ora capite bene che, almeno per preservare l'emoticon, il punto e virgola non può e non deve essere mandato in pensione.
... a cosa servono i puntini di sospensione. Sono solo tre. Non due, non cento. E hanno una funzione ben precisa: quella di sospendere il racconto. Ma in troppi li usano a sproposito, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 27 febbraio 2017 su "L'Espresso". Sono una specie di epidemia. Un morbo che si diffonde e attacca anche chi pensavi ne fosse immune. Diplomati, laureati, gente che ha passato anni e anni nelle aule scolastiche e quindi dovrebbe avere ben chiari i fondamentali per scrivere un testo. Invece no: riempiono i loro scritti di puntini di sospensione al posto di punti o virgole. I puntini di sospensione, in italiano, si usano quando si vuole lasciare intendere che una lista o un discorso continuano, o meglio potrebbero ancora continuare a lungo, ma l'autore prova un moto di pietà nei confronti dell'uditorio, e mette quindi i puntini per indicare che lascia il resto all'immaginazione del lettore. Ho comprato ieri pane, latte, verdure, carne, yogurt... e qua pietosamente si tace sulle altre decine di cose che sono finite nel nostro carrello dopo la consueta gita al supermercato. Altra funzione dei puntini di sospensione è appunto sospendere il racconto tenendo il lettore sul filo. Sono una specie di cartello “to be continued” che viene lasciato alla fine di una frase, di un periodo, o magari anche di un racconto o di un capitolo di romanzo per far intendere al lettore che si tratta di un finale aperto, che qualcosa potrebbe ancora succedere se voltasse la pagina, o che comunque la faccenda non è finita e può riservare ancora sorprese. “Eh, se ne potrebbero ancora dire di cose...” Ecco, questi sono i casi in cui si è autorizzati a usare i puntini di sospensione. Invece l'Italia è invasa da una marea di puntini di sospensione incomprensibili. Anzi, ci sono proprio delle tipologie specifiche di seminatori di puntini:
Il puntinatore avaro. I puntini di sospensione sono rigorosamente tre. Ma lui ne mette due. Non si è mai capito se il terzo lo abbia perso in giro o lo nasconda in casa per affrontare momenti di emergenza in cui si trovi senza un punto-a-capo;
Il puntinatore prodigo. Ne mette quattro, o anche cinque, o sei, o una fila intera, tanto che quando leggi non capisci se abbia messo volontariamente i puntini o il tasto gli si sia bloccato mentre scriveva, e lui sia rimasto lì ad urlare in preda al panico, chiamando in soccorso qualche tipo di polizia grammaticale;
Il puntinatore compulsivo. I suoi testi sono semplicemente una scusa per seminare puntini. Li usa per tutto, tanto che abolisce qualsiasi altro segno di punteggiatura. Non esistono per lui più virgole, punti, due punti. Esiste solo un mare di puntini in cui lui naufraga, ma soprattutto fa naufragare il lettore. Senza salvagente.
Se vi riconoscete in qualcuna di queste tre tipologie, tranquilli. Si può smettere. Basta pronunciare a voce alta per un ragionevole numero di giorni: “I puntini sono tre e non si usano al posto del resto della punteggiatura”. È una specie di mantra. Attenzione: perché funzioni va ripetuto ancora, ancora e ancora...
L’avventurosa storia del piuttosto (e del piuttosto che). Pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 3 aprile 2017 su "L'Espresso". La storia del piuttosto in italiano è una di quelle curiose vicende che ricordano le biografie di certi fanciulli nati bene che con il tempo cambiano strada, forse si fanno traviare dalle compagnie e finiscono in brutti giri. Infatti il nobile piuttosto, oggi, si trova ficcato in frasi bislacche e viene totalmente travisato nel suo significato preciso. "Piuttosto" in italiano è un avverbio di antica tradizione. È figlio di “più”, di cui rappresenta un rafforzativo, e di “tosto” - cioè presto, veloce - e nel senso originale significava quindi “più velocemente”, “più presto”. Nel corso di qualche secolo si è allargato nell’uso, fino ad indicare “più facilmente”, “più spesso”, “più volentieri” e anche genericamente “molto/molto di più”, come nei casi delle frasi: è piuttosto tardi; viene piuttosto spesso. Siccome è un tipo socievole, piuttosto ha stretto negli anni una fruttuosa amicizia con il che, e i due hanno formato un duo, il piuttosto che. Il piuttosto che serve ad indicare una preferenza fra due cose: piuttosto che uscire, preferisco rimanere sdraiato sul divano; piuttosto che mangiare quella roba, salto il pasto. Il piuttosto ha anche una lunga storia di frequentazione con la o disgiuntiva e specie nelle frasi interrogative i due stanno spesso assieme: Vuoi questo o piuttosto quello? Il pasticcio succede quando nel linguaggio comune si mettono assieme e si frullano le due cose. Ormai da qualche anno c’è gente convinta, soprattutto nel Nord Italia, che il piuttosto che sia una variante della semplice o disgiuntiva o di oppure. Nascono allora frasi assolutamente bislacche, come per esempio: vuoi parlare con la mamma piuttosto che con il papà? Perché discriminare i neri piuttosto che gli zingari? Ecco, ragioniamoci su queste due frasi: scritte così sembra che introducano in qualche modo un criterio di preferenza: nella prima il povero papà sembra considerato inferiore alla mamma (e sì, vabbè, siamo in un paese di mammoni, ma via, non è carino!); la seconda pare quasi una levata di scudi razzista che invita a discriminare tutti allo stesso modo, che diamine!
Quindi ricapitoliamo: il piuttosto che non va usato come sostitutivo di o e di oppure. Ha un significato diverso: indica una preferenza fra due scelte, non una semplice alternativa. Del resto, pensateci: dovendo dare una alternativa secca, dite: “O la va o la spacca!” oppure “O la va piuttosto che la spacca!”? La prima, vero? Ecco, vi siete risposti da soli.
Qual è il problema con il qual è? A "qual" non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo: risparmiamo inchiostro, e anche una brutta figura, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 17 aprile 2017 su "L'Espresso". Qual è il problema? Be’, il problema alle volte è proprio il qual è. Che in Italiano si scrive così, cioè senza apostrofo, e non Qual’è come spesso ormai si vede. State sbuffando? Non fate finta di niente, vi ho sentito. E vi capisco pure. Ma come, direte voi, prima ci fanno una capa tanta che bisogna mettere gli apostrofi e adesso su qual è se ce lo mettiamo ci facciamo la figura degli zotici? Ma che è, un complotto, una congiura? Nessun complotto, e nemmeno la prova che le regole grammaticali sono pensate da una manica di sadici schizzati. Se vi ricordate quello che abbiamo spiegato quando si è parlato degli apostrofi, l’apostrofo si mette quando la vocale, davanti a un’altra vocale, si va a fare un giro ma poi ritorna. Ecco, non è il caso di qual è. Qui il qual è proprio una parola a sè, che si scrive senza la vocale alla fine. Qual viene usato anche davanti a parole che non iniziano per vocale. Si può dire infatti sia qual è sia qual buon vento, e questa è la prova che a qual non manca nessuna vocale: è proprio una parola autonoma che si scrive con la consonante finale. Quindi non ci va aggiunto nessun apostrofo. In italiano esiste qual come esiste anche tal, alcun, nessun, un. Queste parole nascono per un fenomeno che si chiama troncamento, e come per l’elisione, il fenomeno accade per facilitare la lettura. Ma diversamente dall’elisione, il troncamento accade anche davanti a parole che cominciano per consonante. Noi usiamo tantissimi troncamenti quando parliamo. Diciamo un buon uomo, un bel tipo, o cantiamo a squarciagola Nessun dorma. Qual è un troncamento, esattamente come buon, bel e nessun. Quindi, con buona pace di Saviano (che in un articolo scatenò un vespaio perché scrisse qual’è) e persino di Pirandello (anche lui qualche qual’è lo ha disseminato in giro) qual è si scrive senza apostrofo. Una volta tanto, risparmiamo inchiostro evitando l’apostrofo. E anche una brutta figura.
L'apostrofo, un promemoria per il lettore. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 24 aprile 2017 su "L'Espresso". Avete presente quando andate in un negozio, trovate la porta chiusa e sulla vetrina il post con su scritto: “Torno subito”? Bene, l’apostrofo in italiano funziona nello stesso modo. Quando una lettera, o meglio, una vocale, se ne va a prendere un caffè, siccome è una lettera educata, lascia un piccolo promemoria al lettore: “Guarda, sono uscita un attimo, ma non ti preoccupare, appena posso mi ritrovi qui.” Se quando scrivete vi dimenticate gli apostrofi il vostro povero lettore resta perplesso. È smarrito: non sa se deve restare lì ad aspettare o la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Peggio di una puntata di Chi l’ha visto, insomma. Quando la vocale se ne va per un po’ ma poi ritorna, il fenomeno si chiama elisione. Di solito le vocali spariscono temporaneamente per motivi ben precisi e in casi ben determinati: non è che vi piantano in asso senza un perché. Tanto per cominciare, le vocali se ne vanno solo quando sono alla fine della parola e dopo di loro c’è una parola che comincia anch’essa per vocale. Si può dire sull’altalena ma non nell’giardino, l’insalata ma non l’bistecca. Questo perché l’elisione è un fenomeno nato per facilitare la pronuncia e la lettura delle parole. Si può anche dire sulla altalena, per carità, ma il nostro orecchio un po' si schifa, e quindi mettiamo l’apostrofo per chiarire che quelle due lettere “a” non vanno in realtà pronunciate e ne resta una sola, quella di altalena. La "a" di sulla si prende una pausa e va a fare un giretto per i fatti suoi, ché ogni tanto un po’ di libertà è una mano santa pure per le lettere dell’alfabeto. I casi in cui le vocali si possono concedere una boccata d’aria sono:
Con gli articoli determinativi lo e la: l’albero e l’agenda, e anche in tutti i casi in cui lo e la formano preposizione articolata dell’albero, nell’agenda, all’artista. Attenzione, però: l’articolo la perde la sua a solo al singolare. Posso dire l’agenzia, ma non l’agenzie. Lì devo scrivere le agenzie, le industrie. Per il lo il problema del plurale nemmeno si pone, perché al plurale lo fa gli, perciò in ogni caso non si elide;
L’aggettivo bello ci tiene a essere pronunciato bene, quindi di fronte a vocale vuole suonare al meglio e perde la o. Si scrive infatti bell’affare, bell’uomo;
Anche con santo e santa c’è elisione. Si scrive infatti Sant’Agostino e Sant’Agnese. Con l’apostrofo, mi raccomando, oppure i santi che cominciano per vocale si arrabbiano come se gli aveste tolto l’aureola;
Con l’avverbio di luogo ci davanti alle voci del verbo essere: c’è, c’erano, c’era. Attenzione, anche qua lo potete fare solo quando il ci è un avverbio di luogo (ci era equivale a era qui). Quando invece si tratta del pronome personale complemento ci (come in ci ama, ci ha invitato), che quindi vuol dire a noi, non potete elidere mai. Del resto c’ama non si può sentire: vi fareste odiare subito. Inoltre il ci non può essere eliso davanti alla acca. C’ho non si può scrivere. La regola infatti dice che il ci si elide solo con le vocali. La acca è una vocale? No. Quindi c’ho, c’hanno non si scrive, o l’Accademico della Crusca vi mena con l’apostrofo stesso a mo’ di scudiscio. In alcuni modi di dire e frasi fatte come tutt’al più, quant’altro, senz’altro, nient’affatto, d’ora in poi, quand’anche, d’altra parte e d’altronde. Sì, d’altronde si scrive con l’apostrofo e non dal tronde, non esistendo la parola “tronde” in italiano. Voi resterete magari stupiti che esista invece la parola altronde. Eh, invece esiste, anche se viene usata esclusivamente, in pratica, in questa locuzione. Alle volte la lingua sembra bizzarra assai.
Non si possono elidere invece le vocali finali quando li e le sono pronomi personali: le aspetto, li interpello. E se mai vi venisse in mente, no, non si possono elidere mai le vocali finali degli avverbi di luogo lì e là, perché si possono togliere, elidere e far sparire solo le vocali non accentate. Quelle accentate devono restare dove sono, perché l’accento segna il punto dove la voce si appoggia, se glielo togliete la voce sbarella e casca tutto. In tutti gli altri casi in cui avete una parola che finisce per vocale e una che inizia per vocale sta a voi decidere. Potete scrivere anch’egli o anche egli, lo ascoltò o l’ascoltò, un’arancia o una arancia. È una questione di scelta stilistica, o anche di come vi gira al momento. L’importante è che non dimentichiate di mettere l’apostrofo nei casi in cui è obbligatorio, o il vostro povero lettore è destinato a restare lì chiedendosi se la vocale tornerà, se si è persa, se mai la rivedremo. Il che, per carità, può generare una certa suspense, ma non è il caso di scatenare il panico a vuoto, nemmeno se state scrivendo un thriller.
Ci vuole un po' di attenzione a scrivere “po'”. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. E sarebbe meglio, davvero, non scriverlo con l'accento. Anche quando è l'opzione imposta dal cellulare, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 2 maggio 2017 su "L'Espresso". In Italiano ci sono due po. Uno è il fiume, e quando vi riferite a lui siete pregati di ricordavi due cose: si scrive con la maiuscola, perché è nome proprio (il Po) e non vi va messo sopra accento, perché è una parola monosillaba. Gli accenti in italiano segnalano la vocale su cui la voce si appoggia, ma Po di vocale ne ha una sola, per cui segnarci sopra l’accento è inutile. Il nome Po deriva dal latino Padus, antico nome del fiume, e per questo la pianura che attraversa si chiama Padana. L’altro po italiano è po’, scritto con l’apostrofo, che significa poco. Deriva dal latino paucus, che in italiano si è trasformato in poco e poi in po’. Se quando scrivete ve lo dimenticate, chi vi legge resta perplesso: non sa se deve restare lì ad aspettare o se la vocale se n’è andata per sempre e ciao. Tecnicamente po’ è un troncamento, per giunta di una intera sillaba, cioè il -co finale. I troncamenti non dovrebbero avere apostrofi, ma po’ ce l’ha. È un modo per segnalare che un’intera sillaba se n’è andata via. Se nei casi comuni l’apostrofo è un cartellino con su scritto “torno subito” e segnala una vocale solo temporaneamente sparita, nel caso del po’ l’apostrofo è più una lapide alla memoria. C’era un tempo una sillaba, ma non c’è più: una prece. Si può scrivere pò, con l’accento? Negli ultimi tempi lo si vede spesso, soprattutto perché il correttore ortografico di cellulari e computer sembra essersi convinto che quella è la grafia corretta. Per farlo rinsavire bisogna andare a smanettare nelle impostazioni del vocabolario interno al telefonino, operazione che richiede un minimo di competenze tecniche che non tutti hanno. Per questo capita di riceve messaggini da coltissimi amici con dentro scritto pò con l’accento, e immaginare la loro disperazione per questo errore imposto loro da un programma di scrittura automatico. Si può, non si può scrivere pò con l’accento? No. sarebbe proprio meglio di no. Magari fra qualche anno ci arrenderemo e accetteremo pò con l’accento, che comunque è un controsenso. Po’ inteso come “poco” è un troncamento: l’apostrofo non gli serve ma nemmeno l’accento, perché è anche un monosillabo, quindi la voce non ha bisogno di sapere dove appoggiarsi, dato che può stare solo sulla vocale o. Per ora quindi resistiamo, sia al T9 che al pò accentato. Resistiamo e intanto impariamo come smanettare le impostazioni del cellulare. Con un piccolo sforzo, si può costringere il maledetto a scrivere po’ con l’apostrofo, credetemi.
Che rebus quel "ci", l'avverbio bistrattato. E' un avverbio di luogo e serve ad indicare dove si svolge l'azione. Ma spesso lo confondiamo con il "ci" che significa noi/a noi. Tutti i trucchi per vederci più chiaro, scrive Mariangela Galateo l'8 maggio 2017 “L’Espresso”. Pochi lo riconoscono, anche se le frasi che facciamo con lui ogni giorno sono centinaia. Ma 'ci', ovvero l’avverbio di luogo che indica “qui, in questo posto”, è una delle parole più bistrattate del vocabolario. La maggioranza delle persone, quando analizza una frase come “C’è posto a tavola?” o “C’è qualcosa che manca?” tende a considerare il povero ci come se facesse parte del verbo, oppure a confonderlo con il suo omografo 'ci' pronome personale atono, quello che vuol dire “a noi”. C’è/ci sono sono invece due frasi con un avverbio di luogo: c’è significa “è in questo posto”, “sta qui”. Il suo compito accanto al verbo essere è molto preciso: indica il luogo dove l’azione si svolge. Tra l’altro segnala in modo inequivocabile che in questo caso il verbo essere svolge la funzione di predicato verbale e non nominale, come invece gli capita quasi sempre. C’è significa infatti “si trova”, e pertanto in questo caso il verbo essere descrive una azione, ovvero è sostituibile con il verbo “stare”. Il ci deriva probabilmente da un latino alto medievale hicce, a sua volta derivato dall’avverbio di stato in luogo latino hic. Il ci avverbio di luogo si usa con i verbi che indicano il rimanere o il raggiungere un determinato luogo, come stare (ci sta), andare (ci andiamo), venire (ci vieni?). Non va invece confuso con il ci che significa “noi/ a noi”. Ci guardiamo negli occhi significa infatti che io e te /noi ci guardiamo reciprocamente negli occhi, e non indica nessun luogo; allo stesso modo Ci spostiamo da casa al lavoro indica che spostiamo noi stessi, ci portano da mangiare significa che portano da mangiare a noi. Nella frase Noi ci siamo, invece, è chiaro che sostituire il ci con un ulteriore “noi” non avrebbe senso. Il segreto per riconoscere i due ci è quindi provare a sostituire il ci con un noi/a noi. Se la frase ha ancora senso, è pronome, se invece risulta incomprensibile si tratta di un avverbio. Il povero ci ve ne sarà molto grato. Passare l’esistenza ad essere confuso con qualcos’altro è difficile persino per un avverbio: c’è di che perdere l’autostima.
Quel dove in ogni dove. Viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 15 maggio 2017 su "L'Espresso". Lo si usa ormai in ogni dove. E non sempre nel posto giusto dove metterlo. Stiamo parlando del dove, che in italiano a volte può sostituire il relativo “in cui”. Quando, appunto, questo “in cui” indica un luogo. Se dico per esempio “il luogo in cui mi trovo ora è bello” posso tranquillamente trasformare la frase in “il luogo dove mi trovo ora è bello”. Il problema è che il dove viene usato spesso indebitamente, e alcuni sono convinti che possa sostituire qualsiasi “in cui”. Abbiamo così frasi bislacche come “il giorno dove ti ho incontrato” o “il momento dove parli”. Ragioniamo un attimo prima di scrivere. Dove indica sempre un luogo. E un momento, un giorno non sono luoghi, nemmeno figurati. Sono determinazioni di tempo, non di spazio. Sono una cosa diversa, indicano il quando, non il dove. Se dico "La borsa dove tengo la cipria" ha un senso, perché indico un luogo dove la cipria viene messa, cioè la borsa. Ma non posso dire “il momento dove mi inciprio il naso”. Non ha senso, e il povero interlocutore resterebbe perplesso non capendo dove vogliate usare il piumino per ritoccare il trucco. Peggio ancora se invece di un “in cui” il dove sostituisce un che. Ha senso dire “il bar che frequento ogni mattina”, non “il bar dove frequento ogni mattina”. Il bar è un luogo, per carità, ma voi frequentate lui, cioè il bar, perché frequentare è un verbo transitivo che vuole dopo di sè un complemento oggetto. Ci vuole quindi un che relativo. Se invece dite “il posto dove bevo il caffè alla mattina è questo bar”, o "il bar dove vado ogni mattina è questo" allora va bene. Anzi, se il caffè è buono, passate l’indirizzo.
Andateci piano con "dunque" e "cioè". Oggi sono sorpassati. Se li usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 22 maggio 2017 su "L'Espresso". Non si comincia mai una frase con il dunque. Dunque, in italiano, è una congiunzione conclusiva. Vuol dire che va usata per concludere un discorso e tirare le fila di qualcosa che è stato detto in precedenza. Sono stata tutto il giorno in piedi dunque sono stanca. Molti invece usano il dunque come un incipit, un modo per iniziare la conversazione quando non si sa che dire: Dunque, mi dicevi? Ma immaginate che, prima, la persona a cui vi rivolgete non abbia detto assolutamente nulla. Vi guarderebbe come un pazzo. Ci sono casi in cui il dunque può essere usato all’inizio della frase. Per esempio quando uno ha parlato per mezz’ora in maniera complicatissima, noi non abbiamo capito un accidenti o molto poco di tutto lo sproloquio e allora, per dispetto, ironicamente sibiliamo: Dunque? In questo caso è un modo per invitarlo in qualche modo a tirare una conclusione e dare un senso comprensibile a quando ha detto. Ma in queste situazioni, appunto, si tratta di un uso ironico, quindi è corretto. Cominciare una frase con il dunque senza che prima ci sia nulla non ha invece alcuna logica. Dunque cosa?
Attenzione va fatta anche all’uso del cioè. Cioè serve a spiegare qualcosa che si è detto in precedenza: faccio il social media manager, cioè curo gli account social dell’azienda. In anni passati, soprattutto negli anni ‘70 e ‘80, cioè era invece una specie di riempitivo valido per tutto. Quando non si sapeva cosa dire, ci si ficcava un cioè. Oggi è sorpassato. Se lo usate venite subito datati cronologicamente come relitto di un’era che fu. La versione più colta del cioè è stato negli anni ‘90 il diciamo. Veniva schiaffato all’interno di ogni conversazione quando non si sapeva bene come proseguire. Lo usava spessissimo D’Alema. Nella variante diciamocelo era invece il marchio di Ignazio la Russa. Oggi va quindi usato con parsimonia e cautela. Non solo vi data, ma sapete anche a chi vi fa assomigliare. Pensateci e decidete di conseguenza.
"Ci hanno" e "C'hanno": attenti a quei due. Queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Scrive Mariangela Galatea Vaglio il 29 maggio 2017 su "L'Espresso". “Ci ho un caldo oggi che brucio!” È corretta questa frase? E, ampliando il discorso, sono corrette tutte le frasi che usano il verbo averci? In realtà il ci in questo caso è un avverbio di luogo che ormai ha perso il suo significato, e viene usato solo come sottolineatura emotiva. Tutte queste frasi con ci infatti sono tipiche del linguaggio colloquiale. Insomma, si usano quando si parla, specie fra amici e in situazioni molto familiari. E quando si scrive, allora, sono corrette? Qui bisogna rispondere con un diplomatico “dipende”. Dipende infatti, e davvero, dal tipo di testo che stiamo scrivendo. Se è un testo serio e formale, no, non è il caso di usarle. Se invece è un testo che in qualche modo si ispira alla lingua parlata o in cui, per esempio, dobbiamo descrivere il modo di parlare di un personaggio non molto colto, allora possono andare bene. Tantissimi sono gli scrittori che hanno usato questo tipo di frase, da Boccaccio a Manzoni, proprio per scrivere dei dialoghi più realistici e meno ingessati. Bisogna comunque fare attenzione a come si scrivono, questi ci, oltre che a quando. Infatti la frase Oggi ci ho proprio caldo è accettabile, mentre oggi c’ho proprio caldo è un pugno su un occhio. Il problema sorge per colpa dell’h che c’è in mezzo. La h in italiano non si pronuncia, ma nello scritto si vede. Se si elide la i finale, la c e la h si trovano a contatto, e il nostro occhio è abituato a leggere le due lettere vicine come un ch che si pronuncia quindi k. Per questo motivo vedere un testo dove sia scritto c’ho per molti è una vera tortura. I linguisti hanno proposto di usare una grafia particolare, cioè cj ho. Ma per ora è un uso limitato solo ad alcuni articoli specialistici e non ha preso piede presso il grande pubblico. Che spesso c’ha altro da fare, e usa l’apostrofo senza curarsi dell’acca. Vinceranno loro? Probabilmente. Per ora conserviamo la i finale e aspettiamo l’evolversi della lingua.
I tranelli dell'acca, quella lettera che c'è e non c'è. E' l'unica muta del nostro alfabeto, e si vendica comparendo nelle forme del verbo avere, praticamente a caso. Ecco come non farsi ingannare, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 14 giugno 2017 su "L'Espresso". Voi pensate la frustrazione. In una lingua come l’italiano, in cui le lettere si pronunciano tutte come sono scritte, lei no, è l’unica che non si sente. Muta. Non stupisce che debba trovare il modo di vendicarsi. E infatti la h in italiano si vendica comparendo nelle forme del verbo avere apparentemente a caso: ho, hai, ha, hanno. Il motivo per cui la h c’è in queste forme è legato alla storia della nostra lingua. Il verbo avere in italiano deriva dal latino habere, che cominciava con l’h. Nel corso dei secoli la h, che appunto non veniva pronunciata, si è persa anche nella forma scritta. È rimasta solo in alcuni casi, perché altrimenti, togliendola, sarebbe difficile capire esattamente cosa viene detto. Se io scrivo a ragione è diverso da ha ragione. È necessario dunque che a preposizione semplice e ha voce del verbo avere si scrivano in maniera differente. La stessa cosa avviene con anno/hanno: una cosa è dire l’anno passato altra dire l’hanno passato. Un vecchio trucco per riconoscere quando ci troviamo di fronte al verbo avere e si deve mettere la h è quello di sostituire nella frase il presente (ho, hai, ha, hanno) con l’imperfetto. Se la frase continua ad avere senso anche all’imperfetto, allora al presente il verbo va scritto con l’acca:
Io ho due calzini -> io avevo due calzini
Io vado a casa-> io andavo avevo a casa
La h è sempre stata fonte di moltissimi errori, proprio perché non si pronuncia e dunque non si sente. All’inizio del secolo fu fatta una proposta per toglierla del tutto, ma siccome restava il problema di distinguere la a preposizione dal verbo avere, si suggerì di scrivere la voce del verbo con un à accentata. Quindi invece di ha/ho/hanno/hai si sarebbe dovuto scrivere à/ò/ànno/ài. Ci si rese però presto conto che così non si risolveva niente, anzi si generava una confusione ancora maggiore. Quindi alla fine si decise di tenere la acca. Continua a rimanere al suo posto e non molla. Tiè.
"Vadi pure", anzi no "facci lei": basta fantozzismi, diamo una mano al congiuntivo. È un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato, scrive Mariangela Galateo Vaglio il 5 giugno 2017 su "L'Espresso". Lo danno per spacciato da anni, ma come l’araba fenice lui prima o dopo risorge dalle sue ceneri. Il congiuntivo è un modo che nell’italiano moderno gode di alterne fortune. Come certe anziane signore dalla salute malferma sembra che sia sempre lì lì per schiattare, ma poi si ripiglia e continua a vivere beato. Il congiuntivo è il modo che indica una idea, una opinione. Credo che tu sia simpatico (ma mi riservo di verificarlo), ritengo che questa sia una stupidaggine (ma non si sa mai, magari mi sbaglio io ed è una genialata). È un modo educato che non si prende sul serio, lascia aperto uno spiraglio, accetta la possibilità che gli altri abbiano ragione e torto noi. Per questo nel mondo moderno, fatto di grintose certezze, il congiuntivo non ha vita facile. Complice il fatto che in inglese, per esempio, non viene usato spesso, anche in italiano i manager lo usano poco e mal volentieri: «Credo che è così!» tuona il capetto con i suoi sottoposti, e non si discute. Ci sono anche altri usi del congiuntivo che non tutti conoscono. È un modo gentile, ma è capace di sostituirsi all’imperativo nei casi in cui questo modo non ha forme proprie: Andiamo a casa! Prenda ancora una tazza di tè o il berlusconiano Mi consenta! sono in origine forme di congiuntivo. In latino veniva definito congiuntivo esortativo, cioè quello che esprime un invito educato, ma pressante quanto un ordine. Da solo, nelle frasi principali, il congiuntivo viene usato per esprimere un augurio o una speranza: Fosse la volta buona! Magari vincessi alla lotteria! In questo caso si può anche chiamarlo congiuntivo ottativo o desiderativo, in quanto esprime una cosa che si vorrebbe ardentemente. È un modo pieno di sfumature, quindi, che va trattato con i guanti. Ci mette un attimo a farvi fare una pessima figura quando non lo sapete coniugare bene. Vadi, facci sono infatti una forma di congiuntivo non nota alla grammatica ma diffusissima nel mondo reale: il congiuntivo fantozziano.
Tutti i misteri del "che", parolina bifronte. Il "che" in italiano ha due usi principali: congiunzione e pronome relativo. Ecco come distinguerne l'uso, per non attorcigliare i nostri testi in frasi incomprensibili, scrive Mariangela Galatea Vaglio il 19 giugno 2017 su "L'Espresso". In italiano gli usi principali del che sono due: congiunzione e pronome relativo.
Quando è congiunzione, il che unisce due frasi: Penso che tu sia stanco di tutto questo; Ritieni che sia possibile? Credo che domani pioverà.
Quando è pronome relativo unisce sempre due frasi, ma il che è agganciato ad un nome che si trova nella prima frase e svolge la funzione di soggetto o complemento oggetto nella seconda: tu [che sei alto] mi prendi quel libro dallo scaffale?
Riconoscere i due tipi di che è importante. Aiuta molto ad evitare di fare errori nel dividere le frasi e anche nel comprenderle. Come si riconosce un pronome relativo? Il pronome relativo che si individua perché può sempre essere sostituito con il quale/la quale/i quali/ le quali. Quindi, quando abbiamo un dubbio, basta vedere se nella nostra frase il che può essere sostituito da una di quelle parole.
La donna che hai visto è mia sorella ->la donna la quale hai visto è mia sorella;
I bambini che giocano nel cortile sono sudati ->i bambini i quali giocano nel cortile sono sudati.
Se invece è una congiunzione non può mai essere sostituito con altro. Infatti se scrivo: Penso che tu sia strano non posso formulare la frase dicendo penso il quale sia strano. Non ha senso. Distinguere congiunzioni e pronomi relativi è fondamentale quando faccio l’analisi del periodo e quella logica della frase. Il che pronome relativo che può fare da soggetto e da complemento oggetto nella frase in cui è, mentre la congiunzione non può fare mai da soggetto o da complemento oggetto. Inoltre se la frase è introdotta da un pronome relativo, in analisi del periodo sarà una subordinata relativa, mentre se è introdotta dal che congiunzione potrà essere una subordinata di altro genere (soggettiva, oggettiva, dichiarativa…). Voi direte: ok, si può sopravvivere nella vita anche senza saper distinguere il tipo di subordinate. Sì, è vero. Ma non sempre è detto che si sopravviva bene.
In italiano il che, pronome relativo, ha una particolarità. Si riferisce quasi sempre al nome che gli sta accanto. Una delle cose che spesso rende incomprensibili le frasi è non tenere conto di questo fatto. Se piazzo il che vicino al nome sbagliato, il significato dell’intera frase cambia. Se scrivo per esempio il libro che è sul tavolo è verde a essere verde è la copertina del libro. Se scrivo le stesse parole ma in ordine diverso, cioè il libro è sul tavolo che è verde è la superficie del tavolo ad essere colorata di verde. Quando si scrivono periodi lunghi, è facile commettere errori. Nella nostra testa la frase è chiarissima, ma poi ci impicciamo a scriverla, e il che finisce accanto a qualcosa di diverso da quello che vorremmo. Il consiglio migliore che si può dare in questo caso è: lasciate perdere i periodi lunghi. Se non siete abituati a scrivere (ma alle volte, anche se lo siete) usate frasi brevi e separate dal punto. Meglio ripetere due volte la stessa parola che scrivere una frase incomprensibile. Non è detto che “chi sa scrivere” usi periodi lunghi. Grandi scrittori e giornalisti, come Hemingway o il nostro Enzo Biagi erano famosi per le loro frasi brevissime. Spesso anzi scrivere una frase breve denota maggiore bravura nella sintesi di chi sbrodola per pagine e pagine. Quindi se non siete certi che il pronome relativo si riferisca al termine giusto, spezzate la frase o spiegatevi usando una e: Il libro è sul tavolo ed è un libro verde. Meglio risultare un po’ meno eleganti ma chiari piuttosto che dare al vostro lettore una informazione sbagliata.
Quando la traccia fa rima con figuraccia. ll Miur ha messo una I di troppo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità. Una svista che avrà sollevato i maturandi: se anche all’esame avessero combinato disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale, scrive Mariangela Vaglio il 26 giugno 2017 su “L’Espresso”. Per carità, una svista capita a tutti. Ma quest’anno il Miur ha veramente battuto ogni record, scrivendo nel titolo della pagina che avrebbe dovuto riportare le tracce dei temi di maturità “TRACCIE”. Le scuse prontamente porte sul sito non hanno cancellato l’imbarazzo. Si tratta di un errore fastidioso, soprattutto per il “luogo” in cui è apparso, e per le circostanze, anche se forse i maturandi si saranno sentiti sollevati. Se anche all’esame combinassero disastri in ortografia, questo non potrà certo pregiudicare una loro futura carriera ministeriale. Tracce, tuttavia, come frecce, al plurale non vuole nessuna i. In effetti però i plurali in -cie e -gie sono particolarmente rognosi da ricordare. In alcune parole italiane, che hanno una i dopo la c, come cielo e cieco, la i si mantiene anche se in realtà non viene più pronunciata da secoli. Per altre che terminano in ci e gi la i rimane solo al singolare ma al plurale scompare. La regola prevede che la i rimanga quando la ci e la gi sono precedute da una vocale, come in ciliegia>ciliegie e camicia>camicie. Il camice, senza la i, non è un plurale, ma un singolare, ed indica il grembiule bianco indossato da medici e farmacisti. Quando ci e gi sono precedute da una consonante, come appunto in traccia, freccia, bertuccia, arancia, treccia, torcia e spiaggia, al plurale la i sparisce. Anche le parole costruite con i suffissi -acce, -ucce fanno il plurale senza la i. Gli utenti che hanno letto lo svarione sul sito ministeriale, infatti, molto probabilmente si sono lasciati scappare parecchie parolacce. Ah, anche figuracce si scrive al plurale senza la i. I tecnici del Ministero sono pregati di segnarselo, semmai servisse in futuro…
ADDIO AL CONGIUNTIVO.
Il congiuntivo speriamo che se la cava, scrive Francesco Durante Martedì 13 Dicembre 2016 su "Il Mattino". Al professor Francesco Sabatini gli piace pensare che la lingua italiana non è una cosa immutabile, e che per difenderla non c’è bisogno di fare gli schizzinosi o di farsi pigliare da «psicodrammi» come la solita difesa del congiuntivo, oppure la lotta contro gli anacoluti, i pleonasmi, le frasi segmentate, contro i pronomi «lui» e «lei» usati anche come soggetti e contro lo «gli» polivalente, usato cioè anche per il plurale e il femminile. Ora io speriamo che lo psicodramma non c’è, anche se l’anacoluto ne parlano tutti male, e se è per questo anche il pleonasmo. Lui, però, gli sembra che non è un vero problema, questo. Dopotutto, è il parlato, la lingua viva degli italiani. Che, fin da quando è nata, la innovano di continuo, gli italiani, e giustamente gli pare che va bene così: l'importante è capirsi e comunicare. Io però, leggendo l'intervista che Sabatini gli ha concesso a Paolo Di Stefano del «Corriere della Sera», mi è venuto qualche dubbio. Leggevo e dicevo tra me e me che sì, tutto sommato il professore le sue ragioni ce le aveva; e del resto anch'io, senza essere mai stato presidente dell'Accademia della Crusca né aver mai scritto un libro come il suo, appena uscito, che si intitola «Lezione di italiano» (Mondadori), ero uno di quelli che queste cose le sosteneva da tempo. Sabatini tuttavia, se proprio devo dirla tutta, ho avuto l'impressione che stava esagerando un poco. Per cui ci ho pensato, e sono arrivato alla conclusione che io, per quanto mi riguarda, al congiuntivo non ci voglio rinunciare. Perché, vedete, non è che possiamo pensare che il congiuntivo è un'invenzione aristocratica che appartiene al passato e fa a cazzotti col presente. Non è che siccome in inglese, in francese e in spagnolo non lo si usa più anche noi italiani si deve fare altrettanto, anzi: proprio perché ce l'abbiamo ancora, credo che è giusto tenercelo stretto, e non dubitare che è un tratto distintivo della nostra identità culturale. Un po' come la prospettiva di Piero della Francesca o la ricetta della mozzarella di bufala, insomma: una di quelle cose che vale la pena di essere tutelata. Per cui adesso, dopo tutta questa sfilza di anacoluti e pleonasmi e altre amenità che ho voluto ficcarci dentro, forse è il caso che a questo articolo ci rimetto mano e almeno i congiuntivi li ripristino. (Comunque, meno male che Sabatini, alla fine dell'intervista, afferma che ci sono cose che perfino un «liberale» come lui non potrebbe mai ammettere nella nostra bella lingua: tra queste, il famigerato «piuttosto che» disgiuntivo al posto di «oppure», o certi spaventosi anglismi del cavolo, tipo «location» o peggio mi sento «endorsare». O, ancora, quello che a me mi piacerebbe chiamare «transitivo alla napoletana», per esempio: «lo telefono» o «la telefono». Anche se devo dire che se lo sento, un costrutto del genere, non mi fa veramente orrore: temo che, anzi, mi fa addirittura un pochino di tenerezza.)
Congiuntivo in calo, nessun dramma. La Crusca: la lingua è natura, si evolve. In libreria «Lezione di italiano» (Mondadori) del linguista e filologo Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca: «La lingua è natura. E si evolve», scrive Paolo Di Stefano l'11 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. «La lingua è dentro di te, tu sei tra le sue braccia». Le parole di Mario Luzi, poste in epigrafe, riassumono bene la prospettiva del nuovo libro di Francesco Sabatini Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso(Mondadori). Quale prospettiva? «La lingua verbale — dice Sabatini — entra in noi naturalmente dalla nascita e diventa lo strumento ineguagliabile per la nostra crescita culturale». Presidente onorario dell’Accademia della Crusca, linguista, filologo, lessicografo, autore, con Vittorio Coletti, di un fortunato Dizionario della lingua italiana, nel tono confidenziale più adatto a una materia che si intende porgere in modo piano attraverso dieci «dialoghi» e altrettanti «inviti», ma senza semplificazioni eccessive, Sabatini espone subito la tesi del libro rivolgendosi a un lettore vicino e curioso: «Sapevi che, quando avevi tre o quattro anni, il tuo cervello aveva già fatto silenziosamente l’“analisi grammaticale” e l’“analisi logica” (come poi si chiamano a scuola) dei discorsi captati dal tuo orecchio?». Sabatini sa come si comunica con i non addetti ai lavori, del resto ogni domenica, a «Unomattina», offre ai telespettatori un «pronto soccorso linguistico» che oltre a dare consigli grammaticali è anche una sorta di percorso storico-culturale. Cominciamo dalla fine (del libro) sgombrando il campo dal buon uso. Ci sono quattro psicodrammi del parlante italiano: «Casi che infiammano gli animi e che a molti tolgono il sonno», li definisce Sabatini. Quali sono? L’eterna questione del congiuntivo, difeso con appelli e impegnate campagne di salvaguardia. Ebbene, il presidente onorario della Crusca invita a una «minore schizzinosità». Nei costrutti indipendenti il congiuntivo resiste, per esempio nella frase: «Sapessi che dolore!». Nelle frasi cosiddette «completive» tende a essere sostituito dall’indicativo: «credevo che stesse» diventa spesso «credevo che stava», ma è un’alternanza presente sin dalle origini della lingua italiana (risale a Dante e anche più indietro). Idem in certe subordinate, tipo: «Se mi chiamavi, venivo ad aiutarti». È la tendenza del parlato: non facciamone un dramma. «In inglese, in spagnolo e in francese il congiuntivo non c’è più — ricorda Sabatini — diciamo che l’alternanza segna una differenza di stile non di correttezza, come per prima disse, sessant’anni fa, una filologa rigorosissima, Franca Ageno». Non c’è da fare drammi neanche sugli anacoluti (li usava già Manzoni), sui pleonasmi (idem), sulle frasi segmentate («A lui, gli piaceva»), sui pronomi quali lui e lei usati come soggetti (dal Duecento fino a Tomasi di Lampedusa sono ricorrenti), sul gli polivalente (inteso anche come plurale e femminile). La storia della lingua aiuta a capire perché certe abitudini, che a orecchio ci appaiono errate, errate non sono. Dunque, rilassiamoci, almeno nelle situazioni informali. «Bisogna rispettare la lingua ma evitando atteggiamenti aristocratici», avverte Sabatini. E se gli chiedi qual è l’italiano migliore con cui abbiamo a che fare oggi, risponde: «Quello degli scienziati, un italiano bello e pacato, come quello di Rubbia per esempio». La fotografia sociolinguistica dell’Italia non è proprio confortante. Sabatini individua tre strati: una fascia popolare (nella quale sono confluiti anche in maggioranza gli immigrati); un livello medio, fatto di professionisti nei più diversi campi, abbastanza sicuri nell’uso dell’italiano, ma spesso portati al tecnicismo fuori contesto; uno strato più alto e consapevole (coloro che occupano posizioni di autonomia: insegnanti, ricercatori, magistrati eccetera). Sono strati che si caratterizzano per il diverso grado di padronanza della lingua con un altrettanto diverso grado di responsabilità linguistica. Perché esiste anche una responsabilità linguistica: si pensi al peso degli insegnanti nell’avvicinarsi ai giovani ma anche alla responsabilità dei personaggi pubblici che parlano in tv e non solo, magari con il loro snobismo, il loro populismo linguistico (quando non è proprio volgarità) e la loro esibita esterofilia. Bisogna imparare a conoscere la lingua per usarla pienamente come fosse un organo del proprio corpo, perché, appunto: la lingua è dentro di te, come diceva Luzi. Il vero proposito di Sabatini non è tanto quello di soffermarsi sul vasto repertorio degli errori o dei dubbi grammaticali o lessicali, ma di rendere chiari due concetti-chiave: la naturalità e la storicità delle lingue. Si tratta dunque di capire come l’evoluzione biologica, che ci ha portati a essere homo sapiens, abbia predisposto nel cervello aree e funzioni che presiedono alla grammatica, quella grammatica che viene formandosi dentro di noi sin dalla nascita: perché la lingua è un sistema di simboli verbali elaborati nelle complicate reti neuronali del nostro cervello, che esegue lo sminuzzamento e la combinazione di unità foniche minime attraverso cui si producono infinite parole e frasi. Un meccanismo stupefacente. Per renderlo più chiaro, Sabatini propone una serie di esperimenti combinatori. Il lettore troverà molte informazioni sorprendenti: «Quella dell’acquisizione (“apprendimento in modo naturale”) della lingua è davvero una fase vulcanica per il nostro cervello, perché nei primi anni di vita (da 1 a 7, dicono gli studiosi) il bambino impara “una parola ogni ora” in cui è sveglio e ascolta il parlare degli adulti. Occorre però almeno un anno di simile assorbimento prima che si attivi anche il meccanismo della produzione delle parole, cioè che l’individuo cominci anche a parlare...». Deve entrare in gioco la particolare meccanica dell’apparato fonatorio e articolatorio, distribuito tra la laringe e le labbra, considerando anche l’azione di mantice svolta dai polmoni, sotto la spinta del diaframma. E qui si apre un nuovo capitolo. Che cosa avviene quando l’homo sapiens, nella sua evoluzione culturale lunga 100 mila anni, inventa la scrittura? «La scrittura — dice Sabatini — è un’invenzione recentissima, risale solo a 5.000 anni fa: ha prodotto uno sconvolgimento che è ancora in corso e che coinvolge il circuito sensoriale e cerebrale visivo, completamente diverso da quello usato per la lingua parlata». Anche la dimensione storica va allargata, secondo Sabatini: «Non possiamo ragionare nel ristretto ambito delle lingue romanze. Bisogna tener conto di come si è arrivati al latino, collettore di civiltà e di culture ridistribuite a tutto l’Occidente, anche quello germanico o slavo. Non si può dimenticare che attraverso il latino medievale l’inglese si è imbottito di parole di derivazione latina. Ebbene, nella scuola bisognerebbe introdurre una visione molto più ampia del latino, considerarne le origini e gli sviluppi». La prima parte del libro, per così dire teorica, precede la sezione delle letture (brani di vario tipo: oltre a Machiavelli, Montale, Ilvo Diamanti, c’è anche qualche pagina tratta da Odissee di Gian Antonio Stella, Rizzoli) che ai livelli più profondi — avverte l’autore — comportano la comprensione dei meccanismi grammaticali. Anche qui l’approccio si avvale di una visione più scientifica: la cosiddetta grammatica «valenziale», sulla base di collaborazioni con la neurologia, arriva a identificare nel verbo il nucleo generativo della costruzione della frase, implicando un nuovo metodo didattico che permette di svolgere in modo più coerente l’analisi logica e distinguendo varie tipologie di testi (rigidi, semirigidi, elastici). Il libro di Sabatini si conclude ironicamente. Una manciata di usi che il linguista, per quanto elastico e niente affatto purista, non vorrebbe mai vedere accolti nell’italiano? Eccoli: il «piuttosto che» disgiuntivo (invece di «oppure»), la formula transitiva «lo o la telefono», gli inqualificabili «endorsement» o «endorsare» per «appoggio» o «appoggiare», l’orribile «location», il terribile «mission». E la punteggiatura usata disastrosamente come è avvenuto in un decreto legislativo emanato dal Governo il 18 aprile scorso.
Scuola di vita. A cura di Carlotta De Leo. Io studentessa dico: giù le mani dal congiuntivo, scrive il 13 dicembre 2016 "Il Corriere della Sera". "Buongiorno, sono una ragazza di 14 anni e frequento la V ginnasio. Credo nell’importanza della cultura, dell’istruzione e quindi anche delle tradizioni. Per questo penso che valga la pena studiare la nostra lingua e le sue radici. Sono rimasta molto sorpresa, e anche un po’ indignata, nel leggere sulla prima pagina del Corriere di oggi che, anche l’Accademia della Crusca consideri poco importante l’utilizzo del congiuntivo. E quindi avalli un uso improprio della grammatica della lingua italiana. Soprattutto non ne comprendo la motivazione. Capisco che venga tollerato l’uso nel linguaggio parlato di alcune espressioni non costruite come la regola grammaticale e la tradizione vorrebbero. Però che l’Accademia delle Crusca, l’istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana possa approvarlo, lo trovo assurdo. Ciò significa andare verso un impoverimento culturale. La nostra lingua è caratterizzata, rispetto a quella anglosassone, dalla complessità e dalla ricchezza di espressioni che non meritano di essere appiattite. Da studentessa del classico, in un tempo in cui questo liceo viene tanto criticato e ci si domanda l’utilità del grande sacrificio che frequentarlo comporta, penso invece che le regole principali del buon parlare e scrivere vadano difese. Forse anche questi piccoli “cedimenti” contribuiscono alla decrescita del nostro Paese. Ludovica Caprotti. Milano".
Il congiuntivo è vivo e ha la pelle dura. Gli allarmi per la scomparsa del modo verbale si susseguono da settant’anni. Gli errori nel suo uso non mancano ma tutti gli indizi confermano che non corre rischi, scrive Giuseppe Antonelli il 13 dicembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. La quarta di copertina di uno degli ultimi libri di Paolo Villaggio, quello intitolato Mi dichi. Prontuario comico della lingua italiana, recitava così: «Il congiuntivo è una cagata pazzesca». Una frase rivelatrice, visto che il congiuntivo sostituisce qui l’originale riferimento alla Corazzata Potëmkin di Ejzenštejn (nella celebre scena del film Il secondo tragico Fantozzi). Ovvero il congiuntivo come un vecchio classico ormai superato: un arcaico cimelio che la cultura snob e passatista cerca periodicamente di riesumare.
L’estrazione del lutto. Questo è il risultato di una morte annunciata per decenni. Fatto tutt’altro che isolato quando si parla di lingua: stando alla vox populi — anzi — potremmo tranquillamente dire che il congiuntivo è morto, il punto e virgola è morto e anche l’italiano non si sente tanto bene. È quell’atteggiamento irrazionale della psicologia collettiva che potremmo definire «estrazione del lutto». L’irresistibile tendenza a evocare di volta in volta — indipendentemente dalla realtà dei fatti — la morte di tempi, modi, segni d’interpunzione (quando non di interi generi letterari o della letteratura in sé). Anche se si tratta sempre di una morte apparente. Curioso, per contro, che lo stesso riflesso catastrofista non scatti quando davvero qualche istituto linguistico scompare all’orizzonte. Non c’è nessuno, ad esempio, che gridi alla tragedia per la scomparsa ormai irreversibile del trapassato remoto. Nessuno ne piange il trapasso proprio perché in questo caso si tratta a tutti gli effetti di un fossile grammaticale. Nessuno da tempo lo usa più: e allora, inutile piangere sul latte trapassato.
Morto, vivo o congiuntivo. Della presunta morte del punto e virgola, invece, si parla almeno da ottant’anni; di quella del congiuntivo da quasi settanta. «Come in tutti gli esami di concorso — si leggeva nel 1950, in un numero della rivista “Il Ponte” — si constata che la scuola non insegna più la lingua italiana, sì che si scrive sgrammaticato e senza sintassi (c’è tra l’altro nei giovani la morte del congiuntivo)». L’apocalittica profezia è stata condivisa anche da esimi linguisti. Rispondendo a un’inchiesta del 1962 sulla Lingua del Duemila, Giacomo Devoto prevedeva — tra le altre cose — l’imminente scomparsa del congiuntivo. Questa percezione allarmistica continua ininterrottamente fino ai giorni nostri. Una decina d’anni fa, una classe di una scuola media mantovana lanciò con grande successo il Sic («Salviamo il congiuntivo»): un’associazione nata per proteggere quel modo «dai nuovi barbari». Di recente, un cantautore professore — Davide Zilli — ha scritto una canzone che s’intitola Il congiuntivo se ne va («e mentre cambia la grammatica/ ci guarderanno come un vecchio trofeo»).
Mi facci finire. A differenza di quanto è accaduto in francese, in realtà, il congiuntivo in italiano continua a essere usato spesso e volentieri. Anche se non sempre in maniera impeccabile, come ci dice la cronaca politica delle ultime settimane. Dal fantozziano (giustappunto) «mi facci finire» di Alessandro Di Battista al «come vi sareste comportati voi se questi accadimenti avrebbero riguardato altri partiti» di Michela Di Biase fino al più recente «come se presentassi venti esposti contro Renzi, lo iscrivessero al registro degli indagati, poi verrei in questa piazza e urlerei Renzi è indagato» di Luigi Di Maio. Alla fine del 1997, un panettiere di nome Luigi — entusiasta sostenitore del neosenatore Antonio Di Pietro — dichiarava in un’intervista: «Finalmente il partito del popolo ha candidato un uomo del popolo. Uno che sbaglia i congiuntivi come noi». Di strage dei congiuntivi — stavolta per omissione — è stato accusato anche Massimo D’Alema (per frasi come «io ritengo che questa vicenda dimostra che lui è un prepotente») e, in epoca di prima Repubblica, Bettino Craxi («io penso che le nostre possibilità sono limitate»). Commentava Luciano Satta: «Il potere logora i congiuntivi di chi lo detiene». E pensare che nell’ottobre del 1947, in una seduta dell’Assemblea Costituente, uso e significato di un congiuntivo erano stati al centro di un serrato dibattito tra Giuseppe Dossetti, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. «Spero che il gruppo democristiano non pretenderà di farci cambiare la grammatica italiana col peso dei suoi 207 voti», tuonò a un certo punto il segretario comunista.
Abbondandis in abbondandum. Lo stesso Satta, peraltro, in un libro del 1994 intitolato Ma che modo. Usi e abusi del congiuntivo scriveva, a scanso di equivoci: «L’ho detto e ridetto che il congiuntivo è prospero». Un giudizio confermato, dati alla mano, da tutti gli studi successivi basati su diversi insiemi di testi: dai fumetti alle canzoni, dai giornali ai romanzi. Il principale cambiamento rispetto al passato, ci spiegano questi studi, sta nel peso dei fattori che determinano la scelta tra indicativo e congiuntivo. Delle tre funzioni che il congiuntivo ha sempre avuto nella storia dell’italiano (segnalare una frase subordinata, distinguere tra certezza e probabilità, innalzare il livello stilistico) quella che prevale largamente negli ultimi anni è la terza: la funzione stilistica. Il congiuntivo viene percepito come un modo più accurato, fine, elegante. Questo spiega come mai i linguisti si trovino a segnalare sempre più spesso — nelle correzioni fatte dai redattori delle case editrici, ma anche nei discorsi che si sentono per strada o in tv — congiuntivi usati là dove la norma richiederebbe un semplice indicativo. In molti, spinti dall’idea di fare bella figura, cadono in quell’errore che in linguistica si chiama «ipercorrettismo». Come Carlo Sibilia, che in un post di qualche tempo fa su Facebook scriveva: «Meno male che Renzi sia stato fischiato durante il dibattito con il presidente dell’Anpi... Credo che se il Tg1 non abbia detto neanche una parola su quanto è accaduto vuol dire che siamo oltre il regime». O oltre la grammatica. «Abbondandis in abbondandum», come diceva Totò nel dettare a Peppino la famosa lettera per la malafemmina: se no poi «dicono che siamo provinciali, siamo tirati».
Tutti i segreti del congiuntivo inglese (che esiste). Una forma quasi irriconoscibile, ormai presente solo in forme cristallizzate o nel periodo ipotetico. E utilizzata solo in contesti molto formali, scrive LinkPop il 15 Ottobre 2016 su “L’Inkiesta”. Come vi avranno insegnato a scuola, in inglese il congiuntivo non esiste. E come tante altre cose che vi hanno insegnato, anche questa è del tutto sbagliata. Il congiuntivo, il subjunctive, esiste eccome. Lo si usa in varie occasioni (molto rare a dire il vero), dal periodo ipotetico alle esortazioni. Spesso non lo si distingue perché è identico all’indicativo, e per questo si tende (si è teso) a credere che fosse un modo esaurito. La sua forma più semplice è uguale all’infinito, ma senza il to. Come si premurano a far sapere dalle parti di Merriam-Webster con questo video, il congiuntivo si riferisce a cose “contrarie ai fatti” (un modo molto anglosassone per definirle). Esprime dubbi e desideri. E per questo motivo lo si ritrova nel periodo ipotetico quando esprime premesse che non sono realtà. “Se fossi in te, andrei alla festa”. If I were you, I would go to the party. La premessa “Se fossi in te”, cioè If I were you, esprime una non-realtà, una cosa non vera. Non sono te, non lo sarò mai. Per questo non serve l’indicativo, che è il modo dei “fatti”, ma il congiuntivo, che esprime cose “contrarie ai fatti”.
In altri contesti, il congiuntivo non si individua con facilità. Un’eccezione sono le frasi cristallizzate come So be it, o Be it that it may. Be è la forma del congiuntivo (che, si ricorda, coincide con l’infinito ma senza il to) e lo si vede subito. Più arduo invece trovarlo in una frase come It is important that you try to study often: try è congiuntivo o indicativo? Chissà. Solo alla terza persona diventa più chiaro: It is important that he try to study often. Come si vede, è try anziché tries. Non si è di fronte all’errore di qualche sbadato ma alla voluta intenzione di dare alla frase un senso di urgenza e di importanza.
Lo si può trovare dopo verbi come:
to advise (that)
to ask (that)
to command (that)
to demand (that)
to desire (that)
to insist (that)
to propose (that)
to recommend (that)
to request (that)
to suggest (that)
to urge (that)
o espressioni come:
It is best (that)
It is crucial (that)
It is desirable (that)
It is essential (that)
It is imperative (that)
It is important (that)
It is recommended (that)
It is urgent (that)
It is vital (that)
It is a good idea (that)
It is a bad idea (that)
POPULISMO. KITSCH, TRASH E CATTIVO GUSTO.
Kitsch Kitsch Kitsch, hurrah! Tutti ne parlano, nessuno sa bene cos’è. Per definirlo sono state usate diverse categorie. Spesso però non si trova nell’opera ma nello sguardo dello spettatore. Che la trasforma in un feticcio. Come accade con la Gioconda, scrive il 19 settembre 2014 Umberto Eco su "L’Espresso". Del Kitsch tutti parlano ma nessuno sa bene che cos’è, e non per colpa di chi non sa, ma delle infinite analisi e definizioni che sono state date di questo concetto. Leggo ora il bel libro di Andrea Mecacci “Il Kitsch” (Il Mulino, euro 12,50), che consiglio a persone colte, a studenti e (senza offendere nessuno) a molti studiosi. L’autore, esaminando tutta la vasta letteratura in argomento, ci aiuta a capire le vicende del Kitsch, spaziando dal cattivo gusto alla pseudo arte, al camp, a varie forme di post-moderno e al trash. Mi ero occupato di Kitsch agli inizi degli anni Sessanta, in quel mio “Apocalittici e Integrati” di cui alcuni stanno benevolmente celebrando il cinquantenario, ma questo libro mi fa nascere molte nuove idee. Direi che è facile definire Kitsch il gusto degli altri, i nanetti da giardino, i romanzi sentimentali, i castelli di Luigi di Baviera, tutto il gusto del passato, e via dicendo. Ma non credo si debba essere razzisti o esteti. Perché negare a qualcuno il piacere di contemplare Gongolo ed Eolo tra le dalie, o le cose che piacevano tanto a Madame Bovary, «dame perseguitate precipitanti in deliquio in padiglioni solitari… tumulti del cuore, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, barchette al chiaro di luna»? E perché negare a molti di prediligere immagini che suscitano sensazioni sentimentali come le foto dei bambini o i cuccioli in porcellana, anche se Kundera ci ricordava che è naturale pensare come siano belli i bambini che corrono sul prato ma è Kitsch lacrimare pensando «Come è bello essere commossi insieme a tutta l’umanità alla vista dei bambini che corrono sul prato»? Uno dei problemi del Kitsch è che è difficile definire un oggetto che sia Kitsch in sé, e si pensi al modo per cui gli oggetti del salotto di nonna Speranza fossero commoventi per Gozzano, Kitsch per i suoi primi lettori, e non lo siano più per il gusto “retro”, “vintage”, o “camp”. Rimarrei fedele a una mia vecchia nozione di Kitsch nell’oggetto per quello che definivo (e Mecacci consente) il boldinismo nell’arte. Boldini dipingeva ricche signore, pagato da loro e dai loro mariti, e le faceva capaci di stimolare effetti non solo sentimentali ma sicuramente carnali, rendendole sensuali e desiderabili, almeno dalla testa alla vita. Sotto la vita era invece uno sfarfallare di pennellate che evocavano la pittura impressionista (e che bravo informale sarebbe stato Boldini…). Così Boldini contrabbandava un quasi-porno con una citazione artistica, un poco come più tardi “Playboy” avrebbe reso accettabili i suoi onestissimi nudi accompagnandoli a testi di autori celebri, che automaticamente diventavano supporti Kitsch. E, sempre parlando di Kitsch nell’oggetto, citerei non gli onesti romanzi o film porno (che vendono esattamente quel che promettono, senza pretendere di fornire emozioni estetiche) ma certamente “Emmanuelle” e “Histoire d’O”. Però nella maggior parte dei casi il Kitsch consiste non nell’oggetto bensì nel nostro sguardo. Facciamo l’esempio principe. La Gioconda è certamente una grande opera d’arte e alcuni (dico solo alcuni) di coloro che vanno al Louvre vogliono ammirarla e goderla come tale. Ma la massa dei turisti, che la vede da molto lontano, e si accalca intorno al quadro in misura preoccupante, in effetti “vede” la Gioconda ma non la “guarda”, tenta forse di fotografarla (mentre potrebbe trovare ottime riproduzioni in Internet, dove si può seguire la pennellata), e calpestandosi l’un l’altro per dire “io l’ho vista”, trascura gli altri immensi capolavori della stessa sala e delle sale accanto. E in tal modo la Gioconda, non per sua colpa, diventa feticcio Kitsch. Del pari è accaduto alla Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, grande quadro, trattato con rispetto dal film che ne racconta la storia, anche se ne dà inizio involontario alla feticizzazione. L’infelice fanciulla, una volta esposta a Bologna, ha attirato delle folle che (solo in gran parte, per fortuna) volevano semplicemente accostarsi al feticcio.
Tra kitsch e trash: il cattivo gusto è l'altra faccia del populismo. In politica e nello spettacolo spopola il cosiddetto “cattivo gusto”, che sembra strettamente connesso con l’avvento dei populismi, e non solo. E che oggi, complici social e nuovi media, sembra l’unica estetica in grado di funzionare a livello globale, scrive Marco Belpoliti il 15 dicembre 2016 su "L'Espresso". Donald trump è kitsch oppure trash? La casa dove vive, la Trump Tower, con i suoi arredi, i mobili, la camera da letto, i ninnoli del salotto, i sanitari, è kitsch o trash? E come sono i suoi vestiti, gli abiti della moglie e del figlio, la tinta dei capelli? E Beppe Grillo come lo si può definire dal punto di vista estetico: kitsch o trash? E il video del giapponese Pikotaro che, a tre anni dal precedente di “Gangnam Style”, sta collezionando milioni di visualizzazioni in tutto il mondo? Trash o pop-kitsch? Che rapporto c’è tra Pikotaro e Trump? Politica e spettacolo uniti nel trash? Per rispondere a questa domande bisognerebbe spiegare in cosa consistono categorie che riguardano il cosiddetto “cattivo gusto”, il quale sembra strettamente connesso con l’avvento dei populismi, e non solo. E che oggi, complici social e nuovi media, sembra l’unica estetica in grado di funzionare a livello globale. Se Hermann Broch, lo scrittore e filosofo austriaco sfuggito al nazismo, spiegava ai suoi attenti studenti di una università americana che l’essenza del kitsch consisteva nello scambio tra una categoria etica e una estetica, oggi si potrebbe davvero dire lo stesso? E che ne è del “camp”, che Tommaso Labranca nel fondamentale “Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash” (Castelvecchi) uscito nel 1994, cartografia della nascente epoca berlusconiana, aveva descritto insieme al kitsch e al trash? Marx sosteneva che nella storia gli eventi si ripetono: la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma forse non è proprio così. Siamo immersi in una farsa, che può evolvere in tragedia, e in tutto questo il gusto sembra avere un ruolo importante, o almeno fungere da indicatore e sintomo. Secondo alcuni la parola kitsch deriverebbe dall’inglese sketch, “schizzo”, ovvero dalla consuetudine che avevano nell’Ottocento i turisti inglesi di comprare quadri e riproduzioni a poco prezzo nei mercatini; per altri invece verrebbe dal verbo tedesco kitschen: “raccogliere fango per strada”, o anche “spacciare mobili nuovi per antichi”, secondo una espressione usata nella Germania meridionale. Un novero di definizioni davvero inconsuete, che ci spingono a chiederci se il kitsch in definitiva sia sempre esistito o se invece sia solo il prodotto della modernità. Le varie minoranze che continuano a credersi privilegiate, anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia. E non si sono rese conto che il trumpismo estetico è già qui, vincente, anche da noi. Nerone che suona la cetra contemplando l’incendio di Roma cosa è? Kitsch? Possibile. Di sicuro lo sviluppo industriale nel corso dell’Ottocento e del Novecento ha trasformato questo fenomeno di nicchia in una esperienza di massa. Abrahm Moles negli anni Settanta ha scritto che tre sono i fenomeni che producono il kitsch alla fine del XIX secolo: la predominanza degli oggetti, il culto della bellezza e il consumismo. Una miscela che fa deflagrare le categorie estetiche tradizionali. Milan Kundera nell’“Insostenibile leggerezza dell’essere” sostiene che questo kitsch è ciò che permette di eliminare dal campo visivo degli uomini tutto ciò che è intollerabile, inaccettabile. Il kitsch non sarebbe altro che la negazione della merda. Lo scrittore ceco parla della «dittatura del cuore» ed espone la teoria della «seconda lacrima»: il sentimento del sentimento che provoca commozione. Una falsa liberazione dagli impicci della vita quotidiana trasferita sul piano del gusto. Nella seconda metà del Novecento il kitsch si è trasformato nella «grammatica culturale del ceto medio», sostiene Andrea Mecacci in “Il kitsch” (il Mulino). È quello che Dwinght McDonald ha chiamato “midcult”, oggi dominante anche in letteratura, per cui, scriveva negli anni Sessanta McDonald, “Il vecchio e il mare” di Hemingway è decisamente kitsch. Umberto Eco e Gillo Dorfles sono stati tra i più acuti studiosi del fenomeno; il primo si è occupato della cultura di massa in “Apocalittici e integrati” (Bompiani), uscito oltre cinquant’anni fa, mentre Dorfles ha pubblicato nel 1968 un libro fondamentale: l’antologia commentata “Il kitsch. Antologia del cattivo gusto” (Mazzotta). Il “cattivo gusto” è diventato un linguaggio estetico autonomo da cui non si può più prescindere. Alla fine degli anni Sessanta, agli albori del postmoderno, perde la sua forma tradizionale, s’ibrida e si trasforma in pop-kitsch. La falsificazione, scrive Mecacci, diviene l’autenticità, il simulacro è l’archetipo e la copia il modello. Non è quello dei castelli di Ludwig in Baviera, e neppure i ristoranti e le stazioni di servizio di Los Angeles o gli alberghi di Las Vegas, o ancora Disneyland. Tutto può essere kitsch. In questo modo diventa un modello culturale. Sorge allora il “neo-kitsch”, come lo definisce Dorfles. All’inizio degli anni Ottanta assurge poi a vero e proprio “metodo di lavoro”; il designer Alessandro Mendini lo chiama “progetto amorale”. Uscito dal limbo piccolo-borghese, dalla definizione limitante di “cattivo gusto”, s’impone attraverso il movimento Memphis di Ettore Sottsass come lo stile estetico del decennio. Lo stesso design Made in Italy dei due decenni precedenti, razionalista e calvinista, evolve verso questa modalità estetica che s’autorizza da sola. La formula la dà Robert Venturi, l’architetto di “Imparare da Las Vegas” (Quodlibet) del 1972: «Il meno è noia». Appare allora il trash che a metà dei Novanta Labranca definisce in modo icastico attraverso esempi tratti dalla televisione e dallo spettacolo. Il diritto alla volgarità diventa nell’epoca berlusconiana un fatto assodato. La neo-televisione ne è il maggior diffusore mediatico. Anticipati dalla celebre battuta di Fantozzi («Per me... La corazzata Potiomkin… è una cagata pazzesca»), gli anni Novanta sono definiti da questa estetica che funge anche da categoria antropologica. A mettere in circolazione il termine è stato Warhol con il film da lui prodotto, “Trash”, girato da Paul Morrissey e interpretato da Joe Dalessandro: nel 1970. Mecacci ricorda anche l’altra straordinaria pellicola del decennio, “Pinks Flamingos” (1972) di John Waters, che però già inclina verso il camp. Labranca ha sintetizzato nel suo volume le cinque caratteristiche del trash: assoluta libertà del proprio gusto, contaminazione, incongruità, massimalismo, ed emulazione fallita. La nuova estetica se ne frega della cultura alta; non si misura più con lei, e usa la categoria della parodia per inglobare l’intero universo culturale tradizionale stravolgendolo. Il trash si sostanzia nell’appariscenza, nel gusto trasversale, nel “dire le cose in faccia”. In questo senso Trump è senza dubbio trash, anche se il gusto estetico che ostenta è piuttosto kitsch. Il trash è senza dubbio contagiato dal kitsch, che sembra possedere una forza estetica e pervasiva superiore. E il camp? Risultato del dandismo ottocentesco, che ha avuto in Oscar Wilde il suo profeta, il camp esprime ungusto che ha pervaso molti aspetti dell’estetica contemporanea. La parola ha un’origine altrettanto incerta. Probabilmente viene dall’italiano “campeggiare”, termine usato per descrivere un attore che esagera sulla scena, che ha un rapporto privilegiato con il pubblico; oppure dal francese “se camper”, termine anche questo teatrale: vanità, eccesso nel presentare se stessi. Il camp appartiene in origine alla cultura gay, come ha spiegato nel 1964 Susan Sontag in “Note sul camp”: «Esprime una sensibilità, che ha la sua forma nell’eccesso, nell’innaturale, nell’artificiale». Si tratta di una forma d’estetismo, si pensi ai film di Almodóvar, che non punta sulla bellezza o il cattivo gusto, come il kitsch, bensì sull’artificio e la stilizzazione. Alberto Arbasino con “La bella di Lodi” ha scritto il romanzo del camp all’italiana e nel contempo ne è stato l’ironico fustigatore: camp al camp.Come spiega Fabio Cleto in “Pop Camp” (Riga, Marcos y Marcos), mentre il kitsch presuppone la negatività dell’oggetto, il camp fa collassare la relazione tra soggetto e oggetto. Trump e Grillo non potrebbero mai essere camp, non solo per evidenti forme di machismo, ma perché il kitsch che praticano contempla sempre un’idea di bellezza, da cui si discosta, rovescia, trasforma, ma alla fine comunque accetta. Il trash ne prescinde, e forse per questo è delle tre realtà estetiche la più fluttuante, la più incerta. Ma cosa è diventato oggi il kitsch? Nel 2012 in una mostra allestita alla Triennale (“Kitsch: oggi il kitsch”, Editrice Compositori), Dorfles ha cercato di delineare in cosa consista oggi questa estetica. In un saggio di quel catalogo Fulvio Carmagnola sostiene che a dominare è oggi la performance, il passaggio dalla “contraffazione” alla “coazione”. I grandi sistemi mediali costringono i fruitori contemporanei nella camicia di forza dell’Arte: tutto è estetico e tutto è contemporaneamente kitsch. A dominare negli ultimi vent’anni è il godimento, una categoria che Immanuel Kant aveva escluso dal piacere estetico, ma che è diventata la forma pervasiva della attuale addiction. Non si desidera più una “cosa”, oggetto o gadget. Fondamentale è il “come” desiderare. Il filosofo Slavoj Žižek sostiene che importa oggi «come godere»; è l’obbligo contemporaneo a godere che ha avuto in Berlusconi uno dei suoi principali aedi. L’oggetto in senso materiale, sostiene Dorfles, non è più il centro del kitsch attuale. Nell’epoca dei social network nell’area del kitsch, come del trash, fratello minore, entrano tutta una serie di performance sentimentali: la sincerità e l’autenticità diventano valori cui conformarsi. La contraffazione si trasforma, scrive Carmagnola, in coazione. Il sentimento evolve in “sentimentalità”, nel sentimento di secondo grado, e il campo estetico è divenuto immateriale, centro propulsivo del sistema produttivo attuale. Senza il kitsch nessuno sviluppo possibile? Ora che Trump è arrivato alla Casa Bianca c’è da rifletterci.
Donald Trump, Melania e quell'estetica che trionfa anche da noi. Le varie minoranze che continuano a credersi privilegiate, anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia. E non si sono rese conto che il trumpismo estetico è già qui, vincente, anche da noi, scrive Natalia Aspesi il 23 novembre 2016 su “L’Espresso". Meno male che il trumpismo estetico e di pensiero già da anni trionfa anche da noi, per quanto inascoltato o ridicolizzato da menti eleganti; figuriamoci adesso. Quindi il trauma che per qualche giorno ha sconvolto il popolo di retaggio democratico, è stato subito sotterrato dal giubilo di chi senza saperlo, dal profondo di una Padania alla riscossa e ora estesa sino alla Sicilia, aveva preceduto le ideologie trumpiste, confermate poco tempo fa da un selfie con un festoso maschio populista milanese di 43 anni e un imbambolato razzista (e adesso presidente designato Usa) miliardario newyorchese di 70 anni. Del resto anche i superstiti di una pericolante ideologia democratica, un paio di giorni dopo i singhiozzi, pur continuando i commentatori più accreditati a sviscerare il fenomeno trumpismo senza badare al totale disinteresse dei trumpisti, hanno subito ripreso ad aggredirsi in puro stile trumpista per il meno epocale degli eventi, quello del Sì o del No, essendo il mondo italiano irrimediabilmente autoreferenziale, e per assurda presunzione, piccolo, sordo e cieco. Abbandonando quindi al fato, ai giovani americani bianchi e neri che adesso, ma non prima, protestano, e agli umoristi, (vedi l’irresistibile hashtag “trumpyourcat” con poveri micini lordati dal celebre ciuffo trumpiano, horror che ha certo contribuito alla sua popolarità), a spicciarsela con un impensabile presidente praticamente del mondo, di cui è piaciuto non solo il programma mortuario soprattutto a chi ne morirà, ma anche il volto tinto di arancione e l’avere avuto, lui così poco fascinoso (a parte i soldi), tre mogli ex bellissime, tutte rifatte, con certe bocche uguali al divano rosso disegnato da Dalí. Del resto è un’ovvietà ricordare che da decenni migliaia di belle italiane non rassegnate, cinquantenni e molto oltre, persino le dalemiane, accompagnano alle bocche artificiali non particolarmente trumpettiane lo sguardo immobile della disperazione. Emozione che manca, assieme a tutte le altre, alla nuova first lady Melania e alle tante Trump, ex mogli, e figlie e nuore, tutte uguali, contentissime di essere quello che sono, comunque belle secondo il canone showgirl, anche da noi il più apprezzato, e soprattutto ricchissime. Qui nasce anche per l’Italia il grande problema del mondo fashion, che per la prima volta ha in parte infranto l’usuale silenzio in politica, e ha preso una cantonata, con qualche grande stilista o industriale del ramo che si è dichiarato prima pro Hillary Clinton, e poi pure dispiaciuto per la sua sconfitta: e la potentissima direttrice di Vogue America, l’eternamente bella e sfingea Anna Wintour, che non solo ha messo in copertina del numero di ottobre una nera, l’attrice Lupita, ma in quella di novembre addirittura Michelle Obama, già apparsa in passato su altre due copertine della rivista di moda e mondanità più venerata al mondo; in più, raccogliendo personalmente fondi per la campagna dell’aspirante presidentessa democratica. "Quelle parole, per me, erano offensive e inopportune. Ma mi ha chiesto scusa e l'ho perdonato". Così Melania Trump, moglie del magnate candidato alla Casa Bianca, ha cercato di porre la parola fine alle polemiche che hanno investito il marito dopo la diffusione di un video sessista. "Ero sorpresa", ha aggiunto, "perchè questo non è l'uomo che conosco". Chi si aspettava, data la grossolanità del marito, che Melania si vestisse d’oro e gemme, è rimasto fregato: perché la Nuova Prima Signora è stata una modella, arrivata dalla Slovenia a Milano poi a New York, dove si è sistemata con quel facoltoso marito e le è rimasto un gusto alta moda oggi in vita soprattutto per la diffusione tra ricchi russi, kazaki e cinesi. E per esempio all’investitura a presidente del babbo del suo decenne figlio sbadigliante Barron, indossava un abito lungo bianco semplicissimo di Ralph Lauren, molto amato anche da noi, comprato in boutique senza il di solito indispensabile intervento dello stilista: il quale per tutta la campagna elettorale aveva abbigliato Hillary, incastrandola in tailleur da nonna briosa che hanno accentuato, punendola, la sua immagine establishment. Comunque la buona e indifferente Melania, truccata e pettinata come tutte le ultraquarantenni anche italiane aggrappate al loro freddo fascino come a una professione, si è già vestita anche Gucci, anche Fendi, insomma come le pare; e come le coetanee italiane che se lo possono permettere, ma che se democratiche, tolgono l’etichetta, assicurando di abbigliarsi solo a 50 euro al pezzo. Oltre ai tanti epocali Perché che gli esperti hanno scoperto dopo, e non prima della vittoria di Trump, ce ne sono anche alcuni fino ad ora trascurati perché terra-terra e quindi indecifrabili alle élite politico-culturali; eppure possibili anche da noi, dove alcuni similtrumpettisti raccolgono sempre più adepti, nello sconcerto dei più raffinati pensatori sempre in tivù o sul web, e mai, come ha scritto su Repubblica Paolo Rumiz, in tram. Le varie minoranze che si credevano e continuano a credersi privilegiate anche per raffinatezza, non hanno creduto al potere della rabbia: non solo nata dalla paura e dalla crisi economica e dalla rivoluzione tecnologica, ma anche dal formarsi di un nuovo sogno rivoluzionario, rappresentato anche per noi dal nuovo presidente americano. Infatti. Trump non paga le tasse come tutti vorrebbero poter fare; Trump non è solo ricco, ma esibisce la sua ricchezza più dello stesso nostro finto ricco Briatore; Trump non si vergogna di avere i rubinetti similoro nei bagni del suo enorme aereo privato; Trump ha a New York il più orribile immenso appartamento che incubo umano possa realizzare e che pure aleggia nel desiderante immaginario popolare, una finta Versailles ma tutta d’oro, marmo e cristalli e colonne corinzio-barocche, finti Renoir, finte poltrone Luigi XIV; fontane zampillanti nei tanti saloni, persino un pianoforte a coda bianco tipo Liberace. Trump risdogana (da noi già fatto) gli anziani boriosi che se ne stavano nascosti nei loro investimenti fruttuosi; libera la pancia senza la corazza del doppiopetto, le cravatte lucide lunghe oltre l’addome, il berretto da baseball a teatro; rende eroico chi non ha mai letto un libro, pugnala al cuore i vegani e i pazzi per il sushi, fa apparire squallide le collezioni sofisticate di arte concettuale, inutili gli autentici mobili Bauhaus. E già furoreggia il mercato del Fasto per tutti, a prezzi scontati: offerte da “Sogno”‚ o da “Favola” o di “Classe” o da “Mille e una Notte” e sempre Esclusive; ogni cosa Luxury, dallo “streetwear” all’“influencer strategy”. Abbiamo avuto la Milano da bere negli anni Ottanta, quando le uniche donne ammesse alle ovazioni erano le top model, super belle giganti mai viste prima e infatti velocemente accasate con miliardari o potenti di ogni genere; poi si sa che anche da noi mezza Italia ha più volte votato un riccone in età anche lui tinto di arancione e con drammi piliferi meno disinvolti: che però rispetto alla paura che suscita il tanto più robusto e minaccioso Donald, con quella piccola bocca che i nostri nonni avrebbero definito, pardon, “a culo di gallina”, oggi ci appare come un buon uomo di cui ci si dimenticherà presto, comprese le sue immense e brutte proprietà da vacanza in stile Palm Beach, anche se ci ha assuefatto alle leggi ad personam e al Grande Fratello. Però la ricchezza ostentata e quindi improvvisamente raggiunta, a differenza di quella solida, antica e incrollabile vissuta nell’ombra, l’abbiamo sempre presa in giro, e non solo quegli italiani che privi di elicottero privato e di isole personali nel Pacifico, si sentivano protetti e dalla parte giusta perché in possesso di tutto Stendhal e della lampada Arco di Castiglioni. Nel ’46 si rideva con l’Anna Magnani che faceva la ricca borsanerista in “Abbasso la ricchezza”, nel 2012, “Reality” di Garrone volutamente ci rattristò con il matrimonio camorrista e gli sposi in carrozza d’oro che era la pura verità, come si è visto poi con i funerali e i matrimoni Casamonica; con “La grande bellezza” Sorrentino stigmatizzò la Roma della ricchezza fatua e disperata, il settimanale Chi incantò o offese il suo vasto pubblico, con la fotografia di un Natale in casa Berlusconi, in cui giganteggiava una tavola grande come piazza San Pietro, ricoperta di una immensa tovaglia di broccato rosso e vasto vasellame tipo oro. Attualmente su Sky Atlantic Sorrentino per la serie “The young Pope” mostra lussuose feste in opulenti appartamenti romani, con ospiti imbruttiti, invecchiati, spaesati dalla ricchezza: in contrasto si pensa con l’invenzione di un Vaticano di gloriosa sobrietà carica di arte e di vuoti. Insomma con tutto lo spavento che dilaga nel mondo per la nuova America di Trump, probabilmente anche simulato in certi ambienti troppo eleganti per rallegrarsene in pubblico, e tutti i mea culpa di chi riteneva questo diluvio impossibile, e finalmente la scoperta sorprendente che esistono, come ha ricordato Ezio Mauro sull’Espresso , i “forgotten men” e pure le “forgotten women”, quelle che non hanno alcuna fiducia nel potere alle donne perché una volta lì non è detto che si occupino delle altre donne. Il 53% delle donne americane bianche ha votato per Trump: perché promette il cambiamento e non importa quale: la stessa bugia che scorre da noi.
I NOBEL D’ITALIA.
Nobel per la Letteratura, i premiati italiani. Nel giorno dell’assegnazione del Nobel per la Letteratura e della scomparsa di Dario Fo, che lo ricevette nel 1997, ripercorriamo la storia del prestigioso riconoscimento letterario attraverso gli autori italiani ai quali è stato conferito, scrive "Il Corriere della Sera" il 13 ottobre 2016.
1. Giosuè Carducci, 1906. «Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica». Con questa motivazione venne assegnato nel 1906il premio Nobel per la letteratura al poeta Giosuè Carducci, il primo autore italiano a vincere il riconoscimento letterario.
2. Grazie Deledda, 1926. Il 10 dicembre 1926 all’autrice italiana Grazia Deledda, famosa, tra le altre opere, per il romanzo Canne al vento (1913), venne conferito il premio Nobel per la letteratura. Questa la motivazione: «Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».
3. Luigi Pirandello, 1934. Drammaturgo, scrittore e poeta, Luigi Pirandello fu insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1934 «per il suo audace e ingegnoso rilancio dell’arte drammaticae scenica». Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l’innovazione del racconto teatrale è considerato tra i maggiori drammaturghi del XX secolo.
4. Salvatore Quasimodo, 1959. Il poeta italiano Salvatore Quasimodo è stato uno degli esponenti di rilievo dell’ermetismo italiano. Si impegnò nella traduzione di liriche dell’età classica, soprattutto quelle greche, ma anche di opere teatrali di Molière e William Shakespeare. Vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1959. La motivazione: «Per la sua poetica liricità con cui ha saputo esprimere le tragiche esperienze umane dei nostri tempi».
5. Eugenio Montale, 1975. «Per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni». Con questa motivazione fu assegnato il premio Nobel per la letteratura al poeta italiano Eugenio Montale nel 1975, autore di un importante corpus di opere, in particolare, nel 1925 di Ossi di seppia.
6. Dario Fo, 1997. L’ultimo autore italiano ad ver vinto il Nobel è stato Dario Fo, morto all’età di 90 anni giovedì 13 ottobre. Questa la motivazione dell’Accademia di Svezia: «Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi». Era il 1997.
Magari avrete sentito parlare di un certo Dario Fo, il Nobel per la Letteratura, il giornalista Mentana o l’esperto di Divina Commedia Roberto Benigni. Sono esempi di persone famose che non hanno ottenuto la laurea ma raggiunto lo stesso importanti traguardi.
Dario Fo - “Mistero Buffo” è il titolo della sua opera teatrale più famosa, ma anche un attributo che calza bene alla faccia comica, misteriosa e umoristica che ha portato questo saltimbanco moderno a celebrare l’Italia nel mondo grazie al premio Nobel per la Letteratura. All’università non avrà preso la laurea, certo, ma ha guadagnato un riconoscimento forse più gratificante.
Da Salò all'anarchia al Nobel: il grammelot la lingua della sua vita, scrive Angela Azzaro il 14 ottobre 2016 su "Il Dubbio". Ha inventato un idioma nuovo contro il potere e a favore degli ultimi protagonisti del teatro degli anni Sessanta, ha messo in scena le istanze di una generazione. Eclettico, per alcuni anche troppo. Il giorno in cui nel 1997 arriva la notizia che Dario Fo ha vinto il premio Nobel, le facce sono tutte un po' così. Come quelle di oggi davanti al riconoscimento dato a Bob Dylan. Un po' incredule, un po' sdegnate, un po' anche felici. Dario Fo per molti in Italia non era uno scrittore, un vero scrittore, era un attore, poco più di un giullare. Ma invece quel premio non solo era meritato, ma era perfetto per la sua attività di scrittore, di inventore di una lingua - il grammelot - che poi è stata anche la colonna sonora della sua vita variegata, ricca, spuria. Ma che cosa è il grammelot? Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Fo nasce a Sangiano il 24 marzo del 1926, ancora piccolo si trasferisce a Porto Valtravaglia: sono paesini della Lombardia, popolati da pescatori di frodo, da contrabbandieri, da girovaghi. E' da questi personaggi, dalla loro lingua mescolata con la commedia dell'arte, che Fo tira fuori una cosa mai sentita prima, una serie di fonemi inventati ma efficaci: è la nascita del suo stile, della sua poetica, del suo mondo artistico: dissacrante, irriverente, immaginifico. Ancora non è nato Mistero Buffo, ma negli anni 50 Fo è già lì che scalcia, che ci prova, che vuol entrare nel mondo di quel teatro che lo vedrà grande protagonista per tutto il 900. Non è un caso che fin da subito va in scena al Piccolo insieme a un altro grande della scena milanese, Franco Parenti. Sono i primi monologhi, recitati in radio, che prendono il nome di Poer Nano. Il vero incontro, che gli cambierà la vita, deve ancora avvenire. Nella compagnia delle Sorelle Nava, incontra Franca Rame, giovane, brava, bella. Si sposeranno nel 1954 e non si lasceranno fino alla fine. «Sogno sempre Franca - raccontava negli ultimi giorni prima di morire - Ma va sempre via». Lei lo aveva lasciato nel 2013. Negli anni 50, il periodo d'oro sta per iniziare. Ma prima è come se la coppia Fo-Rame debba avere il vero battesimo di fuoco: la censura da parte della Rai. Visti i successi, nel '62 gli viene offerta la conduzione del programma più famoso, il programma per eccellenza, Canzonissima. Alla Rai di Ettore Bernabei non vanno giù i monologhi dei due attori: troppo politici, troppo rivolti ai temi sociali. Provano a mettere bocca su quanto dicono e la coppia, dopo sette puntate, lascia la trasmissione tra le polemiche. Per quindici anni non metteranno più piede a Viale Mazzini, per 15 anni saranno tenuti lontani dal piccolo schermo. Ci torneranno nel 1977 con Il teatro di Dario Fo, ma ormai lui è una star a livello mondiale. La svolta vera è il '68. Il Pci e le case del popolo, che per anni diventano il suo palcoscenico, lasciano il posto alla rivolta, a un teatro che sfascia tutto e che appoggia la protesta o la denuncia come è il caso di Morte accidentale di un anarchico, dedicato al caso Pinelli. Seguono Pum, pum! chi è? la polizia! Oppure Il Fanfani rapito, dove rabbia e satira si mescolano. Si disegna il profilo di un Fo impegnato, dalla parte dei "compagni": insieme a Franca Rame crea il gruppo Nuova scena e il collettivo La Comune, ma è con Soccorso rosso che dà una mano concreta a coloro che hanno problemi con la giustizia come Sofri, Pietrostefani, Bompressi, accusati di aver ucciso Calabresi dal pentito Marino, che diventa anche oggetto di un'altra sferzante commedia. Sono gli anni più forti, sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista politico. Fo è Fo, rappresenta artisticamente una generazione, un modo di vedere il mondo. Un incanto che forse per lui ma anche per il pubblico, non si ripete più. Allora bianco e nero sono netti, è facile scegliere da che parte stare e Dario Fo ha dalla sua la forza di una mimica che sovverte tutto, come voleva fare quella generazione. L'incanto dopo finisce. I decenni successivi sono più complessi, anche politicamente. Dario Fo nel 2005 tenta di diventare sindaco di Milano, ma non ci riesce, pur essendo stato in precedenza consigliere comunale. Ormai la sinistra gli sta stretta, anche se lui fino alla fine continua a dichiararsi tale. La svolta arriva con il Popolo viola prima, poi con il Movimento Cinque stelle. Per molti è un tradimento. E' soprattutto in questa occasione che rispunta la polemica sul suo aver fatto parte, giovanissimo, della Repubblica di Salò. Fo tenta di negare, poi di minimizzare: «Lo ho fatto per coprire mio padre antifascista», disse una volta. Ma è un discorso che non affronta mai volentieri. Fino a quando non trova la nuova casa. Sui Cinque stelle dirà che gli ricordano le case del popolo, che sono il futuro. Diventa un loro nume tutelare. Grillo anche ieri lo ha omaggiato con parole di grande calore: «Resterai sempre con noi». Fo, negli ultimi anni, non ha perso occasione per appoggiare i suoi ragazzi, bacchettando quella sinistra di cui aveva fatto parte. Eppure, per chi ha amato la sua inventiva (qualcuno ha parlato visto l'eclettismo di un Leonardo dei nostri giorni) fa effetto pensarlo dedito a un movimento che sembra non amare la cultura e preferisce solleticare la pancia delle persone. Viene in mente il titolo di una sua commedia - che ricorda anche Fulvio Abbate: il padrone vince perché sa mille parole, l'operaio solo cento. Eppure negli ultimi anni, Fo sembra si sia adattato a chi fa leva sulle cento parole, che non si sforza di inventare una lingua nuova, un ragionamento nuovo. Per fortuna, lui lo ha fatto. E ci lascia le sue opere. La storia dei grandi artisti, non solo nel caso di Fo, ma sempre, va al di là delle piccole o grandi biografie politiche.
È morto Dario Fo. Si è spento a 90 anni. Da qualche giorno era ricoverato in ospedale. Drammaturgo, attore e regista: Nobel nel 1997, scrive Luca Romano, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". Si è spento Dario Fo. Drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore e scenografo. Premio Nobel per la letteratura nel 1997, Fo aveva 90 anni. Con la moglie Franca Rame, per oltre 50 anni, ha rivoluzionato il mondo artistico italiano. Era ricoverato da 12 giorni all’ospedale sacco di Milano. Da sempre affermava di aver vissuto una vita "esageratamente fortunata". Era figlio di un ferroviere e da un paesino del lago Maggiore ha mosso i primi passi nella sua carriera artistica. La sua vita è stata diversa, vissuta su tanti fronti. Prima le esperienza all'Accademia di Brera, poi la guerra e la divisa della Repubblica di Salò. E ancora: l'esperienza in radio con i testi radiofonici con Franco Paraenti e Dyrano al Piccolo di Milano con "Il dito nell'occhio". C'è spazio anche per il cinema con Lo sviato di Carlo Lizzani. Ma è l'incontro con Franca Rame a segnare la sua vita. Compagna per sempre. Colpo di fulmine e matrimonio in Sant'Ambrogio a Milano. Con lei prendono forma Gli Arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, La signora è da buttare. Poi il grande successo di Mistero Buffo nel ‘69, dove Fo riprende a modo suo la lezione dei fabulatori e dei cantastorie. Negli anni '70 un susseguirsi di satire pungenti, sulle quali Dario spandeva a piene mani il suo grammelot, folle assemblaggio di suoni di parlate diverse, nonsense linguistici. Una invenzione narrativa che, insieme con l’imponente corpus drammaturgico, quasi un centinaio di testi teatrali, gli valse nel 1997 il Nobel per la letteratura. Poi la morte della sua Franca nel maggio del 2013. Perde un po' la luce negli occhi. E dopo Franca va via anche l'amico Jannacci. Negli ultimi anni aveva abbracciato la causa grillina diventando amico di Casaleggio, recentemente scomparso. Ora se n'è andato anche lui a 90 anni nel giorno in cui (beffa del destino) verrà assegnato il Nobel per la letteratura 2016.
Addio Dario Fo: "Io, populista e me ne vanto". Il drammaturgo scompare a 90 anni. Riproponiamo qui il suo ultimo intervento per l'Espresso del 13 agosto 2016. In cui difendeva il suo percorso a fianco dei movimenti, contro il potere. C’era da aspettarselo, ma è successo anche questo: mi hanno dato del populista. È accaduto sulle pagine de “l’Espresso” di domenica 21 agosto 2016. L’autore dell’articolo dove tranquillamente mi si affibbia questo termine è Marco Belpoliti. Il mio detrattore insegna Sociologia della letteratura e Letteratura italiana all’Università di Bergamo. Il letterato impiega il termine “populista” nell’accezione negativa in voga da qualche anno in Italia, cioè quella di considerare il populismo una sorta di pretestuoso espediente per imbonire furbescamente una comunità di semplici creduloni facili ad essere gestiti con qualsiasi argomento. Ora mi sembra strano che un docente universitario si sia lasciato andare ad un uso così smaccato di una parola tanto palesemente mistificata. Ma che origine ha in verità questa espressione? Basta andare su una delle tante enciclopedie di prestigio per venire a sapere quanto segue: “populismo” indica un’ideologia caratteristica di movimento politico o artistico che vede nel popolo un modello etico e sociale e il rispetto di ogni individuo che faccia parte di una comunità civile. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere riconosciuto nella rivoluzione francese e ancor prima negli scritti di Jean-Jacques Rousseau. Quel suo primo testo ha inizio con un’aspra critica della civiltà come causa di tutti i mali e delle infelicità della vita di molti uomini, temi che saranno sviluppati dal “Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini”. Nel suo libro “Il contratto sociale”, inoltre, Rousseau afferma che «qualunque legge che non sia stata ratificata dal popolo in persona è nulla, non è una legge». Questo stesso tema ha costituito la base del pensiero di Gianroberto Casaleggio fondatore con Beppe Grillo del Movimento 5 Stelle. Marco Belpoliti se la prende con me per lesa maestà di cosce ministeriali e, punitivo, parte alla ricerca dei miei peccati. Bontà sua riconosce la mia professionalità, ma aggiunge maliziosamente che ho avuto vita facile perché a differenza di altri grandi intellettuali non mi sono mai preso il rischio di agire in solitudine andando contro corrente e prendendo posizioni scomode. Beh, che un giornalista che, è evidente, si schiera come strenuo difensore di chi sta al governo e pone questioni sul coraggio degli altri fa come minimo tenerezza... Che io sappia stare dalla parte del governo di questi tempi non è una posizione molto audace... Comunque secondo Belpoliti me la sono presa comoda. Mentre Sciascia, Pasolini e Sartre hanno avuto il coraggio della solitudine io mi sarei sempre schierato andando sul sicuro, protetto da potenti movimenti di opposizione. Il Belpoliti nella sua concione tace naturalmente dei nostri esordi, miei e di Franca, di rapporti un po’ difficili con il potere, come nell’occasione vissuta da noi due intellettuali fuori regola nel nostro scontro con la Rai. Scontro che terminò con la cacciata per ben quindici anni da ogni programma radiofonico e televisivo per aver denunciato per la prima volta nella storia della Rai gli incidenti sul lavoro che producevano vittime come fosse una guerra. E sempre per la prima volta abbiamo parlato anche di mafia, il tutto nella trasmissione “Canzonissima” dopo sette puntate. Infatti è stato molto comodo per me e per Franca portare nelle case del popolo spettacoli critici con il Pci alla presenza degli stessi dirigenti e subire il conseguente ostracismo della parte più rigida del partito. Come finì era da aspettarcelo, fummo pregati di uscire dalle Case del popolo, poiché la nostra critica era deleteria all’unità del partito. Poi ci fu la stagione in cui la polizia decise di metterci ai polsi le manette e porci in arresto e in galera. E quindi i processi, le bombe a casa e in teatro, la nascita di Soccorso Rosso, l’assistenza ai compagni arrestati, la difesa dei diritti civili, il rapimento e le sevizie a Franca. Certamente facevamo parte di un grande movimento, ma non vedo come si possa affermare che questa partecipazione ci abbia garantito sonni tranquilli. Scrivere una cosa qualsiasi, pur di dare addosso, si può fare... Ma un minimo di aderenza ai fatti forse sarebbe dignitoso. L’autore del libello mette in scena ad un certo punto Jean-Paul Sartre, inserendolo fra gli intellettuali che operavano in solitudine. Si vede benissimo che Marco Belpoliti non ha mai incontrato di persona l’inventore dell’esistenzialismo. Io personalmente, al contrario, ho avuto con Franca questa fortuna. Siamo rimasti in contatto con lui per molto tempo, in quanto avevamo progetti di lavoro da realizzare insieme. La prima volta che ho avuto la fortuna di ascoltarlo fu alla Sorbonne dove teneva una lezione in un’enorme sala traboccante di giovani che bevevano letteralmente le sue parole. Il tema di quella lezione era l’impiego della situazione nel teatro popolare. Che significa “situazione”? è la chiave portante di ogni spettacolo della Commedia dell’arte, chiave strutturale che coinvolse Molière e perfino Shakespeare. Infatti di Giulietta e Romeo ognuno ricorda esattamente la chiave di volta di quel dramma: il fatto che fra i due giovani si cali una parete che dice «Voi non potrete amarvi poiché le vostre famiglie sono in lotta cruenta fra di loro». Ma contro ogni logica ecco i due che scavalcano quelle mura invalicabili e si amano rischiando ad ogni passo la morte. Ma dobbiamo ammettere che senza quel veto tragico il loro sarebbe stato un amore del tutto normale. È il contrasto dell’impossibile che crea la spettacolarità e la commozione e questo grazie alla situazione che a sua volta crea il paradosso, il dramma e il teatro popolare. Ma guarda quante volte la parola “popolo” esce nei discorsi sulla cultura! Quello del populismo è proprio un movimento infinito! Nel dibattito c’era chi prendendo la parola tentava di dimostrare che quella del popolo non fosse cultura, ma piuttosto un’imitazione dell’arte delle classi elevate. Volarono naturalmente, fra i presenti, espressioni piuttosto pesanti, l’una contro l’altra fazione e Sartre ad un certo punto chiese la parola, la ottenne ed esclamò: «Questa sì che è dialettica! Finalmente sento i conservatori indignati, ma privi di argomenti validi. Ecco perché mi piace dialogare con un pubblico eterogeneo e ricco di idee diverse come voi siete. La parola è davvero il mezzo più intelligente che abbia creato l’uomo». E c’è ancora chi chiama solitario l’agire di un intellettuale come Jean-Paul Sartre. E visto che l’articolista scrive di coraggio e di andare controcorrente, potrebbe misurarsi con un inventario degli intellettuali che hanno criticato con l’impeto distruttivo di una piuma, oppositori che non hanno mai perso un giorno in tv e sui giornali importanti, che non hanno mai rischiato neppure un buffetto.
Dario Fo, il conformista. Il Nobel è artista, attivista e provocatore. Come nel caso Boschi. Ma in coerenza con il suo passato: quello di un intellettuale che ha sempre voluto attorno un gruppo. Al contrario di Pasolini, scrive Marco Belpoliti il 23 agosto 2016 su "L'Espresso". Nella pagina di Wikipedia a lui dedicata Dario Fo è definito: “drammaturgo, attore, regista, scrittore, autore, illustratore, pittore, scenografo e attivista italiano”. In questa sequenza sono comprese quasi tutte le varie facce dell’artista, cui la cultura italiana deve molto da tanti punti di vista. Non è solo per il Nobel assegnatogli nel 1997 che bisogna essere grati a Fo, per la sua attività di drammaturgo e scrittore, e anche per le altre innumerevoli cose che ha fatto nell’arco della sua lunga vita. A marzo l’autore-attore di “Mistero buffo” ha compiuto novant’anni. La sua ultima uscita è quella di mettere all’asta un suo quadro per finanziare il Movimento 5 Stelle. Si tratta di un dipinto che prende spunto dal discusso disegno che Riccardo Mannelli ha dedicato alla ministra Elena Boschi scosciata; l’opera pittorica di Fo verrà battuta alla manifestazione nazionale grillina a settembre a Palermo. Un dipinto non proprio bellissimo, dal tratto picassiano e dalla simbologia non molto chiara: la doppia figura rappresenta la modella e il pittore-satiro, o più probabilmente esprime la doppia identità della donna-ministra, ritratta mentre accavalla le gambe. Fo pittore non si discute, come quasi nulla della sua opera. Si tratta di un monumento nazionale, non solo della sinistra, ma dell’intero Paese, anche se obtorto collo. Alla fine in lui ci si identifica, con la sua identità complessa che l’ha portato da giovane soldato della fascistissima Repubblica di Salò alla militanza nell’estrema sinistra negli anni Settanta, dopo una lunga e importante attività di commediografo antiborghese, per poi ritrovarlo, dai suoi ottanta in poi, schierato a fianco del movimento di Beppe Grillo. Tra le definizioni che ne dà Wikipedia quella di “attivista politico” è davvero perfetta; marca, non solo quest’ultima stagione della sua presenza pubblica, ma anche l’intera sua attività. Possiamo considerare Dario Fo un militante politico? In una certa misura sì, poiché ha preso parte a manifestazioni, ha firmato appelli e soprattutto ha intessuto la sua opera di autore e commediografo di temi politici. Difficile pensare Fo senza questo aspetto; forse non è neppure giusto. Si tratta infatti di una vena che alimenta il suo lavoro artistico. Ma davanti a un intellettuale - perché Fo è anche questo - viene da chiedersi: che tipo d’intellettuale è? L’Italia, l’Europa in generale, ha avuto negli ultimi settant’anni una serie di esempi eccellenti d’intellettuali-scrittori, e d’intellettuali-artisti. Da Picasso che dipinge Guernica, a Jean Paul Sartre che scende in campo durante il Sessantotto a fianco d egli studenti, per non parlare di autori più vicini a noi come Sciascia con il suo “Contesto”, romanzo con cui trasforma in racconto il “compromesso storico” tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana, con L’affaire Moro e persino con la polemica contro i “professionisti dell’antimafia”; o ancora Pier Paolo Pasolini, che con i suoi “Scritti corsari” denuncia la mutazione antropologica degli italiani e dell’Italia intera, il Paese che diventa tutt’uno con il Nuovo Fascismo dei Consumi. Che differenza c’è tra questi intellettuali-scrittori e il commediografo-attore-pittore Dario Fo? La voce di Wikipedia ripercorre l’intera carriera dell’artista di Sangiano, da Soccorso Rosso al movimento di Grillo, non senza dimenticare il suo inizio come milite repubblichino, a lungo rimosso. Il suo attivismo politico appare sempre segnato da una caratteristica: il populismo. Anche quando sposa cause minoritarie, o presunte tali, quando sembra opporsi al Potere, c’è sempre nel suo stile d’attivista politico un medesimo aspetto: il popolo come riferimento più o meno ideale. Fo appartiene a una parte, che aspira a essere maggioranza. Pur nelle venature utopiche del suo lavoro, emerge la vocazione a essere compreso in un’entità sociale e politica più ampia. Senza la sponda dei movimenti dell’estrema sinistra, ieri, e dei 5 stelle, oggi, Fo non sarebbe l’attivista che scrive commedie, gira film o disegna ministre. Fa parte di un “gruppo”, e a questo si rivolge come se davvero si trattasse del popolo intero. «Cosa aspettate a batterci le mani / a metter le bandiere sul balcone», recita una sua famosa canzone-sigla del 1958, versi emblematici”. La differenza con gli intellettuali-artisti del passato sta tutta qui: Fo non è mai solo. Il dipinto messo all’asta, quasi una boutade, manifesta questa sua volontà d’appartenenza. Sartre che scende in strada con gli studenti e parteggia per i giovani maoisti francesi, o si reca in Germania per esprimere il suo dubbio circa il suicidio dei terroristi della Baader-Meinhof, è un uomo solo. Così Sciascia, con il suo orgoglio di siciliano controcorrente, per non parlare di Pasolini, uomo solo per antonomasia, controcorrente prima di tutto come omosessuale, che non s’identifica neppure con quella che poi verrà chiamata la causa gay: mai parte di un partito o una organizzazione, neppure del Pci a per cui pure dichiara di votare. Di lui si ricorda la firma data come direttore responsabile al giornale di “Lotta continua”, sostegno a quei giovani rivoluzionari contro cui scriveva sulle pagine de il “Corriere della sera” accusandoli di essere estremisti a causa della nevrosi prodotta dalla liberazione sessuale. Fo non è mai solo. I suoi gesti anticonformisti non l’hanno isolato e reso sgradito a tutti. Non ha mai consumato la sua provocazione in perfetta solitudine, com’è probabilmente richiesto agli intellettuali che non hanno né partito né bandiera, nessuna ideologia cui riferirsi, per essere contestatori, provocatori, semplici bastian contrari o anticonformisti. Tutte le vicende dell’ultimo decennio a partire dalle liste a suo nome presentate nelle elezioni di Milano, il sostegno a Grillo, le dichiarazioni e le azioni d’attivista politico raccontano la volontà di una lotta mai solitaria, mai individuale, mai davvero controcorrente. C’è poi un altro aspetto non secondario, legato al suo talento. In Fo prevale la convinzione che, novello Re Mida, tutto quello che tocca si trasformi in oro. Non è così. Il talento non è mai sufficiente a giustificare le prese di posizione dell’attivista politico. Sartre poteva aver torto, Pasolini pure. Questo è il rischio che corrono gli intellettuali. E che spesso pagano caramente. L’attivista Dario Fo è convinto del potere suo tocco magico, e questo si mescola, più o meno bene, con la sua opera, o almeno con quella che ha realizzato negli ultimi trent’anni. Talento e populismo sono, a ben vedere, le sue fonti d’aspirazione, così che gli accade a volte di confonderle tra loro. Un peccato veniale probabilmente. Come il quadro della Boschi che ci auguriamo trovi presto un acquirente tra i 5 stelle.
È morto Dario Fo, eterno giullare: "Se mi capitasse qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare". È scomparso, a 90 anni, 70 dei quali dedicati al teatro, il più importante e famoso artista italiano dei tempi moderni: "Con Franca abbiamo vissuto tre volte più degli altri", scrive Anna Bandettini il 13 ottobre 2016 su "La Repubblica". La notizia è arrivata in mattinata: Dario Fo è morto all'ospedale Sacco di Milano, dove era ricoverato da alcuni giorni per problemi respiratori. Aveva 90 anni. Personalità incontenibile, artista poliedrico, 'giullare' della cultura italiana - amava definirsi lui - Fo era stato attivo fino all'ultimo. Il 20 settembre scorso aveva presentato a Milano il suo ultimo libro, Darwin, dedicato al padre dell'evoluzionismo. In estate, nel Palazzo del Turismo a Cesenatico, il rifugio creativo di Fo e della moglie Franca Rame, aveva esposto dipinti, opere grafiche, bassorilievi, sculture e pupazzi creati dall'artista e accompagnati da testi collegati al suo ultimo libro Darwin. Negli ultimi tempi era diventato impaziente di fare, scrivere, parlare, dipingere. Si ubriacava di impegni, lavorava fino a stordirsi, come volesse bruciare il tempo. Dario Fo ha lasciato la vita con l'energia e la carica con cui l'ha vissuta. "Se mi dovesse capitare qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare", scherzava fino all'ultimo. Aveva 90 anni, a 71 era stato insignito del Premio Nobel, e 70 li aveva passati nel teatro che ha dominato da re, reinventando la satira, la comicità con oltre cento commedie, racconti, romanzi biografici, saggi, e da attore, scrittore, autore di canzoni, ma anche pittore, regista, scenografo, saggista, politico: un talento rinascimentale che ha fatto di Dario Fo il più grande e famoso artista italiano dei tempi moderni. "Con Franca abbiamo vissuto tre volte più degli altri", diceva ripercorrendo una vita straordinaria celebre in ogni parte del pianeta. Eppure tutto era partito da un luogo minuscolo, Sangiano, dove era nato il 24 marzo del 1926, "il paese delle meraviglie", diceva. Effettivamente, insieme a Primo Tronzano e Porto Valtravaglia, dove si era trasferito con la mamma Pina e il papà Felice, capostazione, è uno spicchio di Lombardia, tra il lago Maggiore e la Svizzera, alquanto particolare, dove la cultura popolare ha le forme del teatro. "Giravano contrabbandieri e pescatori, più o meno di frodo - ha raccontato Fo in Il paese dei mezaràt (Feltrinelli), l'autobiografia dei primi sette anni di vita -. Due mestieri per i quali occorre molta fantasia. È a loro che devo la mia vita dopo: riempivano la testa di noi ragazzi di storie, cronaca locale frammista a favole. Da grande ho rubato a man bassa". Anche il grammelot, la lingua inventata di Mistero buffo e altri suoi testi, che ha segnato la nostra storia culturale, viene da lì, dall'incrocio di dialetti locali, neologismi e lingue straniere. Un apprendistato che mette in pratica invadendo di racconti il Bar Giamaica, a Milano, quartiere Brera quando, studente dell'Accademia delle Belle Arti e del Politecnico, conosce i pittori Morlotti, Treccani, Crippa, Trevisani, Peverelli, Cavaliere, Emilio Tadini. Gli anni Cinquanta contano molto per Fo. Lasciata architettura ("prestare il fianco alle speculazioni edilizie non era per me"), nel '51 si propone all'attore Franco Parenti con piccoli monologhi surreali per la radio. Molti di quei pezzi, memori dei fabulatori di Porto Valtravaglia, entrano nel '52 nella raccolta Poer nano, successo radiofonico e l'anno dopo nella farsa Il dito nell'occhio, gran debutto teatrale nientemeno che al Piccolo di Milano sempre con Parenti e Giustino Durano, un testo che rompe le convenzioni della rivista e fa satira di costume. Intanto la sua formazione teatrale prosegue con qualche spettacolo di strada e nei varietà delle Sorelle Nava. Con loro recita anche Franca Rame, figlia di una famiglia di teatranti girovaghi, bellissima, bionda, alta. "Aveva fuori dal teatro le macchine di ricconi che l'aspettavano. Io non ero nessuno, ero uno spilungone tutto orecchie, intimidito dalla sua bellezza e dunque casto. Allora un giorno lei mi prese dalle spalle, mi mise contro un muro e mi baciò. Lì iniziò tutto". Si sposano nel '54, l'anno di Sani da legare, seconda commedia di Fo, sull'Italia dei conflitti politici, e insieme vanno a Roma, dove nel '55 nasce il figlio Jacopo, per tentare la strada del cinema: ma Lo svitato di Carlo Lizzani resterà l'unico suo film, più alcune sceneggiature, tra cui Rosso e nero, Souvenir d'Italie, Rascel fifì. È Franca a spingere per il ritorno al teatro e a Milano dove nel '60 nasce la compagnia Fo-Rame: dalle farse (Ladri, manichini e donne nude), Dario-autore passa alle commedie satiriche ispirate alla tradizione dei comici dell'Arte: Gli arcangeli non giocano a flipper (1959), Chi ruba un piede è fortunato in amore (1961), Isabella, tre caravelle e un cacciaballe (1963), tutte campioni di incassi, anche perchè il Dario-attore si rivela un talento. "In realtà ero un parvenu, senza diplomi. Franca è stata la mia maestra che mi ha tolto gli impacci, la convenzione, le paure". Inventa una maschera, quella dello svitato, del clown che sarà protagonista anche dei lavori successivi. È grazie a questi successi che la Rai 'democristiana' di Ettore Bernabei, nel '62 affida alla coppia di artisti Canzonissima, lo show del sabato sera abbinato alla lotteria che incolla l'Italia alla tv. Dario e Franca presentano sketch a sfondo sociale, sul malaffare e le morti bianche. I burocrati Rai reagiscono e chiedono il controllo dei testi prima della messa in onda. Dopo sette puntate Fo-Rame sbattono la porta. Il clamore è enorme, ma la Rai calerà su di loro la saracinesca per 15 anni, una censura inaudita. Ricompariranno in tv nel '77 con Il teatro di Dario Fo, registrazioni degli spettacoli ormai applauditi in tutto il mondo (nell'89, poi, Fo venne perfino chiamato nella produzione internazionale I promessi sposi nel ruolo dell'Azzeccagarbugli). Tornando a quel '62, la strada è segnata. Dario Fo e Franca Rame non abbandoneranno più il teatro e l'impegno politico. Nascono Settimo: ruba un po' meno (1964), La colpa è sempre del diavolo (1965); dallo studio dei canti popolari tradizionali, il disco Ci ragiono e canto del 1966, e nel '69 Ci ragiono e canto 2 con Ho visto un re, scritta con l'amico Enzo Jannacci. “In quegli anni Franca e io, capivamo che con le nostre commedie finivamo però per fare da alka seltzer ai borghesi, ridevano di loro stessi e si lavavano le coscienze. Decidemmo allora di andare fuori dai circuiti ufficiali, volevamo un altro pubblico. Era la fine degli anni Sessanta e c'era in giro una bell'aria di risveglio". Il '68 è l'addio ai teatri borghesi per le sale Arci e le case del popolo. Fonda il gruppo Nuova Scena, poi nel '70 il Collettivo La Comune, con cui nel '74 occupa la Palazzina Liberty a Milano che diventerà un centro della contro-informazione politica di quegli anni. La pietra miliare, artisticamente parlando, è Mistero Buffo, il cui primo abbozzo si vede nel '69 in un teatro di La Spezia, che avrà diverse stesure (Dario recitava, Franca trascriveva e correggeva), l'ultima nell'aprile 2016: monologo in grammelot, dove Fo rielabora come non si è mai visto prima, fantasticamente, antiche giullarate, testi popolari e vangeli apocrifi attirando le ire del Vaticano. È un successo planetario. Intanto la contestazione e la stagione delle stragi, lo convincono che il teatro deve essere specchio di quello che succede nel paese: Morte accidentale di un anarchico (1970), Non si paga, non si paga (1974), Pum, pum! chi è? la polizia! (1972), Il Fanfani rapito (1975) cambiano di sera in sera sulla cronaca. Fo rompe con il Pci, si avvicina alla sinistra exraparlamentare, con Franca fonda “Soccorso Rosso” per sostenere detenuti politici: Pietro Valpreda, poi gli ex di Lotta Continua, Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, accusati dell'omicidio Calabresi dal pentito Leonardo Marino, oggetto di satira nel '98 in Marino libero! Marino è innocente! Sono anni pieni. Di "casini, dolori, violenze, sgombri, bombe nei teatri, la casa incendiata, nessuno che voleva più affittarcene a Milano, 40 processi. Noi mandavano sempre il copione per il visto di censura, ma era la pantomima a farli arrabbiare. Capitava che mimando un personaggio io lo trasformassi in un Andreotti. In una tournée raccoglievo anche 260 denunce". Nel '73 l'arresto di Fo a Sassari per resistenza a pubblico ufficiale durante la replica di Guerra di popolo in Cile fa clamore, ma ancora di più il rapimento e lo stupro a Franca Rame per opera dei fascisti ma, come verrà fuori, con la connivenza di organi dello Stato. L'orribile violenza non li zittisce. Per Fo si aprono anche le porte della Scala che nel '78 produce tra mille polemiche il suo Histoire du soldat da Stravinskij, prima di una lunga serie di regie liriche. Piovono inviti dall'estero e ottiene la solidarietà perfino di Arthur Miller e Martin Scorsese quando nell'80 gli Usa gli negano il visto. La celebrità mondiale culmina nel '97 col Nobel per la Letteratura (già nel '75 era entrato nella lista), ma rinfocola vecchie diatribe sul suo passato di repubblichino di Salò. “Non l'ho mai negato – spiegherà -. Mi sono arruolato volontario per non destare sospetti sull'attività antifascista di mio padre”. Dopo il '95, quando un ictus rischia di renderlo cieco, Fo rallenta l'attività teatrale (ma pure realizza alcuni cult: Lu santo jullare Francesco nel 1999, Ubu rois, Ubu bas e L'Anomalo Bicefalo negli anni Duemila, sulle vicende giudiziarie di Berlusconi) per quella letteraria e pittorica (le biografie di artisti da Leonardo a Mantegna, romanzi come La figlia del Papa, Un uomo bruciato vivo, fino agli ultimi Razza di zingaro e Darwin), cui si intreccia l'impegno politico diretto, di consigliere comunale a Milano nel 2006 e negli ultimi tempi il sostegno ai 5 stelle. Il 29 maggio 2013 segna il "più grande dolore della mia vita. Franca Rame se n'è andata tra le mie braccia". Al funerale, stringerà il cuore di una folla immensa, urlando un disperato "Ciaooooo". Di Franca negli ultimi anni dirà che la sentiva, sentiva la sua presenza e il suo aiuto. E a chi gli chiedeva se questo era il segno di una sua conversione al soprannaturale, ironico e lucido rispondeva: "Io credo nella logica. Ma una volta di là, spero di essere sorpreso".
Morte Dario Fo, la reazione di Brunetta e Salvini. Il capogruppo azzurro Brunetta: "Con me Fo fu razzista". Il leader del Carroccio: "Per lui i leghisti erano ignoranti e razzisti", scrive Franco Grilli, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". "Quando muore una persona, ovviamente, cordoglio. Però, nessuna ipocrisia. Dario Fo non mi era mai piaciuto, l’ho considerato sempre un uomo violentemente di parte, un uomo che violentemente ha diviso il Paese". È l’attacco che arriva da Renato Brunetta, da Radio Anch’io su Radio Uno. "Ricordo a tutti - prosegue il capogruppo FI alla Camera - le polemiche che ci furono quando gli venne assegnato il Nobel. Nessuna ipocrisia, io non sono un ipocrita. Nei miei confronti si è espresso in maniera razzista, facendo riferimento - rammenta - alla mia altezza, per esempio. E questo lo dico con grande amarezza e con grande dolore". "Penso che un premio Nobel, un grande uomo come viene descritto non doveva far polemiche con avversari politici usando questi strumenti o questi schemi mentali. Io dico - conclude - pace all’anima sua, onore a Dario Fo che è morto, perchè sono diverso da lui e sono diverso dalla sua cultura". E sulla morte di Fo si è espresso anche Matteo Salvini con un post polemico su Facebook: "È morto Dario Fo, bravo artista, una preghiera. Per lui io e i leghisti eravamo razzisti, egoisti, ignoranti? Vabbè, acqua passata, non porto rancore, doppia preghiera".
Dario Fo insulta Salvini: "Sfrutta gli ignoranti". Lui: "Sei un poveretto". Botta e risposta tra il premio Nobel per la letteratura e il leader della Lega, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 19/11/2015, su "Il Giornale". Dario Fo insulta Salvini e i leghisti. Intervistato ieri da Radio Cusano Campusm il premio Nobel ha definito Salvini "un uomo dal cinismo assoluto, che non guarda in faccia niente e nessuno". "Fa impressione - aggiunge Fo - perché poi fa ben gioco tra i semplici, tra quelli senza cultura e senza conoscenza, che lo seguono sulla via della paura, dello spavento". Lo scrittore ha poi continuato: "Per Salvini l’importante è battere il tamburo del nemico, senza distinguere tra terroristi e disperati che non riescono più a vivere o addirittura a sopravvivere e che sono costretti a fuggire dalle proprie terre. Non ha nel suo modo di esprimersi e nel suo giudizio l’intelligenza del valutare i valori delle cose. E’ un personaggio che non riesco a tenere in considerazione neanche per dieci minuti". Poi ha aggiunto: "Salvini gioca malamente sul vuoto di conoscenza. Chi fa il politico dovrebbe avere una chiarezza morale e profonda e non giocare sul falso e sull’ipocrisia". "Questa è gente - conclude - che usa qualsiasi chiave per ubriacare e sconvolgere gente che non ha conoscenza. Tutti quelli che ora vogliono strumentalizzare quanto accaduto a Parigi giocano sull’ignoranza delle persone". La risposta del leader del Carroccio non si è fatta attendere. "Buona giornata Amici - ha scritto su Facebook - Dario Fo ha detto 'Salvini è un cinico e viene seguito da ignoranti'. Quindi, buona giornata a tutti noi ignoranti! Che poveretto...".
Dario Fo contro Benigni: "Si adatta in base a ciò che può ricavare". "Per Roberto Benigni ho avuto sempre un grosso affetto e stima, ma ultimamente si è messo in una condizione di non poterlo più seguire", scrive Mario Valenza, Giovedì 18/02/2016, su "Il Giornale". "Per Roberto Benigni ho avuto sempre un grosso affetto e stima, ma ultimamente si è messo in una condizione di non poterlo più seguire". A parlare è Dario Fo, nel corso della prima puntata della nuova edizione di Reputescion. "Lui dice e stradice concetti che poi brucia, contamina, ti mette in imbarazzo. Conoscendolo dall’origine è molto cambiato. Annulla quello che fatto per anni. Si adatta al meglio da ciò che può ricavare da un atteggiamento o una definizione politica o sociale”. E adesso dunque è guerra. Se prima i due erano alleati sulle stesse sponde ora a quanto pare non se le mandano a dire. L'intervento del Premio Nobel Dario Fo ospite della prima puntata della nuova edizione di Reputescion, il programma condotto da Andrea Scanzi in onda questa sera su La3 di fatto farà discutere. Benigni per il momento non ha risposto alle accuse di Fo. Ma di certo non si aspettava un colpo così basso...
«Bella ciao» e bandiere rosse per l'addio a Franca Rame, scrive Elena Gaiardoni, Venerdì 31/05/2013, su "Il Giornale". Ma le rose sono bianche. La bara è chiusa nel foyer del Piccolo Teatro; sul coperchio una fotografia di Franca Rame anche per ricordare che il marito, Dario Fo, la conobbe prima in foto e poi di persona; la corona di Giorgio Napolitano rosseggia di anturium rosa e rubino. Il drappo sulla bara è color sangue come la vita terrena, ma le rose sono bianche, come candidi sono i gelsomini e le calle adagiate ai piedi della bara, quasi come le tuniche lavate ancora dalle donne sul Santo Sepolcro. Un tempo riservata al funerale dei bambini quale emblema d'innocenza, oggi la rosa bianca appare sempre di più nei tributi a persone defunte non in giovane età. La morte ci rende tutti bambine e bambini? Dovrebbe. Solo un'immagine religiosa nella camera ardente, il gonfalone di Mediolanum, e poi i poster di Arlecchino, il servo che cucì il suo costume con pezze di tutti i colori, perché il coraggio femminile deve essere pieno di sfumature come un arcobaleno per arrivare a raggiungere un solo diritto per le donne: il diritto d'essere bianche come rose. Per ottenere dieci, una donna deve chiedere mille, sosteneva Virginia Woolf; Franca Rame è appartenuta al tempo in cui se una voce femminile non gridava fino al rossore non era ascoltata. Dopo aver gridato, ora anche lei sta in silenzio, riposa, perché la morte emette un unico suono per tutti. E' lei la grande eguagliatrice e da questo punto di vista è la forza politica estrema, bianca. «Stamattina non ci sarà un'orazione funebre ma un commiato» ha detto Dario Fo, marito di Franca Rame, e nel morire prima di lui, Franca ci ha fatto un dono: poter dire che Dario Fo è marito di Franca Rame e non Franca Rame moglie di Dario Fo. Tra un mese verrà aperto il testamento dell'attrice. Raffaella Carrà, Carla Fracci, Milly Moratti, donne dal nome noto in mezzo a donne sconosciute che lasciano un biglietto. Poche lacrime. Forse stamattina in corteo canteranno la canzone che Franca Rame avrebbe voluto cantassero le donne, «Bella ciao», dimostrando coerenza fino alla fine, anche se vale la pena ricordare l'immagine che un drammaturgo come Bertold Brecht diede della coerenza: «Solo il mio somarello di peluche sul comodino dice sempre sì». Nella camera ardente bambine e nonne sono mute come i burattini e le marionette quando l'attore che le anima non c'è più. E chi è nella morte l'attore che ci dà ancora voce? Oggi alle 11 allo Strehler un addio laico a una donna a cui non si può non riconoscere un'indole da «eroe», nell'antico termine della parola: chi agisce nell'impeto del cuore. Ci ha stupito l'assenza di un simbolo sacro, visto che proprio Dario Fo ha scritto il libro, «Gesù e le donne», riconoscendo a Cristo il coraggio di non aver condannato nessuna donna, ma di averci salvate tutte anche dalla più piccola pietra. In questo è stato l'Unico e l'Unica vera voce oltre la marionetta della morte.
Il Nobel a Dario Fo, nel ’97, fu letto da molti come uno scherzo da comunisti svedesi: per avere il massimo riconoscimento letterario - usa dire dalle nostre parti, con sospetto - conta l’impegno politico. Come dimenticare Dario Fo, che in piena disfatta si arruolò nella Repubblica Sociale e combatté per il suo Duce, fino all’ultimo, nelle brigate di Tradate contro i partigiani. Da “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.
DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.
Nella sua lunga carriera, uno dei bersagli prediletti di Dario Fo è stato Silvio Berlusconi: osteggiato e contestato sin dal momento della discesa in campo, come se gli altri fossero diversi. Dai Comunisti ai grillini.
Dario Fo e Franca Rame, un fascicolo di polizia lungo 50 anni. Per più di mezzo secolo le questure italiane hanno aggiornato il dossier annotando spostamenti e amicizie. Siamo andati a leggere quelle carte, scrive Massimo Pisa il 18 ottobre 2016 su “La Repubblica”. "Caro Lorenzo, ti prego di voler disporre la redazione di una biografia, il più possibile dettagliata, sul noto comico Dario Fo, anche dal punto di vista politico (ad esempio, la asserita appartenenza alla R.S.I.). La richiesta perviene dall'alto e mi permetto, quindi, di raccomandarti un lavoro che sia fatto presto e bene". Lo scandalo a "Canzonissima" è deflagrato da meno di un mese, alla cacciata di Dario Fo e Franca Rame sono seguite due interrogazioni parlamentari (Davide Lajolo del Pci, Oreste Lizzadri e Luciano Paolicchi del Psi) e al Viminale sono in fibrillazione. Il 21 dicembre 1962 il capo della Divisione Affari Riservati, Efisio Ortona, scrive al questore di Milano Lorenzo Calabrese. Quelle informazioni sono preziose, servono ad arginare la tempesta. Il giorno di Santo Stefano il solerte questore ("Le notizie sono state raccolte e selezionate con scrupolosa attenzione") spedisce quattro pagine di riservata. Le origini, gli studi, i successi in teatro. Poi la polpa: "Il Fo, nel 1944, aderì alla r.s.i., arruolandosi volontario in una formazione di cc.nn. di stanza a Borgomanero (Novara), aggregata al battaglione paracadutisti "Folgore"". La notizia resterà inedita per altri due anni. "È noto l'orientamento comunista - prosegue il documento - si orienta verso la corrente di sinistra del P.s.i. Non consta, però, che aderisca a tale partito". Da Dario a Franca. "La Rame risulta decisamente orientata verso il P.c.i., al pari di tutti i membri della sua famiglia originaria". Chiosa finale: "Sia il Fo che la Rame serbano regolare condotta e sono immuni da precedenti penali". Per più di cinquant'anni le questure e le prefetture di mezza Italia hanno aggiornato i loro fascicoli e quelli del Ministero dell'Interno sul Maestro. Schedato, controllato, "attenzionato" come voleva il gergo poliziesco dell'epoca. Siamo andati a leggere quelle carte inedite, conservate negli archivi. E, a consultarle, si legge una storia in controluce di Fo, vista attraverso le lenti di uno Stato occhiuto. Già dal 19 febbraio 1960, quando un appunto della questura di Firenze annota che "ha partecipato a una manifestazione indetta da un Circolo culturale controllato dal partito comunista". Nelle schede che la polizia gli dedica, Fo "ha terrore della "macchinizzazione" e di qualsiasi oggetto meccanico e la sua formazione politica subì, per colpa della moglie accesa comunista, una spinta verso la corrente carrista del partito". Tiene mostre di quadri con "scarso successo a causa, soprattutto, del valore artistico dei quadri esposti". Compra una pistola - è già il 1975 - "Flobert marca Franchi calibro 4,5 mediante esibizione del passaporto". Fa teatro e militanza, e i fascicoli si gonfiano. Ha già fondato da due anni "La Comune", la compagnia con cui poi occuperà la palazzina Liberty a Milano, quando al Viminale arriva una riservata del questore di La Spezia Ferrante, datata 3 ottobre '72. "I noti attori Dario Fò (sic) e Franca Rame hanno trascorso un periodo di ferie estive a Vernazza", insieme a "una quindicina di giovani capelloni", cioè i loro attori, che "per il loro abbigliamento trasandato hanno suscitato un certo malcontento tra la popolazione". Ma c'è di più: la polizia scopre che da Vernazza "la Rame ha spedito a più riprese una serie di vaglia telegrafici ad estremisti ristretti in varie carceri". Tra i destinatari ci sono il brigatista Umberto Farioli, Augusto Viel della XXII Ottobre, Sante Notarnicola della banda Cavallero. È l'inizio del filone di indagini sul "Soccorso Rosso", la rete di assistenza legale ed economica ai detenuti politici della sinistra extraparlamentare. Il primo a voler vederci chiaro è il sostituto procuratore genovese Mario Sossi, la polemica con Fo finirà con accuse reciproche e un processo per diffamazione sospeso durante il sequestro del magistrato da parte delle Br. Intanto indaga Milano, e il 6 settembre 1973 al Viminale arriva una riservata del questore di Milano Allitto: sta nascendo il Comitato unitario del Soccorso Rosso e "i coniugi Franca Rame e Dario Fo - scrive - a quanto si è appreso sarebbero i promotori dell'iniziativa". Le relazioni pericolose della coppia vengono vivisezionate. Fo, scrive il 14 giugno 1974 il questore di Pisa, viene "incluso nel noto elenco ministeriale di extraparlamentari di sinistra che operano eversivamente in direzione delle carceri". Il numero di telefono del gran giullare circola parecchio. È nell'agenda di Petra Krause, arrestata in Svizzera nel 1975 ("il più importante e al tempo stesso inafferrabile ufficiale di collegamento del terrorismo continentale ed extracontinentale", la definirà nel 2001 la relazione finale della Commissione Stragi), di militanti dell'Autonomia Operaia, di appartenenti all'Olp arrestati ad Alessandria, di brigatisti rossi marchigiani coinvolti nel rapimento di Roberto Peci. Le polizie di mezza Italia si affannano a cercare la pistola fumante a conferma di quel vecchio appunto del Sid (fonte "Anna Bolena", nome in codice dell'impresario Enrico Rovelli, datato 1974), che voleva Dario Fo come "grande vecchio" delle Br, ma non la trovano mai. Nemmeno quando, il 29 gennaio 1980, il Maestro smarrisce un foglio manoscritto a quadretti dentro una cabina telefonica della stazione di Cesenatico. Il vicequestore di Forlì, Della Rocca, telegrafa immediatamente al Viminale il contenuto: "Cara Franca, mi è stato chiesto di farti un'ambasciata per Tino Cortiana e Maria Tirinnanzi (militanti Fcc, ndr) detenuti a Novara, che chiedono l'aiuto di Soccorso Rosso. Si farà una riunione venerdì sera al Circolo Turati a Milano". Ci va un brigadiere, e non trova nessuno: "Si presume - scrive - che non è stata svolta nessuna riunione". Ci prova allora il Nucleo di Polizia tributaria della Guardia di Finanza a seguire la pista dei soldi ai detenuti, cercandone la provenienza. Tra il 29 aprile e il 28 luglio 1980, le Fiamme gialle producono tre relazioni classificate "riservatissimo" sugli introiti di Fo, Rame, di Nanni Ricordi e dei loro compagni della "Comune": ne elencano gli incassi degli spettacoli, le spettanze Siae e Rai, le "possidenze immobiliari". Gli anni Ottanta e Novanta glaciano la febbre rivoluzionaria ed eversiva e le notizie su Fo da spedire al Viminale si diradano. Eccolo nell'83 polemizzare con gli Usa che gli negano il visto, e nell'87 a riproporre al Teatro CristalloMorte accidentale di un anarchico: "Hanno assistito 800 persone - annota la Digos - per lo più giovani gravitanti nella nuova sinistra. Esplicita è stata la critica al sindaco Paolo Pillitteri, definito "uomo bicicletta"". Nel 1993, il nome di Fo è ancora in un elenco di "aderenti alla sinistra extraparlamentare di Milano e provincia". Partecipa a manifestazioni per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, viene invitato al Leoncavallo, sfila contro il Cpt di via Corelli. Poi tramonta anche la stagione dei "disobbedienti". L'ultimo appunto è del 2006, una formalità per la presentazione delle Liste Fo alle comunali milanesi del 2006 e del 2011. Il Maestro non fa più paura.
Dario Fo e la passione politica: dalla "nuova sinistra" ai Cinque Stelle. Fondò il Soccorso Rosso insieme a Franca Rame, sostenne i movimenti extraparlamentari degli anni '70 e poi aderì al M5S. Le provocazioni di un personaggio mai banale, anche quando si parlava di politica, scrive Matteo Pucciarelli il 13 ottobre 2016 su "La Repubblica". A un certo punto, quando Dario Fo si invaghì dei Cinque Stelle, in parecchi tornarono a ricordargli con sospetta insistenza del suo passato remoto - era un ragazzino - nella Repubblica di Salò. Quasi una sorta di vendetta per il "tradimento": dopo una vita di militanza a sinistra, quella dei movimenti della "nuova sinistra" del post '68, l'adesione al movimento di Beppe Grillo risultava incomprensibile a molti. Non a lui: "Nei grillini ho rivisto un po’ i tempi in cui facevo il teatro alla Case del Popolo - spiegò a MicroMega - Il Pci per certe cose era bellissimo, mi sembrava quasi di esserci tornato. Gli attivisti del movimento sono i figli e i nipoti di quella gente lì, non sono tanti ma sono i migliori su piazza". Erano quattro anni fa, l'ondata del M5S non era ancora arrivata ma lui aveva ormai deciso di stare dalla loro parte. Il movimento, giovane e snobbato dagli intellettuali, trovò nel premio Nobel il proprio vate, una sorta di grande vecchio capace di investirli di una legittimità non solo politica ma anche culturale. Non a caso sia Gianroberto Casaleggio che lo stesso Grillo finirono per "adottarlo", cosicché a capo del M5S ormai si era instaurata una sorta di trinità. I due fondatori gestivano la parte pratico-politica, Fo fiancheggiava con la piena libertà di parola e di provocazione concessa ad un artista. Insieme hanno scritto anche un libro: Il grillo canta sempre al tramonto (Chiarelettere), saggio che provava a spiegare la genesi dei Cinque Stelle. Nei casi più spinosi Fo veniva regolarmente consultato, spesso anche solo come gesto di rispetto nei suoi confronti. Lui ricambiava salendo sul palco, quando necessario, durante le campagne elettorali; oppure, come poche settimane fa, dipingendo un quadro (la pittura, altra sua grande passione) e regalandolo al movimento. Su un punto Fo insisteva molto: lui continuava a reputarsi di sinistra. Era lo stesso di sempre, diceva di sé: cioè quello che si esibiva insieme a Franca Rame nelle università occupate con il suo collettivo teatrale La Comune; che fondò il Soccorso Rosso, nato per fornire assistenza legale e monitoraggio delle condizioni dei militanti della sinistra extraparlamentare nelle carceri italiane; che faceva spettacoli per i ragazzi dei centri sociali come il Leoncavallo. Adesso però, parlando dei suoi vecchi compagni, era impietoso: "Alcuni di loro mi fanno un po’ tristezza. Non hanno capito che il mondo sta cambiando, i ragazzi non li capiscono. Sembrano un’altra razza". Si rendeva conto insomma che la vena protestataria e antisistema stava ormai andando da un'altra parte. Rinfacciava al Pd di aver perso i valori che animavano il Pci. "A chiunque appare evidente che c'è in corso una campagna contro il M5S - disse nel gennaio scorso - Ma come può fare il Pd a ergersi a moralizzatore con tutti gli scandali in cui è coinvolto e dappertutto? Ma stiamo scherzando? Qui non è la pagliuzza e la trave, qui c'è l'ira di dio nell'occhio...". Di sicuro incardinarlo su un binario non è mai stato semplice. Nel 2005 si candidò anche alle primarie del centrosinistra a Milano, perse contro il prefetto Bruno Ferrante; lo sostenevano Milly Moratti, Rifondazione comunista e un gruppo chiamato "Gli amici di Beppe Grillo", un M5S in provetta. Nella scorsa primavera fu determinante nel bocciare la candidatura a sindaco sempre di Milano di Patrizia Bedori (M5S) né disse mai se alla fine avrebbe votato i pentastellati oppure Basilio Rizzo, candidato della sinistra radicale e suo antico sodale. Al ballottaggio tra Beppe Sala e Stefano Parisi la butto lì: "Quasi quasi...". Sì, votare il centrodestra. Per punire la sinistra che non fa più la sinistra, si infervorava. Come sempre: spiazzante. Nel salotto di casa sua - un normalissimo appartamento su Porta Romana - sono appese decine di maschere di teatro. Ne andava fiero e per lui erano un po' il senso della vita: a volte serve indossare un'altra faccia, ma dietro bisogna conservare sempre se stessi. E infatti le motivazioni del premio Nobel del 1997, pure quelle, le teneva in bella mostra nella stessa stanza: "Perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi".
Duomo occupato dai comunisti. La Rai s'inginocchia. Pugni chiusi e Bella Ciao davanti al simbolo del cattolicesimo. E lo show va in diretta tv, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 16/10/2016, su "Il Giornale". «E sempre allegri bisogna stare/ che il nostro pianger fa male al re/ fa male al ricco e al cardinale/ diventan tristi se noi piangiam». Non si poteva piangere, ma non si poteva neppure ridere, ieri mattina, in una Milano devastata dall'acqua, al funerale di Dario Fo, insieme festa laica e festival letterario, tra politici e scrittori, cerimonia musicale e parlante, pittoresca, commovente, grottesca e contraddittoria, per ricordare e dire «Ciaooo Dario!» al più contraddittorio giullare e premio Nobel della storia italiana. Che festa è stata. E che Italia, che è. Solo l'Italia conosce così tanti atei che vedono le chiese come simboli del potere religioso, tranne quando se ne possono usare le piazze per i loro funerali. Solo l'Italia caccia la brigata Ebraica dal corteo del XXV Aprile e intona Bella ciao alle esequie di un ex repubblichino. Solo in Italia la Tv di Stato fa saltare tutti i programmi radio e video per omaggiare uno che ha ospitato, e poi censurato, e poi cacciato, e poi re-invitato...Erano tutti invitati ieri ai funerali di Dario Fo. E sono arrivati in migliaia. Si parte da un teatro - perché i simboli sono importanti -, lo Strehler, e si arriva in piazza Duomo, con la bara sul sagrato, posizionata perché i simboli hanno significati nascosti davanti al portone di una Cattedrale in cui Fo non ha mai voluto spiritualmente entrare, a sinistra della Galleria Vittorio Emanuele, monumento di quella borghesia che Fo, da perfetto borghese qual era, ha sempre detestato, e a destra di Palazzo Reale che, in quanto sede di re, ha sempre contestato. Tranne quelli di Svezia. La festa e la farsa iniziano alle 11. Si esce dalla Camera ardente. Dentro è rimasta solo la famiglia e pochi intimi: attorno al feretro Jacopo Fo, con lo sciarpone rosso, Gad Lerner e Stefano Benni, che portano la bara a spalla fino all'auto blu. «Siete pronti? Camminiamo tutti allo stesso passo. Andiamo». Si va. Tutti allo stesso passo: da Foro Bonaparte al Duomo, Cont duluri e cont lamenti. In testa, il sindaco di Milano Sala, quello di Torino Appendino, quello di Roma Raggi «Tieni duro, sindaco! Sono un attivista del Movimento. Ho conosciuto un tuo assessore alla marcia Perugia-Assisi... Posso fare un selfie?». E lei: «Andiamo avanti». Si va avanti, tutti in marcia, verso largo Cairoli. Primo applauso. Poi parte la marcia funebre, suona la «Banda degli ottoni a scoppio». Ma non è una musica funebre, anzi. Clownesca e felliniana. La vita è teatro. La morte spettacolo. Ci sono due ragazze col naso finto. Cameramen e fotografi. Un clochard col trolley. Assessori. Gente comune. Quelli dell'Anpi con la bandiera. Zum zum, pam pam. Rosamunda... Pifferi, bombette e k-way. Si imbocca via Dante che diluvia. Turisti, shopping e dehors. Jacopo Fo è rimasto indietro. E grida: «Andate avanti». A Cordusio parte un tema zigano di Goran Bregovic. Si canticchia, qualche orchestrale balla. Zara è quasi vuoto, via Orefici strapiena. Una ragazza continua imperterrita a soffiare bolle di sapone. La vita va via in un soffio. Anche un funerale. Siamo già in piazza Duomo. L'odiata Mondadori del satrapo Berlusconi, sotto i portici, ha allestito tutte e cinque le vetrine con le insegne «Ciao Dario». Parte un altro applauso. Siamo quasi al sagrato. Ci sono i militanti che salutano. Un cagnasso randagio inzuppato di pioggia. Un paio di carrozzelle, un sciancat instorpiat... Sono tutti fan di Fo. E tutti porasi fiol de Deo. Sul sagrato non c'è Dio, e neppure un pretazzo. C'è un gazebo bianco. I necrofori dell'impresa San Siro depongono la bara in mezzo a due gendarmi, con i pennacchi e con le armi. Quanta bella gente. Davanti alla bara la piazza è strapiena di ombrelli e cartelli: «Io non sono un moderato». Dietro la bara c'è la famiglia, lo stato maggiore dei Cinque stelle Di Battista in cappotto blu, Di Maio e Casaleggio junior, Beppe Grillo in piumino. Roberto Vecchioni, a bassa voce, a un amico, dice: «C'è Saviano...». Saviano è appoggiato, indolente, a un sostegno del gazebo, poi lo chiamano davanti. «Fatti vedere». La gente vuole vedere. Grida: «Chiudete gli ombrelli!». Non si può. La cerimonia, sotto il diluvio, è officiata da Carlo Petrini e Jacopo Fo. Ag stait pù in d'la pel d'la contentesa. Non stanno più nella pelle dalla contentezza di dire a tutti che bisogna ridere ed essere felici. «Oggi andate a casa e mangiate, ridete e se potete fate l'amore. È quello che avrebbe fatto lui», dice di lui l'amico Carlo Petrini. Narra aneddoti privati e ricordi pubblici. Poi, da scaltro gastronomo, il patron di Slowfood tira fuori dalla coppola la metafora enologica: «Tenere fuori la politica dall'arte di Fo sarebbe come fare un buon vino senza uva». Dopo, inizia la sbronza ideologica. È l'orgoglio ritrovato di chiamarsi (ancora) «compagne e compagni». Tocca a Jacopo Fo parlare alle compagne e ai compagni. È interrotto dagli applausi e dalla commozione. Parla da figlio, e tutto gli è dovuto e perdonato. «Noi siamo un po' animisti. Non è che uno muore veramente, dài... Si fa per dire». La piazza ride e piange. E ridendo piangendo si evoca, e par di sentirla da lontano, «Stringimi forte i polsi/ dentro le mani tue» che Dario Fo scrisse per Franca Rame. Fu la sigla di Canzonissima, anno 1962. Stretti i polsi, si liberano i pugni. E Jacopo Fo ringrazia tutti, a favore di piazza e di telecamera, col pugno chiuso alzato: «Grazie compagni». Eh bon, tacabanda! E la banda attacca. «O partigiano, portami via. O bella, ciao! Bella, ciao! Bella, ciao, ciao, ciao!». «Ciao, ciao». «Come stai?!». «Ah, sei venuto anche tu...». «Hai visto quanta bella gente». «Che bella festa...». La festa è finita. Reinizia la vita. È mezzogiorno e mezzo. C'è Lella Costa che ride con Vecchioni. C'è Travaglio con già la sigaretta in mano. C'è l'archistar Boeri. C'è Renato Pozzetto che non ha voglia di ridere. C'è Grillo che parla con tutti. E c'è Dario Fo, nella bara, lì vicino quanti paradossi ti è toccato vivere e vedere oggi - che non ascolta più nessuno.
Bufera sulla diretta Rai: 75 minuti di delirio rosso pagati col canone. Palinsesti stravolti e speciale del Tg1 per il rito. La celebrazione della tv di Stato irrita i social, scrive Paolo Bracalini, Domenica 16/10/2016, su "Il Giornale". Se cinquantacinque anni fa era stato allontanato dalla Rai democristiana, la Rai renziana ha riparato tutti i torti dando ai funerali di Dario Fo lo spazio dovuto ad un padre della Patria, ad un eroe nazionale, ad un genio universalmente amato (anche se la figura di Fo divide diametralmente gli italiani). La Chiesa non voleva i funerali atei. Palinsesti stravolti da RaiUno a RaiScuola con speciali sull'attore, pezzi d'archivio, interviste, omaggi di ogni tipo. E poi ben tre dirette sui funerali a Milano, una di RaiNews24 (guidata da Antonio Di Bella, una carriera in quota Ds e poi Pd), l'altra di Radio1 («Filo diretto GR1 - Addio a Dario Fo»), e poi dalle 11.50 per la bellezza di 75 minuti lo speciale del Tg1 «L'ultimo saluto a Dario Fo» sulla rete ammiraglia della tv di Stato, con la telecronaca della cerimonia in piazza Duomo. A condurre la quirinalista del Tg1, Simona Sala. Più che una telecronaca una telecelebrazione, tanto che sui social arrivano le proteste («Perché devo pagare il canone Rai per guardare i funerali di Dario Fo?», «Continua il delirio anticlericale di Dario Fo sulla Rai, mai tanto soddisfatto del mancato pagamento canone»). I toni della diretta del Tg1 non alleviano i telespettatori che non hanno mai amato l'attore, anche per la sua militanza politica di parte, dalla sinistra comunista a Grillo e Casaleggio: «Un grande, un genio, qualcuno che ha dato qualcosa a ognuno di noi. Oggi è un lutto ma mai così allegro, festoso, proprio come voleva lui» si scioglie l'inviata Rai. Dopo l'intervento di Carlin Petrini sulla inscindibilità tra arte e militanza («Pensare a lui senza politica è come pensare ad un buon vino senza l'uva») la telecronaca del Tg1 torna a commuoversi: «Tantissime le sollecitazioni da Petrini, amici da sessant'anni insieme militanti comunisti contro tutte le povertà. Una vita passata in una militanza civile che non si può separare dal suo fare arte». Dopo la cerimonia attaccano i tromboni della «Banda degli ottoni a scoppio» (una banda musical-politica, «suoniamo da trent'anni al fianco dei lavoratori»), e la Rai educa ancora il popolo sulla corretta lettura delle immagini: «La banda ha accompagnato tutta la vita di Dario Fo, è una banda popolare, sono canti di lotta, politici ma anche allegri. Arte e passione politica sono inscindibili. È un funerale paradossale, perché si sentono parole, ideali e valori che non si sentivano da tantissimo tempo, e tutto accade sul sagrato del Duomo, un paradosso totale che avrebbe divertito tantissimo Dario. Solo lui poteva far sventolare bandiere rosse e far cantare Bella ciao sul sagrato del Duomo. Vedremo adesso cosa farà Milano, perché il sindaco Sala ha ammesso che la città ha ricevuto da Fo più di quello che gli ha dato», intima la cronista Rai. Le telecamere inquadrano le sindache grilline Appendino e Raggi insieme a Casaleggio jr, numero due del M5S con cui Fo si era schierato ufficialmente, chiudendone la campagna elettorale nel 2013. Altro aspetto controverso di Fo, che però non disturba minimamente la telecelebrazione Rai, anzi: «Dario Fo era l'anima di sinistra del M5S, aveva molto sofferto la morte di Casaleggio, lo considerava un genio creativo. Di Maio ha definito Fo un uomo capolavoro, una definizione che si può condividere». Poi, nei buchi della diretta, l'inevitabile intervista a Saviano su Fo, un'altra d'archivio, un'altra ancora a Lella Costa, mai un'ombra di nota dissonante. «Una giornata di pioggia e di gioia, un premio Nobel, ricordiamo, dato a chi dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi» assicura la tv di Stato con i dirigenti nominati dal Pd.
Cara sinistra, il vero Nobel lo ha vinto Caprotti, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 15/10/2016, su "Il Giornale". Tutti pazzi per Dario Fo. Il sindaco pd di Milano Giuseppe Sala al quale il giullare aveva negato, schifato, il suo voto proclama una giornata di lutto cittadino. Il cardinale Scola nulla ha da eccepire sul fatto che oggi i funerali laici del giullare più anticlericale della storia si celebrino sul sagrato del Duomo. Alla cerimonia parteciperanno, accomunati nel dolore, i leader della sinistra freschi di insulti del defunto e Beppe Grillo, ultimo approdo del re dei voltagabbana, già rastrellatore di partigiani quando da giovane portava la camicia nera, e cantore ufficiale dell'omicidio del commissario Calabresi. Potenza del Nobel, potenza dell'ipocrisia o, forse, solo potenza della morte che tutto cancella. A Milano ieri più d'uno ha invocato Fo «santo subito», fioccano proposte di intitolargli strade, piazze, non si esclude il monumento. E pensare che solo pochi giorni fa in consiglio comunale la sinistra si è spaccata sulla mozione che chiedeva che Milano ricordasse in qualche modo Bernardo Caprotti, mister Esselunga, morto anche lui a 90 anni a cui il Nobel l'aveva assegnato il libero mercato: sette miliardi di fatturato all'anno, ventiduemila dipendenti in servizio, prestigio internazionale. Ma aveva un difetto imperdonabile: non era mai stato di sinistra, non aveva mai fatto un girotondo contro Berlusconi né contro la casta della politica. Non solo, immagino, per convinzione, ma perché, lavorando più di dodici ore al giorno, non ne avrebbe avuto il tempo. La sua missione era creare sviluppo e benessere, due concetti sui quali Milano ha costruito la sua storia e la sua fortuna. Certo, Milano è stata anche la città di Verdi, che ha adottato Arturo Toscanini. Anche loro uomini d'arte, come Fo. Ma il primo è un cofondatore della patria, il secondo preferì l'esilio al mischiarsi con il padrone di allora, tale Benito Mussolini. Più di recente, a Milano, tale Giorgio Strehler il teatro lo rifondò stupendo il mondo intero. Non sta a me dare pagelle a geni e premi Nobel, ma vedere Dario Fo entrare in questo pantheon mi fa un certo effetto. Per quello che è stato e per chi ce lo porta: quella sinistra che solo pochi giorni fa non ha voluto dare gli onori dovuti a Bernardo Caprotti che l'arte della libertà l'ha messa in pratica, non calpestata, insultata e derisa come se tutto fosse, a prescindere, «Mistero buffo».
Quando Dario Fo firmò la condanna del commissario Calabresi. Sotto la lettera pubblicata da L'Espresso contro il commissario Calabresi anche la firma di Dario Fo, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". C'è una firma che macchia, indelebilmente, la figura di Dario Fo. La firma posta in calce alla lettere aperta pubblicata il 13 giugno 1971 da L'Espresso che accusava, ingiustamente, Luigi Calabresi di essere il "responsabile" della morte di Giuseppe Pinelli, l'anarchico accusato della strage di Piazza Fontana a Milano e precipitato dalla finestra della questura. Quella lettera fu definita da più parti, anche da alcuni firmatari, come l'appoggio ideologico ai mandati e agli assassini che poi uccisero il commissario: Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri. Giampaolo Pansa scrisse chiaramente che la lettera du "un avallo al successivo assassinio di Calabresi". Molti anni dopo Dario Fo disse che anche Calabresi fu in realtà una vittima, senza però mai rinnegare in pieno la firma a quella lettera. In un'intervista, sempre a L'Espresso, del 2012, Fo disse che il commissario fu un "capro espiatorio", una "vittima sacrificale di chi ha prima ordito le stragi e poi insabbiato le indagini". Ma non un passo indietro sulla firma, che invece molti hanno ritrattato: "Certo - disse quattro anni fa Dario Fo - perché ora si sa quello che è avvenuto dopo. Ma non dimentichiamoci che cosa sono stati quei tre anni e i successivi. Stragi spaventose. Una macchina del potere che ha affondato nella menzogna tutti i processi. La buffonaggine di continuare ad additare gli anarchici come colpevoli quando ormai l'accusa era smontata, scoppiata. Le aggressioni, contro di noi mettevano continuamente bombe a teatro. E le violenze". La versione di Dario Fo è stata fino alla sua morte quella di un tempo, quando mise in opera "Morte accidentale di un anarchico", dedicata proprio al caso Pinelli. "Sono stato tra i primi a dire che Calabresi non aveva avuto che un ruolo marginale nella vicenda di Pinelli. Dissi pubblicamente che chi aveva ucciso Calabresi poteva essere soltanto qualcuno che aveva interesse a chiudere il processo Pinelli. Calabresi, in quella stanza della Questura, c' era entrato soltanto un paio di volte. Poi il commissario venne ucciso: e da allora troppi dimenticano o fingono di dimenticare che non pochi avevano interesse a chiudere il caso Pinelli, e che uno dei modi per chiuderlo era quello di eliminare Calabresi. Altro che Lotta continua". Tra le posizioni del premio Nobel, infatti, anche la strenua difesa dei responsabili (accertati da una sentenza) della morte del commissario.
Quando il "giullare" disse sì all'odio contro Calabresi. Fo firmò il manifestò che sancì la condanna a morte del commissario. Per 20 anni lo ha sempre rivendicato, scrive Stefano Zurlo, Sabato 15/10/2016, su "Il Giornale". Le parole, tutte le parole, hanno un loro peso. E devono essere collocate sulla bilancia della storia. Scrive Leonardo Marino, il killer del commissario Luigi Calabresi: «Il nostro compito era di uccidere Calabresi per vendicare la morte del compagno anarchico Giuseppe Pinelli che tutti gli intellettuali italiani, a cominciare da Dario Fo e dai più famosi giornalisti, definivano vittima di Calabresi, gettato dalla finestra di Calabresi». L' autobiografia di Marino, l'operaio di Lotta continua chiamato a far parte del commando di morte, non ha avuto grande fortuna. E quella citazione è solo una goccia nel diluvio delle celebrazioni che stanno accompagnando la dipartita del premio Nobel. Ma riconoscere il talento non vuol dire annegare nella retorica lacrimevole le responsabilità e gli errori commessi. E però quella frase di Marino la dice lunga sul clima che si respirava all'inizio degli anni settanta in Italia. La bussola della cultura era impazzita e segnava solo una direzione: contro lo Stato, contro la polizia, contro chi faceva il proprio dovere cercando di fermare la follia estremista. Il 12 dicembre 1969 c'era stata piazza Fontana e nelle ore successive Pinelli fu fermato e interrogato. Poi, dopo ore e ore, precipitò dalla finestra della questura. Probabilmente fu tenuto lì, in quelle stanze, oltre i termine di legge, ma il Paese era sconvolto. E un magistrato progressista, Gerardo D' Ambrosio, scagionò completamente il mostro che era solo un uomo in divisa. Non importa. Calabresi diventò per tutti l'assassino del povero Pinelli e fu bersagliato da un linciaggio senza fine. Dario Fo, anche se può sembrare sconveniente parlarne oggi, ci mise del suo. E Marino cita proprio lui per raccontare il mare in cui nuotava l'odio incontenibile di Lotta continua. Intendiamoci, il celeberrimo manifesto che buttava la croce addosso al Povero poliziotto, lasciato solo da uno Stato pavido e sbrindellato, fu firmato non da qualche esaltato che sognava o scimmiottava la Rivoluzione in salsa italiana, ma da una sterminata legione di padri della patria, intellettuali, giornalisti, storici, accademici. Senza avere alcun elemento in mano, senza prove e nemmeno indizi, solo a colpi di pregiudizi, falsità e menzogne, 757 personalità firmarono quella lettera vergognosa, pubblicata dall'Espresso nel giugno del 71. Non si può dunque attribuire solo a Fo quel che fu il pensiero dominante, politicamente correttissimo dell'epoca. Chi aveva un nome e un pizzico di prestigio da spendere puntò il dito accusatore contro quel disgraziato in uniforme che si era trovato a dover indirizzare le indagini su una strage senza precedenti. Che fa da spartiacque alla nostra storia. Fu un atto d'accusa corale e dunque ancora più sconvolgente perché l'intellighenzia tutta, tolti Giampaolo Pansa che non volle unirsi a quella lenzuolata e pochi altri, isolò quel commissario, poi puntualmente riabilitato come capita nel nostro Paese quando il vento gira. Questo scenario non deve portare naturalmente a una semplificazione della successiva tragedia: fu Lotta continua e solo Lotta continua ad ammazzare Calabresi, eliminato da Ovidio Bompressi sotto casa, in via Cherubini, la mattina del 17 maggio 1972. Quel che colpisce è che 16 anni dopo, nel 1988, quando Marino portò la sua crisi di coscienza fino al pentimento e alla confessione, quando insomma furono arrestati Adriano Sofri e Giorgio Piestrostefani, il più accanito nell'attaccare Marino fu ancora una volta il giullare ormai prossimo al Nobel. Fo definì Marino sobriamente un «coglioncione» e scrisse inseguito un testo, «Marino libero! Marino è innocente!», in cui enumerava le 120 bugie del pentito. Balle presunte, molto presunte perché il processo, pur fra colpi di scena, si chiuse con la condanna degli imputati. Ma nessuno o quasi, nemmeno Fo che si sappia, ha chinato il capo e ammesso eccessi e sbagli dai risvolti drammatici. Quel pentito, che aveva portato sulle spalle la solitudine del rimorso, fu trattato fino alla fine come un appestato. Da tutti ma non dalla vedova del poliziotto, Gemma Calabresi che compone la postfazione di quel libro. Un gesto straordinario e coraggiosissimo, quel che è mancato ai nostri bardi e poeti per troppo tempo.
La morte di Dario Fo e l'oblio di Mario Calabresi, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo” il 15 Ottobre 2016. Caro direttore, due premesse: massimo e sincero rispetto di fronte alla morte di Dario Fo. Massimo e sincero rispetto di fronte al dolore di Mario Calabresi, della sua famiglia, e alla memoria di suo padre, il commissario Luigi. Però, ne converrai, talvolta non possiamo controllare i dubbi, gli interrogativi, che finiscono per annodarsi nella nostra mente. Il mio, da ieri, è questo: se fossi stato io il figlio di Luigi Calabresi, da direttore di Repubblica, come avrei trattato la notizia della morte di Dario Fo Artista contemporaneo fondamentale, Premio Nobel certo, ma anche tra gli untori di quel clima di odio che portò all'assassinio di mio padre nel '72? Cosa avrei fatto di quel manifesto, firmato da lui assieme ad altri quasi 800 intellettuali che rafforzò, di fatto, la condanna a morte contro mio padre emessa da tempo dall'universo sovversivo di sinistra? Cosa avrei fatto della rappresentazione di quel dottor Cavalcioni, poliziotto di Morte accidentale di un anarchico, che, per spaventare i sospettati li metteva pericolanti sul davanzale alludendo all'accusa mossa contro mio padre nella morte di Pinelli? Avrei scritto un editoriale ai miei lettori che forse, anzi quasi certamente, se lo aspettavano? Prima di scriverti queste righe ci ho pensato e ripensato, ho sfogliato avanti e a ritroso le pagine di Repubblica di ieri. Proprio quella Repubblica che vantava tra le sue firme prestigiose Adriano Sofri - condannato per il delitto del Commissario - che con eleganza preferì non scrivere più una riga dopo il passaggio del testimone da Ezio Mauro al figlio del poliziotto ucciso. Di Fo e dell’infame appello all’Espresso non v’è che un cenno in un pezzo sull’impegno politico del Premio Nobel. Ho letto poi l’editoriale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, che invece apre il pezzo ricordando le sue litigate con Dario Fo e Franca Rame proprio sul commissario Calabresi. Su Repubblica, invece bisogna andare nelle pagine interne. Sfido, a mio rischio e pericolo, la soglia del buonsenso che dovrebbe impedire di stuzzicare le corde del dolore altrui e mi chiedo se, in fin dei conti, non sia stata persa un’occasione per affermare la verità. Perché Mario Calabresi non è semplicemente una vittima, che con dignità pulsa dolore e memoria (su questo ha scritto un bellissimo libro) di una vita mozzata con violenza della figura paterna. Ma è testimonianza storica di una barbarie, di quando il crimine, spacciato per rivoluzione, si abbatteva su esistenze (Luigi Calabresi aveva appena trentaquattro anni), famiglie, spargendo lacrime ed asciugando il futuro di bambini e ragazzi (come Mario Calabresi, ma anche come Benedetta Tobagi) che la mattina vedevano uscire un padre per poi non poterlo riabbracciare più. In questo bailamme di orrore condannato dalla storia, soffiava sul fuoco una classe intellettuale che, invece di orientare una generazione perduta verso il rispetto della vita, si era fatta trascinare da quell'orgia di condanne a morte emesse per afflato ideologico, ferocissimi tribunali morali pronti ad dar sentenza per categoria e per sospetto. Non oso immaginare quale possa essere stato lo sgomento della famiglia Calabresi nei mesi precedenti l'assassinio, quando il nome di Luigi, marito e padre, compariva scritto sui muri con auspicio di morte, quando arrivavano a casa telefonate anonime, quando i giornali dell'estrema sinistra, Lotta Continua su tutti, tamburellavano fomentando una caccia all'uomo che poi si risolse come sappiamo. Non oso immaginarlo, ma ieri, forse era opportuno che l'avessi immaginato, leggendolo, proprio nel tratteggio della figura di Dario Fo. Del racconto di tutto questo c'è ancora bisogno, per i lettori, per le giovani generazioni, per chi rinnega oppure facilmente dimentica. Se Mario Calabresi avesse fatto prevalere la testimonianza umana al decoroso silenzio probabilmente avrebbe mandato il caffè di traverso a tanti benpensanti, ma sicuramente avrebbe fatto il bene di chi ha sete di verità e di conoscenza. E avrebbe dato consolo di tutti noi che le agiografie vogliamo leggerle solo dei Santi. E neanche di tutti.
Nella sua lunga carriera, uno dei bersagli prediletti di Dario Fo è stato Silvio Berlusconi: osteggiato e contestato sin dal momento della discesa in campo, come se gli altri fossero diversi. Dai Comunisti ai grillini.
Dario Fo e le parole di troppo degli altri. Dario Fo se n’è andato come Abramo, sazio di giorni, la sua impronta l'ha deposita; Jacopo: rendiamo grazia! Scrive lunedì 17 ottobre 2016 Domenico Barrilà su “L’Indro”. Tutti gli esseri viventi in transito da questa terra vorrebbero lasciare un’impronta, possibilmente positiva, di sé. Essere ricordati, andarsene con la consolante sensazione di essere stati notati, registrati dai sensori dei propri simili. Chi ebbe la fortuna di riuscire nell’impresa dovrebbe esserne lieto e ringraziare, la sorte, il suo proprio talento o entrambe le cose. Anche chi fu vicino a costoro dovrebbe comportarsi di conseguenza, evitando le recriminazioni e aspettando, pazienti, il diradarsi delle emozioni, cosicché che la vita possa compilare, con la calma necessaria, le proprie pagelle. Queste, mi parrebbe intuitivo, non rientrano nelle competenze del parentado stretto e forse neppure dei discendenti. Proprio perché credo fermamente nella premessa, rifletto sulle doglianze del figlio di Dario Fo, Jacopo. Sarà stato a causa delle condizioni d’animo del momento, ma gli è scappato persino un affanculo. Non sono tra i tanti, conosciuti e sconosciuti, destinatari dell’esternazione, mi piaceva l’artista, mi ricordava Jacques Tati e altri personaggi geniali dello spettacolo, che potevano comunicarti tutto con le semplici espressioni del viso e con le posture. Si lamenta, Jacopo, di coloro che in vita ostracizzarono il padre e che ora lo omaggiano. Mi domando dove sarebbe la novità. Sappiamo che la folla è mutevole, ma è anche vero che se l’oggetto di tali giravolte è un uomo che scava nelle emozioni, toccando universi di enorme delicatezza, a cominciare dal sentimento religioso, gli ondeggiamenti sono leciti. Salvo quelli ideologici e opportunistici. Il privilegio di pensare e di dissentire genera opposte reazioni, se usi l’accetta, come l’uomo del Mistero Buffo faceva d’abitudine, dividi il mondo in maniera netta, qualcuno starà di qua, tanti staranno di là. È fatale. Poi, posti di fronte alla morte, i pensieri possono affinarsi e tanti correggeranno i propri giudizi. Ingenuo illudersi che a battaglie di minoranza possano corrispondere numeri da maggioranza. Si sta da una parte e non ci si lagna, se si è convinti delle proprie ragioni, poi si dà tempo alla gente perché capisca. Del resto i personaggi complessi sono difficili da metabolizzare. Nel caso specifico, alla fine, i conti sono tornati, c’è stato persino un premio Nobel, una popolarità sempre ragguardevole e un’autorevolezza che consentiva all’artista di ricevere richieste di pareri sulla situazione sociale e politica. Dice Jacopo che i suoi genitori non piegarono mai la testa, capisco cosa intende, ma loro saranno ricordati mentre altri uomini coraggiosi, meno esposti e infinitamente più sfortunati, sono passati e passeranno nel silenzio. Dario Fo la sua impronta la deposita, si congeda avendo concluso il proprio lavoro, la propria missione, fu ascoltato fino all’ultimo istante. Più di questo è difficile ottenere, in una sola vita. Forzare la mano non è opportuno, non aiuta a meditare, a costruirsi un giudizio autonomo, figlio del tempo e della saggezza. È vero, tra coloro che omaggiano in questo giorni ci saranno convertiti delle ultime ore, è il diritto alla mutazione, del resto l’evoluzione della specie è ancora in atto. Un diritto di cui il premio Nobel si avvalse in abbondanza, cadendo talvolta in qualche eccesso di soggettività. Alla fine approda a esiti opposti a quelli dell’origine, lasciando la ‘parte sbagliata’ e sbucando esattamente da quella opposta, come succede quando cadi in un buco nero. Lui non si sottrasse al cambiamento, la stessa possibilità dovrebbe essere pacificamente accordata anche a chi lo osservò nella sua parabola, e magari all’inizio provò risentimento o non comprese. Chi omaggia va lasciato omaggiare evitando di fare gli schizzinosi, il percorso netto non è di questo mondo, neppure per gli eroi, Dario Fo incluso, figuriamoci per i poveracci. E già che ci siamo smettiamola pure di sfanculare, nelle circostanze del lutto, semmai baciamo la terra, fu generosa con padre e figlio. Dario Fo se n’è andato come Abramo, sazio di giorni. Fossi un prete direi ‘rendiamo grazia’. Non voglio fare accostamenti irriverenti, ma chissà quanti dei nostri padri se ne sono andati lasciando le cose a metà, magari dopo una vita senza tentennamenti. Il mio non era dalla parte sbagliata, combatté in Africa, giovanissimo fu catturato e recluso alle Orcadi. Sopravvisse il tempo necessario per farsi uccidere dalla superficialità di un medico, dopo un banalissimo intervento, aveva 48 anni, circa la metà di quelli dell’artista. Noi non ce la prendemmo con il chirurgo, e neppure con altri, non sapevamo nemmeno di avere dei diritti. Lui non visse quanto Abramo, certo non era un personaggio pubblico, ma proprio qui è l’inghippo. Coloro che lo diventano sono una stretta minoranza, gli altri camminano in quella stretta linea di confine che sta a cavallo tra le tenebre e la luce, troppi finiscono la vita senza essere percepiti, senza affiorare, senza potere esercitare diritto di parola. Portatori però di «quei capolavori di discrezione che punteggiano l’esistenza di tanti individui senza notorietà, i quali ci fanno sperare che la pratica degli effetti speciali, opportuna nelle pellicole cinematografiche, non finirà per invadere anche spazi che, per loro natura, amano i sussurri o meglio ancora i silenzi». Se anche Jacopo si sente ateo come il padre, e non crede di avere debiti verso il soprannaturale, in questo concorderemmo, ringrazi comunque per come sono andate le cose, lo faccia con chi gli pare, ma ringrazi qualcuno. Morire dalla parte giusta quando si iniziò da quella sbagliata, drasticamente sbagliata, non capita tutti i giorni, ma è uno dei miracoli di cui noi uomini siamo artefici, perché cambiamo incessantemente, e ci è dato di farlo anche in prossimità della fine. Valse per Dario Fo, valga per ciascuno di noi, anche per chi si è unito al cordoglio solo a telecamere accese.
Ecco cosa scriveva Montanelli su Fo. Indro Montanelli ha più volte espresso la sua opinione su Dario Fo mettendola nero su bianco sulle colonne del Corriere della Sera e del Giornale, scrive Domenico Ferrara, Venerdì 14/10/2016, su "Il Giornale". Lo apprezzava più nelle vesti di attore che in quelle di oratore. Indro Montanelli ha più volte espresso la sua opinione su Dario Fo mettendola nero su bianco sulle colonne del Corriere della Sera e del Giornale. Nel 1962, quando scoppiò il caso Canzonissima, Montanelli, pur elogiando Fo definendolo un “valentissimo attore”, non si capacitava del fatto che “mentre negli altri paesi dell'occidente si discute di Mercato Comune, di Europa e della necessità di restituire al nostro vecchio continente una sua autonomia e dignità e dei mezzi che si debbono adottare per raggiungere questo risultato, in Italia gli argomenti del giorno e le grandi preoccupazioni di tutti sono Dario Fo, Franca Rame e la televisione”. Quando invece assegnarono il Nobel al giullare, in prima pagina sul Giornale, Montanelli espresse tutto il suo stupore riservando stoccate e parole caustiche. Era il 10 ottobre del 1997 e il giornalista vergava: “Il Nobel a Dario Fo mi riempie di tripudio. Per due motivi. Uno, strettamente personale, è la speranza che questa assegnazione guarisca finalmente della sua nobelmania il mio vecchio amico e degnissimo poeta Mario Luzi che da decenni si sentiva vedovo di quel premio e non riusciva a darsene pace. Spero che se la dia ora, vedendo a chi tocca. Il secondo motivo, più consistente, e che si riallaccia al tema di questo modesto articolo, riguarda il nostro rapporto con l'Europa. Dalle notizie di agenzia che affluiscono sui tavoli di redazione, risulta che l'Europa è rimasta senza parole alla notizia della crisi italiana e si sta chiedendo se sia il caso di accogliere nel suo Sinedrio politico ed economico un paese che, dopo aver fatto di tutto per esservi ammesso, rischia di vanificare tutto il suo sforzo aprendo una crisi senza capo né coda. Giusto. Ma un'Europa che sul piano culturale accoglie nel suo Gotha un Fo, che titolo ha a respingere la patria sul piano economico e politico?”. Qualche giorno prima, precisamente il 2 ottobre dello stesso anno, sulla Domenica del Corriere Montanelli scriveva: “Di Fo ho sempre detestato quello che diceva, ma lui era perfino simpatico. Mi dicono che la moglie sia la sua infuocatrice, la sua anima cattiva. Se fosse così, peccato, una donna bella dovrebbe infuocare ben altro”. Lo scritto rappresentava quasi una precisazione dopo le "lodi" tessute da Montanelli nei confronti di Fo per la sua difesa del Tricolore nella manifestazione antisecessione svoltasi a Milano. Il giornalista, da buon vanesio qual era, si era scoperto fino a un certo punto e aveva scritto: “Non mi sento imbarazzato da questa mia improvvisa e imprevista (anche da me) simpatia. Ad essere imbarazzato sarei io, se lui me la ricambiasse”. Per ritrovare il Montanelli caustico basta ripescare un altro scritto: “Dario Fo, poeta di corte dell'ultrasinistra, flagella nella sua ultima fatica teatrale il senatore Amintore Fanfani, responsabile di ogni nequizia passata, presente e futura. I sarcasmi più grevi hanno però come bersaglio il metraggio del notabile democristiano che, come tutti sanno, non è quello di un granatiere. Toulouse-Lautrec, che per gli stessi motivi dovette per tutta la vita subire analoghe canzonature, disse una volta, giocando sulla lunghezza del suo doppio casato: «Ho la statura del mio nome». Non sappiamo se questo discorso si possa applicare a Fanfani. Certo, si applica a Fo”.
Occupazioni, fabbriche e Cina Una comicità votata alla "causa". Attore e mimo di grande talento scelse però l'apostolato politico. Oscillando sempre tra il popolaresco e l'erudito, scrive "Il Giornale" il 14/10/2016. Pubblichiamo l'articolo di Mario Cervi (1921-2015), fondatore e direttore de il Giornale scritto quando fu assegnato il Nobel a Dario Fo. Il pezzo era entrato a far parte di un progetto editoriale che l'indimenticabile Cervi non poté condurre a termine a causa della malattia. "Ignoro in quale preciso momento Dario Fo, attore e mimo di straordinario talento, abbia sentito nascere e crescere in sé un'irresistibile voglia d'apostolato politico. Certo è che negli anni della contestazione Fo è stato, per il movimento studentesco e per i gruppuscoli della sinistra movimentista, un punto di riferimento essenziale. Bisogna ricordare, per capire il ruolo e l'importanza di Fo, cosa fosse la Milano di quegli anni. Era una metropoli che aveva abdicato alle sue tradizioni; che aveva consegnato le sue strade e le sue piazze ai cortei violenti del sabato; che aveva rinunciato a difendere la sua università dalla presa di possesso dei katanghesi di Mario Capanna. Era una Milano intimorita e avvilita: e anche, in molti salotti, affascinata dalla violenza fisica e dalla violenza verbale. A questo quadro che per i più, anche se venivano definiti «maggioranza silenziosa», era desolante, e che per una minoranza elitaria e snobistica era ricco di fermenti intellettuali, Dario Fo aveva dato l'apporto della sua capacità d'invenzione e di satira. La sua creatività allucinata e favolistica veniva utilizzata per la «causa». Il «poer nano» delle sue prime recite si trasfigurava in personaggi ambiziosi. Fo affermava e ripeteva di voler recitare per il popolo, anche se riesce difficile credere che il popolo - quello che s'appassionava e s'appassiona alle trasmissioni nazional-popolari della Rai e che evita il teatro come la peste - spasimasse per i testi di Fo. A volte ingegnosi a volte pretenziosi, oscillanti tra il popolaresco e l'erudito. Testi nei quali ancor più dei contenuti aveva valore il «messaggio», inequivocabile. Ha scritto Capanna nei suo Formidabili quegli anni: «Tra i benpensanti (1969, ndr) si leva lo scandalo degli artisti del living theatre che a un certo punto recitano completamente nudi sulla scena. Dario Fo, Franca Rame e la loro comune teatrale vanno di città in città in un crescendo di geniali sberleffi ai padroni e al loro potere. Sono i più applauditi interpreti delle lotte e delle speranze». Fo, l'uomo che aveva vestito in gioventù l'uniforme della Repubblica di Salò, anelava oltretutto al riscatto, probabilmente, con i suoi slanci populisti. La strage di piazza Fontana, che fu per più di una ragione una svolta nella vita italiana, lo fu anche per il corso artistico-politico di Fo. Piuttosto che alla strage bisogna anzi riferirsi alla morte dell'anarchico Pinelli. Fo abbracciò subito, con irruenza - e ben sapendo quanto le sue prese di posizione pesassero - le tesi che Pinelli fosse finito nel cortile della questura di Milano perché afferrato e scagliato nel vuoto dal bieco commissario Calabresi. L'attore aveva sottoscritto - in buona compagnia, le firme erano 800 - un documento in cui Calabresi veniva qualificato come commissario «torturatore» e come «responsabile della fine di Pinelli». Ma non si limitò a questo. Imbastì uno spettacolo (Morte accidentale di un anarchico) in cui Calabresi era «il dottor Cavalcioni» che costringeva appunto gli interrogati a mettersi in bilico su una finestra. I critici, incluso quello dell'Avvenire, andarono in estasi. E molti anni dopo Giovanni Raboni sentenziò sul Corriere della sera: «Uno spettacolo mirante soprattutto a mettere in evidenza, e in ridicolo, le molte contraddizioni e inverosimiglianze della versione prodotta dalla polizia e accreditata dalla magistratura». Qualcuno fu così convinto delle contraddizioni e delle inverosimiglianze (nonché della loro intollerabilità) che, lo sapete, ammazzo Calabresi. Divenuto guru acclamato della sinistra, Fo occupò nel 1974 una palazzina Liberty pressoché abbandonata e ne fece il suo quartier generale milanese, e il luogo deputato delle sue recite, oltre che dei riti contestativi. Franca Rame, che insieme con il marito si prodigava per aiutare i carcerati (in particolare quelli accusati di reati politici) impegnandosi a fondo nel «Soccorso rosso» svolgeva anche un'azione femminista di tutto rispetto. Sulla quale Indro Montanelli ebbe a pronunciarsi il 14 marzo 1975 (Festa della donna) in maniera decisa. «Leggo la sua lettera - scrisse a una lettrice dalle colonne del Giornale - proprio nel momento in cui la cronaca della città in cui vivo e lavoro registra le scalmanate e poco edificanti esibizioni delle suffragette rosse, incolonnate per le vie del centro di Milano nel giorno cosiddetto della Festa della donna. La manifestazione, con il solito corredo di violenze e di abusi, si e conclusa dentro e fuori la palazzina Liberty con una specie di rito pop ispirato alla libertà sessuale, officiante quel grande sacerdote del progressismo d'avanspettacolo che si chiama Dario Fo. Queste feste popolari la dicono lunga sulla situazione morale del Paese. La civilissima Milano è diventata, mi consenta l'espressione, una città di tolleranza». Ma ci voleva altro che la rampogna montanelliana - allora, intendiamoci - per spegnere le fiammate d'entusiasmo barricadero di Fo, il quale per un certo tempo si pose sotto la protezione ufficiale del Pci e andò girovagando, con le sue opere tra camere del lavoro e fabbriche. Ma poi la sintonia s'interruppe e Fo, che aveva esaltato in una commedia gli «espropri proletari», compì un lungo viaggio nella Cina della «rivoluzione culturale»: ossia delle repressioni, delle vessazioni, dei crimini orrendi. Ne tornò entusiasta. Non è il caso di infierire: tanti altri Maestri incapparono in analoghi infortuni. Di quella Cina insanguinata e sanguinaria Fo diede una descrizione giulebbosa e deamicisianamente ammirata. Fosse andato invece in Svezia, chissà quanti sberleffi avrebbe dedicato al perbenismo nordico e grigio di quella società. In compenso gli svedesi - che soffrono di noia, non di isterismi estremistici, e dunque ammirano gli eccessi - l'hanno solennemente premiato. Milano può tranquillamente applaudire, a sua volta: i cortei degli autonomi e del movimento studentesco sono acqua passata, e se qualcuno ne tenta una replica, si tratta piuttosto di una parodia. La dinamite politica è stata disinnescata. Ben venuto fu dunque per Fo il Nobel, che con la dinamite ha qualcosa a che fare.
Fo, una storia arci-italiana Quando il ribellismo fa rima con conformismo. Fustigatore della borghesia, ne divenne l'idolo Una commedia degli equivoci finita col Nobel, scrive Stenio Solinas, Venerdì 14/10/2016, su "Il Giornale". Come antidoto a una rivoluzione che non arrivava mai e a uno Stato borghese che non si decideva a tirare le cuoia, negli anni Settanta si andava a vedere Dario Fo. Gli spettacoli di solito erano in periferia, una fabbrica occupata o dismessa, una Camera del lavoro, un centro sociale, una cooperativa, un tendone I titoli erano a volte chilometrici, Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e grandi, L'operaio conosce solo 300 parole il padrone 1000 per questo lui è il padrone, altre sintetici, Fedayn, Il Fanfani rapito, ma lunghi o corti che fossero sul palcoscenico succedeva sempre la stessa cosa: gli attori correvano, i tamburi rullavano, c'erano bandiere e marce e canti, smorfie e sberleffi, volti stralunati, concitazione. Anche il pubblico era identico. Tante barbe, clarks e eskimo in quello maschile, zoccoli olandesi, gonnellone, borse di tolfa e capelli crespi per quello femminile. Dieci anni prima, Fo era stato il beniamino della piccola e media borghesia milanese dei teatri di centro, Comica finale, Gli arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è sfortunato in amore, un Feydeau alla meneghina che ancora non si era reincarnato in un Brecht alla cassoeula, e dieci anni dopo lo era dei loro figli e questo passaggio di consegne era in fondo un modo simbolico per uccidere il padre, in platea come sulla scena. Ancora un decennio e i componenti della prima si sarebbero limitati fisicamente a prenderne il posto, negli uffici pubblici, in banca, in azienda, l'eterno ribellismo italiano che fa rima con il conformismo e permette di vivere al potere facendo finta di essere all'opposizione Quanto al giullare della borghesia divenuto poi teatrante irregolare e militante, ad attenderlo ci sarà addirittura il Nobel per la letteratura e insomma, «a caval donato non si guarda in bocca», come già aveva detto Emilio Cecchi quando la scelta era caduta su Quasimodo. Al netto del talento, quella di Dario Fo è una storia arci-italiana. A diciott'anni è un «ragazzo di Salò», a trentacinque gli affidano Canzonissima alla televisione di Stato, a quaranta vuole radere al suolo lo Stato borghese, a cinquanta è di nuovo alla televisione di Stato con Mistero buffo, «opera in cui un giullare contemporaneo si è posto senza riserve al servizio del popolo per esprimerne i bisogni di autonomia dalla cultura borghese con le sue diverse varianti dal fascismo al revisionismo. Un intervento sul fronte culturale che assolve al suo compito di strumento per la ricomposizione ideologica e politica del proletariato in lotta per il comunismo». Esemplare, è il caso di dire. In questo curioso intreccio c'è la filigrana di un carattere. Nelle note biografiche descritte negli anni caldi della contestazione, di Salò naturalmente non c'è traccia e quella di Dario Fo è «una famiglia proletaria di tradizioni democratiche e antifasciste». Il padre è ferroviere, poi capo stazione, e probabilmente il Regime per tutto il Ventennio gli pagherà lo stipendio senza accorgersi che sotto la camicia nera ce n'è una rossa Quanto al figlio, che alla Rai comincerà a collaborare già nel 1952, la sfortunata esperienza di Canzonissima, censura e licenziamento, viene presentata come «una lezione pratica sulla natura profondamente reazionaria dello Stato e dei suoi strumenti di oppressione e controllo delle masse popolari», e il suo teatro borghese rivisto come «teatro sempre più politico dove la cultura popolare è individuata nel presente del movimento reale della lotta di classe». Più semplicemente, Fo era entrato in rotta di collisione con quello stesso potere di cui faceva parte, si era illuso di poter fare la contestazione con l'appoggio dei carabinieri A suo onore va detto che ne accettò e ne pagò le conseguenze, ma la estremizzazione del suo teatro, demagogico, retorico, chiassoso e logorroico, se da un lato rispecchiava il suo nuovo ed esacerbato estremismo politico, era dall'altro funzionale alla ricerca di un pubblico alternativo a quello tradizionale ormai precluso. «Da artista amico del popolo ad artista al servizio del movimento rivoluzionario proletario, giullare del popolo in mezzo al popolo, nei quartieri, nelle fabbriche occupate, nelle piazze, nei mercati coperti, nelle scuole» recitano le note cronologiche a Mistero buffo del 1974. Ora, solo in Italia si è verificato il curioso fatto della sovversione fatta con la connivenza e/o l'indifferenza dell'ordine costituito e gli anni Settanta in Italia sono stati proprio questo, una gigantesca commedia degli equivoci dove si strillava di voler abbattere il potere e si ristrillava se poi il potere non ci stava a farsi abbattere, un'opera dei pupi spesso e volentieri sanguinosa, politicamente parlando, ma, intellettualmente parlando, sempre opera dei pupi: nessun artista moriva di fame per le sue idee «rivoluzionarie», nessun artista finiva in galera per le sue idee «rivoluzionarie» e per ogni porta che si chiudeva ce n'era un'altra pronta ad aprirsi come camera di compensazione. Il giuoco delle parti avrebbe detto Pirandello, premio Nobel come Fo. Appunto.
Così la Fallaci sbugiardò Fo: "Fascista prima nero, poi rosso". La giornalista in una intervista a Panorama: "Quelli come lui hanno torturato mio padre", scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 14/10/2016, su "Il Giornale". Tra Oriana Fallaci e Dario Fo non correva buon sangue. Negli anni si scambiarono diverse accuse, il primo barricato su posizioni no-global, la seconda sempre controcorrente. Alla scrittrice fiorentina non piaceva «come giullare» e come autore «l'ho sempre bocciato». Inoltre fu lei a denunciarne il facile conformismo: «fascista nero» durante il Ventennio e «fascista rosso» quando essere di sinistra andava di moda. La scintilla che fece scattare l'astio tra i due fu l'accusa che la moglie del drammaturgo rivolse alla Fallaci di fronte alla massa di no-global che nel 2002 invasero Firenze. In un articolo sul Corriere della Sera, Oriana aveva invitato suoi concittadini a dissociarsi dagli antagonisti violenti. Franca Rame e il premio Nobel dal palco la definirono una «terrorista». Nell'archivio storico di Panorama è possibile recuperare alcuni passaggi di una intervista alla scrittrice, raccolti in un lungo articolo dal titolo Oriana Fallaci risponde. «Franca Rame - le fece notare Riccardo Mazzoni - le ha dato della terrorista». «Già - rispose la giornalista - Dinanzi alla Basilica di Santa Croce, dal palcoscenico del comizio che ha aperto l'oceanico raduno. Sicché, quando la sua discepola cioè quella delle caricature è andata alla Fortezza da Basso con l'elmetto in testa, molti bravi-ragazzi l'hanno scambiata per me. Si son messi a ulularle Lercia terrorista, lercia terrorista. Del resto il marito della summenzionata ha detto che a Firenze io volevo i carri armati». La Fallaci disse di provare «disprezzo» per i coniugi Fo e «una specie di pena, perché v'era un che di penoso in quei due vecchi che per piacere ai giovani radunati in piazza si sgolavano e si sbracciavano sul palcoscenico montato dinanzi a Santa Croce». In loro non vedeva dignità, mancanza di cui trovò conferma quando scoprì che Fo vestì la camicia nera della Rsi. «Sono rimasta sorpresa - disse - io che parlo sempre di fascisti rossi e di fascisti neri. Io che non mi sorprendo mai di nulla e non batto ciglio se vengo a sapere che prima d'essere un fascista rosso uno è stato un fascista nero, prima d'essere un fascista nero uno è stato un fascista rosso. E mentre lo fissavo sorpresa ho rivisto mio padre che nel 1944 venne torturato proprio da quelli della Repubblica di Salò. M'è calata una nebbia sugli occhi e mi sono chiesta come avrebbe reagito mio padre a vedere sua figlia oltraggiata e calunniata in pubblico da uno che era appartenuto alla Repubblica di Salò. Da un camerata di quelli che lo avevano fracassato di botte, bruciacchiato con le scariche elettriche e le sigarette, reso quasi completamente sdentato. Irriconoscibile. Talmente irriconoscibile che, quando ci fu permesso di vederlo e andammo a visitarlo nel carcere di via Ghibellina, credetti che si trattasse d'uno sconosciuto. Confusa rimasi lì a pensare chi è quest'uomo, chi è quest'uomo e lui mormorò tutto avvilito: Oriana, non mi saluti nemmeno?. L'ho rivisto in quelle condizioni, sì e mi son detta: Povero babbo. Meno male che non li ascolti, non soffri. Meno male che sei morto».
Ecco cosa pensava la Fallaci del "penoso" Dario Fo: "Senza dignità". La scrittrice fiorentina Oriana Fallaci dedicò alcune righe a Dario Fo e sua moglie: "A parte il disprezzo, intende dire? Una specie di pena. Perché v'era un che di penoso in quei due vecchi", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 13/10/2016, su "Il Giornale". Anche Oriana Fallaci disse la sua su Dario Fo. Tra i due non correva buon sangue, è evidente: si scambiarono diverse accuse, il primo barricato su posizioni no-global, la seconda sempre controcorrente. Dario Fo e la moglie attaccarono duramente la scrittrice, in quegli anni calunniata per le sue idee non in linea col pensiero unico della sinistra. La Fallaci nel 2002 si era schierata contro una manifestazione dei no-global prevista a Firenze, occasione che sarebbe potuta trasformarsi in un secondo G8 di Genova. In un articolo sul Corriere della Sera la scrittrice fiorentina aveva invitato suoi concittadini a protestare pacificamente e ad addobbare a lutto la città. Dal palco della manifestazione Franca Rame, moglie di Fo, definì la Fallaci una "terrorista". La giornalista in tutta risposta scrisse ne "La forza della Ragione" che "fui esposta al pubblico oltraggio. Istigato, questo, da un vecchio giullare della Repubblica di Salò. Cioè da un fascista rosso che prima d'essere fascista rosso era stato fascista nero quindi alleato dei nazisti che nel 1934, a Berlino, bruciavano i libri degli avversari". Un duro affondo che ripercorreva la famosa controversia sull'arruolamento di Dario Fo nella R.S.I.. Non solo. In diverse interviste e numerosi testi Oriana tornò a parlare dei coniugi Fo. Sull'archivio storico di Panorama è possibile recuperarne alcuni passaggi raccolti in un lungo articolo dal titolo "Oriana Fallaci risponde". "Franca Rame - gli fece notare Riccardo Mazzoni - Le ha dato della terrorista". "Già - rispose la Fallaci - Dinanzi alla Basilica di Santa Croce, dal palcoscenico del comizio che ha aperto l'oceanico raduno. Sicché, quando la sua discepola cioè quella delle caricature è andata alla Fortezza da Basso con l'elmetto in testa, molti bravi-ragazzi l'hanno scambiata per me. Si son messi a ulularle "Lercia terrorista, lercia terrorista". Del resto il marito della summenzionata ha detto che a Firenze io volevo i carri armati". Poi il giornalista domandò: "Mi chiedo che cosa provasse a guardarli". E la Fallaci, dura e diretta, disse: "A parte il disprezzo, intende dire? Una specie di pena. Perché v'era un che di penoso in quei due vecchi che per piacere ai giovani radunati in piazza si sgolavano e si sbracciavano sul palcoscenico montato dinanzi a Santa Croce, quindi dinanzi al porticato che un tempo immetteva al Sacrario dei Caduti Fascisti. In loro non vedevo dignità, ecco. A un certo punto l'amico che con me li guardava alla tv ha sussurrato: "Ma lo sai che lui militava nella Repubblica di Salò?". Non lo sapevo, no. Come essere umano non mi ha mai interessato. Come giullare, non m'è mai piaciuto. Come autore l'ho sempre bocciato, e la sua biografia non mi ha mai incuriosito. Così sono rimasta sorpresa, io che parlo sempre di fascisti rossi e di fascisti neri. Io che non mi sorprendo mai di nulla e non batto ciglio se vengo a sapere che prima d'essere un fascista rosso uno è stato un fascista nero, prima d'essere un fascista nero uno è stato un fascista rosso. E mentre lo fissavo sorpresa ho rivisto mio padre che nel 1944 venne torturato proprio da quelli della Repubblica di Salò. M'è calata una nebbia sugli occhi e mi sono chiesta come avrebbe reagito mio padre a vedere sua figlia oltraggiata e calunniata in pubblico da uno che era appartenuto alla Repubblica di Salò. Da un camerata di quelli che lo avevano fracassato di botte, bruciacchiato con le scariche elettriche e le sigarette, reso quasi completamente sdentato. Irriconoscibile. Talmente irriconoscibile che, quando ci fu permesso di vederlo e andammo a visitarlo nel carcere di via Ghibellina, credetti che si trattasse d'uno sconosciuto. Confusa rimasi lì a pensare – chi è quest'uomo, chi è quest'uomo – e lui mormorò tutto avvilito: "Oriana, non mi saluti nemmeno?". L'ho rivisto in quelle condizioni, sì e mi son detta: 'Povero babbo. Meno male che non li ascolti, non soffri. Meno male che sei morto'".
Moralisti, guru, no global Ecco i nemici di Oriana. La giornalista, dopo «La Rabbia e l'Orgoglio» fino alla morte, fu attaccata da sinistra radicale e radical chic. Le sue idee si sono prese la rivincita, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 16/03/2016, su "Il Giornale". Nel 2002 esce L'islam castiga Oriana Fallaci. Lettera a una vecchia mai cresciuta (Edizioni Alethes) di Adel Smith, presidente dell'Unione musulmani d'Italia, «il primo ed unico partito religioso-politico musulmano in Europa». Si tratta di una risposta a La Rabbia e l'Orgoglio. Secondo l'autore, le parole della Fallaci sono «turpi vaniloqui di poveri squilibrati, di etilisti all'ultimo stadio». Meglio ancora: «Oltraggi che, di norma, più che scoprirli in un libro, si odono ai mercati generali. Spesso sotto i ponti. A volte negli ospedali psichiatrici o, piuttosto, sui marciapiedi delle strade illuminate dai falò accesi da quelle tante ospiti (prevalentemente atee o cristiane) dei Paesi dell'est, che cercano di scaldarsi e farsi notare durante il loro servizio notturno». Insomma, tanto per fugare ogni dubbio, il linguaggio usato «dalle peripatetiche». Naturalmente la Fallaci è subito accusata di volgarità. Adel Smith sarà quindi misurato? Giudicate voi stessi: «Preparati a una forte e giusta punizione: essere messa a nudo. Denudata. Spogliata. Non del tuo abbigliamento come, forse, avresti desiderato (e dico desiderato visto che di te vien detto che hai l'utero nel cervello). Non mi interessa. Ma denudata della tua forza, di quella tua tenue forza che trai dalle tue spregevoli menzogne. Sto per smascherarti. Preparati! Sto per infliggerti una punizione. Te lo meriti, eccome. Donna! Brutta o bella che tu sia, preparati dunque adesso al castigo umano: quello divino, ben più abbondante e doloroso, lo avrai dopo, a suo tempo. Questa è una promessa». Può sembrare incredibile ma in questo caso è la realtà a superare la fantasia: Adel Smith riuscì a diventare un personaggio mediatico, ospite nei principali talk show. A fine dicembre 2001, Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti traduce in termini pop le idee dei primi accusatori della Fallaci. Nell'album Il Quinto mondo, è contenuto il brano Salvami. Da una parte il G8 di Genova, visto da una prospettiva no global: «Villaggi di fango contro grandi città», «mercato mondiale e mercato rionale»; dall'altra l'attentato alle Torri Gemelle, in particolare la polemica seguita a La Rabbia e L'Orgoglio. Un paio di versi sono rivolti alla Fallaci: «La giornalista scrittrice che ama la guerra/ perché le ricorda quando era giovane e bella». C'è da chiedersi se Jovanotti, epitome canora del politicamente corretto, avrebbe scritto le stesse cose di un uomo, riducendone le idee a un fatto biografico e soprattutto anagrafico. Volgarità a parte, il cantante ripropone lo stereotipo della Fallaci guerrafondaia. Tiziano Terzani, nell'introduzione a Lettere contro la guerra (Longanesi) troverà Salvami molto «poetica». Nella successiva polemica di Oriana contro il Social Forum organizzato dai no global a Firenze, salta fuori Sabina Guzzanti con un'imitazione della Fallaci elmetto in testa. La comica travalica e irride il cancro della giornalista. Questa la risposta, affidata a Panorama: «Giovanotta, essendo una persona civile io le auguro che il cancro non le venga mai. Così non ha bisogno di quell'esperienza per capire che sul cancro non si può scherzare. Quanto alla guerra che lei ha visto soltanto al cinematografo, per odiarla non ho certo bisogno del suo presunto pacifismo. Infatti la conosco fin da ragazzina quando insieme ai miei genitori combattevo per dare a lei e ai suoi compari la libertà di cui vi approfittate». Ancora: «E nessun giullare che mi bercia addosso in piazza, nessun lanzichenecco che imbratta la mia fotografia in TV, nessun'oca crudele che mi impersona con l'elmetto in testa e deride la mia malattia, nessun corteo di cialtroni che marciano levando cartelli su cui è scritto Oriana puttana o Fallaci guerrafondaia riuscirà mai a intimorirmi, a zittirmi» (La Forza della Ragione). Ma cos'era successo? Nel novembre 2002 è in programma a Firenze il Social Forum Europeo. È il punto d'incontro delle associazioni contrarie al neoliberismo, la galassia genericamente definita «no global». Analoghi raduni sono finiti male: scontri con le forze dell'ordine, città devastate, perfino morti e feriti. Tutti hanno in mente Genova, il G8, il tentativo di forzare la zona rossa interdetta ai manifestanti, gli anarchici violenti del Black Bloc, le cariche della celere, la macelleria messicana della scuola Diaz, piazza Alimonda, Carlo Giuliani. Firenze non sembra il luogo adatto per ospitare l'evento previsto alla Fortezza da Basso. I cortei possono raggiungere facilmente il centro storico. E incidenti nella culla del Rinascimento potrebbero causare danni irreparabili al patrimonio artistico, la prima ricchezza, oltre che l'anima, della città toscana. Il 6 novembre, sul Corriere della Sera, la Fallaci invita i suoi concittadini a una serrata generale in occasione del Social Forum: «Chiudete i ristoranti, i bar, i mercati. Chiudete i teatri, i cinema, le farmacie». Nonostante le minacce di alcune frange, Oriana si dice sicura che nessuno oserà imbrattare o devastare o attaccare. Ma anche l'intimidazione è violenza, e con l'intimidazione il Social Forum ha ottenuto la Fortezza da Basso. Ora bisognerà difenderla, insieme col resto di Firenze, da eventuali no global desiderosi di menare le mani. Il dissenso della Fallaci è legato soprattutto a motivi ideologici. La scrittrice se la prende con i «falsi rivoluzionari, i figli di papà, che vivendo alle spalle dei genitori o di chi li finanzia osano cianciare di povertà. Di ingiustizia. I presunti pacifisti, le false colombe, che la pace la invocano facendo la guerra e la esigono da una parte sola. Cioè dalla parte degli americani e basta». Il comitato di redazione del Corriere della Sera entra in fibrillazione. Avrebbe voluto fosse chiaro, dalla titolazione e dall'impaginazione, che la Fallaci non rappresenta la linea del giornale di via Solferino. Il fiorentino Tiziano Terzani rilascia un'intervista a la Repubblica, pubblicata il 7 novembre, nella quale per l'ennesima volta accantona la raggiunta serenità spirituale per buttarsi nella feroce polemica personale: «Il caso Fallaci non è più politico, ideologico o morale. A mio parere è un caso clinico». «Per una che un anno fa ci aveva promesso di stare zitta, mi pare che blateri anche troppo» aggiunge Terzani convinto che non si possa «gratuitamente invitare i concittadini all'odio».
PARLIAMO DELL'ITALIA "MODAIOLA".
I pantaloni bassi? Un segnale "sessuale" (o forse no). Si dice che l'uso dei pantaloni bassi derivi dalle carceri americane. Vero, ma per un motivo diverso, scrive Federico Baglioni, Redattore Today, il 18 dicembre del 2015. Da dove nasce la moda dei pantaloni bassi? Dalle carceri americane. Molti siti riportano questa frase: "questa tendenza è nata nelle carceri americane, i prigionieri disposti a fare sesso con altri prigionieri si inventarono questo segnale. Chi girava con i pantaloni sotto il sedere era disposto a farsi penetrare da altri detenuti." Come spiega Bufale Un Tanto Al Chilo, la sua origine sono effettivamente le carceri, ma il motivo non ha nulla a che vedere con la disponibilità sessuale. Il motivo di questa "moda" è essenzialmente che in molti stati è vietato l'uso della cintura per evitare che possa venire usata come arma, sia per far male agli altri, sia per tentare il suicidio. Dunque una "leggenda a fin di bene", nel senso che sono in molti a non condividere affatto questo modo di portare i pantaloni. Uno di questi è lo stesso Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ha peraltro aggiunto che vietare, tramite leggi, la pratica di indossare i pantaloni ribassati sarebbero una perdita di tempo.
Jeans a culo scoperto: trovarci un perché… ma senza bufale! Scrive Gaia Conventi il 10 dicembre 2011. E finché è un bimbominkia con movenze da orango e mutanda 012 di fuori, puoi anche farci una risata – piccolo sfigato, magari inciampi e ho la fortuna d’avere pronta la macchina fotografica –, ma è quando il tale a culo scoperto ha passato i trenta che ti chiedi se sta mostrando il culo perché non può mostrare le palle. Sveglia, signori, passata la trentina – mia e vostra – è meglio parlarci chiaro: le donne a culo di fuori sembrano otarie volgarotte in cerca di una fuggevole palpata, gli uomini… o signore benedetto, gli uomini fanno proprio ridere. Finché siete ragazzini, si può ancora sperare che i vostri genitori vi mettano di fronte a uno specchio a figura intera, ma se siete abbondantemente maggiorenni… dai, su, mollate la pezza! Ma non era questo che volevo raccontarvi, ché di mode orrende ne sono passate sotto i ponti, ma almeno le spalline imbottite non ci facevano mostrare niente – ma niente, eh? nemmeno il collo, sembravamo tartarughe ninja – e per fortuna sono morte e sepolte, come immagino finirà anche la moda della mutanda al vento. Volevo invece farvi notare che, a volte, per smontare una cazzata – il jeans trucido – si pensa bene di biasimarla con una cazzata maggiore, detta anche bufala, ma cazzata rende meglio. Questa arriva direttamente da facebook, e recita (copia-incolla fedele): Per tutti coloro che pensano sia bello passeggiare con i pantaloni sotto al culo, LEGGETE la seguente spiegazione: questa tendenza è nata nelle carceri, negli Stati Uniti ‘dove i prigionieri che erano disposti a fare sesso con altri prigionieri avevano bisogno di creare un segnale che sarebbe passato inosservato da parte delle guardie così da non subire conseguenze, quindi mostrando parzialmente il loro sedere, dimostravano che erano disponibili ad essere penetrati da altri detenuti. Ora, a me ‘sto fatto del detenuto a pronta fregola fa un po’ sorridere, immagino che le carceri americane non abbondino di gentlemen che richiedono appuntamenti galanti esclusivamente agli interessati. Tocca quindi farsi un giro nei meandri di internet per sconfessare questa cacchiata, lo faccio volentieri, state tranquilli La moda della braga abbondante e del culo scoperto, secondo la rete e il buonsenso, ha avuto origine in diverse maniere: dai rapper e dal loro bisogno d’abiti comodi, dal ghetto e dall’impossibilità familiare di acquistare “capi su misura” per i diversi figli della nidiata (il jeans va bene a te e poi passa a tuo fratello, e poche storie!), ma anche dal non poter portare – e qui sì siamo arrivati alle prigioni – una cintura per tenere su i pantaloni. Le cinture in carcere non sono ammesse, ma voi già lo sapete visto che, come me, vi siete pappati centinaia di telefilm made in USA. Qualcuno si azzarda anche a dire che non è possibile avere taglie diversificate e quindi ai detenuti tocca fare con quel che passa il governo. Non mi intendo di moda carceraria, ma visto che il governo americano si occupa pure delle mimetiche militari – posso farmi testimone del fatto che quelle le trovate dalla XS in poi, lo dico perché ho comprato surplus militare per anni –, non vedo perché non debba metterci lo stesso impegno anche nei pigiamini a strisce. Quindi, mi sento di dire a tutti i bimbiminkia in ascolto che il jeans a culo panoramico non li rende preda del primo galeotto che passa, li rende soltanto ridicoli.
La vera storia dei "pantaloni calati", scrive Postato, scrive Ileana Corte l'8 maggio 2013. Quante volte vi è capitato di vedere ragazzi anche molto giovani, con questi jeans calati (baggy) a volte così tanto che non solo si vedono totalmente le mutande sotto ma a volte perfino il fondo schiena??!!!! Vogliamo parlare di come camminano? che sembra che dopo un lauto pranzo, abbiamo cercato disperati un bagno senza aver avuto fortuna e quello sia il macabro risultato del problema intestinale? Vogliamo parlare del fatto che vadano fieri di girare in questo modo e che addirittura a volte mentre camminano se li abbassano di più (metti caso che non si vede la marca dei boxer)?!!!! Ottenendo questo effetto di culo inesistente, visto che la piega naturale dei pantaloni rimane ad altezza coscia e sembrano dei mezzi nani deficienti? Che se si fermassero un attimo a riflettere con l'ultimo neurone rimasto, e poi chiudo qui e passo alla vera storia dei pantaloni calati, è NOTO le donne tra le prime cose che guardano statisticamente è il fondo schiena. Quindi........secondo loro, fanno colpo con questo triste jeans pronto per defecare? Se non lo avete capito ve lo dico io: NO. ALLE DONNE QUESTO JEANS NON PIACE!!!! Diciamo che l'effetto è lo stesso che a voi fanno le famose scarpe ballerine che usano certe donne: Antisesso, anti tutto direi! Ma approfondiremo in altra occasione questa cosa. Passiamo alla vera storia di questo uso (non posso chiamarla moda, sarebbe come bestemmiare): La verità pare che arrivi dall'America, in particolare sembra che il tutto nasca nelle carceri e non certamente come moda. In prigione non si possono usare le cinture e quindi può capitare che la tuta arancione che devono indossare i carcerati, possa allentarsi sui fianchi. Pare anche tutto questo abbia portato alcuni detenuti ad abbassare volutamente i calzoni per indicare la disponibilità a fare sesso, creandone quindi un chiaro segnale per gli altri, ma senza che questo fosse notato dalle guardie carcerarie per evitare qualsiasi ritorsione. Ora: se questa ultima parte sia una leggenda metropolitana non lo so, ma tutto può essere al giorno d'oggi. In un secondo momento i rapper americani, per stringere solidarietà con i detenuti, hanno cominciato ad usare i pantaloni calati e da li ne è nata una moda nel mondo hip pop, tra gli skater etc. Stile chiamato Sagging (anche se io ci vedo poco di saggio, ehehe). Dopo aver letto questa cosa non sono più riuscita a guardare la gente con indosso questi baggy o pantaloni calati, senza ridere. Ogni volta penso a questa storia e mi domando se la gente prima di fare qualcosa legga, si informi o se faccia come le "pecore" con la regola del: basta seguire la prima e viaaaaaa! hahaahahah si ho la certezza che sia così.....è tipico della mentalità italiana, abituata a seguire la prima persona davanti e fare quello che fa lei. Lo noti nelle interminabili code al casello, quando ci sono 5 porte automatiche e tutti fanno la fila nella prima che tu sia in posta, ad un evento etc, lo vedi nella politica potrei citarne altre mille.
FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.
Si è fatto con Cristo…, figuriamoci con i poveri cristi.
“E quando fu sera, egli si mise a tavola con i dodici; e, mentre mangiavano, disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". Ed essi si rattristarono grandemente, e ciascuno di loro prese a dirgli: "Sono io quello, Signore?". Ed egli, rispondendo, disse: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto mi tradirà. Il Figlio dell'uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell'uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato". E Giuda, colui che lo avrebbe tradito, prese a dire: "Maestro, sono io quello?". Egli gli disse: "Tu l'hai detto!". Matteo 26
La predizione di Gesù. Quando, nell’imminenza dell’arresto, Gesù preannuncia il prossimo sbandarsi delle pecore rimaste prive del pastore (nonché, occorre pur dirlo, la propria successiva risurrezione), Pietro insorge esclamando: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Al che Gesù: “In verità ti dico che questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Ma Pietro insiste: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. E l’evangelista aggiunge che “similmente dissero anche tutti gli altri discepoli”. Abbiamo citato da Matteo (26, 33-35); la versione di Marco differisce solo in un particolare: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (14, 30). Sensibilmente diversa invece la versione di Luca (22, 31-34), che inizia con il preannuncio del ritorno di Simon Pietro al suo ruolo di guida dopo la defezione: “Simone, Simone, ecco, Satana vi ha reclamato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede. E tu, una volta ritornato, corrobora i tuoi fratelli”. Replica Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Al che Gesù ribatte come sappiamo: “Ti dico, Pietro, non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi”. Quanto al quarto vangelo, anche in esso figura, in forma un poco diversa, il botta e risposta tra Pietro e Gesù: "Pietro disse: ‘Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! Rispose Gesù: ‘Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte’" (Gv 13, 37-38). Rispetto ai Sinottici, manca, in questo passo, il preannunzio della diserzione di tutti i discepoli senza eccezione alcuna. Ciò è comprensibile se si pensa che il quarto evangelista afferma in seguito la presenza del discepolo prediletto ai piedi della croce. Con dubbia coerenza, però, il concetto della diserzione generalizzata viene espresso tre capitoli più avanti: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Dopo l’arresto di Gesù, già si è visto, le cose vanno in effetti come egli aveva preannunziato: tutti i discepoli si sbandano e fuggono.
Fenomenologia della negazione, scrive Salvo Vitale il 2 maggio 2016 su "Telejato" nelle fasi dello sandalo che ha investito Pino Maniaci. QUANDO IL GIUDIZIO CAMBIA, L’AMORE DIVENTA ODIO, L’AMICIZIA INIMICIZIA, IL RISPETTO DISPREZZO. Se si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. E’ più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che mi faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità o il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, o, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il pingpong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti. In quest’ultimo caso, poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, amarezze, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura. Tipico, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”, non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicchè la “dottrina dell’amore” diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era un “lagnusu”, non voleva lavorare, era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Garibaldi era uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza” , che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche era uno che è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse, ecc. Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni : se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD, è al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all’universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili. La “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così si conclude che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc. I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone. Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, “i grillini”, “i musulmani”, “persino i “Lions… “, tanto per mettere insieme cose di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e tutte le altre sono sbagliate. Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell’amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternitè”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi (gli “errori giovanili”) e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il “taglio” non è necessario trasformarlo in “omicidio”, passare attraverso la soppressione dell’amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l’amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere “insieme” sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti. Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, il cui traguardo è il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, dove ci si riconosce come “compagni”.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
SANTA INQUISIZIONE: COME LA RELIGIONE COMUNISTA CAMBIA LA STORIA.
La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.
Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure degli eccidi di Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia inclusi i 600,000 Vandeani, uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà e della superiorità anticlericale ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica
Streghe e Inquisizione: la verità storica oltre i luoghi comuni, di Bartolo Salone. Quando si parla di caccia alle streghe, nell’immaginario collettivo è immediato l’accostamento all’Inquisizione cattolica. Centinaia di migliaia, anzi milioni di donne sarebbero state sterminate per colpa di quell’esecrabile Istituzione, che certa storiografia liberal ci ha abituati a vedere come un covo di fanatici e integralisti religiosi assetati di sangue. Ma sono andate veramente così le cose? La ricerca storica, di recente, ha ribaltato questa prospettiva, dimostrando la falsità di una delle più diffuse “leggende nere” anticattoliche. Possiamo definire la stregoneria come quell’insieme di pratiche che una persona, in particolare relazione col Maligno, possa esercitare per nuocere ai suoi simili (secondo la credenza popolare). Benché si parli sovente di streghe e di caccia alle stesse, in realtà – come risulta dai documenti storici – la persecuzione riguardò, seppur in misura più ridotta, anche gli uomini e, in qualche raro caso, perfino i bambini. Contro un diffuso luogo comune di stampo femminista, va dunque rilevato come la “caccia” non era rivolta al sesso femminile in quanto tale, nascendo invece da una più generale ossessione per il diabolico. Ossessione – e qui va sfatato un altro luogo comune – sorta non nella Cristianità medievale, bensì nell’Europa moderna, proprio in quella osannata Europa della Riforma e del Rinascimento. Se nel Medioevo la credenza nella stregoneria non attecchì presso il popolo si deve proprio alla Chiesa cattolica, la quale, in numerosi Concili dal VI al XIII secolo (si pensi al Concilio di Praga del 563 o di Lione dell’840, fino ad arrivare ai Concili di Rouen e di Parigi, rispettivamente celebrati nel 1189 e nel 1212), condannò come superstiziosa idolatria la credenza che esistessero persone capaci di esercitare la magia nera in forza dei loro rapporti con il diavolo. A partire dalla fine del XIII secolo, le credenze stregonesche, per ragioni storiche che in questa sede non è possibile riepilogare, si fanno sempre più diffuse sia presso il popolo che presso alcuni ecclesiastici ed uomini di cultura. Sul piano dogmatico la posizione ufficiale della Chiesa sulla stregoneria (formulata nei predetti Concili) non muta, tuttavia muta la risposta al fenomeno: streghe e stregoni, proprio perché contravvengono agli insegnamenti della Chiesa e al divieto di esercitare le arti magiche, vengono considerati alla stregua degli eretici, e pertanto la competenza giurisdizionale, nei Paesi cattolici, viene sottratta ai tribunali civili e assegnata ai tribunali inquisitoriali. Secondo una certa vulgata (sostenuta con forza da intellettuali “liberal” e da romanzieri asciutti di storia alla Dan Brown) questo avrebbe segnato l’inizio di una vera e propria mattanza, che nell’arco di tre secoli avrebbe portato al rogo non migliaia, ma addirittura milioni di donne (tutte ascrivibili, manco a dirlo, al fanatismo e alla misoginia propri del mondo cattolico). Fin qui la “leggenda”. La verità è però ben diversa e per rendercene conto basterà riferirsi ad alcuni dati tratti dall’opera più completa ed aggiornata di cui ad oggi si dispone in tema di stregoneria e di caccia alle streghe: si tratta della “Enciclopedia della stregoneria, la Tradizione occidentale” edita nel 2007 dalla Abc-Clio e curata dallo storico anglosassone Richard Golden, per un totale di ben 752 voci, compilate da 172 studiosi di 28 diverse nazionalità. Innanzitutto, facciamo attenzione alla periodizzazione e alla “geografia” del fenomeno: la cosiddetta “caccia alle streghe” (ma, come visto, non mancarono anche roghi di stregoni) va dal 1450 al 1750 (siamo dunque in piena età moderna, non nel “buio” Medioevo) e interessò un po’ tutti i Paesi europei, sia cattolici che protestanti. Quante le persone giustiziate per stregoneria? Centinaia di migliaia o milioni, come ci ripetono alcuni? Ebbene, la cifra “vera” si aggira tra le 30.000 e le 50.000 unità, da “spalmare” nel corso di tre secoli: una cifra considerevole, ma comunque irrisoria se paragonata ai milioni di morti delle grandi rivoluzioni e guerre dell’800 e delle stragi del ‘900, e in ogni caso non tale da giustificare la definizione di “genocidio” né tantomeno di “olocausto”. Un fenomeno prevalentemente cattolico, dovuto alla furia dei tribunali inquisitoriali? Anche questa è una falsità bell’e buona. Infatti nei Paesi che avevano l’Inquisizione, le “streghe” giustiziate furono soltanto 310 (precisamente, 300 in Italia e Spagna e soltanto 10 in Portogallo), a cui si aggiungono (per rimanere in ambito cattolico) i 600 casi della Francia e i 4 dell’Irlanda. La grande massa (tra le 15.000 e le 25.000 vittime) è concentrata in Germania, mentre la piccola Svizzera contribuì al massacro con 3.000, la Scandinavia con 2.000 e la Scozia con 1.000. Si ha quindi conferma che la mattanza fu concentrata soprattutto nei Paesi luterani, calvinisti, anglicani o in quei piccoli Stati tedeschi che non avevano l’Inquisizione cattolica. Dunque, l’Inquisizione costituì non un incentivo (come a lungo ci è stato fatto credere), bensì un freno (e molto efficace) contro la persecuzione delle “streghe”. Le ragioni ci sono spiegate dallo storico Richard Golden in questo modo: “Nelle terre dove regnava la legge dell’Inquisizione cattolica vi furono meno vittime rispetto ad altre regioni d’Europa. Questo si deve al fatto che le tre Inquisizioni applicavano regole omogenee ovunque, avevano propri tribunali composti da giudici con nozioni basilari di diritto e applicavano la legge seguendo canoni universali, rispondendo a un unico potere. In Germania, invece, dove si ebbe il numero più alto di streghe uccise, la realtà era opposta: ognuno degli oltre trecento principati e staterelli aveva un sovrano con un suo tribunale che applicava la legge a piacimento e di conseguenza i pericoli per le presunte streghe aumentavano. I tribunali laici del nord e del centro dell’Europa condannarono a morte molte più streghe di quanto fecero quelli dell’Inquisizione cattolica romana, che facevano maggiore attenzione al rispetto di garanzie legali e di conseguenza limitavano il ricorso alla tortura”. Non penso ci sia bisogno di aggiungere altro, se non che da cattolici realmente maturi e amanti della verità dovremmo imparare ad andare oltre certi luoghi comuni e a guardare con più serenità ed obiettività al nostro passato. E non solo per un dovere di carità verso quanti ci hanno preceduto nella fede, ma anche per saper rispondere a ragion veduta a quanti vorrebbero farci vergognare della nostra fede presentandoci una visione parziale e in molti casi deformata della storia della Chiesa. Introduzione Floriana Castro testo seguente tratto da appuntiitaliani.com
L’eresia, la propaganda e la leggenda della chiesa assassina. La Santa Inquisizione, scrive il 29 agosto 2015 antimassoneria. Sicuramente alcuni lettori al semplice suono della parola “medioevo” avranno già davanti scenari cupi e tenebrosi di cumuli di cadaveri ammassati sui carri nel periodo della peste bubbonica o i roghi della chiesa assassina! Quando parliamo di Inquisizione è proprio il caso di dire: basta la parola. Basta pronunciare il termine Inquisizione ed ecco che noi cattolici restiamo senza parole, ammutoliti. Beh, la chiesa non è più come quella di una volta, oggi i papi non fanno altro che inchinarsi e chiedere perdono davanti a chi ha perseguitato impenitentemente la Chiesa di Cristo. Oggi i papi prendono le distanze dalla tenacia con la quale i loro predecessori hanno difeso l’etica cristiana. Suppliche di perdono che tra l’altro non vengono nemmeno accettate -come nel caso dei valdesi-, che si scissero dalla Chiesa rifiutando la sottomissione alle autorità episcopali ed in seguito combatterono ferocemente la Chiesa Cattolica, anche con la violenza: Essi si diedero alla rapina, al saccheggio, alle stragi di cattolici, a violenze gratuite di ogni genere nel corso dei secoli. Fino a poco più di cent’anni fa misero a punto vari attentati con lo scopo di assassinare San Giovanni Bosco. Invano il vescovo Bellesmaius li richiamò all’ordine. Il papa Lucio III finì per condannarli, nel concilio di Verona e nella Bolla Ad abolendam, del 4 novembre 1184. In seguito i valdesi si organizzarono come setta separata dalla Chiesa. Dallo scisma passarono presto all’eresia. Molto più tardi, verso il 1533, adottarono le principali dottrine della Riforma protestante: Fu questo ad attirare su di essi le repressioni legali sotto Francesco I. Essi furono allora, per ordine del Parlamento di Aix-en-Provence, le vittime di una tremenda spedizione punitiva, durante la quale vi furono migliaia di morti (le cifre variano fra 800 e 4.000 per 22 villaggi distrutti). Oggi i Valdesi si dichiarano ecumenici e desiderosi di collaborare nella Chiesa targata “Vaticano II” dopo aver chiarito alcuni punti teologici con Bergoglio, ricordiamo i punti teologici sulla quale si basano i valdesi: matrimoni gay, sostegno a movimenti LGBT, contraccezione, aborto, eutanasia, testamento biologico (i cui registri, in diverse città, sono gestiti proprio dai valdesi). Chiudiamo la parentesi dei valdesi; andiamo al cuore del problema: cosa ha fatto la chiesa per difendere la sua dottrina nel passato? Davvero gli scenari erano quelli descritti nel libro “Il nome della rosa” di Umberto Eco? E’ vero che tante povere donne innocenti venivano date al rogo solo per tenere un gatto nero in casa? “Come è possibile che la Chiesa cattolica sia stata capace di istituire i tribunali dell’Inquisizione?” domandano e ci ricordano i laicisti e gli avversari della Chiesa. E noi, spesso, non sappiamo che cosa rispondere. Anzi, molti cattolici spesso per ignoranza accusano i cristiani del passato, chiedendo scusa alle presunte vittime. Scusa? Ma conoscete la Santa Inquisizione?
COSA FU L’INQUISIZIONE? L’inquisizione è l’argomento privilegiato dai signori della sovversione per denigrare la storia della Chiesa e con questo pretesto anche la fede cattolica. La Santa Inquisizione fu istituita da Papa Gregorio IX nel 1232, per reprimere eresie, sacrilegi, stregonerie e gravi delitti. Quando ci si trovava davanti a delitti gravi e gli accusati non si pentivano, erano consegnati all’autorità civile, che li castigava secondo la legge. Ovviamente bisogna giudicare le cose secondo la mentalità dell’epoca. In Europa erano tutti obbligati a seguire la religione del re, secondo il principio “CUIUS REGIO, EIUS ET RELIGIO” (di chi è la regione, dello stesso è la religione) per cui un delitto nel campo religioso (eresia) era considerato come attentato contro lo Stato, che interveniva con tutto il peso della legge. Ad accendere i roghi furono prima la gente comune e poi le autorità, tanto che la Chiesa dovette intervenire per avocare a sé il problema. Cioè: in tema di religione solo la Chiesa ha la competenza necessaria nonché la misericordia occorrente affinché sul rogo non ci finisca qualche sprovveduto. Perciò creò l’Inquisizione, un tribunale di esperti teologi con tanto di garanzie che accertava che l'“eretico” fosse veramente tale e non un poveraccio tratto all’eresia da ignoranza. Se l’imputato persisteva nelle sue “idee”, la Chiesa non poteva fare più nulla per lui e passava la mano all’autorità civile. Pertanto, servirsi di questo fatto per attaccare il cattolicesimo e la sua dottrina è storicamente scorretto. Ricordate quanti cristiani furono dati in pasto ai leoni? quanti cristiani furono decapitati ai tempi della Roma pagana? Come mai nessuno ricorda le vittime cristiane sacrificate in nome della “libertà, uguaglianza e fraternità”? E le vittime cristiane durante gli anni 30 in Spagna? e le vittime causate dal Comunismo in Russia e in tutti i paesi comunisti? E i cattolici martirizzati ai tempi dell’istituzione dell’Anglicanesimo in Inghilterra, come si può dimenticare ciò? Anche perchè stiamo parlando di ben 70.000 martiri uccisi per impiccagione e squartamento che avveniva prima della morte per soffocamento,- Beh, a me non sembra corretto non ricordare mai nemmeno le vittime causate dall’inquisizione protestante, numero assai superiore di quella Spagnola. Non c’è obiettività…mi sembra ovvio che il bersaglio da colpire è sempre la chiesa cattolica e la sua dottrina. E' abitudine citare il processo e l’atto di abiura di Galileo Galilei, sospettato di eresia. Il conflitto che egli stava affrontando contro una parte della Chiesa riguardava l’interpretazione di Galileo verso alcuni passi biblici che sostengono l’immobilità della terra e del movimento del sole distorti a favore dell’eliocentrismo. Consideriamo che la Chiesa prima delle prese di posizioni di Galileo era stata favorevole all’ “ipotesi copernicana”. Si evita di chiarire che dopo il processo Galileo non finì sul rogo, ma fu trasferito presso l’arcivescovo di Siena, dopo pochi mesi gli fu concesso di trasferirsi presso la sua abitazione. Pochi conoscono il “segreto” del processo alla quale fu sottoposto Galileo. Proprio di questo “caso” parla il libro “Lezioni da Galileo” recentemente pubblicato da APRA in italiano, scritto dal celebre storico della scienza Stanley Jaki (scomparso nel 2009). Jaki ha smontato diverse leggende, chiarendo che la Chiesa non era affatto interessata a prendere posizione sul sistema copernicano in sé e che non lo temeva affatto. Anche perché, come abbiamo scritto, già quattro secoli prima di lui san Tommaso d’Aquino (1225-1274) disse che la concezione tolemaica, proprio perché non suffragata da prove, non poteva considerarsi definitiva. Inoltre, diversi pontefici, come Leone X e Clemente VII, si mostrarono aperti alle tesi del sacerdote cattolico Copernico (nessun “caso Copernico”, infatti), tanto che nell’Università di Salamanca, proprio negli anni di Galilei, si studiava e si insegnava anche la concezione copernicana (e lo stesso Galilei ne era consapevole). Nel 1533 papa Clemente VII, affascinato dall’eliocentrismo, chiese, ad esempio, a Johann Widmanstadt di tenergli una lezione privata sulle teorie di Copernico nei Giardini Vaticani. L’opposizione all’eliocentrismo venne invece in modo compatto dal mondo protestante, tanto che Lutero scrisse di Copernico: «Il pazzo vuole rovesciare tutta l’arte astronomica». Ancora oggi i protestanti hanno grossi problemi con il mondo scientifico (creazionismo Vs evoluzione) a causa della mancanza di interpretazione della Bibbia. La critica a Galileo da parte della Chiesa fu basata invece dalla mancanza di prove sufficienti a favore dell’eliocentrismo e dunque sulla sua inopportuna presentazione come unica descrizione scientifica dell’universo, tale da costituire criterio di interpretazione della Sacra Scrittura. Galilei, inoltre, utilizzò come unica prova l’argomento dell’esistenza delle maree, che invece gli astronomi gesuiti collegavano non alla rotazione della terra ma all’attrazione lunare (e avevano ragione loro, non certo lo scienziato pisano). Tuttavia molti ecclesiastici erano d’accordo con Galilei, come ha perfettamente spiegato lo storico ateo Tim O’Neill, «tutta la vicenda non era basata su “scienza vs religione”, come recita la favola della fantasia popolare.
QUANTE VITTIME FECE L’INQUISIZIONE? Nell’immaginario popolare si pensa che i tribunali dell’Inquisizione siano stati istituiti per mandare tutti gli eretici al rogo. Si pensa che tutti gli inquisiti, tutti coloro che cadevano nelle terribili braccia dell’inquisitore finivano al rogo. Questo è quello che si pensa, questo è quanto molto spesso ci viene detto ed insegnato e affermazioni di questo genere zittiscono ogni possibile difesa. Noi ci domandiamo: le cose stanno proprio così? Vediamo qualche dato storicamente documentato, che ci aiuti a formulare un giudizio più vicino alla verità storica. Innanzitutto, ricordiamo che la condanna al rogo per gli eretici era una pena stabilita dal diritto penale e non dal diritto canonico. Non esiste nel diritto canonico la condanna al rogo. Fu l’imperatore Federico II di Svevia, che dichiarò per tutto l’impero – e lui era la massima autorità dell’impero e poteva farlo, allora, – l’eresia come crimine di lesa maestà, e stabilì la pena di morte per gli eretici. Ogni sospetto doveva essere tradotto davanti a un tribunale ecclesiastico e arso vivo se riconosciuto colpevole. Dunque, è vero che quando il tribunale dell’Inquisizione abbandonava un eretico al braccio secolare, questi veniva condannato a morte dalla giustizia secolare, se non si pentiva, ma non era la Chiesa a condannarlo a morte, nè era la Chiesa ad ucciderlo. La Chiesa si limitava a riconoscerlo come eretico che rifiutava ogni pentimento. Era il diritto penale e il braccio della legge che prevedevano la morte ed eseguivano la sentenza. Detto questo, entriamo un po’ nel merito e qui emergono sorprese: quale stupore ci coglie tutti se esaminiamo quante sono state le condanne al braccio secolare. L’esame dei dati ci indica che i tribunali dell’Inquisizione furono molto prudenti nel consegnare gli eretici al braccio secolare. I dati, documentati storicamente, non mancano, basta conoscerli. Facciamo l’esempio di Bernardo Gui, che ha esercitato con una certa severità l’ufficio di inquisitore a Tolosa. Bene: dal 1308 al 1323 egli ha pronunciato 930 sentenze. Abbiamo l’elenco completo delle pene da lui inflitte: 132 imposizioni di croci – 9 pellegrinaggi – 143 servizi in Terra Santa – 307 imprigionamenti – 17 imprigionamenti platonici contro defunti – 3 abbandoni teorici al braccio secolare di defunti – 69 esumazioni – 40 sentenze in contumacia – 2 esposizioni alla berlina – 2 riduzioni allo stato laicale – 1 esilio – 22 distruzioni di case -1 Talmud bruciato – 42 abbandoni al braccio secolare e 139 sentenze che ordinavano la liberazione degli accusati. Soltanto l’ 1% ! Questi dati contestano il mito della crudeltà dell’Inquisizione spagnola. E non solo. Lo storico statunitense Edward Peters ha confermato questi dati. Sentiamo che cosa scrive: “La valutazione più attendibile è che, tra il 1550 e il 1800, in Spagna vennero emesse 3000 sentenze di morte secondo verdetto inquisitoriale, un numero molto inferiore a quello degli analoghi tribunali secolari”. Come vedete, grazie a questi dati, va sfatata la leggenda che tutti coloro che venivano giudicati dall’ inquisizione finivano a rogo. È una leggenda che gli storici hanno smontato, ma che perdura ancora nell’immaginario popolare. Nei documenti inquisitoriali, abbiamo incontrato condanne alla prigione “perpetua e irremissibile”. Ma attenti a non farsi ingannare da certi modi di esprimersi del tempo. Abbiamo condanne al “carcere perpetuo per anni uno”. Solitamente “perpetuo” vuoi dire 5 anni, “irremissibile” vuoi dire 8 anni. La pena dell’ergastolo non era prevista.
CHI ERANO QUESTI CITTADINI CHE L’IMMAGINARIO VUOLE ESSERE STATI PERSEGUITATI PER LE LORO IDEE RAZIONALI? QUALI ERANO QUESTE IDEE? Ora, diciamo subito una cosa molto scomoda e fuori moda: non si deve pensare come è abbastanza diffuso nell’immaginario popolare che i condannati fossero pacifici cittadini adibiti a pratiche religiose del tutto innocue e le donne delle pie sante devote accusate ingiustamente senza alcuna prova, non e’ affatto la verità! essi erano in realtà colpevoli di praticare stregoneria e omicidi rituali, basti pensare a quante donne improvvisate ”ostetriche” compivano aborti fino alle ultime settimane di gravidanza per poi sacrificare i resti delle povere creaturine in rituali satanici. Gli eretici spesso costituivano un autentico pericolo per la pace sociale. Pensiamo ai Catari. Condannavano il matrimonio, la famiglia e la procreazione. Per i Catari non bisognava comunicare la vita, ma distruggere la famiglia, in poche parole: distruggere l’intera società medievale, lottavano anche con violenza contro la Chiesa. Negavano il valore del corpo, che consideravano prigione dell’anima. Questa soffre e si può liberare solo sopprimendo il corpo. Talvolta praticavano il suicidio e istigavano a compierlo, causavano rivolte e caos. I catari erano potenti e privi di scrupoli. L’autorità civile non intendeva permettere che, a furia di vietare la procreazione, l’umanità si estinguesse (tra l’altro, i catari proibivano il giuramento, che era la base della società feudale). Ben pochi sanno tutto questo. I settari sorvegliano attentamente e si affrettano ad intervenire perciò onde soffocare ogni timido accenno (non oseremmo mai parlare di restaurazione cattolica dopo il Vaticano II) di rievocazione della grandezza dell’Europa medioevale: la Leggenda Nera dei secoli caliginosi e bui deve essere mantenuta e un torrente di anatemi è scagliato ogniqualvolta si cerchi di metterla in discussione. Eloquente in proposito un articolo comparso nel maggio 1990 sul New York Times – testata giornalistica di proprietà della ricchissima famiglia ebraica dei Sulzberger – a firma di Dominique Moisi, vicedirettore dell’IFRI, l’Istituto per gli Affari Internazionali francese, intitolato: “Uno spettro ossessiona l’Europa: il suo passato”. Vi si dice: “Disgraziatamente (ora che l’Est si è liberato), nell’ombra esiste un’altra Europa, dominata da uno spirito di ritorno alle sue cattive inclinazioni di un tempo, nei richiami alle nere tentazioni della xenofobia, del razzismo e dello sciovinismo”. “[…] Noi non dovremmo sognare di ricostruire un’Europa cristiana sulle ceneri del mondo comunista o nei limiti di un certo capitalismo. L’Europa che Giovanni Paolo II desidera è quella nella quale la maggioranza degli Europei non si troverà molto a suo agio. La Chiesa – che storicamente è responsabile dell’antisemitismo – non saprà offrire soluzioni a una nuova Europa; soltanto i valori umanisti e le istituzioni democratiche sapranno farlo. O altrimenti il muro di Berlino sarà caduto invano”. Non esiste, né può esistere, una società che non si basi su un corpus strutturato di idee (chiamateli, se volete, valori, princìpi, religione civile) e che non lo difenda se vuole continuare a sussistere, ieri come oggi (basti pensare alle leggi sull’omofobia). (Il corriere della sera equipara l’ISIS ai roghi dell’Inquisizione). Eh si, che fortuna che abbiamo, i tempi sono cambiati, adesso non siamo più nel medioevo. Oggi paghiamo il 50 per cento dei nostri introiti ai prestatori di capitale, mentre nel medioevo il cittadino doveva solo la decima alla Chiesa o al feudatario. Oggi si può liberamente bestemmiare senza vergogna, si può ostentare con orgoglio il peccato, e si possono esigere diritti per i suoi perpetratori; si possono aprire pagine blasfeme su Facebook (in linea con i termini della community) create appositamente affinchè ognuno scriva la propria bestemmia sulla pagina; si possono tranquillamente ammazzare i propri figli nel ventre materno con la benedizione delle istituzioni e i soldi dei contribuenti; si può tranquillamente essere iniziati al satanismo comodamente da casa; ci si può arruolare tra i miliziani dell’ Isis con dei semplici click davanti ad un computer… Un uomo senza radici, infatti, privo di riferimenti, senza terra, senza uno scopo di vita diverso dal piacere e dall’accumulo di beni materiali fine a se stesso, è esattamente il prototipo ricercato dai mondialisti, docile burattino massificato, le cui pretese non travalicano il benessere biologico e la cui visione del mondo – solo a prima vista ampia, essendo egli una specie di apolide senza tradizioni. Che fortuna che abbiamo noi ad essere nati in una società così moderna ecumenica e progressista!
ELOGIO DEL PLAGIO. CHI, COME, E PERCHÉ IL “COPIA E INCOLLA” È LA BASE – NASCOSTA – DELLA LETTERATURA. Di Luigi Mascheroni del 29 agosto 2014. Pubblichiamo, in anteprima, il capitolo introduttivo del saggio che Luigi Mascheroni sta scrivendo sul plagio letterario e giornalistico, e che sarà pubblicato nella primavera del prossimo anno. Il titolo non è ancora definito. Si tratta di un work in progess. L’autore chiede a chiunque voglia aiutarlo consigli, indicazioni, suggerimenti. Nel 1988 David Foster Wallace, considerato oggi uno degli scrittori più originali della nostra epoca, sta per pubblicare il suo secondo libro, La ragazza dai capelli strani, una raccolta di racconti tra i quali ne figura uno, destinato a diventare leggendario, intitolato La mia apparizione. Parla del potere dei media (e della televisione in particolare, di cui lo scrittore americano era dipendente forse più dell’alcol e della marjuana) che nella società dello spettacolo arrivano a colonizzare ogni aspetto dell’esistenza umana, fino ai nostri pensieri più intimi. La fonte diretta dell’ “ispirazione” della storia di David Foster Wallace è una puntata del popolare programma Late Night with David Letterman nella quale è ospite l’attrice Susan Saint James. Poco prima dell’uscita in volume, il racconto viene concesso, come lancio, a Playboy. Ma mentre sta per andare in stampa, un editor della rivista, una sera, per puro caso, s’imbatte proprio in una replica di quella puntata e riconosce nelle parole dell’attrice alcuni brandelli dei dialoghi presenti nel racconto. Allarmato, avverte subito l’editor di Wallace e l’ufficio legale della propria redazione. Ormai è troppo tardi per modificare il testo e La mia apparizione esce comunque sul numero di giugno del 1988 di Playboy. Ma, ormai dubbiosa della reale originalità del talento creativo dello scrittore, la casa editrice che avrebbe dovuto pubblicare la raccolta, Viking Penguin, si tira indietro. E Alice Turner, l’editor di David Foster Wallace, furiosa, scrive una lettera di fuoco al suo pupillo in cui lo avverte che la sua reputazione è in pericolo: gli scrittori americani che si macchiano di plagio non vengono mai perdonati. Ma proprio il fatto che David Foster Wallace non sia mai stato dimenticato, tanto meno dopo il suicidio, dimostra che Alice Turner, editor eccellente ma troppo rigorosa, si sbagliava. Non solo l’autore di Infinite Jest è (rimasto) immortale nonostante il suo plagio (ammesso che lo si possa reputare tale: chiunque di noi considererebbe tutto ciò pura e legittima ispirazione). Ma addirittura ha contagiato e influenzato molti altri scrittori. In un lungo reportage letterario, da San Francisco a Los Angeles, “per scoprire quanto manca David Foster Wallace”, Paolo Giordano, devoto all’autore-culto americano, confessa che “I libri mi spingono a scrivere come lui. Con una forza di attrazione plagiatoria che nessun altro autore ha mai più esercitato su di me”. Dice proprio così: “una forza di attrazione plagiatoria”. Certo, David Foster Wallace era ed è un genio fuori dagli schemi, e non fa testo. Ma rimane il fatto che moltissimi scrittori s’ispirano alla realtà, o addirittura la copiano. Si nutrono – e nutrono le proprie pagine – di brani, dialoghi, momenti di vita, “pezzi” di idee: tutti altrui. E non potrebbero farne a meno. La scrittura creativa vive di ispirazioni e imitazioni. Qualcuno deve averlo pur detto – e anche scritto da qualche parte – che la letteratura è tutto un inseguirsi, un mimetizzarsi, un cercarsi, un compenetrarsi, un fondersi, un assimilarsi e, infine, un citarsi. Appunto. E non per questo le “nuove” opere appaiono meno originali. Anzi: ri-creando, re-inventando, ri-scrivendo, ri-plasmando parole e pensieri (di chi ci ha preceduti) la realtà spesso appare migliore, e la narrazione ci guadagna. Anche quando – addirittura – un’opera letteraria s’ispira – o emula, o riscrive, o copia, o plagia – le pagine di un altro narratore. Il poeta catalano, nato a Barcellona nel 1945, Pere Gimferrer, in un breve saggio dal titolo I segreti del plagio, cita due scrittori originali e misteriosi. Il primo è lo spagnolo Josep Pla i Casadevall (1897-1981), il quale a proposito dei libri italiani di Stendhal sosteneva fossero “puro e semplice plagio: gli aneddoti che contengono sono un meraviglioso plagio. Ho sempre sostenuto che la buona letteratura è un plagio”; e il secondo è Isidore Lucien Ducasse, noto al mondo come Conte di Lautréamont (1846-1870), metà uruguaiano metà francese, che prima di morire, giovanissimo, lasciò alcune Poésies epigrammatiche e sarcastiche, di fatto paradossali aforismi in prosa, il più impressionante dei quali recita: “Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Il plagio cattura la frase d’un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta”. Sintetizza Pere Gimferrer: “Il plagio è la chiave di volta della letteratura e, al tempo stesso, il suo massimo mistero. Il plagio d’argomenti è ancora poco importante: Fedra, Medea, Antigone, sono archetipi mitici, morali, non aneddoti. Ma il plagio dei dettagli letterali, dei dati, delle espressioni, ci turba di più, perché è, certamente, la base della grande letteratura. Si potrebbe dire che la cattiva letteratura è semplicemente un cattivo plagio, un plagio non riuscito. E la buona letteratura? La buona letteratura, io credo, ha scoperto l’essenza del buon plagio. Il quale, essendo buono, già non è più plagio. Il buon plagio sa che il materiale letterario esistente è parte della porzione di realtà alla portata dello scrittore”. Come dimostra la storia di tutte le letterature e la cronaca di ogni giorno, tutti rubano. Senza copiare, i giornali non uscirebbero. E senza plagio, la letteratura sarebbe più povera. Anche il più originale degli autori – (in)consciamente – ruba frasi, idee, trame, contesti, personaggi, versi, battute. La letteratura è furto. E come diceva Voltaire, uno che in materia la sapeva lunga, “Tra tutti i crimini il plagio è il meno pericoloso per la società”. Anzi, l’intera società è un furto. Gli scrittori si ispirano, i giornalisti copiano (anche se dicono di usare “ritagli d’archivio”), i saggisti ri-copiano (spesso interi paragrafi di Wikipedia), gli artisti citano, gli architetti rifanno, i musicisti orecchiano, i comici riprendono, gli sceneggiatori adattano (testi “originali”), gli autori televisivi ri-adattano (i format), i pubblicitari mixano (idee degli altri), i politici fotocopiano (tesi e programmi altrui). Si fa man bassa dell’immaginario condiviso, si riscrive ciò che non si ricorda di aver letto, si ripete ciò che non ci si ricorda più di aver udito, si riproduce – con varianti – ciò che non ci si ricorda di aver già visto. Si ripete ciò che senza accorgerci si è appena ritwittato. Disponiamo dell’altrui come se fosse nostro. E infatti è nostro. Anche se non ci appartiene. Anche su un capolavoro assoluto come Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, un romanzo che ha ispirato intere generazioni di scrittori, sono state ventilate illazioni in merito alla non originalità della storia. Ma, come rispose Fernanda Pivano, che conosceva benissimo sia l’autore che il romanzo, “Il libro fu scritto nel 1951, ma una prima versione della storia si trova in un racconto del ’36. Si sa che all’origine c’è un resoconto orale di un amico di Hemingway, Carlos Gutierrez, ma questo fa parte del metodo di lavoro dello scrittore: a partire dalla cronaca, da personaggi, da fatti reali, per costruire romanzi a tesi”. Si deve sempre partire da qualcosa. Che non è mai nostro. Charles Nodier (1780-1844), novelliere molto famoso nella propria epoca e grande bibliofilo (e egli stesso squisito plagiatore: un suo racconto deriva quasi integralmente dalla “Decima giornata” del celebre Manoscritto trovato a Saragozza di Jean Potocki), autore nel 1812 di una curiosa inchiesta (era figlio di un magistrato…) sui “Crimini letterari” dove si occupa, tra le altre cose, di falsi, citazioni, allusioni, appropriazioni e plagi, di fatto sostiene l’idea che la Repubblica delle Lettere è fatta soprattutto di criminali, perché anche il più originale degli autori ruba. Certo, occorre misura, come in tutte le cose. “Quando si saccheggia un autore moderno – suggerisce Nodier – prudenza vuole che si nasconda il bottino. Ma guai al plagiario se è troppo grande la sproporzione tra quel che ruba e ciò a cui lo incolla”. Insomma, se William Shakespeare rubacchiava (eccome se rubacchiava) nel sacco dei poeti suoi contemporanei, e il risultato sono le sue opere immortali, è la Letteratura che ci guadagna. Ma se un oscuro scribacchino si appropria delle parole di un classico per appiccicarle al proprio romanzetto, a perderci sono entrambi. Poi, c’è chi ne fa una semplice questione linguistica, considerando l’ “appropriazione” da un autore straniero più un’utilità sociale, al pari della traduzione, che un furto. Perciò il poeta barocco Giambattista Marino (1569-1625), il quale di citazioni, allusioni, pastiche e plagi ne sapeva parecchio (era il primo ad ammettere candidamente di leggere le opere altrui “col rampino”), non aveva difficoltà a sostenere che “prendere dai connazionali è fare bottino, ma prendere dagli stranieri è fare conquiste”. Scrivere è anche ri-scrivere, è omaggiare la tradizione. Se serve, anche assassinarla. In fondo, faceva notare qualcuno, scrivere è un’arte combinatoria fra 22 modestissime lettere dell’alfabeto. E come sosteneva Jorge Luis Borges dentro quel pugno di simboli ci sono tutti i libri, passati, presenti e futuri. Le figure, le trame e le situazioni narrative sono migliaia di migliaia, ma una volta inventate emigrano da un inconscio all’altro e riaffiorano qua e là, con minime varianti. “La musica orecchiabile, proprio perché tale, assomiglia a qualche cosa già scritta, già proposta alla gente. Se non fosse stata udita non avrebbe successo”, disse una volta il maestro Ennio Morricone. E la stessa cosa lo si può sostenere per la narrativa, e non solo per quella più “pop”, di consumo, di genere. I poemi epici, le favole antiche, i grandi classici, le saghe: tutte storie già “orecchiate”, già udite, già sedimentate nel ricordo (inconscio) dei popoli, e dei loro bardi. Da Omero a Virgilio, da Virgilio a Dante, dai tragici greci a Racine e Corneille, non escludendo (anzi!) Shakespeare, le medesime “storie” sono state raccontate infinite volte, senza mai tradire le attese del pubblico. A fare la differenza, non è mai stato il “cosa” si racconta, ma il “come”. Questione di stile.
Qualsiasi artista o creativo o intellettuale trae ispirazione da opere altrui. Dagli antichi ai post-postmoderni, passando per la nota querelle accademica dell’imitazione letteraria degli ‘antichi’ da parte dei ‘moderni’ (pratica che un tempo veniva considerata una vera e propria scuola di scrittura e idee), è una lunga storia di calchi, prestiti, saccheggi, imitazioni, scippi, cover, citazioni, echi, allusioni, appropriazioni, similitudini, analogie, coincidenze, omaggi, campionature, somiglianze, contaminazioni, debiti, cloni, furti, cut-up, copia-e-incolla. Come hanno scritto: “Il plagio è un’arte, non un delitto”. La letteratura non può farne a meno, il giornalismo ne ha fatto la propria essenza, la Rete – “un’enorme cava a cielo aperto di materiali da plagiare” – lo ha universalizzato, sottraendolo a qualsiasi giurisdizione. Dall’italiano plagio al francese plagiat, dall’inglese plagiarism al tedesco plagiat: siamo tutti pirati di parole. Dagli autori classici alla narrativa di consumo fino ai bestseller, tutti in qualche modo “copiano”: alcuni in maniera elegante, altri con dolo, altri ancora applicando il furto con destrezza. Ma è davvero un crimine? “Il plagio è la base di tutte le letterature – disse Jean Giraudoux (1882-1944) – eccetto la prima, che ci è sconosciuta”. Mentre Federico Fellini, che sul tema era molto à la page (ne sanno qualcosa i cinefili), diceva: “I veri geni copiano”. La storia della letteratura, o meglio, della creatività umana, mostra un continuo ed esteso processo di riscrittura, commistione, ricombinazione, ovverosia di plagio nelle sue infinite sfumature. E’ una lunga battaglia. Da una parte legislatori, autorità ed enti che amministrano il copyright, “diritto d’autore”, e si battono per tutelare e difendere da furti e abusi la “proprietà intellettuale”. Dall’altra i “pirati” del copyleft, i paladini dell’open source, della libera circolazione e del ri-uso delle idee, che quella “proprietà” contestano e assaltano, in nome della “libertà di copiare”. Come scrive un membro del collettivo anti-copyright Wu Ming: “Per decine di millenni la civiltà umana ha fatto a meno del copyright (…). Se fosse esistita la proprietà intellettuale, l’umanità non avrebbe conosciuto l’epopea di Gilgamesh, il Mahabharata e il Ramayana, l’Iliade e l’Odissea, il Popol Vuh, la Bibbia e il Corano, le leggende del Graal e del ciclo arturiano, l’Orlando Innamorato e l’Orlando Furioso, Gargantua e Pantagruel, tutti felicissimi esiti di un esteso processo di commistione e ricombinazione, riscrittura e trasformazione, insomma di plagio, nonché di libera diffusione e performance dal vivo (senza l’interferenza degli ispettori Siae)”. E così, mentre ogni giorno e ogni notte, milioni di persone combattono la loro battaglia per la libertà contro gli occhiuti vigilantes dei governi e delle corporation dell’entertainment, scaricando, riproducendo, distribuendo, condividendo, masterizzando, in un processo continuo di erosione dei confini tra originale e copia, tra intuizioni semioriginali e imitazioni smaccate, finisce che inevitabilmente, più o meno (il)legalmente, tutti copiano tutto, in tutti i campi dello scibile. Nella letteratura (si iniziò nel mondo greco e romano, si continua con i bestseller digitali), nella poesia (dai Nobel come Eugenio Montale ai poetastri della domenica a corto di illuminazioni), nel giornalismo (dal leggendario Jayson Blair al nostro Roberto Saviano), nella saggistica (dalla storia alla scienza, dalla filosofia alla teologia, spesso succhiando dalla Rete intere frasi, paragrafi, capitoli, conclusioni, spesso senza citare), nel cinema (ormai in crisi creativa e che si affida sempre di più a film tratti dai libri: quasi una duplicazione narrativa), nel teatro (a partire dal gigante Bertolt Brecht) e nei testi comici (il caso di Daniele Luttazzi, il quale ri-faceva battute di colleghi americani, travolto dalla furia iconoclasta di Internet, a Maurizio Crozza che ha rubato con disinvoltura battute da Twitter), nei fumetti (il caso del disegnatore della Panini Comics Giuseppe Ferrario, autore delle tavole de Le Cronache del Mondo emerso tratto dalla saga di Licia Troisi, sospeso dall’azienda perché replicava personaggi, pose, sfondi, panorami del maestro di manga e anime Hayao Miyazaki), nei serial e nei format televisivi (dalla serie culto New Girl a Ballando sotto le stelle), nella musica (l’ultimo caso, eclatante, è quello di Sergio Endrigo che post mortem si è visto riconoscere dal compositore Luis Bacalov la co-paternità della colonna sonora del film Il postino, Oscar nel 1996; ma si calcola che le cause di plagio musicale pendenti negli uffici giudiziari italiani siano non meno di tremila), nell’arte (dove il “citazionismo” è esso stesso un’arte, e dove da Andy Warhol in poi la “riproducibiltà” – o plagio d’autore- di cui si lamentava Walter Benjamin è arrivata a livelli imprevisti). E poi nella moda (la Maison Chanel, accusata di aver copiato un modello da una ditta appaltatrice, nel 2012 fu condannata dal tribunale di Parigi a pagare un risarcimento di 200mila euro), nell’architettura (quanti edifici fotocopia, anche firmati da archi-star), nelle tesi di laurea (tanti studenti, spesso futuri politici), nella pubblicità (il gruppo dolciario Ferrero che per il manifesto del Kinder Bueno nel 2013 copiò l’autoritratto di una liceale di Pavia diventato la locandina della manifestazione Scienza Under 18), insomma ovunque ci sia da lavorare con le idee (altrui). Ispirarsi a modelli preesistenti, nell’arte e in letteratura, è inevitabile. Chiunque scriva o crei, finisce per rubare qualcosa a qualcun altro. Siamo immersi in un universo culturale, in una marmellata di parole, suoni e immagini, che assimiliamo, modifichiamo e riproponiamo a un ritmo sempre più frenetico e in dosi sempre più massicce (e la Rete offre una proliferazione esponenziale di materiale da plagiare) credendo nuovo e originale ciò che ha già una (lunga) storia. “La letteratura si nutre di calchi e imitazioni. Dagli antichi ai postmoderni, i plagi appaiono frequentissimi – ha scritto Giovanni Mariotti, che tempo fa beccò un verso di Umberto Saba rubato a un poesia di Jean Cocteau -. E tuttavia si potrebbe anche sostenere, con buoni argomenti, che nessuno ha mai plagiato nessuno, perché plagiare è impossibile. Passando da un autore a un altro, un segmento di testo, un’immagine, un motivo mutano timbro, colore, significato. Il riverbero del contesto li rende cangianti”. Insomma, quando è “ripresa” e non mero “copia-e-incolla”, il plagio è un “illecito di serie B”. Ma – ci si chiede – dove finisce l’ispirazione, l’imitazione creativa, l’omaggio, la cover, la “reiterazione” consapevole o meno di modelli (tutti atti artistici sempre esistiti e impossibili da eliminare del tutto); e dove inizia il furto vero e proprio? Dove finisce la creatività e dove inizia il saccheggio ideologico? Il concetto di “plagio”, sul quale si accapigliano avvocati, giudici e copywtiter resta oggi molto vago, attorno al quale aleggia una vasta zona grigia. Dove non è compito di questo libro addentrarsi. Non saremo noi a provare una definizione culturale e/o giuridica di plagio (reato per il quale le condanne peraltro si contano sulle dita di una mano). Né saremo noi a giudicare quando e come un romanzo è banalmente e illegalmente la copia di un altro, e quando è una accettabile ispirazione, o una colta citazione. Lasciamo la difficile impresa a critici e giuristi. Noi ci limiteremo a raccontare i casi più eclatanti, divertenti, curiosi e tragici di libri che sono entrati a vario titolo in quell’area indefinita e sfumata chiamata “plagio”. Per dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che la letteratura vive, e prolifera, di parole già dette. E già lette. Letteratura, cinema, arte, giornalismo. Nessuno può prescindere dal plagio (e dall’auto-plagio: quanti Venerati Maestri, da Claudio Magris a Pietro Citati, riciclano i propri pezzi a giornali differenti, o allo stesso giornale in tempi diversi?). La creatività non è un’illuminazione che viene dal nulla, ma si nutre di “ispirazioni” e imitazioni. Del resto, inventare deriva dal latino “invenire”, che significa immaginare, ma anche trovare. Di solito qualcosa “perso” da altri… E spesso chi copia ottiene successi creativi superiori al (presunto) originale, con effetti e cortocircuiti sorprendenti… Tre curiosi esempi, molto indicativi. Quentin Tarantino è stato accusato di aver copiato molte scene del celeberrimo Le Iene (1992) dal molto meno noto (anzi, in Occidente quasi sconosciuto) City on Fire (1987) film degli esordi del regista Ringo Lam, poi diventato famoso negli Stati Uniti: il triello finale (che c’è già nel cinema di Sergio Leone…), la rapina andata male, un uomo torturato da un membro della banda; molte delle sequenze in cui è presente Mr. White sono state direttamente spostate dal titolo cinese e trasferite in Le Iene. In pratica, è come se Tarantino avesse copiato l’ultima parte di City on Fire per creare però un film autonomo e americano al cento per cento. In risposta alle accuse di plagio, Tarantino – il cui genio cinefilo ha partorito schiere di emuli votati al copia-incolla – disse: “I grandi artisti non copiano: rubano”, plagiando a sua volta una frase del compositore Igor’ Strainskij. Il secondo esempio. La filosofia che è alla base di Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano, la storica antologia di Gino&Michele che debuttò nei Tascabili Einaudi nel 1991, per fare poi la fortuna della Baldini&Castoldi, è l’esaltazione del frammento editoriale e del “furto culturale”, che gli autori stessi sintetizzano con la più celebre fra le citazioni sul plagio, ovvero “Se copi da uno è plagio, se copi da molti è ricerca”. Il libro, un mosaico di pensieri e di battute (di altri), divenne un fenomeno di culto. Copiatissimo. Il terzo esempio. Il saggio del 2013 di Fabio Macaluso E Mozart finì in una fossa comune (sottotitolo: “Vizi e virtù del copyright”) contiene una prefazione di Aldo Grasso in cui il celebre critico televisivo “copia” da un proprio precedente scritto del 2010, dove parlava delle gag copiate dal comico Daniele Luttazzi… Non solo. Il testo di Aldo Grasso fu “rubato” anni prima, inserendolo come prefazione di un pamphlet underground di cui si sono perse le tracce. Ma che (sembra) iniziava così: “Alzi la mano chi non ha mai copiato!”. Appunto.
GLI SCRITTORI DEL REALE IN TRINCEA CONTRO MEDIA ED ISTITUZIONI.
Si propone di seguito un articolo dandogli immeritato spazio, sebbene l’autore pecchi d’ignoranza, omettendo per dolo o per colpa il riferimento al dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Notissimo sul web con oltre cento titoli di opere tematiche e territoriali di inchiesta e denuncia di sociologia storica. Insomma il re degli "intellettuali scorretti".
Giovani, bravi e arrabbiati. Ecco gli intellettuali "scorretti". Ci sono i conservatori, gli antimoderni, i reazionari... Sono editori e agitatori culturali. Oltre la destra e la sinistra. Ma non progressisti, scrive Luigi Iannone, Martedì 30/08/2016, su “Il Giornale. Studenti e neo laureati, tanti sotto i 30 anni. Detestano le categorie destra-sinistra ma mostrano particolare avversione per i progressisti. Sono tanti questi intellettuali in erba. Agitatori culturali che dominano la Rete e si raccontano come realtà vive e non riserve indiane. Eccone alcuni profili.
ANARCO-CONSERVATORI Sebastiano Caputo e Lorenzo Vitelli dirigono L'Intellettuale dissidente: «Un progetto nato a costo zero. Sostenuti esclusivamente dal contributo dei lettori attraverso donazioni e acquisto dei libri della nostra casa editrice Proudhon. Non abbiamo entrate pubblicitarie, finanziamenti privati o fondi pubblici. Peraltro il lettore medio appartiene a quella fascia di età che va dai 18 ai 30 anni. Questo perché abbiamo dato una rappresentanza culturale ed editoriale ai nostri coetanei con circoli su tutto il territorio». Ma non si definiscono rottamatori: «Rifiutiamo il giovanilismo. Siamo anarchici-conservatori». Tra le novità dei prossimi mesi un'antologia di testi sulle élite di Gramsci, Pareto, Mosca e Michels, e la ripubblicazione di Filosofia della miseria di Proudhon. Ad ottobre andrà in rete una piattaforma su sport e costume.
ANTICONFORMISTI «Pubblichiamo di tutto senza guardare in faccia nessuno. Non abbiamo preclusioni. E presentiamo i nostri volumi ovunque ci invitino». Sono le parole di Alessandro Amorese, quarantenne con base a Massa, in Toscana e deus ex machina di Eclettica, casa editrice nata nel 2009. Anche qui, quasi tutti trentenni i responsabili delle collane con una trasversalità che si assapora già nei titoli: una biografia di Beppe Niccolai, un saggio su Marcuse, uno su Bruno Leoni e scritti di Giuseppe Solaro (segretario provinciale del Partito Fascista Repubblicano di Torino).
ANTIMODERNI Si muovono su due fronti le truppe di Andrea Scarabelli. Con la rivista Antares, adottata da Bietti nel 2011, e di cui è direttore responsabile Gianfranco De Turris. Redattori giovanissimi che hanno già prodotto pregevoli fascicoli su Tolkien, Lovecraft, Disney, sulla fantascienza o sugli economisti eretici mentre sono in preparazione numeri su Bukowski e su Borges. E con la collana «L'Archeometro» che pubblica quattro libri l'anno con un progetto del tutto organico a quello della rivista. Nomi altisonanti: Pound, Cioran, Bradbury, Eliade, Meyrink. E poi contemporanei come Stenio Solinas, Luca Gallesi o Riccardo Paradisi. «L'intento spiega Scarabelli - è quello di riunire le articolate realtà della cultura alternativa. Vogliamo ospitare le voci critiche nei confronti di un mondo, quello moderno, osannato dai progressisti e deprecato dai conservatori. Una terza via, insomma. Da un punto di vista politico, siamo indipendenti: le categorie destra e sinistra per noi sono esaurite».
COMUNITARISTI Quelli de Il Talebano si definiscono comunitaristi: «La maggioranza dice il direttore Fabrizio Fratus - proviene dal mondo identitario che si rifà alla Destra anti-sistema e alla Lega Nord. Molti militano nel M5S e diversi provengono da esperienze di sinistra antagonista. Noi siamo per la Patria (e non per la nazione), per l'economia dell'autoconsumo, per l'autodeterminazione dei popoli. Siamo contro il sistema delle democrazie parlamentari e privilegiamo un modello elitario basandoci sul pensiero di Vilfredo Pareto in un contesto di piccole comunità». Un giornale che non nasconde anche una strategia politica: «Vogliamo seminare le nostre idee spiega Vincenzo Sofo - tramite la rete di 1000 patrie, organizzazione composta da 17 realtà politiche su tutto il territorio».
CONSERVATORI E INDIPENDENTI Francesco Giubilei è il più giovane editore d'Italia. Suddivide le sue fatiche tra due marchi: Giubilei Regnani che ha un taglio generalista anche se con particolare attenzione alle tematiche «non conformi» (ultimo testo pubblicato L'altro Msi di Annalisa Terranova) e Idrovolante edizioni (diretto da Roberto Alfatti Appettiti e Daniele Dell'Orco) che si occupa anche di riscoperte come Marinetti o Corridoni. Proprietario della libreria Cultora a Roma, a settembre farà partire Il Conservatore, quotidiano dai propositi chiari sin dal nome. Abbiamo lettori spiega Giubilei intellettualmente curiosi che vanno oltre il cosiddetto pensiero dominante».
FEDERALISTI E OLIVETTIANI «In economia intento di destatalizzazione ma armonizzato da un disegno comunitario in stile olivettiano e avverso alla finanziarizzazione. In politica confederalisti. In cultura spiritualisti nella traccia goethiana. Critica all'euro e ricerca per soluzioni istituzionali diverse». Sono questi alcuni punti de La Confederazione italiana, rivista online che si definisce federalista e olivettiana. Finanziata da contributors e lettori, organizza seminari sui temi dell'economia, del federalismo e della tripartizione dell'organismo sociale nel senso inteso da Gerges Dumezil. Direttore è Geminello Alvi, ma coordina tutto Riccardo Paradisi, già redattore di Liberal e l'Indipendente.
PATRIOTTICI Michele De Feudis, direttore di Barbadillo, non la prende alla larga: «Tante nostre firme hanno curato romanzi, saggi di approfondimento e pubblicazioni scientifiche. L'obiettivo prioritario è rendere visibile la presenza di un filone culturale patriottico e sovranista, propedeutico a fornire sollecitazioni a una futura classe dirigente con aspirazioni di governo e non di marginalità». Ma anche in questo caso, risalta la tipicità dei lettori: «Giovani dai 18 ai 30 anni, un pubblico di eretici over 35. Tanti accademici, molti attenti alla politica internazionale».
REAZIONARI Marco Solfanelli si definisce «refrattario». Poi aggiunge, «reazionario-refrattario». A capo di una storica casa editrice di destra ereditata dal padre Marino, ora si apre a giovani autori e a temi di diversi orientamenti. Marco oltre a curare presentazioni e convegni, partecipa a fiere librarie anche nelle realtà di provincia e rivela di essersi arreso alla «modernità» grazie ai social-network e a un call center per fidelizzare i propri clienti.
SOVRANISTI Età media 30 anni. Dieci redattori ma con i collaboratori si arriva a 50. A dirigere Il primato Nazionale è Adriano Scianca: «Siamo sovranisti, antiglobalisti, ostili alla sinistra culturale, alla destra economica e al centro politico. Vogliamo valorizzare le eccellenze dell'Italia e dell'Europa, evidenziandone il primato spirituale. Ecco perché subiamo attacchi quasi quotidiani da parte di hacker democratici».
Bud Spencer contro i media di regime: “In Italia parlano di te solo se sei comunista o frocio”, scrive Alvise Losi su Libero Quotidiano il 30 giugno 2016 il giorno del funerale di Carlo Pedersoli (Napoli, 31 ottobre 1929 - Roma. 27 giugno 2016). Bud prima era stato sempre riservato. Anche se il suo pensiero aveva avuto modo di esprimerlo in diverse occasioni, come a una conferenza, quando a un ragazzo che rivendicava di essere ateo rispondeva con intelligenza: «Non esiste al mondo un uomo o una donna che non abbia bisogno di credere in qualche cosa: tu credi che Dio non esista, quindi credi in qualche cosa». Altro che sganassoni e frasi da contrabbandiere perdigiorno: Bud era ben diverso dai personaggi dei suoi film. «È il signore che vi manda», gli dice fiducioso il mormone Tobia in Lo chiamavano Trinità. «No, passavamo di qui per caso», risponde sincero nei panni di Bambino. Niente di più lontano da quello che Bud pensava. «Ho bisogno di credere perché, nonostante il mio peso, mi sento piccolo di fronte a quello che c’ è intorno a me. Se non credo sono fregato». E in un’intervista aveva persino scherzato sulla sua scomparsa. «Quando il Padreterno mi chiamerà voglio vedere che succede, e se non succede niente allora mi incazzo». E lo avrebbe fatto a modo suo naturalmente. Ma il Bud che tanti hanno amato e amano era lo stesso che a volte si lasciava andare a frasi al limite del politicamente corretto. A chi gli chiedeva come mai la critica italiana lo celebrasse poco, a differenza di quanto accadeva in altri Paesi, l’ormai 80enne Pedersoli diceva «forse perché non sono né gay né trans e ho la stessa moglie da cinquant’ anni». Pensiero che aveva anche ribadito per spiegare come mai la sua biografia Altrimenti mi arrabbio fosse un best seller in Germania, ma un mezzo flop in Italia. «Qui parlano di te solo se sei frocio o comunista», sottolineava, senza paura di essere criticato. «Intendiamoci, non ho niente contro i gay. Quello che fa la persona che ho davanti in camera da letto non sono affari miei. Quando ci parlo, il pensiero delle sue abitudini sessuali non mi sfiora neanche lontanamente. Siamo liberi, puoi fare tutto quello che vuoi». Non a caso amava ricordare, da napoletano verace, che la sua regola di vita fosse «Futtetenne». E nessuno ha interpretato nella vita quella finta indifferenza, quella capacità di ridere sempre sulle cose, quel «vivi e lascia vivere» con la stessa grandezza di Bud.
L'ultimo sfregio contro Bud Spencer. Perché lo hanno pure insultato, scrive di Francesco Specchia il 30 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Non so, onestamente, se il vecchio Bud - il dio burbero dei nostri piccoli affetti - li avrebbe presi a sganassoni, come fece, negli anni 60, con quell' incauto indio Yanomami che sbarrava la strada alla sua asfaltatrice nel cuore dell'Amazzonia, O se, invece, avrebbe fischiettato Futtetenne, «Fregatene», il brano-guida del suo primo disco che fu anche la sua weltanschauung, il rumore di fondo d' una vita arruffata. Non so. Non so se come avrebbe reagito il gentile Carlo Pedersoli/Bud Spencer all'idiozia invincibile che ieri emergeva dal profilo Facebook del sedicente «Osservatorio antifascista». Da dove, alla scoperta che alle Regionali del 2005 Bud si candidò per Forza Italia (non era mai stato di sinistra in vita sua...) è scattato un commento: «Fino a pochi minuti fa noi di Osservatorio Antifascista piangevamo le morte di Bud Spencer, ora non più», seguito dallo sdrucito manifesto elettorale di Bud. Seguito, a sua volta, da commento di tal Marco Bonini: «Bene, una testa di cazzo di meno al mondo». Frasi stridenti, urticanti, inutilmente cattive. Frasi pronunciate, tra l'altro, proprio nel giorno in cui, dinnanzi alla bara del gigante buono in Campidoglio, il mondo intero piangeva. E fiumane di fan continuavano ad accalcarsi, a posare fiori, pizzini di disarmante affetto, perfino una scatola di fagioli che diventava una citazione metafilmica, riferita a un titolo culto dello stesso Spencer, Anche gli angeli mangiano fagioli col compianto Giuliano Gemma. Naturalmente, nel giro di dieci minuti della pubblicazione del post suddetto, altre centinaia, ne hanno seppellito la vergogna. Attacchi a raffica, in quadrata falange contro, l'«Osservatorio»: roba che varia dal compassionevole («un campione dello sport, e non solo, che ha fatto divertire e ridere generazioni di italiani, una persona che chi l'ha conosciuto ha speso solo parole positive nei suoi confronti. Siete voi la feccia della società italiana, ripeto vergognatevi!»); all' istintivo («Pensa che merde che siete per la morte di qualcuno esultate»); al creativo («Per quanto miserabili, sarete ricordati altrimenti il vostro passaggio sulla terra avrebbe lasciato lo stesso segno di una scoreggia»); perfino allo storico («Almeno lo avreste provato il fascismo.... avreste una giustificazione che innanzi alla morte di Bud Spencer altresì c' entra come nella briscola l' asso di picche quando comanda bastoni.... ecco cosa vi provocano le canne!!!!»). Naturalmente il tutto veniva condito dalla rettifiche di postatori «di sinistra e antifascista vera» che si dissociava; e di sostenitori di destra -diciamo- accesa che non lesinavano epiteti ineleganti, «Zecche, zecche comuniste, zecche maledette dovete bruciare...». Il commento più originale spetta a chi, invocando la morte come il confine rispettoso dei vivi, chiosava: «Se una persona viene giudicata solo da un cartellone elettorale, fa capire quanto chi lo giudica sia di basso spessore culturale. Tipica affermazione di oscuri personaggi sinistrorsi mono-neuronici. Quel neurone è più solo della particella di sodio dell'acqua Lete». Ecco. Quel riferimento alla pubblicità dell'acqua Lete -di sicuro- avrebbe strappato il sorriso al vecchio galantuomo napoletano abbracciato da passione planetaria. Da Russel Crowe a tre generazioni di divi hollywoodiani, dal governo tedesco alle istituzioni iraniane, dai fan giapponesi e coreani, all' America delle grandi praterie: moltissimi hanno listato a lutto un brandello della loro giornata. I siti Internet d' Italia hanno triplicato il loro traffico alla notizia della morte di questo cartone animato vivente, a metà fra Golia e i fratelli Grimm. Le notizie della Brexit e l'attentato ad Istanbul, per dire, sono apparsi assai meno appealing. Ora, si potrà obbiettare che, in genere, le intemperanze di quattro imbecilli possono, al massimo, essere derubricate a «provocazione». E forse è vero. Ciò non toglie che l'eccesso d' ideologia -in questo caso a sinistra- rimane l'aggravante di un popolo spesso in ritardo con la storia. Il solito discorso: l'arte dovrebbe travalicare la faziosità politica, e la morte dovrebbe invocare la pietas. «Da cattolico, provo curiosità, la curiosità di sbirciare "oltre" come il ragazzino che smonta il giocattolo per vedere come funziona», aveva detto Bud qualche anno fa. Non so davvero come il suo stupore infantile avrebbe reagito a tutto questo...
Leonardo Sciascia (1921-1989). L’intransigenza di Leonardo Sciascia. «Scrivo solo per fare politica». «A ciascuno il suo». Il libro divenne un film diretto da Elio Petri con Gian Maria Volontè, scrive Felice Cavallaro il 7 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Bisogna scartabellare fra i cimeli del Museo del cinema di Torino per immergersi nel carteggio fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri, il regista che portò sul grande schermo A ciascuno il suo, il secondo giallo dello scrittore di Racalmuto dopo Il giorno della civetta. Contesti analoghi per raccontare già a metà degli anni Sessanta i disastri della corruzione e della mafia. Con un omicidio passionale trasformato in paravento per celare un mix di forze occulte impastate di mafia e omertà. Un intrigo «politico», nel solco di una vocazione enunciata fra le lettere della media-biblioteca piemontese. Materia prima per Petri, stupito dall’intransigenza di Sciascia nel carteggio analizzato da uno studioso universitario, Gabriele Rigola, autore di un saggio sulla rivista di studi sciasciani «Todomodo». Severa intransigenza espressa da Sciascia, dopo una intervista di Petri al «Popolo», nella lettera dell’8 settembre 1966, a ridosso delle riprese, contrariato dalla sbandierata scelta del regista di non fare un film «politico». E lui, il maestro di Regalpetra, con aria di rimprovero: «Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia...». Immediata la replica di Petri, appena arrivato a Cefalù per le prime scene del film con Gian Maria Volontè, protagonista della storia ispirata dall’assassinio del commissario di polizia Cataldo Tandoj, caduto sei anni prima ad Agrigento. Romanzo che ruota attorno alla traduzione dal latino di «unicuique suum», frase stampata sulla lettera minatoria introdotta come reperto di indagine sin dalle prime pagine del racconto. E del film. Inquietante missiva composta con vocali e consonanti ritagliate da una copia de «L’Osservatore Romano». Petri legge e risponde ai colpi di fioretto. Si smusserà infine l’equivoco, ma intanto la replica è a prima vista stizzita: «Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, i notabili, “L’Osservatore Romano”, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un’opera sulla cui materia di ricerca, prevalga — incomba — una tesi politica, che in questo senso è propagandistica». E sempre più incisivo: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico». La stima era fuori discussione e Sciascia faceva precedere quel rimprovero da una convinzione: «Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso un film che non avrà niente a che fare col racconto...». Considerazione confermata dopo aver visto il film, il 10 marzo 1967: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare che non c’è stato alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un’altra cosa». Emerge dal dialogo a distanza un’idea del rapporto e della libertà rivendicata per la scrittura di un libro e di un copione, convinto di «dover lasciare all’autore del film ogni possibile libertà, ma evitando accuratamente di diventarne complice». Puntualizzazioni taglienti. Sfumate tre mesi dopo nei progetti che lo scrittore anticipa parlando di un tema che troveremo ne Il contesto, da Francesco Rosi tradotto nel 1971 in Cadaveri eccellenti. Ma quattro anni prima Sciascia lo confida a Petri: «Caro Elio, sono quasi tentato di buttare giù, come soggetto, la mia storia dell’uomo che ammazza i giudici...». E Petri, allora trentottenne, si dannava: «Così è il cinema. Mi viene un grande sconforto se penso che a 50 o 60 anni mi troverò a dover affrontare sempre i medesimi problemi. Come si fa a convincere un produttore che una storia è bella, se non dopo averla realizzata?». Dieci anni dopo, sempre con Volontè, avrebbe trasferito sullo schermo Todo modo, ma intanto Petri si godeva i successi targati «unicuique suum». Inquietante collage sull’omicidio connesso a un mondo politico di funzionari corrotti e poteri forti, nel microcosmo di un paese siciliano, laboratorio di analisi politica e metafora proposta al Paese con la tecnica del giallo. Ma chi si aspetta un giallo in cui il detective incastra l’assassino resterà deluso. Perché a indagare è il professore d’italiano e latino Paolo Laurana armato con gli strumenti del sapere e della ragione, rifiutando assuefazione e tolleranza al delitto, al malaffare, alla connivenza di un intero paese. E il pessimismo sciasciano si specchia nel più bieco cinismo. Non a caso sul professore, ormai vicino alla verità e per questo ucciso, echeggerà l’arrogante epitaffio di uno dei personaggi, «un cretino». Come se connivenza e convivenza fossero intelligenza. Un contrasto per porre davanti all’opzione fra Bene e Male, il lettore e il cittadino. A cominciare dallo stesso Petri che nel carteggio non ha dubbi: «Nella scelta di un personaggio si parte sempre — e comunque — da un processo di identificazione: riderai, se ti dico che io mi sento un poco come Laurana?». Quesito capace di cancellare ogni equivoco, pur lasciando a ciascuno il suo.
Sciascia si misura con il Vangelo. Gli esercizi spirituali del potere. In «Todo modo», pubblicato nel 1974, la decadenza della classe dirigente, ma anche una riflessione profonda sulla natura del messaggio cristiano, scrive Carlo Vulpio il 14 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Succede, ai grandi. E succede con precisione aritmetica a quei grandi che diventano dei classici quando ancora sono in vita. Com’è accaduto a Leonardo Sciascia, che con il passare degli anni, e soprattutto dopo la sua morte, avvenuta nel 1989, non si è mai più liberato della pletora di sciasciani (e passi) e di sciascisti (e qui, le cose si complicano, perché dall’esegesi all’arte divinatoria il passo è breve), che spesso gli hanno fatto dire cose che non ha detto e non si sono invece accorti di quelle che ha detto, e a volte ha pure ripetuto con insistenza. Prendiamo Todo modo, per esempio. Pier Paolo Pasolini disse che questo è il miglior romanzo di Sciascia. E in effetti lo è. Non perché lo abbia detto Pasolini, ma perché chi abbia frequentato Sciascia sine ira ac studio non può che ritrovarsi a dare lo stesso giudizio. Tutti i libri di Sciascia sono magnifici per i temi che trattano e per come vengono trattati: il bene e il male, la libertà e il potere, la legge e la giustizia, l’uomo e Dio, l’apparenza e la realtà, la verità e la menzogna, la mafia e l’antimafia, il dubbio e il dogma, l’individuo e lo Stato, ma Todo modo li contiene tutti, e dopo quarantadue anni (fu pubblicato da Einaudi nel 1974) ha la stessa freschezza, non perché sia «attuale» — questo schiacciamento sulla «attualità» rischia anzi di tradursi in una diminuzione —, ma perché parla alla nostra coscienza, alla nostra intelligenza, alla nostra natura miserabile di uomini con la forza di un «classico», cioè di un’opera originale, imprescindibile, valida sempre, quasi un canone, da poter quindi essere persino imitabile, ma unica, irripetibile. Todo modo è la locuzione iniziale della massima di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti — Todo modo para buscar y hallar la voluntad divina, «Qualunque mezzo per cercare e trovare la volontà divina» — ed è lo scopo dichiarato o quanto meno apparente di don Gaetano, il prete protagonista del romanzo, che guida gli esercizi spirituali di alti esponenti della classe dirigente del Paese riuniti in un albergo-eremo siciliano. Nel quale tutto accade, compresi tre omicidi, anch’essi apparentemente senza colpevoli, fuorché l’elevazione spirituale dei partecipanti, descritti come «figli di puttana» costretti da don Gaetano a recitare il Rosario andando su e giù in fila. Sono ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali, «quella che si suole chiamare classe dirigente e che in concreto cosa dirigeva? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro». Il potere come dominio, certo, quel «cummannari è megghiu ca futtiri» («comandare è meglio che scopare»), proverbio siciliano di portata universale che Sciascia cita in altre sue opere, ma anche il potere come trappola per gli stessi suoi detentori, che esercitandolo se ne inebriano, fino a non riuscire più a farne a meno, come tossicodipendenti. Quando, due anni dopo l’uscita del libro di Sciascia, Elio Petri ne trasse il film omonimo, tutti concordarono che era del personale politico democristiano degli anni Settanta che si narrava, perché allora la Dc era il partito-Stato, mentre tutti gli altri, più o meno, se non potevano andare assolti, erano estranei a questa microfisica del potere tutta democristiano-cattolica. Vero. Ma anche sbagliato. E infatti il film di Petri, per quanto ben fatto, non è all’altezza del Todo modo Sciascia, perché schiaccia un classico sull’attualità del momento e ne depotenzia la universalità. Perché universale è il messaggio cristiano e il discorso sul cristianesimo, e dunque sull’uomo e sul suo rapporto con i suoi simili e con Dio, che pervade il romanzo. Sia quando questo discorso ricorre ai paradossi: «I preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, si deve più ai preti cattivi che ai buoni»; sia quando approfondisce la riflessione sul cristianesimo che crede, sbagliando, «che Cristo abbia voluto fermare il male», mentre, scrive Sciascia, Gesù Cristo ha rovesciato questo convincimento, poiché «nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Delitto, dolore, morte». Delitto, dolore, morte non sono soltanto rubriche del codice penale — di cui anche in Todo modo, come in altri romanzi, si occupa un magistrato supponente e mediocre —, ma sono anche gli effetti di quel «maneggiare e modellare come cera» la coscienza altrui, come fa don Gaetano, e come fa, appena ne abbia la opportunità, chiunque eserciti una qualsiasi forma di potere. Tanto negli anni del partito-Stato, quanto (e forse anche peggio) nell’era del web «libero», anzi a «democrazia diretta», che per i suoi «esercizi spirituali» non ha nemmeno bisogno di organizzare incontri in qualche appartato albergo-eremo. Come uscirne? Sciascia, ancora una volta, gioca con le parole, rovescia i concetti, ribalta il senso comune. E invita, anzi istiga il lettore a fare altrettanto. Cummannari? E se invece fosse la libertà la parola chiave? «La libertà è megghiu ca futtiri»: non suona meglio, non è persino più efficace? Dice Giovanni nel suo Vangelo: «La verità vi farà liberi». Ma se rovesciamo anche queste parole non otteniamo: «La libertà vi farà veri»? Può anche darsi che non basti. Ma in Todo modo, quando accade che prevalga la libertà, nemmeno don Gaetano può farci niente.
Sciascia e quello sguardo profetico. Lo scrittore che inaugurò un genere. L’autore aprì gli occhi della letteratura su guasti di società e politica e ne rivelò vizi segreti e pubbliche immoralità. Il «Corriere» lo celebra con un’iniziativa editoriale, scrive Felice Cavallaro il 25 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ricorre spesso un aggettivo quando si discute di Leonardo Sciascia. E succede anche ad Andrea Camilleri di usarlo per dire che il suo amico nato, come lui, a due passi dalla Girgenti di Luigi Pirandello era «profetico». Basta scorrere anche solo i titoli dei libri, in gran parte scritti nella sua casa di campagna, in Contrada Noce, fra le vigne, i pini e i mandorli di Racalmuto, per cogliere questa straordinaria capacità di prevedere con grande anticipo gli sviluppi spesso devastanti della società italiana. Questo manca a Camilleri: «Sciascia aveva la capacità di intervenire costantemente sui nodi della società italiana, non solo sulla politica. Acuto nel prevedere, interpretare, anticipare. I suoi romanzi sono lì. Io, quando ne ho bisogno, spesso, me li rileggo. Mi manca però la risposta di Sciascia alle domande di oggi». Una risposta talvolta ignorata in passato. E i libri da leggere o rileggere stanno lì, a provarlo. L’Italia scopre Tangentopoli nel 1992 ma Sciascia aveva messo tutti in guardia dalla mala politica parlandone trent’anni prima con L’onorevole, descrivendo compromessi e arricchimento di un deputato, con sorpresa della sua stessa moglie. Affresco della corruzione negli anni Sessanta, oggi decantati come gli anni del boom. Un allarme inascoltato. Lo Stato capisce nel 1982, con il sacrificio di Pio La Torre, seguito da quello di Carlo Alberto dalla Chiesa, che bisogna mettere le mani nei portafogli dei mafiosi, ma con Il giorno della civetta, vent’anni prima, Sciascia suggeriva la via da battere, quella di assegni, flussi finanziari, banche. Ed è così per una vasta produzione che resta attualissima, al di là di ogni odiosa polemica talvolta riproposta sui cosiddetti «professionisti dell’antimafia», materia oggi sulla bocca di tanti, delusi da false icone frettolosamente pompate anche dai media. È il tema dell’impostura analizzato nel romanzo che ha per protagonista l’Abate Vella, il cappellano dei Cavalieri di Malta, un fanfarone artefice della grande menzogna che, però, osserva con diffidente pessimismo Sciascia, talvolta si mostra più forte della verità. Un suggerimento a essere guardinghi. Come fu lui davanti ai voltagabbana del dopoguerra. Come provò ad anticipare per quanto rischiava di avvenire perfino nel pianeta antimafia, quando erano inimmaginabili le scivolate di tanti falsi eroi del Bene. Tema di forti contrasti con posizioni spesso osteggiate. Come accadde per la difesa di Enzo Tortora e per la necessità di trattare la liberazione di Aldo Moro. Tormentate pagine vissute da Sciascia anche da deputato del Partito radicale, dopo una brevissima esperienza di consigliere comunale eletto a Palermo nelle file del Partito comunista italiano. Aggrappato sempre alla ragione come religione di riferimento. Anche contro la fanatica caricatura della religione trasformata in strumento di potere, di oppressione. Illustrata da Sciascia in Morte dell’inquisitore. La storia di Fra Diego La Matina, frate a Racalmuto, il presunto eretico che, recluso nelle segrete, riesce a uccidere con in suoi ferri l’inquisitore durante l’interrogatorio o, meglio, durante la tortura. Le maggiori intuizioni anticipatrici restano quelle descritte nei libri a sfondo politico. A cominciare da Il contesto, un apologo della travagliata situazione italiana all’inizio degli anni Settanta quando l’ispettore Rogas, davanti a subbugli di «gruppuscoli» e delitti in quantità, scopre l’immaginario (ma non troppo) «partito rivoluzionario» essere tessera bene inserita nel sistema o sistema esso stesso. Come Sciascia con implacabile ironia lascia sussurrare al vicesegretario: «Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione...». Un affronto per politici e intellettuali allora organici o contigui a Sinistra e movimenti extraparlamentari, tutti pronti a scagliarsi contro l’eretico Sciascia. Una prova per lui, visto che si apriva con Il contesto la stagione più sperimentale e innovativa della sua attività, quella di Todo modo e Candido, della Scomparsa di Majorana e L’affaire Moro, di Nero su nero o Cruciverba, come osserva Paolo Squillacioti, lo studioso che cura per Adelphi l’opera completa di Sciascia, sulla scia del curatore delle opere in Francia, Claude Ambroise, e del biografo del «Maestro di Regalpetra», Matteo Collura. Se Il contesto può essere considerato una impietosa radiografia del Pci quando era tempo di intellettuali organici, l’altra chirurgica zoomata di Sciascia sugli intrighi politici del mondo democristiano è Toto modo. Lo scrittore affonda il bisturi fra i vizi di dirigenti politici, banchieri, prelati e industriali, tutti all’opera fra le varie correnti di partito. Un affresco su lobby, logge e parrocchie che rende attualissima la lettura dell’autore delle Parrocchie di Regalpetra, il testo pubblicato sessant’anni fa dopo un carteggio con Vito Laterza, proprio in questi giorni in mostra a Racalmuto, nella Fondazione che Sciascia avrebbe voluto intitolare a Fra Diego, l’eretico.
Sciascia, lo sguardo sulla Sicilia: un rigore lucido ed eretico. A chi vuole narrare la mafia, l’autore ha lasciato soprattutto un metodo di lavoro. Ma la lezione più grande è un’altra: solo la finzione letteraria restituisce la verità, scrive Alfio Sciacca il 28 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sosteneva Leonardo Sciascia: «Lo scrittore è un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia il piacere di vivere. Anche quando rappresenta cose terribili». Tutto semplice, apparentemente. Se non fosse che nel far «vivere la verità» il maestro di Regalpetra ha finito per trasformarsi in una sorta di «cattivo maestro». Come lo sono quanti svelano cose autentiche, che spesso sono laceranti. Generazioni di siciliani sono cresciute leggendo i libri di Sciascia, in un continuo gioco di specchi in cui sentirsi, allo stesso tempo, registi, attori e comparse delle sue trame. E molti ne hanno tratto anche lezioni di impegno civile da trasferire nella vita e nel lavoro. La prima: essere testimoni del proprio tempo, perché in ogni piccola Regalpetra si può scoprire il mondo. C’è poi la straordinaria capacità di lettura del fenomeno mafioso in una terra che negli anni Sessanta ne negava ancora l’esistenza e l’intuizione del salto di qualità che stava compiendo nel passaggio dalla campagna alla città. Anticipo di quella «mafia imprenditrice» che è la forma più corrosiva assunta da Cosa Nostra. A chi in qualche modo si è trovato a raccontare la Sicilia e, di conseguenza, a scrivere di mafia, Sciascia ha offerto soprattutto un metodo di lavoro: indagare sempre in modo asciutto e senza forzature ideologiche. Non a caso le parole che più si ricordano de Il giorno della Civetta sono pronunciate da un mafioso, don Mariano Arena, con la sua classificazione dell’universo umano in «uomini, mezzi uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà». Curiosità e attenzione che non è certo fascinazione o cedimento morale. Approccio che non è mai piaciuto a certi «professionisti dell’antimafia», ossessionati da un manicheismo di maniera se non di comodo. C’è infine (ed è veramente tanto) il rigore della narrazione, la cura dei dettagli, i dialoghi e le ambientazioni che sono vere e proprie sceneggiature. Tutti insostituibili strumenti di lavoro. Ma quando ci si illude di aver in mano quello che serve per decifrare la Sicilia si scopre, forse, la più lacerante delle lezioni lasciate da Sciascia. E prima di lui da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa. In Sicilia c’è una sola arma che ti permette veramente di inchiodare i colpevoli e di rendere giustizia alle vittime. E non è la cronaca, l’inchiesta o l’indagine sul campo, ma il romanzo e la costruzione apparentemente di fantasia. Solo la finzione letteraria restituisce verità palesi che invece evaporano quando si pensa di averle afferrate. In Sicilia giornalisti, ricercatori, poliziotti, magistrati (ognuno nel loro campo) a un certo punto sperimentano la strana sensazione di perdersi. Per la semplice ragione che mettere in fila i fatti non sempre porta alla verità. E anzi, troppo spesso, la verità ufficiale è autentica impostura. Forse questo intendeva Sciascia per far «vivere la verità». E così si torna ai suoi libri. L’unico modo per dar pace ai tanti professor Laurana (A ciascuno il suo) che inseguono la verità tra complici e collusi morendo da «cretino». O rendere giustizia a chi come l’avvocato Di Blasi (Il Consiglio d’Egitto) ha la colpa di aver scoperto l’impostura dell’abate Vella e che per questo finisce decapitato. Perché spesso l’impostura è sistema. «Se in Sicilia la cultura non fosse impostura — dice Di Blasi —. Se non fosse strumento in mano al potere baronale e quindi continua finzione e falsificazione della realtà e della storia, l’avventura dell’Abate Vella sarebbe impossibile». Non ci sono colpevoli anche tra potenti e prelati nell’eremo di Zafer (Todo Modo) e chi indaga finisce per sentirsi più colpevole dei colpevoli. Mentre dunque Sciascia rende «semplice ciò che è complesso», grazie al registro del racconto, a molti siciliani lascia il senso di frustrazione in una terra che, ancora oggi, stenta a distinguere tra vittime e i carnefici e non ha certo risolto i suoi problemi anche dopo aver mandato in galera migliaia di mafiosi. E non occorre andare oltre lo scenario siciliano (Il Contesto, Il caso Majorana) per aggiungere inquietudine a inquietudine. Per questo Sciascia ha finito per trasformarsi in un fantastico tormento che spesso ci fa essere sagaci conversatori da salotto, incapaci però di incidere sulla devastazione che affligge la Sicilia. Tormento che forse ha sperimentato lo stesso Sciascia quando si è cimentato con la politica o l’attività pubblicistica. Una trappola che non perdona. In fondo cos’è la polemica sui «professionisti dell’antimafia»? Con decenni di anticipo Sciascia denuncia una verità scandalosa: l’antimafia usata come strumento di potere e carriera. Ma per dare sostanza all’analisi è costretto a fare un nome, quello di Paolo Borsellino. Un dettaglio veramente diabolico che (nonostante tutti i chiarimenti) sarebbe sufficiente per mandare al rogo l’eretico che vede in anticipo la luce accecante della verità.
Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).
Sciascia: «Scrivo solo per fare politica», scrive il “Il Giornale”, venerdì 05/02/2016. Due modi di intendere l'arte. E anche due modi di intendere la politica. Fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri la stima correva spedita in entrambe le direzioni, ma con prospettive senza dubbio differenti. Il dato emerge dalla pubblicazione, sulla rivista di studi sciasciani Todomodo (Olschki editore), dell'epistolario fra lo scrittore di Racalmuto e il regista romano. Siamo fra il 1966 e il '67 e il tema del confronto è il film A ciascuno il suo, tratto dall'omonimo romanzo. «Ho fiducia - scrive Sciascia l'8 settembre '66 - che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto. Il mio personale rammarico (che tu hai già avvertito e dichiarato: e mi riferisco all'intervista pubblicata sul Popolo) riguarda soprattutto la tua intenzione di non fare un film politico. Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia». Due giorni dopo, ecco la risposta di Petri: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico. Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, Rosello, i notabili, l'Osservatore Romano, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un'opera sulla cui materia di ricerca, prevalga - incomba - una tesi politica, che in questo senso, è propagandistica». Sciascia comprende ma non si adegua, il 2 ottobre successivo: «Nel mio atteggiamento nei tuoi riguardi non c'è stata altra ragione che quella dell'autore di un libro che ritiene di dover lasciare all'autore del film ogni possibile libertà ma evitando accuratamente di diventarne complice». Il 22 febbraio '67 uscì il film di Petri, e il 10 marzo Sciascia resta sulle proprie posizioni: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare, in tutta sincerità, che non c'è stato tra noi alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un'altra cosa». Dieci anni dopo, un altro film di Petri tratto da un libro di Sciascia parrà a tutti decisamente più politico (in senso sciasciano) del primo: Todo modo. Anche questa volta con nel cast Gian Maria Volonté, il più grande attore «politico» d'Italia.
Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale. L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei "saggi sparsi" rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano, scrive Piero Melati il 4 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro. Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo». Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) va a pubblicare. Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo».
Sciascia le illusioni di un impolitico. Mai comunista, ma sempre vicino e litigioso con il Pci. Un libro di Emanuele Macaluso. Lo scrittore Leonardo Sciascia in un ritratto di Paolo Galetto, scrive Marcello Sorgi il 12/10/2010 su “La Stampa”. Leonardo Sciascia è diventato un classico, e tutte le sfaccettature della sua complessa personalità artistica, letteraria, intellettuale, sono state ormai sviscerate. Mancava, invece, un’analisi dello Sciascia politico, non solo della sua breve esperienza parlamentare alla Camera con i radicali nel periodo 1979-’83, ma dell’aspetto propriamente e politicamente incisivo della sua opera, in rapporto alla sinistra italiana e in particolare al Pci. A questa lacuna viene ora a porre rimedio il libro di Emanuele Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti (pagg. 160, Feltrinelli), in libreria da domani. Con una tesi che farà nuovamente discutere, a vent’anni dalla scomparsa di uno scrittore già molto discusso in vita. Basandosi sull’amicizia, la conoscenza e la conterraneità durate per quasi mezzo secolo, Macaluso, a lungo dirigente di primo piano del Pci siciliano e di quello nazionale, formula infatti la tesi che Sciascia, pur animato da sincera passione civile, fosse in realtà un impolitico. E che in questa chiave si possano spiegare anche le molte illusioni, e le troppe e repentine delusioni, a cui andò incontro. Sciascia non fu mai comunista, ma nella Caltanissetta della gioventù fu amico di molti comunisti, tra cui lo stesso Macaluso, e portato, come antifascista, ad approssimarsi al Pci. Un Pci che immaginava risolutamente all’opposizione, e nella Sicilia in cui l’alleanza tra mafia e Dc era palpabile, dichiaratamente anti-democristiano. Per lui «potere» e «delitto» erano due entità inscindibili, e in particolare il potere «senza ragioni ideologiche e volto ad assimilare, a degradare e a corrompere perfino le forze che gli si oppongono o che gli si dovrebbero opporre». Una visione così pessimistica, all’inizio degli Anni Settanta, è al centro del Contesto, uno tra i suoi più famosi romanzi, che lo portò diritto in collisione con il Pci. Sciascia aveva intuito, in anticipo sul Berlinguer del «compromesso storico», che la collaborazione con le forze di governo avrebbe portato la sinistra a una degenerazione dei propri valori e dei propri comportamenti. In realtà Sciascia aveva cominciato a prendere le distanze dal partito ancora prima, alla fine dei Cinquanta, ai tempi della famosa «Operazione Milazzo» con cui i comunisti siciliani, alleandosi perfino con il Msi, avevano mandato all’opposizione la Dc. Sul Corriere della Sera era arrivato a definire «di impronta mafiosa» il governo milazzista voluto proprio da Macaluso, che in quegli anni dirigeva il Pci siciliano. Qui salta agli occhi la prima contraddizione dello scrittore, che non nascondeva affatto questo aspetto del suo carattere (volle per sé un curioso epitaffio: «contraddisse e si contraddisse»). Se Sciascia era davvero, e prima di tutto, contrario alla Dc, come non si stancava di ripetere, perché attaccò il Pci l’unica volta che era riuscito a mandarla all’opposizione, e invece, pur restando critico, si schierò con i comunisti al momento del «compromesso»? L’adesione militante (pur senza tessera) dello scrittore alla campagna elettorale del 1975, solo poco tempo dopo le stroncature subite dai giornali e dalla cultura comunista al Contesto, resta inspiegabile per Macaluso, contrario all’accordo con i democristiani soprattutto in Sicilia, dove significava venire a patti con la parte più confinante con la mafia. Eppure, in quell’ambito, Sciascia si muove senza remore: «A chi mi conosce personalmente o attraverso quello che scrivo, appare chiaro che non potevo trovarmi altrove - dice nel discorso che annuncia la candidatura al Consiglio comunale di Palermo, ma rivela la consapevolezza che molti possano non aspettarsela -. Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci più che da altri partiti, dimostra che io sono più vicino al Pci che a qualsiasi altro partito». È lo stesso Sciascia che s’è battuto fino ad allora contro le debolezze e le acquiescenze del Pci, che in una famosa polemica con Giorgio Amendola, poi rinnovata con Ugo La Malfa, ha attribuito ai comunisti parte della responsabilità dell’avanzata del Msi e della rinascita di una cultura di destra nel 1972. Ancora, lo stesso Sciascia che aveva criticato i dirigenti comunisti degli Anni Cinquanta, responsabili della svolta milazzista, adesso scopre i «giovani dirigenti» che stanno per allearsi con la Dc paramafiosa di Gioia e di Lima. Ma conoscendone l’integrità morale e l’assoluta buona fede, Macaluso ricorda di aver pronosticato breve durata per quel fragile coinvolgimento, di averne pure parlato con Berlinguer, per metterlo in guardia da una rottura che quando avverrà, di lì a poco, sarà clamorosa. Oltre alla noia delle sedute notturne del Consiglio comunale e all’isolamento che avverte tra i politici di professione, Sciascia, infatti, a un certo punto, si sente usato e preso in giro. Ne verrà un risentimento inesauribile. E un incidente piuttosto imbarazzante tra il segretario comunista e lo scrittore, intanto approdato alla Camera con i radicali. In un pranzo a tre con Renato Guttuso, Berlinguer accennò alla possibilità che le Brigate Rosse, durante il caso Moro, avessero potuto godere di appoggi logistici da parte della Cecoslovacchia. Sciascia utilizzò questa confidenza in Parlamento, nella commissione d’inchiesta sul sequestro. Berlinguer querelò lo scrittore, che a sua volta lo controquerelò, ma fu smentito da Guttuso, schieratosi per disciplina con il leader del partito. Così, oltre al rapporto con il Pci, si ruppe anche l’amicizia tra due grandi siciliani. Gli ultimi anni di Sciascia sono quelli delle famose polemiche sul processo alle Br di Torino, in cui lo scrittore si schierò a favore dei cittadini che si rifiutavano di fare i giurati popolari, condividendone il senso di sfiducia nello Stato, e sui «professionisti dell’Antimafia». Sciascia subì nuovi durissimi attacchi non solo da sinistra, ma dalla parte più militante dei giornalisti, degli intellettuali e della società civile, nonché dai Comitati Antimafia, da cui il Pci non volle mai prendere le distanze per difenderlo. Macaluso descrive un partito ingessato dalla necessità di «non delegittimare la magistratura» e Natta, il successore di Berlinguer, incapace di sviluppare una sua posizione autonoma sui lati oscuri e sugli eccessi del pentitismo. Il racconto della solitudine di Sciascia negli ultimi giorni della sua vita è toccante, come quello dell’addio tra i due vecchi amici. Ma adesso che sono passati vent’anni - conclude l’autore - perché la sinistra non prova a riscoprire Sciascia, sottraendolo all’ingiusta appropriazione che ne sta consumando la destra?
Leonardo Sciascia, nel 1963 denunciava il cretino di sinistra, scrive il 27 maggio 2009 Iacolare Francesco Saverio. Il grande scrittore siciliano, Leonardo Sciascia, nel 1963 scopriva il verificarsi di un evento senza precedenti: l’ascesi del cretino di sinistra. Fino a quell’epoca, i cretini erano solo di destra.Il grande Leonardo Sciascia diceva: “i cretini di sinistra sono molto più pericolosi di quelli di destra perché alla loro imbecillità si aggiunge il fanatismo per il potere e il disprezzo per il governo”. Sono trascorsi 45 anni e un intellettuale del calibro del prof. Gianfranco Pasquino, molto apprezzato dalla sinistra che conta ha dichiarato:” Alla sinistra riesce bene tenersi stretto il potere”. Accusa il PD di ricusare ogni forma di cambiamento perché quella attuale garantisce, comunque, di conservare il potere che possiede. Pronostica che le prossime elezioni amministrative di maggio di Bologna saranno vinte dal centro destra. Siamo di fronte ad un apparato di mostruosità privo della più elementare forma di dignità. Infatti, la Finocchiaro si dichiara disponibile per la segreteria al posto dell’inutile Veltroni. D’Alema ha la sua televisione e crede di essere il padrone del partito, non sopporta di stare nell’ombra come tale, preferisce il ruolo della prima donna. L’anima comunista non è mai morta nel cretino di sinistra, aveva ragione Leonardo Sciascia. Il momento drammatico di crisi, che offende milioni di italiani nella dignità sociale, è una questione che non appartiene alla sinistra. Essa è sempre contro a prescindere perché non ha cultura di governo, ma solo di potere. In un ‘Italia che vive momenti drammatici di caduta etica e morale, ove l’economia è stata ridotta a squallida operazione finanziaria, priva di produzione reale, solo ricchezza virtuale, la sinistra invece di proporre vie di soluzioni condivise, armata dall’eterno odio, contro chi governa propone lo sciopero generale senza consultare la base, non solo, ma contro la volontà di tutti i sindacati. Questa becera sinistra non è la vera sinistra, questa predica ancora l’odio di classe, nonostante i suoi dirigenti possiedano panfili come Ulisse II e casa a New York. Bravi, Veltroni e D’Alema. Il cretino di sinistra vuole avere sempre ragione. Egli è di una superiorità intellettuale indiscutibile perché ignora l’altro, anzi lo disprezza. La sinistra ha sempre conquistato il potere con l’infallibile arte di fottere il suo interlocutore. Il popolo è sempre stato il paravento sociologico dietro il quale nascondersi compiendo poi le nefandezze del potere. Una sinistra senza dignità che nega perfino il pentimento e la conversione del fondatore del comunismo, che alla fine dei suoi giorni, illuminato dalla Grazia, ha chiesto la presenza di un sacerdote per chiedere il Viatico per l’ultimo viaggio. Questa negazione rappresenta lo sbando totale del cretino di sinistra che abita tra noi. Uno sbandamento provato dall’occupazione delle istituzione che detiene come potere, incapace di governare. I poveri cattolici si sono fatti fagocitare dall’illusione di ciò che non esiste, non si sono ancora resi conto che i loro compagni di viaggio non potranno mai diventare democratici, essi sono privi della cultura dell’alterità, quella cultura che ti permette di riconoscere il volto di chi ti guarda, come il volto del fratello che cerca aiuto. La nostra sinistra non conosce il fratello, conosce il compagno, perché nega l’esistenza del Padre. Oggi cosa resta della sinistra? La squallida ipocrisia di sempre, l’odio per chi non pensa con le loro aberranti categorie mentali, il limite del confronto di chi pensa al di sopra degli schemi, in modo particolare il terrore e la paura con la Trascendenza perché incapaci di un atto di umiltà come quello di Gramsci. L’odio di D’Alema nei confronti di Veltroni è stato evidenziato da E. Scalfari, il quale ha detto che sta lavorando per denigrare il segretario Veltroni. L’amico di merenda di D’Alema, Latorre, accusa Veltroni di praticare una politica fallimentare. Povera sinistra, ma quale sinistra? Quella degli “utili idioti”, una formula inventata da Lenin, ripetuta da Stalin, Gramsci, Togliatti per indicare coloro che dinanzi alla storia hanno firmato un’adesione contraffatta di una stupida disponibilità nel nome del potere. Certo non bisogna cretinizzare tutta la sinistra. Vi sono uomini di grande dignità e intelligenza, questi non vanno confusi con gli attuali qua qua ra qua in cerca del potere. Questi uomini che hanno a cuore la salvaguardia della dignità dei nuovi poveri bisogna rivolgere l’appello di cercare insieme nuove soluzioni possibili per il bene di tutti i bisognosi. Purtroppo la “sensibilità “della ricchezza non incontrerà mai l’ascolto della dignità del povero. Continuare a parlare, oggi, di destra e di sinistra è una grave offesa alle intelligenze a dimensioni planetarie .Noi abbiamo un ferito grave assalito dai briganti sulla strada di Gerico, dobbiamo aspettare il samaritano ,oppure tutti vogliamo essere dei samaritani. Francesco Saverio Iacolare.
Da quello di Sciascia a quello su Twitter, genealogia del cretino moderno, scrive di Guido Vitiello il 19 Novembre 2012 su “Il Foglio”. Non ci sono più i cretini di una volta. Leonardo Sciascia li ricordava quasi con rimpianto: quei bei cretini genuini, integrali, come il pane di casa, come l’olio e il vino dei contadini. La loro scomparsa seguì a breve giro quella delle lucciole, e chissà che tra i due fenomeni non ci sia un nesso misterioso. Poi venne l’epoca della sofisticazione, per gli alimenti come per gli imbecilli: “E’ ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino”, annotava sconsolato in “Nero su nero”. A rendere possibile questa confusione incresciosa, a intorbidare le acque era stata l’improvvisa disponibilità di gerghi intimidatori dietro cui far marciare le banalità più indifese. Sciascia sceglie una data convenzionale, il 1963, anno in cui comincia l’ascesa, a sinistra, di un tipo nuovo di cretino, il cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare”. Si annunciava la stagione d’oro del cretino dialettico, operaista, maoista, strutturalista, althusseriano, insomma il cretino a cui Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini avrebbero eretto il monumento del “Piccolo sinistrese illustrato”. Sciascia era persuaso che il più insidioso mascheramento della stupidità fosse la complicazione non necessaria, l’arzigogolo, e scelse per metafora il berretto di Charles Bovary: Flaubert impiega mezza pagina a descriverne la fattura assai composita, per concluderne che in fin dei conti somigliava alla faccia di un imbecille. Altri tempi, altri cretini. Oggi quel tipo lì lo riconosci a vista, i gerghi non gli fanno più da scudo, anzi ne segnalano a colpo d’occhio la cretinaggine, irraggiandola in ogni direzione come l’evangelica lampada sul moggio. Certo, vanta ancora le sue glorie mondane, scrive i suoi trattati, assiepa i suoi vaniloqui, fonda le sue rivistine, raduna attorno a sé i suoi circoletti (pur predicando, magari, di “moltitudini”), ma tutto sommato è facile impedirgli di nuocere. Sono altri, quelli da cui dobbiamo guardarci. Oggi il cretino, a destra come a sinistra, sembra aver ritrovato la sua originaria semplicità e una perversa concisione. Ma attenzione a non confondersi, è una semplicità contraffatta, una sofisticazione di secondo grado: è il segno che la specie si è evoluta per sfuggire agli artigli dei suoi predatori. Il cretino di buon senso è come quelle mele rosse rosse che per evocare un Eden perduto si servono di tutte le diavolerie della chimica. Ti guarda in faccia e ti dice, che so, “la cultura è un bene comune, come l’aria”, e tu temporeggi dietro un mezzo ghigno contratto, e ti sembra così candido che sei quasi sul punto di assentire, di sciogliere la mandibola e ricambiargli il sorriso, e devi aggrapparti con tutte le forze all’albero maestro del tuo intelletto per non soccombere all’incantesimo e capire che sì, probabilmente hai davanti a te un imbecille. E non è il solo da cui stare in guardia, il cretino di buon senso. Se al tempo di Sciascia la strategia per mimetizzarsi era la blaterazione fantascientifica, la proliferazione cancerosa dei gerghi, la zecca sempre aperta delle parole che coniano altre parole, oggi il cretino si rintana nelle forme brevi. Ecco, sarebbe da prendere quel dibattito soporifero tanto caro ai giornali – “Twitter ci rende stupidi?” – e capovolgerne l’assunto: Twitter ci rende intelligenti. C’è in questo qualcosa di prodigioso, e di terrificante: ci sono cretini certificati, abituali, della cui cretinaggine abbiamo prove da riempirci un dossier, che nel giro breve di quei centoquaranta caratteri riescono non si sa come, per un istante, a ricordarci Karl Kraus, Oscar Wilde, o male che vada Giulio Andreotti. Possibile? L’aforisma, il Witz, che un tempo era un’arma formidabile contro la stupidità di tutte le maniere, è diventata il nuovo rifugio degli imbecilli, la freccia più velenosa nella loro faretra. Eppure non c’è granché da fare. Già che la stupidità ci assalta a tradimento, e senza logica, ne consegue, suggeriva Carlo Cipolla nel suo trattatello sul tema, che “anche quando si acquista consapevolezza dell’attacco, non si riesce a organizzare una difesa razionale, perché l’attacco, in se stesso, è sprovvisto di una qualsiasi struttura razionale”. Il meglio che possiamo fare è metterlo nero su nero. Guido Vitiello
L’oblio su Sciascia politico. Non soltanto i rapporti contrastati col Pci, né la sua elezione con i Radicali. Lo scrittore siciliano divise l’establishment con le domande su giustizia e potere, scrive Gianfranco Spadaccia, già segretario, deputato e senatore del Partito radicale, il10 Luglio 2014 su “Il Foglio”. Pubblichiamo stralci della prefazione di Gianfranco Spadaccia a “La memoria di Sciascia”, collezione di saggi e articoli dello scrittore messicano Federico Campbell (1941-2014), appena pubblicata in Italia da Ipermedium Libri. A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita a una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il Pci o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato Radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura. E’ strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’Enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondanti scrittori e anche a se stesso. E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere a offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni 60 ne “Le Parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’Inquisitore”, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni 70 e dei primi anni 80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche delle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore”. Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni Ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il “primo” Sciascia del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa. Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al Pci magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”. Sciascia, che non amava la parola “intellettuale” a cui preferì sempre quella di letterato o di uomo di lettere, non fu mai, neppure nel periodo di vicinanza al Pci siciliano, intellettuale “impegnato” e tanto meno “organico”. L’unico impegno che concepì, fu nei confronti delle proprie convinzioni e della propria coscienza. Campbell ricorda che, per questo, ebbe come riferimenti Gide che, da comunista, si impegnò nella condanna di Stalin e dello stalinismo e Bernanos che, da cattolico, combatté il sostegno offerto al generale Franco da parte della chiesa cattolica nella guerra civile spagnola. La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della “Controversia liparitana” ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del Pci e degli intellettuali più vicini al Pci, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni 80 gli stessi princìpi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia. Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista e anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle. E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo una grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le Br, ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”). La seconda rottura fu provocata da un articolo sul Corriere della Sera in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei Radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti Radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate rosse e al fatto che nei primi anni Sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere a occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri princìpi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere. Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’onorevole Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle Br, impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della Dc quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle Br quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Urso, che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.
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(…) Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. (…) Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. (…) Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora – Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente”. (…) Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità. (…)
Alberto Moravia: «L’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza». Un estratto della lettera uscita nella raccolta (Bompiani) "Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto", che nel 1927 lo scrittore mandò al filosofo Andrea Caffi sulla figura dell’intellettuale e il valore dell’esperienza, scrive “L’Espresso” il 4 febbraio 2016. Il filosofo Andrea Caffi, sodale di Chiaromonte, antifascista - «un uomo di valore, erudito e fantasioso», come lo definì lo stesso Moravia - stimola la riflessione dello scrittore, impegnato nella stesura de Gli indifferenti. Caffi vent’anni più grande è un esempio, per Moravia, e sarà non a caso uno dei pochi a leggere in anteprima l’ultima opera. Della figura dell’intellettuale, del valore dell’esperienza, scrive Moravia in questa lettera (qui in estratto) del 1927, pubblicata da Bompiani nella raccolta Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto – Lettere 1926-1940, da poco in libreria e presentata (venerdì 5 febbraio, a Roma al teatro Argentina) da Dacia Maraini. «Sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale», scrive Moravia, raccontando «la aridità e la mediocrità della vita di Roma». Lo spaventano «l’intellettualismo e gli intellettuali». «Finora in Italia (l’Italia moderna)», scrive, «non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica». «Anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio», continua, salvo poi interrompere così l’analisi: «Lei», scrive a Caffi, «mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare - ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza».
Solda, 1 agosto 1927. Mio caro Caffi (...)Quello che Lei dice su me e sul mio avvenire è molto lusinghiero e certo non potrebbe esser più giusto quel che Lei dice sulla maggiore importanza della vita invece che del lavoro – le sue parole vengono a confermare un concetto che fino a poco tempo fa avevo idolatrizzato e che ora, forse per la aridità e la mediocrità della vita di Roma cominciava a vacillare – del resto per dimostrarLe quanto l’idea della vita e della sua vastità mi sia accetta le dirò che poco tempo fa avevo deciso di abbandonare dopo la pubblicazione del mio romanzo la letteratura e di dedicarmi a qualche occupazione meno artistica – quello soprattutto che mi spaventava era l’intellettualismo e gli intellettuali – finora in Italia (l’Italia moderna) non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica – questo è un grande pericolo: la mia più grande ambizione è non di essere un uomo qualunque ma forse un uomo che nonostante la sua possibile intelligenza non frammetta tra sé e le cose la lente dell’intellettualismo – Come vivere io ancora non so – e certo, finché non avrò qualche scopo più alto che me stesso, quei sacrifici e quelle rinunce di cui Lei mi parla non serviranno a nulla altro se non a far del posto per altre verità – e debbo anche dirle che fino a poco tempo fa il mio più alto ideale umano era l’uomo forte sanguigno e consapevole di Shakespeare o se vogliamo di Balzac – l’uomo completo con tutti i vizi e tutte le virtù – tutto il mio sistema di vita era appoggiato su questo ideale per questo ideale ho fatto diverse e non tutte pure esperienze e perciò quel che a Lei forse era sembrato generosità, non era qualche volta che consapevole e mal intenzionato esperimento – e debbo anche dire che in me c’è ancora una buona dose di irritazione, il resto di una rabbia durata 19 anni – e poi ci sono tante altre cose, le più non belle – anzi posso dire che l’unica cosa che ho di buono è la consapevolezza di questi miei detti difetti – ho visto spesso parecchie persone burlarsi o biasimare senza parerlo le mie vanità e io lo sapevo e le esageravo. Ad ogni modo per ora la questione è di vivere cioè di fare esperienze: certo ora non penso più come due anni fa che l’esperienza sia tutto – ma ne riconosco il valore materiale e documentario... e poi tutte queste sono parole – io ho davanti a me tutte le questioni più dure di conoscenza umana e di elevazione morale e dietro di me solamente qualche piccola vittoria sul tempo e qualche piccolo esperimento – soltanto ecco, tutto è chiaro avanzo e non mi riesce di vedere altra via che quella seguita da tutte le ambizioni – la più grande precarietà è in ogni mia azione – vivo alla giornata e una volta alla settimana almeno sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale – anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio – è terribile non avere alcun appetito, non esser feroce – sentirsi avvolti da una mediocre ovatta – e certo nulla è più ripugnante che certe mie debolezze femminili direi quasi masochiste. Lei mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare – ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza – e se certi sacrifici non fossero sacrifici ma solamente agevoli distacchi? Lei mi dica delle sue condizioni e di quel che conta di fare – e poi dica anche che cosa intende per “singolarità addirittura brutali” che io svilupperei se non rinunciassi alla vanità terrene – e questo sia detto senza alcuna ironia. Arrivederci per oggi. Una stretta affettuosa di mano. Alberto Pincherle. Copyright Bompiani 2015
“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.
Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.
L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.
CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.
Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.
Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.
Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.
"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.
Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.
Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.
Perché la battaglia contro la mafia è prima di tutto culturale. Affrontare la realtà anche se non ci piace. Così si combattono le cosche. Ma c’è chi preferisce non guardare. E critica romanzi, film e serie tv come "Gomorra" e "Romanzo criminale". Il libro "Il contrario della paura" di Franco Roberti spiega come affrontare quotidianamente terrorismo e mafie, scrive il 28 giugno 2016 “L’Espresso”. Proponiamo alcuni stralci del libro “Il contrario della paura” di Franco Roberti. Nel volume, pubblicato da Mondadori e scritto con Giuliano Foschini, il procuratore nazionale antimafia spiega come affrontare, anche nei comportamenti quotidiani, il terrorismo e le mafie. Tempo fa mi è capitato, sfogliando un giornale, di leggere di una strana patologia della psiche, che colpisce principalmente le donne. Si chiama «sindrome di Grimilde», come la strega della favola di Biancaneve: le signore che non si piacciono, spesso a causa di alcune, anche piccole, imperfezioni del proprio corpo, preferiscono non guardarsi allo specchio per non essere messe di fronte alla realtà. Uno strumento di difesa, evidentemente, che però impedisce una possibile risoluzione del problema: se non ti guardi, non sai. E se non sai, non puoi prendere le contromisure necessarie per apparire, anche soltanto a te stesso, migliore. La «sindrome di Grimilde», però, non colpisce purtroppo soltanto gli uomini e le donne che non si piacciono. Alle volte, di questa patologia si ammalano anche le istituzioni. Che sottovalutano il fenomeno, non capendo che l’associazione mafiosa non è soltanto un delitto contro l’ordine pubblico, ma il più grave delitto contro la democrazia. (…) Il contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata da parte dello Stato, dei poteri pubblici, ha sempre avuto nel nostro paese una gestione emergenziale. E soltanto quando le organizzazioni mafiose sparavano, uccidevano e creavano pericoli per l’ordine pubblico, lo Stato sembrava accorgersi della loro esistenza e interveniva. Come? Intensificando l’azione repressiva. Se invece per un po’ tutto taceva, se le mafie prosperavano in silenzio, se facevano affari e intrecciavano rapporti con la politica e con l’economia, le si trattava come se non esistessero. (…) Passata l’indignazione del momento, passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Lo Stato sembra non partire mai all’attacco, non prende mai l’iniziativa. Risponde sempre con provvedimenti tampone. E questo è possibile proprio per via della «sindrome di Grimilde». Allontanarsi dallo specchio è una maniera per scansare il problema. E raccontarsi una bugia: come se quelle pallottole, quelle stragi, quell’attentato alla libertà di ciascuno di noi, fossero un effetto straordinario. Una malattia rara, quasi misteriosa. E non una patologia sistemica, che abbassa le difese immunitarie, e che ti rende ogni giorno vulnerabile. Invece, è così: le mafie sono un elemento costitutivo, una componente endemica della società meridionale. E oggi esiste il rischio concreto che in breve tempo possano diventare presto un elemento strutturale, una parte del tessuto sociale anche di altre regioni. Non riconoscerlo significa non curarsi. Non ammetterlo significa aiutare la malattia, essere in qualche maniera complici involontari di chi ci vuole uccidere. Se non guardiamo in faccia la realtà, se continuiamo con i negazionismi ipocriti, paralizzanti, subdoli, faremo il gioco delle mafie che scommettono tutto su Grimilde per infiltrarsi nelle pubbliche amministrazioni e creare quel sistema alternativo al sistema dello Stato e dei poteri pubblici locali. Non guardarsi allo specchio significa non riconoscere che non possono bastare le norme penali a contrastare la criminalità organizzata, ma che occorre intervenire anche sulle cause sociali del loro sviluppo. (…) La questione è molto delicata. Per questo chiedo a tutti di fare la propria parte: alle associazioni di categoria di offrire la massima assistenza a chi denuncia, e di essere durissimi, invece, con chi paga il pizzo in silenzio. Chiedo alla politica rigide norme sugli appalti pubblici: a Bari, in Sicilia, persino a Milano, ci sono stati casi di pizzo chiesto su lavori effettuati dalle pubbliche amministrazioni. Inaccettabile. Per chiedere questi sforzi, però, è necessario che lo Stato faccia la sua parte. I rapporti sociali funzionano, come funzionano le istituzioni, quando si fondano sulla fiducia. Il concetto di fiducia è fondamentale: se c’è funziona tutto. Fiducia significa affidamento e l’affidamento comporta, inevitabilmente, anche un controllo dei comportamenti. Fiducia è verità (…) Io credo molto al ruolo della verità. Ecco perché, per esempio, mi sono molto interessato al dibattito sorto attorno a opere come “Gomorra” e “Romanzo criminale”. Parlo anzitutto dei libri - che hanno avuto un enorme successo di pubblico e di critica - ma anche dei film e delle serie tv che hanno ispirato. In comune hanno la caratteristica di essere ambiziosi prodotti italiani. Di essere fatti con grande cura e attenzione: moderni, forti, scritti e girati benissimo. E di occuparsi, chiaramente, entrambi di fenomeni criminali, mafiosi. Ma ad accomunarli è anche la circostanza di aver suscitato, oltre a un grande successo di pubblico, grandi polemiche. Mi ha colpito, per esempio, che molti sindaci campani si siano rifiutati di far girare alcune puntate della seconda stagione di “Gomorra” nelle loro città. «Non è una buona pubblicità» hanno dichiarato. E poi ancora, la solita teoria: «Noi non siamo soltanto quello», «In televisione dovremmo andare per le nostre bellezze, per le nostre risorse, e non sempre per la malavita» eccetera eccetera. Capisco la reazione, ma allo stesso tempo penso che si tratti di una posizione sbagliata. Per questo non la giustifico. Non è “Gomorra” che porta i ragazzi a delinquere. È troppo facile pensare che il problema sia “Gomorra”. Il problema è la criminalità che non viene ancora sconfitta. Il problema è lo spaccio per strada, la politica corrotta, il problema è il commerciante che paga il pizzo. “Gomorra”, essendo un prodotto eccellente, non fa altro che rappresentare benissimo quello che succede: lo ha fatto prima nel libro di Roberto Saviano, poi nel film di Matteo Garrone e ora nelle serie di Sky. È un altro pezzo della «sindrome di Grimilde»: non vogliamo guardarci allo specchio? Non vogliamo che in televisione venga rappresentato, seppure con qualche esagerazione romanzesca, ciò a cui noi tutti assistiamo ogni giorno, spesso nell’indifferenza più assoluta? Bisogna avere paura della realtà? Abbiamo paura di noi stessi? “Gomorra”, così come in parte “Romanzo criminale”, fornisce un contributo di conoscenza reale del problema. E fa più paura proprio per questo: perché non è soltanto lo spara-spara. È anche la famiglia Savastano che sbarca a Milano e osserva i grattacieli nuovi, luccicanti. «Genny, è tutto nostro» dice la madre al figlio in una battuta bruciante, evidentemente semplicistica, ma che contiene tutto. Dire: «Ci fate una cattiva pubblicità» fa molto meno male che ammettere che è vero, purtroppo. Magari non sarà tutto, ma molto di quello che ci è attorno appartiene a loro. Palazzi, bar, ristoranti, negozi. (...) Non si può accusare gli intellettuali di raccontare la verità. Non si può chiedere a nessuno di chiudere gli occhi: perché anche se si prova a nasconderla, la realtà continua a esistere. Certo, rispetto a questi prodotti sarebbe importante esercitare un giudizio critico. E per farlo, in questo caso, servono i maestri. È necessario investire sulla cultura dei diritti. È necessario spiegare con parole chiare, e mi pare che questo lo facciano persino le fiction, che a seguire quei modelli si finisce sempre male, sempre in un’unica maniera: o al cimitero o in carcere. Non ci sono altre possibilità.
Intellettuali e politica, Paolo Di Paolo il 19 aprile 2016 su "L'Espresso: l'impegno di Zerocalcare e il silenzio degli altri. Agli intellettuali non interessa più quello che succede nel mondo e nella politica. Sono diventati prudenti fino al conformismo. Con pochissime eccezioni. E un fumettista che fa meglio di loro. Lui, a un certo punto, ci scherza su: «Però contate che ’sto libro magari finisce in mano a gente che di solito non mi legge e che è cascata nella trappola dell’argomento impegnato». Ma in “Kobane Calling”, appena pubblicato da Bao Publishing, prima ancora che l’argomento, conta lo sguardo: raccontando un suo doppio viaggio nel Kurdistan siriano (e perciò, come lui scrive, di qualcosa «che va oltre gli strettissimi cazzi miei»), il fumettista Zerocalcare chiama in causa l’ignoranza, i pregiudizi degli «sciacalli nostrani» (li disegna: Borghezio, Gasparri) e di tutti noi. La distanza e l’indifferenza che impediscono a quella «cosa che conosci benissimo. Che ti porti sempre dietro. Il cuore. Non uno qualsiasi. Il tuo - con i suoi bozzi, le sue cicatrici, le sue toppe» di battere per Kobane. Come tutti i suoi precedenti e come quel piccolo capolavoro che è “Dimentica il mio nome”, “Kobane Calling” fa ridere e fa piangere, senza ricattare mai chi legge; l’autore è antiretorico, smitizza sé stesso («Avoja a lavora’ su me stesso. Io sto come un cantiere della Metro C»), ma non per questo evita di prendere posizione. E una volta messo piede nella regione autonoma curda del Rojava, invita a guardare «le scelte loro e le nostre»: «Loro c’hanno la guerra in casa. Quella vera, a pochi chilometri. Eppure, anche in mezzo a ’sto macello, cercano sempre di aprire più spazi di partecipazione e di democrazia. Noi strumentalizziamo ogni morto per fare esattamente il contrario. Chiudere quegli spazi sempre di più». Raffigura «buona parte della nostra classe dirigente» dandole i tratti di un maiale che dice: «Facciamo vedere ai terroristi che non modifichiamo il nostro stile di vita per loro. Postiamo tutte foto di noi che ci baciamo in piazza, così vince l’amore la vita la mononucleosi. Intanto, però, mettiamo lo stato d’emergenza. Togliamo Schengen…». Fa uno strano effetto leggere “Kobane Calling” accanto a “Tumulto” di Hans Magnus Enzensberger, appena uscito da Einaudi. Che c’entra un fumettista romano trentenne con uno scrittore tedesco ottantenne? La risposta sta nel titolo del vecchio Enzensberger, nella parola “tumulto”. Il libro raccoglie i suoi diari ritrovati degli anni Sessanta: un viaggio a Leningrado insieme a Sartre, De Beauvoir e Ungaretti, un soggiorno cubano, l’impegno pubblico negli anni del grande tumulto individuale e collettivo. Quelle esperienze, dice Enzensberger, «sono sepolte sotto il mucchio di letame dei media, del materiale d’archivio, dei dibattiti, della schematizzazione da vecchi militanti», ma lui non vuole dimenticare «quanto rumore faceva il tumulto». E d’altra parte, «vecchio mio, sai bene quanto me che il tumulto non finisce mai. Semplicemente ha luogo da qualche altra parte, a Mogadiscio, Damasco, Lagos o Kiev, ovunque abbiamo la fortuna di non vivere. È solo una questione di prospettiva». Già, è solo una questione di prospettiva. Enzensberger non prende sul serio fino in fondo le proprie stesse pose da intellettuale engagé, anzi, interroga il trentenne che è stato, lo provoca: perché eravamo così fissati con la guerra del Vietnam? E d’altra parte, però, lascia intendere che - al netto degli eccessi, di un radicalismo pericolosamente privo di misericordia - essere scrittore, per lui, è stato anche questo. Una questione, sì, di partecipazione. La voglia di capire, di vedere, di prendere posizione, di provocare indignazione, e magari - perché no? - di «sbalordire e far imbestialire la società», senza uccidere nessuno. Abbiamo archiviato con disinvoltura, perfino con sollievo, la stagione della militanza intellettuale. Seguitando a incensare Pasolini a ogni festa comandata, abbiamo convinto noi stessi che bisognava guarire dalla febbre degli interventi a gamba tesa nel dibattito civile, degli appelli, dei j’accuse. Se gli anni del riflusso ci hanno addormentato, quelli successivi ci hanno sorpreso in letargo. E così, è bastato un sorrisetto di scherno per chiudere in cantina i proclami di Sartre e il fumo della sua pipa, Moravia, i suoi sgargianti maglioni girocollo, le sue ossessioni sull’inverno nucleare. Era - ci è parso - perfino caricaturale quel piglio da tribuni salottieri, quell’ansia di mettere firme, di dire la propria: autorizzati da chi? Mentre avanzava l’epoca dell’ironia - su tutto, a tutti i costi - e la parola “intellettuale” entrava nel lessico degli insulti, si consolidava la tesi dello scrittore tenuto a impegnarsi solo scrivendo romanzi. Qualcosa, lungo il ventennio berlusconiano, si è mosso, ma in una sola direzione: Antonio Tabucchi incassava querele da Ferrara e daSchifani, Franco Cordelli da Previti. Poi, più niente. All’uscita dal tunnel, è bastata un’alzata di spalle a liquidare un’intera stagione: nelle pagine di “Il desiderio di essere come tutti”, Francesco Piccolo ha messo in ridicolo l’accanimento e il malumore della sinistra tra il 1994 e il 2011, come un gioco di società tutto sommato inutile. Ha polverizzato con un’esclamazione - «E che sarà mai!» - gli ultimi lampi di conflitto, di tumulto. Il Nobel a Dario Fo, nel ’97, fu letto da molti come uno scherzo da comunisti svedesi: per avere il massimo riconoscimento letterario - usa dire dalle nostre parti, con sospetto - conta l’impegno politico. All’indomani della morte di Tabucchi, un orrendo titolo del “Corriere della Sera” imbrigliava l’inquieto autore di “Sostiene Pereira” nella categoria di «antiberlusconiano che scelse l’esilio». Che tristezza! Curioso che poi, se decidono di intervistare uno come David Grossman, gli chiedono conto della sua insofferenza per Netanyahu. C’è qualcosa che non va in un Paese che rimpiange gli scrittori impegnati del passato, celebra quelli stranieri se prendono posizione, e costringe i propri contemporanei a tacere. Più per paura di essere presi in giro che per eccesso di prudenza. L’argine a ogni slancio politico, buono per tutte le stagioni, è quello usato da un ministro per frenare un intervento di Saviano sul caso Boschi: Saviano parli di mafia, ovvero di ciò che sa. Tradotto: è uno scrittore, si occupi d’altro, non emetta «sentenze senza fondamento». Eppure, quante lacrime di coccodrillo versate sull’«io so» pasoliniano! Peccato che a quell’«io so» facessero seguito un’avversativa e una causale piuttosto eloquenti. Io so ma non ho le prove. Io so perché sono uno scrittore. Quei pochi che ancora azzardano prese di posizione nette - e ovviamente discutibili - come Erri De Luca o Michela Murgia sono spesso guardati con diffidenza. Perché De Lucaparla di Tav? Perché parla di trivelle? Uno scrittore che scelga di dire la propria, non è detto che lo faccia da cittadino più intelligente o più esperto, non necessariamente: da cittadino più attrezzati di parole, semmai, e mosso - si suppone - da autentica passione civile. Riusciamo ancora ad accettarlo? Può prendere cantonate, pronunciare enormi sciocchezze: come tutti. Ma a cosa sarebbe ridotta la storia della letteratura se venisse applicata sistematicamente la categoria di «sentenze senza fondamento»? Buttiamo all’aria tutto Brecht e l’intera opera dell’ultimo premio Nobel, Svetlana Aleksievic? La «guerra contro i cliché», come la chiama Martin Amis, si combatte anche a suon di provocazioni, di frasi grosse, di domande irritanti e radicali. Si combatte anche a furia di iperboli: se Mario Vargas Llosa definisce Donald Trumpun clown, sta esagerando. Ma non è detto che sia inutile. E se gli avversari lo definiscono (negli Stati Uniti, ma anche sull’italianissimo “il Giornale”) «intellettuale che rosica», è segno che comunque ha toccato qualche nervo scoperto. La battaglia contro i conformismi si combatte anche a furia di libri sbagliati, o brutti su un piano estetico: “Sottomissione” diHouellebecq disturba, come ogni sua pagina, ma scuote. D’altra parte, mentre i cugini francesi portano in prima serataBoualem Sansal, autore di “2084”, a parlare di islamismo radicale, noi confiniamo gli scrittori ai talk show promozionali. Il paese di Dante e di Belli è diventato allergico alle invettive. Le accetta solo se hanno valore retroattivo, solo sull’onda del «come eravamo». La Resistenza. Settant’anni fa. Il delitto del Circeo. Quarant’anni fa. Fa impressione ripescare dagli archivi il dialogo infuocato tra Pasolini e Calvino nell’autunno 1975. È il 30 ottobre, Pasolini muore tre giorni dopo. Si rivolge così a Calvino: «Tu dici (“Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975): «I responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira». Ma perché questo? Tu dici: «Nella Roma di oggi quello che sgomenta è che questi esercizi mostruosi avvengono nel clima della permissività assoluta, senza più l’ombra di una sfida alle costruzioni repressive... Ma perché questo?». Ripete sei volte lo stesso interrogativo: «Ma perché questo?». Provoca il collega, lo incalza: «Tu sai bene come documentarti, se vuoi rispondermi, discutere, replicare. Cosa che finalmente pretendo che tu faccia». C’è qualcosa di esemplare - al di là del merito - in questo corpo a corpo tra scrittori, in questa sfida reciproca alla responsabilità, alla discussione. In questo - posso dirlo? - prendere sul serio gli eventi, la realtà. Non c’era niente da ridere. Non c’è niente da ridere. O quantomeno, non c’è solo da ridere. Ve lo immaginate Pasolini che ghigna da un profilo Facebook? Sciascia che fa il battutista brillante su Twitter? Verrebbe da concludere che, se gli scrittori sono stati marginalizzati sulla scena pubblica, un po’ l’hanno voluto. Cercando di competere con Crozza o con Spinoza.it, piantati su un terreno che non è il loro; temendo di apparire “pesanti”, hanno annegato nel cazzeggio qualunque spessore. Qualche eccezione c’è, e di solito non appartiene alla generazione dei padri. A quella dei figli cresciuti, come Alessandro Leogrande, Christian Raimo, Igiaba Scego. Se Nicola Lagioia si occupa con intelligenza del delitto Varani, c’è chi fa la ola, ma non dovrebbe essere una rarità. E poi c’è la generazione dei nonni come Enzensberger, e come il sempre troppo inascoltato Busi. «E allora, che sarà mai», scrive in “L’altra mammella delle vacche amiche”, «se rinunci a un po’ del tuo piccolo dolore per te sostituendolo con il dolore più grande degli altri che vuoi che restino dall’altra parte, quella irraggiungibile dalla tua retina ma non dal tuo cuore, quella invisibile per la comodità della tua vecchia antropologia egocentrica che non vede mai alcun futuro se non il suo presente stretto alle sue sole viscere?». Ecco, ancora il cuore chiamato in causa da Zerocalcare. Il quale, come Busi, si sforza di non somigliare a quelli che nei sondaggi riempiono la percentuale del «non sa, non risponde». Dove siamo tutti? Alle prudenze dei cortigiani e dei reggimicrofono, si sommano i nostri silenzi di simpatici e inoffensivi cantastorie. E nessuno prova più nemmeno a scuotere la cappa di conformismo che ci sta uccidendo.
Intellettuali e politica, Michela Murgia su "L'Espresso il 16 maggio 2016: "Noi, scrittori del reale, in trincea contro i media". Chi interviene sui temi sociali viene ingabbiato in ruoli di comodo da giornali e tv. Il contributo della scrittrice sarda al dibattito lanciato da Paolo Di Paolo. Se esista e chi sia oggi o cosa debba fare l’intellettuale engagé, uno coinvolto col suo tempo, è una domanda frustrante che non mi pongo più da anni, perché la risposta imporrebbe che ci fosse un accordo sui termini di “intellettuale” e di “engagé” che invece a monte non c’è quasi mai. Formalmente tutti coloro che scrivono per essere pubblicati sono engagé, da Zerocalcare che disegna Kobane al calciatore di successo che mette il suo nome sulla sua biografia scritta da un altro. A stabilire che esista l’ingaggio è l’atto stesso di pubblicare, che è sempre politico: quelle parole e quelle immagini occuperanno infatti uno spazio che è contemporaneamente pubblico e finito, cioè di tutti ma non per tutti; per il solo fatto di trovarsi lì - su un dato scaffale fisico o virtuale in un esatto momento storico - quelle narrazioni hanno la possibilità di costruire immaginario collettivo e contemporaneamente stanno distruggendo la possibilità che a fare la stessa cosa siano le parole di un altro, qualcuno che quel posto e quel momento avrebbe potuto occuparlo in vece loro. L’ingaggio per chi pubblica è dunque sempre ineludibile, perché genera conseguenze collettive che prescindono dalla volontà di chi scrivendole si è esposto alla vista di tutti. È certo che le migliaia di copie della biografia del calciatore possano essere valutate molto più influenti socialmente di quanto non lo siano le poche decine vendute dal saggio del sociologo o le poche centinaia diffuse dal romanzo cosiddetto civile. In termini di impatto sull’immaginario, Ibrahimovic è assai più engagé di Zagrebelsky, che ne sia o meno consapevole, ma è su quella consapevolezza che si gioca l’altro termine del discorso: l’intellettuale. Se in ragione dell’impatto pubblico si è sempre engagé anche senza avere contezza delle conseguenze delle proprie parole e dei propri silenzi, è intellettuale solo chi la responsabilità di generare quelle conseguenze se l’assume e la porta, a prescindere dalla sua possibilità di influire. Per quanto il campo a questo punto del discorso si restringa di parecchio, rimane comunque ampissimo. È falso che l’intellettuale impegnato non esista più: è piena l’Italia di uomini e donne intellettuali che scrivono con responsabilità ogni volta che prendono la penna in mano o accendono il computer, e quella consapevolezza la applicano a romanzi e saggi, articoli di giornale e blog, tweet e post su Facebook. Non è l’ingaggio né l’intellettuale a mancare: è lo spazio pubblico che permette alle due cose di presentarsi combinate e generare influenza. Se fermassi per strada un passante appartenente a quella categoria della fantasociologia che è il ceto medio riflessivo e gli chiedessi se conosce le riflessioni degli intellettuali che influenzano quotidianamente me - gente come Evelina Santangelo, Giulia Blasi, Francesco Guglieri, Enza Panebianco o Marco Filoni - di certo mi direbbe che non sa chi siano. Eppure il loro pensiero è tecnicamente pubblico sulla carta o sulla rete e quindi accessibile a chiunque. Ciascuno di noi può fare lo stesso inutile gioco e stendere il suo elenco di intellettuali engagé, ma è improbabile che quelli in comune con il passante possano essere più di tre o quattro; e forse saranno i nomi di coloro che negli ultimi anni hanno potuto far passare il loro pensiero sui media mainstream. È sullo spazio, non sul pensiero né sull’impegno, che si gioca la vera differenza. Chi decide quale platea dare all’intellettuale decide implicitamente anche cosa l’intellettuale può dire e la concessione dello spazio di visibilità è fatta sempre per categorie. Me ne resi conto nella prima decade del 2000, quando scoppiò il tema sociale del precariato; per almeno tre anni gli scrittori che avevano pubblicato romanzi o saggi in merito prima che diventasse scottante furono interpellati dai massmedia solo in quanto “precariologi”. Nel tempo in cui l’ideologia è diventata una parola pornografica, l’eventuale visione complessiva di mondo che poteva esserci dietro alla scelta di Nove, Baiani, Desiati, Baldanzi o Platania di scrivere sulla questione del lavoro non interessava a nessuno di quelli che facevano i palinsesti e organizzavano le pagine dei quotidiani. Poi passò di moda il tema e con esso persero voce anche alcuni di quelli che avevano contribuito a farlo divenire tale: la loro influenza non era infatti stabilita dal peso specifico del loro pensiero ma dalla loro funzionalità al sistema mediatico. Lo stesso meccanismo l’ho rivisto all’opera da quando si è cominciato a parlare di femminicidio per le donne uccise per ragioni di genere: anche in questo caso lo spazio mediatico concesso a chi ne ha ragionato era e resta quello della “femminicidiologia” e viene aperto solo corpore praesenti, quando c’è da riempire la colonna del pensatore accanto alla notizia di cronaca dell’ennesimo assassinio di donna. L’intellettuale, per avere diritto di voce davanti ai grandi megafoni, deve essere letto come “esperto” di qualche aspetto parcellizzato della realtà. Deve avere un tema, quella che si definisce “una sensibilità”, un fronte dentro al quale la sua autorevolezza possa essere allo stesso tempo affermata e limitata. Sulla base di questa categorizzazione lo spazio mediatico miracolosamente gli si aprirà e lo incoronerà, ma se per caso l’intellettuale rivendicasse la responsabilità di una visione più generale, se si azzardasse a spostarsi dal recinto in cui si è deciso che la sua parola possa contare qualcosa, allora il meccanismo che scatterebbe è esattamente opposto: la delegittimazione sarebbe immediata e la perdita di visibilità dietro l’angolo. Chi oggi si è assunto senza vergogna il carico di essere intellettuale sa che il gioco è questo: dover sostenere un corpo a corpo continuo con i media di massa perché il termine engagé non implichi che nell’ingaggio egli sia il soggetto passivo, anziché l’agente del suo pensiero. La sola forma di resistenza che conosco al tentativo di rendere strumentale il pensiero non è rinunciare all’ingaggio di esprimerlo, ma accettarlo a patto di essere contronarrativi rispetto alla funzione che gli altri vorrebbero che assumessi, anche a costo di commettere atti di violenza intellettuale. Se c’è una scaletta che prevede che si possano dire delle cose e non altre, ignorarla o contraddirla è per me un dovere. Se il decoro di regime stabilisce che c’è un patto di concessione strumentale della parola all’intellettuale, romperlo e riscriverlo è il primo gesto politico necessario. La cosa realmente complicata è farlo mantenendo aperta la possibilità di poterlo rifare, fino a quando tutti quelli che pensano che non lo si possa fare senza perdere la parola non si sentiranno a loro volta abbastanza forti da fare altrettanto.
Intellettuali e politica, Valeria Parrella su "L'Espresso del 4 maggio 2016: "La mia voce non va in piazza". L'autrice napoletana interviene nella discussione sull'impegno dei scrittori aperta da Paolo Di Paolo. Ci sono molti modi per dare il proprio contributo. Ma non tutti trovano sui media lo spazio che meriterebbero. Se viviamo è per marciare sulla testa dei re» fa dire Shakespeare a Hotspur nell’“Enrico IV”. È così il Bardo: un intellettuale impegnato, al punto che la sua vis politica, traghettata dentro le opere, sale ancora sui nostri palcoscenici a dirci cosa appartiene all’uomo (quando egli è un Uomo). Tiresia, nell’“Antigone” di Sofocle, mette in guardia Creonte dalla ubris, dalla tracotanza del tiranno di sapere cosa è giusto o meno fare non “per” i cittadini, ma “dei” cittadini, per esempio del loro corpo. Anche Sofocle era dunque un intellettuale engagé e usava lo stesso sistema di Shakespeare: faceva parlare i personaggi. Torno al 400 avanti Cristo e me ne vado a spasso per la letteratura europea - ma ha davvero un tempo e una latitudine, la letteratura? - per ragionare su quello che Paolo Di Paolo ha sostenuto la settimana scorsa su “l’Espresso”, in un articolo vibrante di passione. Ho compreso che dicesse che, in un’epoca in cui i governanti mostrano irresponsabilità, l’intellettuale e lo scrittore debbano ingaggiarsi. È povera la stagione della nazione in cui chi ha voce non la usa per impegnarsi su ciò che accade nel mondo. Mi è parso un articolo preciso per ciò che affermava, ma fuorviante per ciò che ometteva. Procedendo per induzione, da lì venivano fuori dei macrotipi: c’è lo scrittore di primo tipo, quello che ha assunto una voce forte grazie al proprio talento e la utilizza per supportare questioni del mondo esterno, senza includerle nella propria produzione: scrive un appello per, scende in piazza con, va in tv contro (Erri De Luca si diceva, allora io dico Tiziano Scarpa assieme a una dozzina di scrittori del Nordest in Piazza dei Signori a Treviso contro le ordinanze razziste dei sindaci veneti). C’è lo scrittore di secondo tipo: quello che, a volte, poiché una cosa del presente lo indigna particolarmente, lo muove o ne sa di più, ne scrive a parte: fa un reportage su un giornale, scrive un volume in una collana dedicata (Lagioia sul delitto Varani si diceva, allora io dico “Zingari di merda” di Antonio Moresco, Effigie). Blog, Twitter, gruppi di lettura, comunità di fan. Il successo di un libro è sempre più affidato agli "influencer", specialisti del passaparola. Poi c’è lo scrittore di terzo tipo: quello che lascia precipitare il presente nella propria opera (Zerocalcare si diceva, allora io dico Giuseppe Genna). Infine uno scrittore di quarto tipo: quello che scrive così bene che, abbia o meno legami immediati con il presente: un giorno qualunque un lettore qualunque prenderà la sua parola e ne trarrà motivo di lotta per sé e per gli altri (tra i citati da Di Paolo ci si poteva riconoscere Pasolini, i miei esempi sono all’inizio di questo articolo). Però l’esperienza umana è una soltanto, non siamo compartimenti stagni ma persone, e perfino io non sono così sciroccata da pensare che gli intellettuali possano essere categorizzati come periodi ipotetici: e quindi le idee circolano, i flussi di pensiero e i campi semantici che li abitano o forse li regolano, gli interessi e gli amori: si mescolano, o meglio si dice in napoletano “si imbrogliano”. Massimiliano Virgilio è più ingaggiato quando scrive “Porno ogni giorno” (Laterza), per parlare del degrado umano che si consuma alle periferie delle nostre città, o quando va nel penitenziario minorile di Nisida a fare laboratori? Quando scrive un reportage da Scampia su “il Venerdì di Repubblica”, o quando organizza da volontario l’unica festa del libro di Napoli o quando in “Arredo casa e poi mi impicco” (Rizzoli) racconta il baratro esistenziale di un trentenne che è tutti i trentenni? Voglio dire che non credo che il mondo delle lettere si possa spartire tra uno scrittore che se ne frega di quello che accade fuori e si ripara sicuro tra le sue carte, e un altro che si stende sui binari assieme ai disoccupati. Soprattutto perché dietro le proprie carte non si è mai al sicuro. Uno scrittore mentre scrive frigge, e quando esce fuori con un articolo o un libro: rischia. Dal disinteresse al linciaggio. Se non scrive libri pensando alle fette di mercato, alle tasche degli adolescenti, se non ammicca al lettore, se non pensa che da quel libro ci si potrà cavare un film, cioè se è onesto intellettualmente, lo scrittore rischia, e dico: rischia ogni cosa perché dopo, dopo quel libro, dopo tre giorni da quell’articolo non ha più nulla. Diventa quella parola scritta che se ne è andata. Paolo Di Paolo lo sa, che c’è più amore di quello che dichiarava lui nell’articolo della scorsa settimana (è proprio questa la bellezza di quell’articolo: che egli stesso affermando che serve l’ingaggio si ingaggia; annichilendosi nella prima plurale dei “cantastorie”, si chiama all’azione). Erri De Luca e Michela Murgia, portati a giusto esempio come impegnati, hanno una voce calda ed esatta, e hanno anche una voce forte. Avere una voce forte significa potersi far sentire. Ma questo ultimo aspetto non dipende solo da loro: il megafono è un concertato tra tre agenti: il sé, il pubblico (utilizzo il termine nell’accezione latina, «che appartiene a tutto il popolo») e il tramite tra i due: i media. Se i media fanno da cassa di risonanza per le battutine liquidatorie del ministro Boschi ci vuole una voce enorme, come quella di Saviano, per rispondere confidando in eguale risonanza. Gli esempi che qui riprendo da Paolo Di Paolo sono quelli di tre scrittori che l’attenzione se la sono conquistata scrivendo, e va a loro onore, ma non può andare a disdoro degli altri il non riuscire a ottenere la stessa visibilità. Quando Loredana Lipperini, Ermanno Rea e Franco Arminio si candidarono nelle liste di L’altra Europa con Tsipras (non male come impegno anti-renziano), dai palchi dei comizi dicevano della questione meridionale, dei paesaggi offesi e vilipesi, del corpo delle donne. Bisognava ascoltarli. Ma chi ha potuto? Sono bastati gli accorati e pensati richiami di Aldo Masullo e di Maurizio Braucci ad arginare il craxiano appello di Renzi al disingaggio referendario? No. Serviva qualcuno che desse loro uguale spazio. Qualche giorno fa Valerio Magrelli sulle pagine romane de “La Repubblica” ha scritto un pezzo sull’inclusione scolastica. Parlava del presente e non lo faceva in versi, ma in quanti l’hanno letto? I Wu Ming fanno caso a sé proprio per questo e per questo anche vanno ricordati: hanno scelto di non utilizzare parte dei media, di non apparire in tv, e manco in occasioni pubbliche ufficiali, di “apparato”. Fa parte del loro essere impegnati, è proprio dal loro impegno civile che nasce questa forma di protesta: che io credo racconti quanto raramente ci si possa fidare di ciò che è eclatante. Cosa è un gesto forte? Quale quello a cui dare udienza? Vogliono, le televisioni, parlare per tre giorni de “I piccoli maestri” e di tutti gli intellettuali che vi prendono parte (piccoli maestri.wordpress.com)? La stampa vuole fare a gara a chi lancia prima l’itinerario 2016 di “Repubblica nomade” (repubblicanomade.org)? Piuttosto mi pare che ai media interessi l’episodio eccellente, e diano pochissimo credito, seguito e spazio a chi costruisce con pazienza nel tempo. Se non hai una voce amplificata te ne resta una melismatica: quella della letteratura, che è una voce necessariamente lenta. La letteratura non crea instant book, abbisogna di tempo, e quel tempo può durare pure vent’anni, pure cento. Magari ne duri cento, cinquecento, mille: che qualcuno torni a essere “cantastorie” come Sofocle, che si possa venir citati come Harry Percy di Northumberland nell’“Enrico IV”.
Intellettuali e politica, interviene Aldo Nove su "L'Espresso il 09 maggio 2016: "La realtà è annichilita, gli scrittori anche". L'autore di "Woobinda e altre storie senza lieto fine" interviene nella discussione aperta da Paolo Di Paolo. Con una rivendicazione. E un'accusa durissima al tempo presente. Oggetto del contributo di Aldo Nove alla polemica avviata sulle colonne di questo giornale da Paolo Di Paolo, dopo l’encomiabile replica di Valeria Parrella, sarà innanzitutto Aldo Nove. Scrittore che forse Paolo di Paolo non conosce, e che da oltre vent’anni interviene in modo molto diretto, per non dire violento, proprio sulla cosiddetta “realtà” nostra. Così come fecero i cosiddetti “Cannibali”, ultimo fenomeno letterario italiano e che Di Paolo salta a piè pari. Trovo completamente sbagliate le premesse metodologiche e l’assunto, così come falsificato è il quadro generale che Di Paolo evidenzia. Insomma si lamenta di ciò che non c’è perché non vede. Lui. Perché non sa quanto mutabile (e oggi in particolare a una velocità insostenibile) sia la concrezione di quello che Lacan definiva “l’impossibile”, ossia il reale. Dicevo che avrei parlato innanzitutto di me. Con il mio libro d’esordio, “Woobinda e altre storie senza lieto fine”, ho descritto l’Italia che, 20 anni fa, cambiava per sempre. L’ho fatto con nomi e cognomi. Sono stato il primo a scrivere, con “Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese”, nel 2004, di precariato, con un libro reportage fondato su una selezione di 100 interviste, quando di precariato non parlava nessuno. E ho sempre parlato del presente. Anche quando ho descritto la vita di San Francesco, cercando di dimostrare quanto il XII secolo fosse attraversato da pulsioni sociali innovativi e da millenarismi che oggi ritornano. Nel mio libro in uscita il 12 maggio, “Anteprima mondiale. Woobinda 2016”, torno a fotografare il presente, quello attualissimo del 2016. E lì si parla di Crozza, di Mario Monti, di Is, e di tutto quanto a Paolo di Paolo farà piacere che si parli. Quello che sfugge è quanto sia complesso oggi definire un processo di mutazione antropologica quando ci si adagia in una categoria (mettiamo pure del realismo, del verismo, dell’interventismo o di qualunque altro ismo a piacere si voglia usare per definire “l’impossibile” di cui ho detto sopra). È di un’ingenuità disarmante considerare attuale un romanzo, un racconto, un fumetto, perché parla di Gasparri. Pure, io, come il bravissimo Zerocalcare, lo faccio. Ma non certo attraverso questa sorta di tassonomia del circo politico attuale creo una qualsivoglia forma di valore aggiunto per comprendere cosa sta succedendo. Mancano innanzitutto quelli che un tempo furono i “presidi culturali” in grado di dare della letteratura una lettura subitanea e in grado di valutarne gli orientamenti. L’appiattimento onnicomprensivo è ovvio che appiattisca anche gli scrittori, come del resto appiattisce i critici. In tale “wasteland” editoriale e culturale le strategie che lo scrittore può attuare sono molteplici. Esiste ad esempio un piano mimetico consapevole (e per questo mi autocito, visto che lo uso, come lo usa Niccolò Ammaniti, come lo usano Tiziano Scarpa e Raul Montanari) che esprime la X quale incognita del presente globalizzato a volte attraverso il recupero di uno sguardo diverso (bambino, adolescente) teso a creare proprio uno slittamento di prospettiva che crei un punto di vista altro. Un altrove. È ben difficile raccontare una realtà che più che fluida è ormai completamente evaporata, azzerata la memoria strategicamente gestita nell’ottica del frammento annichilente ogni coscienza (di classe, ma anche di semplice identità: vedi alla voce “Europa”). Sono passati eoni dai tempi di Moravia e Pasolini. La mia generazione è una generazione di scrittori che hanno vissuto la “cattiva magia” di una finanziarizzazione del reale tale da rendere il subprime un elemento costitutivo dell’anima. La truffa domina in un modo che continuiamo a fingere essere gestibile. Ma non lo è. Non lo sono gli anticipi degli scrittori ridotti a un decimo di quanto lo fossero prima della crisi, così come non lo sono le retribuzioni dei giornalisti avventizi che riempiono pagine di giornali piene di lettere subprime. Quelle letterarie comprese. C’è una sorta di etica del risparmio (economico) e del calcolo (al ribasso, economico) che colpisce con una violenza mai vista, dal Dopoguerra a oggi, gli scrittori e gli addetti ai lavori (tranne le pochissime eccezioni che confermano la regola). Giulio Einaudi stipendiava i suoi autori a prescindere da quanto vendevano. Oggi “devi vendere”. Va tutto a bilancio. Prima viene il Pil. Così come l’abbattimento delle contrapposizioni ideologiche non fa altro che lasciarci galleggiare nel mare di finzioni in cui un potere unico quanto acefalo e violento ci impone, fino a che non diventa parte di noi stessi. Insomma, non ci sono anime salve. Tornando a me (l’oggetto principale di questo mio intervento, dicevo) posso propormi il rigore etico della sincerità, non certo quello della realtà e tantomeno della verità proprio per i limiti oggettivi di cui parlavo prima. E siamo in tanti a farlo. Nomi ne ha già fatti Valeria Parrella. E parecchi se ne potrebbero aggiungere. Come quello di Carmen Pellegrino che ha descritto, nel suo splendido “Cade la terra”, una marginalità italiana che letteralmente frana. Case e anime che franano. Adesso. In un presente che crolla. Rialzarlo con un’operazione di camouflage sarebbe fingere che l’apocalisse non si è compiuta, che vent’anni di berlusconismo non ci hanno cambiati del tutto e che nemmeno più sappiamo, oggi 2016, di che nazionalità siamo. Negli anni del renzismo in cui il primo presidente del Consiglio della generazione subprime, non eletto da nessuno e sorretto solo dal suo ego adultolescente (termine coniato da uno dei più acuti scrittori della generazione degli attuali quarantenni, Danilo Masotti: lo conoscete?) pubblica libri che hanno titoli come “Tra De Gasperi e gli U2. I trentenni e il futuro”. Ecco: tra De Gasperi e gli U2 non c’è un percorso. C’è un salto quantico. Qualcosa d’impossibile che si è però imposto. Una truffa culturale che chi scrive ritiene più interessante da raccontare della stessa realtà di infimo grado che questa truffa ha generato e ogni giorno rigenera. Da De Gasperi agli U2non c’è nulla. Come il nulla che disperatamente rincorrono i vertici delle (anche qua il plurale è un subprime) case editrici maggiori, alla ricerca della biografia del cuoco dell’istante o delle confessioni dell’amante dell’attore dello scorso momento. Una realtà a rischio di insolvenza come quella che viviamo noi non può che produrre una letteratura (e una critica) a rischio d’insolvenza, caro Di Paolo. Non essere in grado di percepire questo vuole dire non rendersi conto del lavoro pazzesco che in tanti fanno per resistere quel minimo che è oggi concesso. Erano belli i tempi in cui Berlusconi si vantava di essere diventato proprietario della casa editrice storicamente a lui più avversa (l’Einaudi) lasciando ad essa mano libera. È stato così fino a che la mutazione antropologica non si è realizzata del tutto e abbiamo introiettato decenni di “realtà” alterata, fino alla creazione di una classe dirigente più realista del re. Lo scrittore, infine, non è un avatar disceso sulla terra e nemmeno un profeta biblico che maledice a beneficio dei secoli futuri l’insubordinazione di Gerusalemme al Dio dei giusti. Lo scrittore è, come proprio Brecht diceva, figlio del proprio tempo. E proprio lui citando, nella traduzione sarcastica di uno che di linguaggio e ideologia la sapeva lunga, Edoardo Sanguineti: «Scusateci, a noi, per il nostro tempo».
Agli artisti piacciono soltanto i «poveracci» Il triste paternalismo degli intellettuali italiani. Tutto è cambiato, ma siamo ancora inchiodati all'anticapitalismo d'ordinanza, scrive Massimiliano Parente, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale". A pensarci ti viene il magone. Insomma, la cultura italiana sembra un reportage di Michele Santoro, stretta per decenni tra il poverismo democristiano e quello comunista. Con il risultato che la ricchezza, il benessere, l'imprenditoria, la Brianza, sono rigorosamente bistrattate, dipinte come male assoluto. E dunque, oggi, i Virzì con Il capitale umano, un libro di Lagioia di qua e un Saviano accusatore del Nord di là; poca roba, per carità, ma allevati nel brodino dell'anticapitalismo d'ordinanza. E appena li tocchi urlano ancora: fascista! fascista! Come se poi il fascismo c'entrasse qualcosa con la libera imprenditoria. Gli imprenditori? Tutti palazzinari. Mai avuto una cultura alta, della ricchezza, noi, figuriamoci. Se Proust fosse nato in Italia anziché dei Guermantes avrebbe scritto al massimo di Acitrezza, Alla ricerca del pesce perduto, perché la tristezza, ammettiamolo, inizia con il Verismo. Verismo della povera gente, ci mancherebbe. Anche oggi, a rileggere I Malavoglia, così stilisticamente raffinati, mi viene però una depressione, una claustrofobia, una puzza di pesce, una voglia austro-ungarica da schierarmi per dispetto contro il giovane Törless di Musil. O comunque, almeno, di rivalutare D'Annunzio. Così come il cinema, il nostro cinema, inizia con Vittorio De Sica e Ladri di biciclette, neppure ladri di Ferrari, che sfigati. E dopo tredici anni di neorealismo, ecco un balzo in avanti, arriva Pier Paolo Pasolini, con Accattone, un titolo un programma. Eppure c'è poco da ridere, sono i nostri modelli culturali, esportati in tutto il mondo. Nessuno si stupisce, all'estero, se l'Italia va male, abbiamo sempre avuto un gusto estetico per fare pena. Nella moda facciamo meraviglie, ma poi arriva Saviano per raccontarti che gli imprenditori del Nord sfruttano i cinesi negli scantinati del Sud. Poi, appena c'è un fuoriclasse, non so, un Guido Morselli, lo si mette all'angolo, gli si rifiutano i libri, lo si fa morire inedito. Va da sé, mentre Morselli si suicida sparandosi, un poverista come Pasolini diventa un santino, ma non subito, appena lo ammazzano. Con una morte scenografica molto Cristo dei poveri, insanguinato, impolverato, lui che sapeva, lui che denunciava lo Stato e gli imprenditori, lui che ha pagato per tutti, complotto, complotto! Fascisti! Fascisti! Mentre quand'era vivo i compagni gli davano del pedofilo e lo espellevano dal Pci. Del pasolinismo resta una scuola con due o tre mantra: l'editoriale dell'Io so, l'altro editoriale delle lucciole che sono sparite, mentre i romanzi con i ragazzi di vita e gli operai che se lo succhiano al Pratone della Casilina nessuno se li rilegge più, una noia, una noia, che neppure La noia di Moravia. Moravia, altro comunista, però come tutti ben inserito nei salotti giusti. Come oggi la Maraini, ex moglie e firma del Corriere della Sera, però, attenzione, appena comprato da Urbano Cairo, imprenditore del Nord, un piccolo Berlusconi. Cosa non bella. Cosa da guardare con sospetto. Mi ricordo una conversazione tra Flavio Briatore e il magistrato Luigi De Magistris. Il primo vorrebbe mettere dei campi da golf intorno a Pompei (figata), e alberghi extra-lusso, per valorizzare il luogo, per incrementare il turismo di un certo livello; il secondo rimprovera a Briatore di non aver mai lavorato un giorno in vita sua. Perché essere ricchi significa essere ladri, furbi, disonesti, o giù di lì. Intellettualmente parlando, Flavio ci ha fatto la figura del gigante, De Magistris quella dell'intellettuale italiano medio, fosse stato più calvo sarebbe parso quasi Saviano. D'altra parte il vero tabù è un altro, un pensiero che non si può dire. Tipo che il Nord ha creato l'imprenditoria e il Sud ha creato la mafia. Invece, ogni anno, tanti moralismi straccioni, petulanti, paradossali, come quello del filosofo Georgescu-Roegen sulla «decrescita felice», idea geniale, diventare tutti più poveri, solita solfa, subito fatta propria dal Movimento Cinque Stelle, di stronzate non se ne perdono una. Aggiungiamoci la Chiesa, il poverismo di papa Francesco (in realtà molto cristiano, ma che mette in imbarazzo i cristiani di destra: vorremo mica aprire la porta a tutti gli immigrati?), il denaro sterco del demonio, e la minestra è servita, e come da motto italico o la mangi o salti dalla finestra. Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, dell'Elmo di Scipio s'è cinta la testa... anche questa, che marcetta demenziale, giusto a Benigni poteva piacere. Alla fine l'unico vero fratello d'Italia è Alberto Arbasino. Che in Fratelli d'Italia, vero capolavoro della letteratura italiana, dichiara, snobbissimo, fin da pagina uno: «tanto mio papà ha più di un milione di franchi al Credit Suisse». Grandissimo Arbasino, presto attaccato dal solito Pasolini con l'epiteto di «fascista! fascista!».
La casta? La inventò Morselli Per attaccare la sinistra italiana. Quarant'anni fa usciva «Il comunista», romanzo (bocciato dall'intellighenzia) in cui l'autore più sfortunato delle nostre Lettere smascherava la brama di potere del Pci, scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 12/02/2016, su "Il Giornale". Attaccò letterariamente la casta politica, e fu letterariamente ucciso da quella intellettuale. Guido Morselli (1912-73), bolognese per neppure due anni, varesino per il resto della vita, fu il primo - chi lo avrebbe mai detto? - ad attaccare la «casta», nella fattispecie di sinistra, nello specifico «comunista», in un romanzo terribile pubblicato postumo da Adelphi quarant'anni fa, anno di scarsa grazia 1976. Titolo: Il comunista. Per inciso, un libro la cui ultima ristampa data, se non sbagliamo, 2006.Un libro invece fresco di stampa è Guido Morselli, un Gattopardo del Nord (Pietro Macchione editore) che, alludendo nel titolo alle analogie di destino con l'opera di Tomasi di Lampedusa, raccoglie gli atti dei convegni tenuti nei primi sette anni del premio dedicato all'autore «postumo» per antonomasia. Curato da Silvio Raffo e Linda Terziroli, il volume è una miniera di notizie, «letture» e interpretazioni sullo scrittore rimasto inedito in vita e riscoperto come un maestro del nostro secondo '900 post mortem. Molti i contributi interessanti: un «fantastico» Gianfranco de Turris su Morselli e l'immaginario, la super-esperta Valentina Fortichiari su Guido Morselli: sobrietà, nitidezza, discrezione, Giordano Bruno Guerri su Tutto è inutile. Morselli smentisce se stesso, dove si cita una frase profetica dello scrittore, del 1966: «Nessun partito politico è di sinistra, dopo che ha assunto il potere», e un elegante Rinaldo Rinaldi sulla Filosofia dell'abbigliamento nell'opera di Morselli... Ma soprattutto un irriverente Antonio Armano che firma l'intervento intitolato - appunto - Il comunista: quando Morselli parlava della casta dove si ricostruisce il caso del romanzo più politico dello scrittore di Varese (avendolo effettivamente letto e studiato, cosa che non tutti coloro che ne parlano hanno fatto).E forse Il comunista non fu neppure letto, o fu letto troppo bene, da chi lo bocciò. Come Italo Calvino - la storia è stranota - il quale nel 1965 rifiutando la pubblicazione del romanzo da Einaudi, casa editrice di cui era direttore editoriale, scrisse all'autore che «Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo inventare». Insomma, non se ne fece nulla. Però l'anno successivo Rizzoli accettò di pubblicare il libro, arrivando fino alle bozze. Ma cambiò improvvisamente direttore editoriale, e il nuovo arrivato, sicuramente senza aver letto Il comunista, annullò tutti i programmi e il romanzo restò impubblicato (di certo piacque al primo dei due editor, che fece il contratto a Morselli, Giorgio Cesarano, già espulso dal Pci, il quale si uccise nel '75, due anni dopo lo scrittore).Comunque, quello che interessa - a dimostrazione di quanto invece Morselli conoscesse il mondo del comunismo italiano, e sapesse prevederne i destini, meglio di Calvino - è la costruzione del romanzo, la trama profetica e il ritratto psicologico del protagonista: un parlamentare del Pci degli anni Cinquanta diviso tra compagna e amante, dentro un partito laico che però brillava per bigottismo, in una Roma malinconica e trafficona, in un'Italia dove «la gente vive di chiacchiere, si consuma in chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere», perso tra inutili discussioni politiche sui massimi sistemi marxisti e piccole beghe di bottega, oscura. È qui che Morselli chiama quella dei parlamentari comunisti «una casta». Una Chiesa che non ammette né eresie né deviazioni. Un gruppo di potere, da cui il protagonista è deluso e insieme attratto e respinto, all'interno del quale dominano arrivismo, tatticismi, egoismo. Dove le utopie comuniste si schiantano contro i miseri tornaconti individuali. Dove prevalgono, al di là dell'ideologia, gli interessi personali e i compromessi «poltronistici». Ciò che Morselli vide dentro il Pci a metà degli anni Sessanta, quando scrisse Il comunista, è esattamente quello che il Paese avrebbe visto da lì a poco dentro se stesso, e tutta la propria classe politica. Difficile che un romanzo del genere, una staffilata contro la casta comunista togliattiana, potesse essere pubblicato da un editore come Einaudi. La casta intellettuale avrebbe provveduto a stopparlo. Un'ultima considerazione. Alla fine del suo saggio Antonio Armano fa notare che Wikipedia, nella biografia di Guido Morselli, inserisce un commento su Il comunista del tutto infondato: sostiene che lo scrittore non riuscì mai a pubblicare e fu boicottato dall'ambiente editoriale perché il romanzo traccia positivamente la figura di un partigiano e allora la Dc demonizzava i partigiani. «Una vera bestialità - spiega Armano - Se Morselli pagò uno scotto ideologico-letterario fu tutt'al più, come dimostra il romanzo e il commento di Calvino, di non essere uno scrittore etichettabile, tantomeno politicamente, di essere libero, di non appartenere a nessuna parrocchia». Un'ultima antipatica appendice internettiana - Wikipedia casamatta gramsciana - della vecchia egemonia culturale comunista. Morselli, che non rideva mai, avrebbe abbozzato una smorfia.
Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.
“Come sopravvivere al cinema di sinistra”. Razzisti, evasori, ignoranti, arricchiti. Gli italiani di centrodestra ormai sono abituati a vedersi rappresentati così dal cinema di casa nostra. Colpa di un pensiero unico che dal neorealismo ai film impegnati, da Nanni Moretti a Virzì, monopolizza il grande schermo. Questo pamphlet diventa così una guida irriverente per i cinefili non di sinistra, una messa alla berlina dei tic di autori e critici radical chic, la rivendicazione di una verità: i film d’autore incassano poco, quelli che fanno ridere non sono roba da “popolo bue” e chi si ostina a scrivere queste scemenze sta uccidendo il cinema.
Come sopravvivere al cinema di sinistra, scrive Maurizio Acerbi il 10 agosto 2016 su “Il Giornale”. Da oggi, nelle edicole italiane, abbinato a il Giornale, trovate il mio libretto "Come sopravvivere al cinema di sinistra", inserito nella collana Fuori dal Coro. Il pamphlet, che costa 2,50 euro, cerca di rispondere ad alcune domande che si pongono tutti quei cinefili che non si riconoscono nel pensiero unico della sinistra cinematografica: ridere è di destra? Chi non vota a sinistra è come viene dipinto nei film degli autori radical, ovvero razzista, ignorante, evasore e via dicendo? Ma non solo. Ho cercato, usando anche un linguaggio semiserio (è pur sempre un libro estivo), di mettere alla berlina i tic dei registi d’autore e della critica radical chic, cercando di capire come si sia formata questa uniformità di pensiero che monopolizza il grande schermo e che ghettizza chi non si riconosca in esso. Il libro parte con uno scherzoso Manifesto del perfetto regista di sinistra che in 21 punti cerca di tratteggiare, in modo ironico, le caratteristiche comportamentali dell’autore impegnato. Poi, vi elenco i vari capitoli per darvi un’idea del contenuto del libretto di 48 pagine, ovvero: Introduzione: il cinema di sinistra è morto?; L’anatema contro il cinepanettone; La dittatura di cowboy e poliziotti; Se far ridere è di destra; I maestri della sinistra autoreferenziale; Brutti, cattivi, evasori e ignoranti; La solitudine di non essere di sinistra; Il mistero buffo di Checco Zalone; Troppa cultura, sale deserte; Il Democratico conquista l’America; Conclusione. Se qualcuno dei numerosi lettori di questo blog (a proposito, grazie per la fiducia) vorrà leggerlo, mi farà piacere. E magari, potremmo successivamente confrontarci sui temi che ho trattato. Lo scopo principale era lanciare una sorta di SOS, un “ci siamo anche noi non di sinistra”, un “non dimentichiamo che il cinema appartiene a tutti”. Se, in qualche modo, sarò riuscito a far riflettere qualcuno di questi autori sul nostro disagio quotidiano di lavorare in un ambiente chiuso come quello del cinema italiano, la missione sarà compiuta. Almeno, ci ho provato. Buona lettura
Cosa si nasconde dietro la targa Unesco. Il marchio di Patrimonio dell'umanità garantisce fama e soldi. Ma la selezione dei siti è un trionfo di sprechi e burocrazia, scrive Emanuela Fontana, Lunedì 01/08/2016 su “Il Giornale”. L'unico brivido è arrivato dal golpe. E non è stata una suspense piacevole, né prevedibile per la quarantesima assemblea del World Heritage Committee dell'Unesco. Il comitato ogni anno decreta i nuovi siti artistici e naturali da inserire nella lista del Patrimonio mondiale dell'agenzia Onu. Un paio di settimane fa era riunito a Istanbul: mentre il verdetto stava per essere emesso, i carri armati occupavano le strade e Recep Tayyp Erdogan parlava via smartphone da un luogo ignoto. Panico, interruzione dei lavori per una giornata, ma, colpo di Stato a parte, era tutto già scritto: sempre più organismo politico (sono i diplomatici, da qualche anno, a far parte delle delegazioni, non i tecnici), con un budget che destina al lavoro di scelta dei siti e alle riunioni più soldi che all'assistenza internazionale, l'organismo dell'Onu delegato alla tutela della bellezza mondiale decretava i «vincitori» del 2016: ventuno nuovi siti che da ora avranno il marchio Unesco, garanzia di visibilità, turismo e soldi. Soldi che però, almeno per i Paesi occidentali, non arrivano dal World Heritage, che pure li inserisce nel gotha della bellezza universale, ma in gran parte dagli Stati di appartenenza. Mettersi all'occhiello il logo di Patrimonio dell'umanità Unesco è ormai un prezioso richiamo turistico e l'inserimento nella world list è diventato una sorta di vittoria nel Risiko della cultura mondiale, ma in realtà il bilancio del fondo speciale dedicato alla salvaguardia dei luoghi più preziosi dell'umanità rappresenta meno del 5% del budget complessivo dell'organizzazione: circa 30 milioni di dollari contro gli 802 del mastodontico conto economico dell'agenzia dell'Onu, in cui il 45% delle spese, quasi 400 milioni, sono destinate al personale. Dei 30 milioni del fondo 7,8 vengono spesi per la valutazione delle candidature e i meeting, 5,5 milioni per l'assistenza. Rivolti quasi esclusivamente ai Paesi più bisognosi. A ricevere la fetta maggiore dei finanziamenti sono Tanzania, con oltre un milione e trecentomila dollari, Costarica, Ecuador, Brasile, Perù, Egitto e Cina (45 programmi, quasi un milione di dollari). Quanto all'Italia, come la maggior parte delle nazioni europee e gli Stati Uniti, non percepisce fondi dalla speciale riserva che si occupa del patrimonio planetario. L'ultimo versamento al nostro Paese nel capitolo International assistance risale al 1994: 20mila dollari per un corso di formazione. Proprio la Penisola è stata la grande assente nelle nomination 2016, e per di più ha ricevuto una sorta di ammonizione relativa a uno dei suoi gioielli, Venezia, a rischio esclusione dai patrimoni del globo terrestre se non si corre ai ripari (vedi anche l'altro articolo in pagina). Eppure dall'Italia va all'Unesco un fiume di soldi: siamo il secondo contribuente dopo il Giappone con 52 milioni di euro di versamenti complessivi. A questi si aggiungono quelli previsti da una legge italiana, la 77/2006, che dispone il finanziamento di una selezione annuale di progetti presentati dai cinquantuno siti della Penisola riconosciuti come patrimonio dell'umanità. Dal 2011 a oggi, il ministero dei Beni culturali ha versato 11 milioni 82mila euro totali alle località patrimonio Unesco. In vetta alla classifica dei super premiati figurano due siti: «I Longobardi, i luoghi del potere» (un milione di euro in un quinquennio; vedi le tabelle in queste pagine) e Siena con val d'Orcia, San Gimignano e Pienza, dove si è svolto il Festival Unesco delle Terre di Siena (un milione 54mila euro totali, 273mila al festival). Seguono i dipinti rupestri della val Camonica, Mantova con Sabbioneta, e le residenze sabaude. Scendendo nella classifica dei siti maggiormente finanziati si trovano poi Modena (515mila euro), sotto i 500mila euro ci sono Venezia, Matera e Piazza Armerina. Mantova e Sabbioneta hanno avuto quasi il doppio di Assisi (357mila), mentre i trulli se la sono cavata con 324mila euro. A pagare l'onore di ricevere il marchio Unesco è dunque l'Italia. Anche qui, però, la crisi si è fatta sentire. Fino a cinque anni fa gli elenchi dei beneficiari dei fondi per i siti premiati erano lunghi almeno tre pagine. Oggi un paio di righe. Il fiume è diventato un rivolo e per il 2016 nel bilancio dello Stato italiano solo 143mila euro sono stati per il momento assegnati. La maggior parte a «Modena, cattedrale, torre civica e piazza Grande per la riqualificazione del bookshop e della biglietteria» e per «un nuovo ingresso per la Ghirlandina», il resto ad Assisi. Per fare qualche confronto, solo nel 2011 i fondi avevano superato i sei milioni e mezzo. E nel 2012 ci si poteva permettere di versare a Siena 63mila euro per pulire le strade e i vicoli «dagli escrementi dei colombi». O a Monte San Giorgio, confine italo-svizzero, 98mila euro per il progetto «Paleontologi per un giorno». Anche oggi, comunque, e nonostante la stretta finanziaria, entrare nella lista dell'Unesco dà un vantaggio tutt'altro che irrilevante: poter accedere al fondo riservato del ministero dei Beni culturali passando davanti ad altri potenziali rivali. Senza contare i finanziamenti regionali e i progetti dei comitati privati: Venezia ne ha da sola 26. In più c'è la ricaduta in termini di maggiore afflusso turistico. Secondo uno degli ultimi studi, svolto dall'Accademia Aidea su Villa Adriana a Tivoli, Pompei e val Camonica, i maggiori guadagni legati al marchio Unesco sono pari a circa il 30%. Tivoli, per esempio, con oltre 224mila visitatori, avrebbe una spesa turistica riconducibile solo al marchio Unesco di 480mila euro. Pompei addirittura di 9,4 milioni. Perfino in Valcamonica, dove i visitatori sono pochi, circa 44mila, il maggiore incasso ottenuto tramite il «logo» è di 90mila euro. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Un recente studio di Pricewaterhouse Coopers rileva che i siti Unesco del nostro Paese godono di uno scarso ritorno commerciale: sedici volte inferiore a quello dei siti americani (che sono la metà), sette di meno di quello dei beni inglesi e quattro di quello dei francesi. Forse perché grande contribuente dell'Unesco in generale, l'Italia non compare tra i finanziatori volontari dello specifico fondo World Heritage dell'organismo della Nazioni Unite (ci sono Francia e Germania). Il nostro Paese ha ridotto anche i contributi obbligatori a 122mila euro annui (non ancora versati al 30 giugno 2016). Quattro anni fa erano 163mila. Il Giappone ne versa 316mila, l'Inghilterra appena più di noi, la Cina, che ci tallona per numero di siti (50), paga il doppio della Penisola. Sono cifre comunque minime, che non condizionano le scelte dell'organizzazione dell'Onu. A concorrere alla decisione sulla lista dei siti vincitori sono in realtà un insieme di fattori: la dimensione della delegazione, i rapporti sottotraccia che vedono gli ex Paesi del Terzo mondo regolarmente schierati in opposizione all'Europa, la capacità di creare candidature di sistema. Insomma, contano diplomazia e relazioni. Più la politica che la bellezza. Tra versamenti obbligatori e volontari degli Stati e finanziamenti per progetti dedicati, le entrate del World Heritage Fund per il biennio 2014-2015 ammontano a 8,2 milioni. Ma mamma Unesco destina al WHF altri 22 milioni di euro, di cui sei solo per il personale. Ci sono anche contributi privati, come i centomila euro della giapponese Evergeen Digital, che realizza documentari sul patrimonio mondiale in partnership con l'Unesco, o come l'agenzia pubblicitaria, sempre giapponese, Kobi Graphis (altri centomila dollari). In cinque anni il fondo del World Heritage ha perso oltre un milione di contributi volontari. E anche quelli promessi arrivano a rilento: a marzo 2016 le quote versate erano appena il 15%. Come vengono spesi questi soldi? Con tutte le deformazioni tipiche dei bilanci delle pachidermiche agenzie sovranazionali. Solo per l'organizzazione delle riunioni, compreso il meeting annuale (a Istanbul è stata rinnovata la proposta di svolgerlo ogni due anni per risparmiare), si superano i due milioni di spesa. A questi costi «burocratici» si aggiungono quelli per la selezione dei siti candidati: altri 5,74 milioni. Il totale si avvicina agli otto. Una cifra che supera di gran lunga le spese dedicate all'assistenza internazionale, indicate nel bilancio consuntivo in 5,51 milioni per il biennio, di cui meno di un quinto strettamente riservati ai Sites in danger, i siti in pericolo. Due milioni e mezzo vanno a programmi di comunicazione e promozione di partnership. Quanto ai report di controllo sui siti per verificarne la conservazione, si sfiora il milione e quattrocentomila dollari. Le spese maggiori sono insomma assorbite dalla frenetica attività degli ispettori spediti in giro per il mondo. Nel 2015 le uscite per le missioni sui siti candidati alla World List si sono aggirate tra i 20 e i 45mila dollari per ogni singolo dossier. Per il 2017 la valutazione itinerante di 24 nomination richiederà 1,3 milioni. Nel bilancio preventivo è inserito anche un viaggio in Italia: la visita alle «fortificazioni veneziane costruite tra il XV e il XVII secolo», candidatura della Penisola, costerà intorno ai 31mila dollari.
Così Pellizza mise il popolo al centro dell’opera d’arte, scrive Vittorio Sgarbi, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Giuseppe Pellizza da Volpedo, nel 1901, dipinge Il quarto stato, oggi esposto al Museo del Novecento a Milano. In questa tela di grandi dimensioni abbiamo di fronte il popolo italiano, pochi decenni dopo l’Unità d’Italia, raffigurato come un popolo di lavoratori. Un dipinto che non solo apre cronologicamente il ventesimo secolo, ma conclude anche una grande tradizione figurativa che vede l’espressione artistica al servizio di una concezione religiosa nella quale l’uomo è protetto da Dio. Da Giotto in avanti, le pale d’altare si sviluppano verso l’alto, in verticale, perché l’umanità si rivolge al cielo per ricevere protezione. Nella parte superiore sono raffigurati la Madonna, Cristo, i Santi, tutto quello che rappresenta l’aiuto celeste all’uomo. All’inizio del secolo senza Dio, che è ancora il nostro tempo, l’immagine religiosa non è più protagonista della pittura, le avanguardie – Cavaliere azzurro, Cubismo, Futurismo, Dadaismo – sono travolte da un formalismo che è più importante del contenuto. IlQuarto Stato di Pellizza da Volpedo risolve la lunga esperienza delle pale d’altare con un rovesciamento: la pala non è più verticale ma orizzontale. Guardiamo un dipinto che si svolge nel senso della larghezza, in cui l’umanità avanza verso il proprio destino senza la protezione di Dio. Non è detto che Dio non sia presente nella coscienza degli individui, ma è l’umanità a conquistare, attraverso la forza dei lavoratori, quello che le spetta. Conquista nuovi diritti, conquista un salario, e avanza senza che ci sia più nessuno a proteggerla. Questo quadro è lafine di un’epoca e l’inizio di un’epoca nuova. Non è ancora un dipinto d’avanguardia, ma è un’opera in cui l’unico dio che l’uomo ha è se stesso, e il taglio ribaltato, orizzontale invece che verticale, lo testimonia chiaramente. Per di più, quel popolo sembra marciare verso il Palazzo, per entrare e conquistare il potere. «Palazzo» è una parola che Pasolini fu il primo a usare, in un intervento sul Corriere della Sera nel 1975, per indicare il luogo del potere, un termine che ricorda il Palazzo d’Inverno dimora degli zar. La marcia dei lavoratori del Quarto stato è propriamente una conquista di uno spazio del potere da parte del popolo. Fedele a questa lettura, nel 2007 trasportai il dipinto dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, dov’era conservato all’epoca, alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. L’idea di allestimento che avevo prevedeva di eliminare l’altare e appoggiare il quadro direttamente a terra, in maniera tale che chi entrava in quella sala andasse incontro al popolo che andava verso di lui. Si stabiliva un rapporto allo stesso livello tra le persone reali e le persone dipinte. Mettendo il quadro in posizione rialzata si sarebbero visti i personaggi calare. L’allestimento giusto per quel quadro era a terra. L’effetto della collocazione dell’opera in una sala che porta ancora i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era straordinario, perché realizzava l’occupazione del popolo che distrugge i simboli del potere, il soffitto caduto come il cielo infranto. Giuseppe Pellizza da Volpedo, nato nel 1868, studiò all’Accademia di Brera, fu influenzato dalla Scapigliatura e da Daniele Ranzoni; a Bergamo fu allievo di Cesare Tallone e a Firenze (1893-95) frequentò Silvestro Lega e Plinio Nomellini. Interessato al realismo sociale divenne noto con Fienile (esposto a Milano nel 1894), nel quale sperimentò la tecnica divisionista, stimolato da Angelo Morbelli; aderì quindi al Simbolismo, influenzato da Gaetano Previati (Lo specchio della vita, 1895-98). Attento alle problematiche sociali e ispirandosi a Emilio Longoni, dipinse Ambasciatori della fame (1891-92), poi Fiumana (1896), e infine Il cammino dei lavoratori o Quarto stato (1896-1901), di cui sono notevoli anche i bozzetti e i disegni preparatori. Il sole nascente (1904, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) è l’opera nella quale Pellizza apre alle nuove avanguardie e, in particolare, ai futuristi che vedranno in lui un profeta.
Insultare la gente citando Dante Alighieri. Perdere le staffe senza perdere la faccia? Si può. Basta usare offese tratte da testi letterari. Non si diventa sboccati: si fanno citazioni colte, scrive "L'Inkiesta" il 16 Gennaio 2016. Perdere la calma significa, il più delle volte, perdere anche un po’ di dignità. Arrabbiarsi e insultare le altre persone, anche quando si ha ragione, può far cattiva impressione. Il problema è che non si può pretendere che tutti sappiano mantenere, in ogni situazione, una posizione elegante. Si può, però, pretendere che sappiano scegliere insulti eleganti.
La soluzione è semplice: trascegliere parolacce e offese rileggendo i grandi classici della letteratura. Ad esempio, la Divina Commedia di Dante. Un testo colmo (soprattutto nella prima cantica, l’Inferno) di insulti, offese, parolacce. Non bestemmie (eh be’), ma quasi. Ce ne sono per ogni occasione, e per ogni bersaglio. Prima di tutto, non di insulti si parli, ma di “ontoso metro”, cioè motteggio che provoca “onta”, cioè offesa + vergogna. Lo fanno le anime dei dannati (Inferno, VII, 33), ed è necessario che imparino a farlo anche le persone normali. Offendere vuol dire saper colpire, saper provocare vergogna. Per questo, come la Divina Commedia, è una cosa da studiare. Insulto generico: ottimo partire dal lato scatologico, ossia gli escrementi. E definire qualcuno “sterco”, è senza dubbio più di buon gusto. Se poi è uno “sterco che dalli uman privadi parea mosso”, siamo all’apoteosi. Gli “uman privadi” sono le latrine, per cui si capisce bene di che si parla. Si può attualizzare, si può aggirare, ma è, nella sostanza, la stessa (solita) cosa. E funziona sempre. Si può continuare sulla stessa falsariga, e apostrofare l’avversario definendolo “porco in brago” (Inferno, VIII, 50), cioè come un maiale che sta nella melma, nel fango, la lordura della fogna. Adatto per chi non si distingue per le sue abitudini igieniche. Un generico “vituperio de le genti”, cioè “motivo di offesa per le persone”, che il sommo Poeta rivolge a Pisa – si sa che i toscani non si amano molto tra loro – può essere riferito a chiunque. Si riconosce che è un po’ debole, e l’effetto non è garantito: non tutti conoscono la parola “vituperio”. Potrebbero non sentirsi abbastanza insultati e/o offesi. Il metro rischia di non essere abbastanza “ontoso”. Contro le donne, invece, le parole si sprecano. Dante ne ha a bizzeffe. Si può comunque andare su un misterioso “femmina balba”, cioè balbuziente, che appare in sogno a Dante. È un’offesa non tanto perché sia balbuziente, ma per come continua il verso: cioè “ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta / con le man monche, e di colore scialba”. È insomma, una figura che implica l’essere incapace: di parlare, di vedere, di muoversi. Deforme e ripugnante, sta a indicare i vizi che condannano l’uomo. Ma che va bene anche da solo. E poi, per i non esperti, “balba” può sembrare “babba”, che è un insulto leggero più o meno lungo tutta la Penisola. Per chi volesse invece sottolineare i costumi lascivi della donna in questione, può usare “femmina da conio” (Inferno XVIII, 66), espressione più ricercata rispetto a “puttana”. Ma anche “puttana” va bene, purché sia “puttana sciolta”, (Purgatorio, XXXII, 160), cioè “discinta”, “slacciata”, “senza vergogna”. “Puttana sciolta” è forte, aggressivo e violento al punto giusto. E in più è una citazione. Perdere le staffe, insomma, senza perdere l’eleganza.
Espressioni inventate da Dante che usi senza saperlo. La Divina Commedia ha lasciato una grande impronta nella lingua italiana. Anche nei proverbi, scrive "L'Inkiesta" il 7 Dicembre 2014. Come dicono gli inglesi “gli italiani quando parlano dicono poesie”. Esagerano, ma non troppo: il linguaggio comune che si usa tutti i giorni è pieno di modi di dire, frasi fatte che sono, in realtà, citazioni e versicoli rubati alla Divina Commedia. Poesia pura. Mentre si parla, non sempre ci si accorge di usare parole ed espressioni inventate o diffuse da Dante. Un po’ per abitudine, un po’ per ignoranza. E un po’ perché sono insospettabili. Eccone alcune:
Stai fresco. Più o meno viene usata per dire: “Allora finisce male”. E con questo significato non poteva che provenire dalla parte più profonda dell’Inferno, il lago di Cocito, la peggiore. Lì “i peccatori stanno freschi” (Inferno, XXXIII, 117), perché immersi del tutto o quasi (a seconda della gravità del peccato) nel ghiaccio. Da lì in poi si è usato per indicare, per fortuna, situazioni un po’ meno tragiche.
Inurbarsi. Ormai è quasi vocabolo tecnico per urbanisti, storici e architetti, tanto da passare del tutto inosservato. E invece fa parte di quella schiera infinita di neologismi danteschi fatti con prefisso in- e poi -tutto quello che gli passava per la testa. Come “indiarsi”, cioè “diventare dio”; o “inmillarsi”, che significa “moltiplicarsi per migliaia”; e ancora: “ingemmarsi” = “adornarsi luminosamente”; “imparadisare” = “innalzare al Paradiso”. Non vale per “internarsi”, che non c’entra nulla con l’ingresso nei manicomi ma con il “diventare una terna”, cioè una forma di trinità.
Galeotto fu...[inserire elemento a piacere]. Si è del tutto persa la percezione che “galeotto” in origine fosse un nome proprio, per cui si dovrebbe scrivere Galeotto, con la maiuscola. Era la trascrizione dell’originale Galehault (o Galehaut), personaggio che favorì l’amore tra Lancillotto e Ginevra. “Galeotto fu il libro”, (Inferno, V 136), vuol dire che il libro ebbe la stessa funzione di Galeotto: cioè spinse i due amanti, Paolo e Francesca, l’uno nelle braccia dell’altro. Sarebbe anche uno slogan efficace per qualche campagna a favore della lettura, non fosse che, da quel giorno, i due smisero di leggere.
Il gran rifiuto. Se ne è riparlato quando Ratzinger ha deciso di dimettersi da Papa: un nuovo “gran rifiuto”. L’aveva coniata Dante per riferirsi al rifiuto di Celestino V di continuare a fare il Papa dopo solo qualche mese (Inferno, III, 60). Lo fece “per viltà”. Dante era abbastanza arrabbiato con lui: la rinuncia di Celestino V aprì la strada al suo successore, il cardinale Benedetto Caetani, ossia il famigerato Bonifacio VIII. Questo Papa fu il responsabile dell’esilio di Dante da Firenze. Per vendicarsi Dante lo colloca all’inferno addirittura in anticipo rispetto alla morte. L’espressione “gran rifiuto” è entrata nell’uso comune.
Il bel Paese. È l’Italia il “bel Paese là dove il sì suona”, cioè dove si dice “sì” (Inferno, XXXIII, 80). È un passaggio importante: Dante sta maledicendo Pisa, il “vituperio de le genti”, per l’abominevole sorte riservata al conte Ugolino. Invoca allora le isole di Capraia e Gorgona chiedendo di spostarsi verso la costa, chiudere la foce dell’Arno e annegare tutta la città. Bel Paese, sì, ma un filo violento.
Senza infamia e senza lode. Bravo, ma non bravissimo. Bene, ma non benissimo. Non male, ma nemmeno bene. Senza infamia, insomma, ma anche senza lode. L’originale, per la precisione, vuole “senza infamia e senza lodo”, che rima con “odo” e “modo” (Inferno, III, 36). L’espressione, oggi, ha un valore neutro. Per Dante, invece, era una cosa gravissima. Descriveva in questo modo gli ignavi, ossia coloro che avevano vissuto la propria vita senza commettere gravi peccati, ma anche senza schierarsi dalla parte della fede. Li disprezza, tanto che non vuole nemmeno prenderli in considerazione, e a Virgilio fa dire...
...Non ragioniam di loro, ma guarda e passa. Altra espressione idiomatica: gli ignavi proprio non gli piacevano. Guarda, e passa. Una riga e li lasciamo da parte anche noi.
Fa tremar le vene e i polsi. Si usa per indicare qualcosa di molto spaventoso, spesso riferito a compiti molto gravosi e difficili. Siamo all’inizio del poema (Inferno, I, 90) e Dante, dopo aver ritrovato la strada fuori dalla “selva oscura”, incontra nuovi ostacoli. Tre bestie feroci gli si parano davanti impedendogli il cammino. In particolare una lupa, molto pericolosa, che lo spaventa a morte. Per fortuna a salvarlo arriva Virgilio (in sintesi, Dante scappa da una lupa per seguire un fantasma: vabbè'). A lui spiega le ragioni del suo spavento, “la bestia per cu’ io mi volsi”, che gli “fa tremar le vene e i polsi”. Ma non c’è soluzione. La lupa sarebbe rimasta lì fino a quando – dice la profezia – non sarebbe arrivato un veltro, cioè un cane da caccia, ad allontanarla. Anche Berlusconi, nel 2008, la ripeté. Non c’entrava nessuna lupa, ma solo un Veltroni.
Non mi tange. Non mi importa, non mi interessa. Si usa in frasi scherzose. Come al solito, in origine, di scherzoso non c’era niente: “Io son fatta da Dio, sua mercé, tale / che la vostra miseria non mi tange” (Inferno, II, 92): è Beatrice che parla. È appena scesa dal Paradiso (dove si trova vicina a Dio) nel Limbo, per ordinare a Virgilio di andare a salvare Dante. Il poeta latino è incuriosito dalla visita insolita e ne approfitta per farle qualche domanda. Come fa, una come lei, a venire fin quasi all’Inferno e non soffrirne? Semplice: è “resa in modo tale da Dio da non sentire la miseria (cioè la condizione del peccatore)”. Il male non la tocca, o meglio, non la “tange”.
Cosa fatta capo ha. In Dante si trova l’inverso: “Capo ha cosa fatta” (Inferno, XXVIII, 107). Lo pronuncia un povero dannato, Mosca dei Lamberti, che gira per l’inferno con le mani tagliate e il sangue che gli zampilla sulla faccia. Che c’entra l’espressione proverbiale con questa scena alla Tarantino? Secondo la leggenda dell’epoca di Dante, la frase venne pronunciata da Mosca dei Lamberti per indurre la famiglia degli Amidei a vendicarsi di Buondelmonte per un affronto di tipo matrimoniale. Basta titubanze, disse. Lo scontro fu molto grave perché portò, secondo la leggenda, alla sanguinosissima divisione, nella città, tra Guelfi e Ghibellini. E Mosca, causa della divisione, porterà per l’eternità sulle mani i segni della violenza.
Da "Aborro" a "YouPorn", ecco il dizionario sui luoghi comuni. Una carrellata di stupidità che ormai costellano il nostro vivere quotidiano, raccolte dalla A alla Z dallo scrittore Giuseppe Culicchia. Dagli amici (che sono su Facebook) alle citazioni della Fallaci, dal salutismo ai tronisti, un tentativo di glossario del disinganno nazionale, scrive Maurizio Di Fazio il 7 marzo 2016 su “L’Espresso”. Sulle orme nobili di Gustave Flaubert, Giuseppe Culicchia dà alle stampe per Einaudi "Mi sono perso in un luogo comune. Dizionario della nostra stupidità". Una carrellata di frasi fatte, conformismi, ipocrisie, stereotipi e cliché più o meno salottieri e meglio (o peggio) travestiti del nostro tempo; uno stupidario indicizzato agli anni dieci del terzo millennio. Un diario in pubblico che si specchia nel vissuto personale dello scrittore torinese per poi rifrangersi in mille vocaboli dal contenuto sovente tagliente. Mille lemmi "classici", non tag, dalla a alla z, per un tentativo di glossario del disinganno nazionale. Da aborrire ("caratterizza il Mughini") a Youporn ("chi? io? Mai"), il j'accuse dell'autore non risparmia nessun presunto e corrivo abito mentale dell'homo contemporaneus tricolore, a colpi di definizioni secche e inappellabili. Quella che ne viene fuori è una terra ossessionata dall'apparenza (i tronisti, l'eterna adolescenza), dal salutismo (la fobia degli alimenti e degli stili di vita cancerogeni: quando fu introdotta, si pensava che persino la tv a colori provocasse il cancro, ricorda Culicchia), dalla recessione o meglio, dalla fatidica crisi (che può essere di mille tipi, "d’astinenza, matrimoniale, internazionale, occupazionale, economica, dei consumi, dei costumi"). Una penisola dove gli amici veri sono stati sostituiti da quelli di Facebook, e dove è sempre più presente e pesante il ricatto psicologico del terrorismo, con la caccia inconscia all'arabo e la gara a citare Houellebecq e la Fallaci. E i demoni endogeni, o d'importazione evocati dallo scrittore torinese non finiscono qui. Ci sono i delitti in diretta e il tripudio di applausi che puntualmente accompagna le morti eccellenti, fossero anche di boss della mala; le scorciatoie professionali intrise di cinismo, salvo ufficialmente puntare l'indice contro le mafiette e le pastette, ché tanto pecunia non olet e i "sacrifici sono necessari, purché li facciano gli altri"; la moda degli hipster, del bio, dell'eco-compatibilità, delle foto di gatti da condividere in chat, delle partenze intelligenti, del marketing con la tecnica dello stalking, dei lucchetti dell'amore, delle auto in argento metallizzato. E ci sono i cervelli in fuga e l'impoverimento implacabile della middle class; il buco dell'ozono e l'incubo della catastrofe ambientale perennemente in agguato, benché stra-annunciata; i guru del gossip e l'allarme meteo di massa, compulsiamo terrorizzati le previsioni dell'ora dopo anche se dobbiamo scendere sotto casa. E la vita, che si è trasferita sui social network, finanche i tramonti sembrano essere stati inventati per cristallizzarsi lì. È un vocabolario-divertissement sfrontato e pieno di spine questo di Giuseppe Culicchia. A tinte parossistiche: e così gli italiani sarebbero generalmente affetti da mancanza di autoironia (pur millantandone a fiumi), da ignoranza e maleducazione, da un ritrarsi del rispetto, da razzismo strisciante, da inguaribile doppiezza, e da uno spirito di schietta antipolitica fino ad auspicata e avvenuta cooptazione nel sistema, con l'eterno familismo amorale che ne consegue. Vede nero e manicheo, forse troppo lo scrittore, ossessionato a sua volta (tra le tante idiosincrasie catalogate) dai condizionatori d'aria, dal buonismo post-veltroniano, dagli alternativi figli di papà, dai cascami del '68 e dalle conventicole letterarie; e punta il suo binocolo in una direzione sola, in un tempo in cui anche i difetti e le mollezze d'animo si sono omologati su scala globale. Di illimitato, per Culicchia, resterebbe non più il progresso ma "al massimo il numero di sms". Povero e "stupido" Belpaese, punteggiato da ecomostri, archistar e obbrobri architettonici. Povera Italia, piagata dai luoghi comuni e "massimo produttore mondiale di eccellenze italiane". Un dizionario della stupidità, lettera dopo lettera, (non) ti salverà.
Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.
Capolavori, capricci e vanità. Anche illustri scrittori pubblicano a proprie spese. Un saggio mette in fila tutti i libri auto-prodotti. Svevo si pagò tre romanzi. Whitman e Pound le prime poesie. Lewis Carroll la sua "Alice". C'è chi s'impegnò il cappotto e chi chiese soldi a papà, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 11/10/2015, su "Il Giornale". Nessuno può immaginare dove arriverà il self publishing (oggi il 90% dei libri di poesia in Italia è autoprodotto). Ma è certo che ha un grandissimo avvenire dietro le spalle. La storia è piena di casi di successo. Autopubblicate, autopubblicate! Qualcosa resterà. Cosa porta un autore a voler pubblicare ciò che ha scritto - un romanzo, dei racconti, una raccolta di versi - a tutti i costi, costi quel che costi, per veder il proprio nome sulla costa di un volume in bella mostra? Cosa spinge uno scrittore a pubblicare in proprio, pagando direttamente lo stampatore o sostenendo tutte le spese di un editore già sul mercato? Difficilmente il desiderio di guadagnare soldi, di solito quelli si spendono e basta. Piuttosto qualcos'altro... Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Il fatto è che a quasi tutti coloro che ci sono passati, beffa del destino ciano-grafico e baro, è rimasta solo la vanità. A pochissimi altri invece è stata riservata la gloria. Ma chi furono gli autori, oggi famosi, che scelsero l'auto-pubblicazione? E come? E con quali cifre? Tutto ciò lo racconta benissimo lo studioso di storia editoriale Lucio Gambetti nel saggio - breve ma ricchissimo di notizie - A proprie spese, pubblicato in questo caso a spese delle edizioni Unicopli (pagg. 82, euro 10; prefazione di Andrea Kerbaker). Sottotitolo: «Piccole vanità di illustri scrittori». Vanitas vanitatum et omnia vanitas. Gli anglosassoni la chiamano vanity press o vanity publishing, i francesi parlano di edizioni à compte d'auteur, mentre gli italiani preferiscono usare l'acronimo «aps», a proprie spese, appunto. Oops... a proposito. Dalla casa editrice Alpes di Milano, nel 1929, usciva il romanzo Gli indifferenti per cui l'allora sconosciutissimo Alberto Moravia (destinato a divenire uno dei più pagati scrittori italiani del Novecento) dovette sborsare la somma, per l'epoca non indifferente, di 5mila lire. Dell'esempio illustre di Moravia se ne ricorderà Giorgio Dell'Arti quando sul mensile Wimblendon, siamo nel 1990, lanciò la rubrica dedicata ai testi scritti dai lettori: «La Gente Che Scrive». Lo sloga era: «Morite dalla voglia di pubblicare? PAGATE».
E furono in tanti a pagare nella storia del libro. Qualcuno già famoso, come Ludovico Ariosto. Il quale decise di diventare editore di se stesso quando (l'anno è il 1532) per la terza edizione del suo Orlando, furioso di avere a che fare con edizioni pirata, decise di stroncare il fenomeno: per saturare il mercato si fece stampare una tiratura di 3mila copie, una mostruosità per l'epoca: gliene rimasero sul gobbo 2mila, che quasi lo mandarono sul lastrico. Ma la stragrande maggioranza degli auto-pubblicati erano, almeno in quel momento, anonimi. Edgar Allan Poe, nel 1827, studente per nulla modello all'Università della Virginia, si rivolse a un tipografo commerciale di Boston che non aveva mai stampato un libro prima di allora e lo incaricò di pubblicare nove sue poesie: dai torchi uscì un volumetto di 40 pagine tirate in una cinquantina di copie col titolo Tamerlane and Other Poems. Poe non volle il nome in copertina. E lo fece passare come opera di «A Bostonian». Anche Nathaniel Hawthorne si fece pubblicare la prima opera (il romanzo Fanshawe) nel 1828, anche lui a Boston, anche lui anonimo. Ma, rispetto a Poe, fu così scontento del risultato che poco dopo chiese indietro le copie che aveva regalato ad amici e parenti per distruggerle, mentre a quelle rimaste nel magazzino dell'editore ci pensò un incendio (i rarissimi volumi sopravvissuti oggi valgono 20mila dollari). E a proposito di edizioni anonime. Persino Walt Whitman nel 1855 si auto-stampò senza nome in copertina la prima smilza edizione di Foglie d'erba (molto elegante: il ragazzo aveva lavorato tre anni in una tipografia e conosceva il mestiere). E a proposito di giganti della poesia, persino Ezra Pound dovette arrangiarsi da sé per la sua prima raccolta di versi. Rifiutata in America, se la pagò coi pochi dollari che aveva in tasca appena sbarcato in Europa: nel 1908, in un'oscura tipografia veneziana, tirò 150 copie di A lume spento utilizzando la carta avanzata da una precedente pubblicazione... Il resto è storia. Della letteratura. Ogni libro, una storia. E che storie. C'è quella di Lewis Carroll, il quale prima fa rilegare il manoscritto della sua favola di Alice per donarlo alla sua amichetta Alice Pleasance Liddell, poi capisce che potrebbe guadagnarci qualcosa e si autoproduce una prima pubblicazione, ampliata e illustrata da John Tanniel, che fa distruggere perché di qualità scadente, e infine una seconda che nel giro di un anno lo fa rientrare di tutte le spese, e subito fa il giro del mondo. Poi c'è la storia stranota di Marcel Proust: rifiutato dai grandi editori, nel 1913 si rivolse a un editore specializzato in auto-pubblicazioni, Bernard Grasset, per far stampare la prima parte della Recherche (pagò 1750 franchi). E c'è quella meno nota di Giovanni Verga: nessuno voleva saperne dei suo romanzo polpettone I carbonari della montagna e così si fece dare mille lire dal padre - molto scettico - per farselo stampare (in quattro volumi!) da due diversi tipografi di Catania. Una copia la spedì a Dumas, gran parte della tiratura rimase invenduta e alla fine non ne parlò nessuno. Del resto padri pietosi furono anche quelli di D'Annunzio (che coprì le spese della prima plaquette del Vate) e di Giovanni Comisso (che di suo dovette vendere un impermeabile). Ceto, per chi era ricco di famiglia - o almeno abbiente - le cose furono più facili. Italo Svevo si dice non avesse abbastanza soldi per continuare gli studi universitari, ma ne ebbe abbastanza per accollarsi le spese di stampa sia del primo romanzo Una vita nel 1892 (tiratura: mille copie presso un libraio-editore triestino), sia del secondo, Senilità nel 1898 (un vero fallimento sia sul piano commerciale sia critico), sia, vent'anni dopo, da Cappelli, del terzo: La coscienza di Zeno. Lo sponsor però a quel punto era James Joyce e tutto fu più facile. Molto difficile, invece, fu il rapporto di Oreste Del Buono con un racconto che scrisse nel 1969. Prima, col titolo La fine del romanzo, lo mette in un'antologia Mondadori di racconti gialli. Poi se lo fa pubblicare come romanzo da Einaudi, dove lavora, però si pente subito e allora si compra l'intera tiratura per mandarla al macero. Quindi ci rimette le mani e lo ripropone di nuovo a Einaudi, che lo fa uscire nel 1978 (Un'ombra dietro il cuore), ma quando lo scrittore riceve la copia staffetta comincia a sentire un senso di nausea («Ho riassaporato il mio boccone di petite madeleine di merda», dirà in seguito) e così, pagando sei milioni di lire, blocca la distribuzione e manda tutto di nuovo al macero (pochissime copie sopravvivono in mano a qualche fortunato bibliofilo). Fino a quando, dopo altre riscritture, dubbi e una bella faccia tosta, lo rifila a un altro editore, Longanesi, che lo porta in libreria nel 1980 col titolo Se io mi innamorassi di te. Il libro non vendette molto, anzi. Ma Del Buono liquidò così la sua ossessione. A proprie spese.
Quella smania di pubblicare i libri ripudiati dagli autori. Da Nabokov a Capote, sono tante le opere che non avrebbero dovuto vedere la luce. E in qualche caso sarebbe stato meglio..., scrive Luigi Mascheroni, Domenica 20/12/2015, su "Il Giornale". Virgilio poco prima di morire chiese che l'Eneide, priva degli ultimi ritocchi, venisse distrutta nel caso non fosse riuscito a completarla. Boccaccio, verso la fine della vita, colto da una crisi religiosa, si narra volesse bruciare ogni suo scritto, incluso il Decameron. E Franz Kafka si fece promettere dall'amico Max Brod di distruggere le sue opere incompiute. Oggi dobbiamo ringraziare coloro che disubbidirono agli autori. Ma di fronte ad alcuni recenti casi di cronaca editoriale - la pubblicazione del sequel del Buio oltre la siepe di una Harper Lee che non si capisce quanto sia in grado di intendere e volere, e l'uscita negli Stati Uniti dei racconti giovanili che Truman Capote non si sognò mai di raccogliere in volume - è utile chiedersi se pubblicare sempre e tutto di tutti sia la scelta migliore. Certo, da una parte esiste un diritto dei lettori a godere di ogni testo che l'Autore ha lasciato dietro di sé. Dall'altra c'è il dovere di studiare l'opera omnia, in qualsiasi sua forma, da parte della filologia «riesumatrice». E dall'altra parte ancora appaiono legittime le esigenze commerciali di editori ed eredi (a volte benemeriti, altre sciacalli). Ma il dubbio rimane. Forse alcune pagine inedite, pur di prestigiose firme, sarebbe meglio rimanessero tali. Esempi? Parecchi. In sostanza tutto ciò che il figlio di Tolkien, Christopher, oggi novantunenne, ha pubblicato mettendoci più o meno pesantemente mano a partire dal 1977 con Il Silmarillion, che il padre non avrebbe voluto fosse dato alle stampe. Infatti finché fu in vita lo tenne nei cassetti. Certo, non si tratta di opere esplicitamente rigettate, ma di appunti, pagine abbozzate, testi incompleti che il padre del Signore degli anelli, pignolo e perfezionista, non aveva previsto per la pubblicazione. Libri utili agli studiosi per capire come lavorava Tolkien, benedetti dai fan golosi di inediti, ma (forse con l'eccezione de I figli di Húrin, composto da due parti per le quali il figlio Christopher ha scritto un raccordo «logico») poco significativi dal punto di vista letterario. Stesso discorso per i romanzi realistici di Philip K. Dick dati alle stampe dopo la sua morte nel 1982: scritti prima del suo straordinario successo con i libri di fantascienza, se li vide rifiutare da tutti gli editori a cui mai più li sottopose, neppure quando ormai vendeva moltissimo. E vista la bassa qualità di quei titoli, fece bene. Ogni volta che ne esce uno ci guadagnano gli eredi, ma ci perde Dick. A proposito di figli ed eredi. Vero all'alba, romanzo autobiografico di Ernest Hemingway, fu composto (per alcuni abbozzato) fra il 1954 e il 1956 al ritorno da un safari in Kenya. Il dattiloscritto, custodito per molti anni nell'archivio delle opere non consultabili della Kennedy Library di Boston, fu recuperato dal figlio Patrick che ne curò personalmente un'edizione nel 1999. L'operazione suscitò dubbi e polemiche. Così come lasciò perplessi la decisione di Dimitri Nabokov, figlio di Vladimir, di pubblicare nel 2009, postumo e incompleto, il romanzo L'originale di Laura cui stava lavorando il padre all'epoca della morte, nel 1977, disobbedendo alle indicazioni che lo stesso Nabokov aveva seminato tra le righe del meraviglioso La vera vita di Sebastian Knight: «... perché egli apparteneva a quel raro genere di scrittori i quali sanno che nulla deve più rimanere tranne l'opera compiuta: il libro stampato; che la concreta esistenza del libro è incompatibile con quella del suo spettro, del manoscritto grezzo che ostenta le proprie imperfezioni ; e che per questa ragione gli scarti della bottega, nonostante il loro valore sentimentale o commerciale, non devono mai sopravvivere». Scarti di bottega, dice così. Ogni commento è superfluo. Ed è stato superfluo o essenziale pubblicare i dieci racconti a tema irlandese raccolti sotto il titolo Finn's Hotel scritti (ma mai dati alle stampe) da James Joyce subito dopo l'uscita dell'Ulisse e prima di addentrarsi nella impenetrabile foresta letteraria di Finnegans Wake? Nel 2013 Denis Rose, un veterano della critica joyciana, scaduti i diritti d'autore, tirò fuori i racconti inediti dai cassetti e li fece pubblicare dall'editore Ithys Press (in Italia uscirono da Gallucci, in una peraltro ottima edizione). L'operazione, neanche a dirlo, fu venduta alla stampa, e da questa rilanciata, come una sensazionale «scoperta letteraria». Ma la critica più accreditata la contestò duramente: i racconti erano «brutte copie» che l'autore non desiderava pubblicare. E a proposito di giganti del '900, cosa succederà quando inizieranno a uscire gli inediti finora nelle mani degli eredi di J. D. Salinger? Davvero ogni cosa che verrà alla luce ha avuto il benestare dello scrittore? Quando, nel 1997, una minuscola e sconosciuta casa editrice italiana, la Eldonejo, pubblicò il racconto lungo Hapworth 16, 1924 apparso fino ad allora solo sul New Yorker il 19 giugno 1965 (e poi mai più ristampato per volontà dello stesso Salinger), si scatenò l'inferno. Il libro, tradotto da una ragazza laureatasi con una tesi su Salinger e stampato senza diritti di pubblicazione, fu ritirato dopo la prima edizione di duemila copie e sparì dal mercato. E forse, ancora una volta, è meglio così. Testamenti traditi. Milan Kundera ha scritto molto su come e perché alcuni scrittori siano stati traditi. Da biografi, traduttori, critici. E una forma di tradimento è anche pubblicare pagine di chi in vita quelle pagine non volle dare in pasto al pubblico. Il Libro Rosso di Carl Gustav Jung non avrebbe mai dovuto essere pubblicato secondo l'autore, eppure è uscito in pompa magna in mezzo mondo nel 2009. Andrea Emo non intendeva lasciare nulla: ma da anni leggiamo i suoi libri. E La volontà di potenza di Nietzsche curata dalla sorella? E i nostri scrittori? Nel 1993 Einaudi pubblicò i racconti scritti da Cesare Pavese tra i 17 e i 25 anni, nati dal romanzo appena progettato ma mai scritto Lotte di giovani. L'italianista Ermanno Paccagnini sul Domenicale del Sole-24 ore, sotto il titolo Inediti e inutili, li stroncò duramente: «Una raccolta di pessimi racconti che lo scrittore ebbe l'intelligenza di non pubblicare ma non la lungimiranza di distruggere». Stessa cosa potrebbe valere per il primo romanzo di Guido Piovene, Il ragazzo di buona famiglia, apparso da Rizzoli nel 1998, testo che forse può dire qualcosa agli studiosi, non certo al lettore comune. E stessa cosa, ancora, per il romanzo postumo di Goffredo Parise L'odore del sangue: scritto di getto («bozzetto primitivo», disse certa critica) nell'estate del 1979, fu subito impacchettato, piombato con ceralacca e nascosto in un cassetto. Lì rimase dimenticato e rimosso, fino al 1986. Quell'anno Parise aprì il pacchetto, rilesse il libro, non toccò nulla. E morì poco dopo. Nel 1997 il romanzo uscì da Rizzoli con prefazione di Cesare Garboli. E molti si chiesero se fosse davvero quello che Parise desiderava. Luigi Mascheroni.
Siamo sottomessi? Sì, all'autocensura. Un dossier sull'Impero (culturale) del Bene che spinge al conformismo e umilia il pensiero, scrive Stenio Solinas, Domenica 14/02/2016 su "Il Giornale". «Il campo del bene», «la sinistra morale», il «politicamente corretto»... Intorno a quella che viene considerata «la nuova battaglia ideologica», la Revue des deux mondes ha costruito un dossier di un centinaio di pagine come cuore del suo ultimo numero (febbraio-marzo 2016). In esso, storici, sociologi, critici d'arte e letterari, giornalisti e politici si accapigliano sul tema: c'è chi elogia il «pensare bene» e chi critica i benpensanti, di destra e di sinistra, chi se la prende con il progressismo e chi ne riscrive la storia, chi ironizza sul tartufismo ipocrita del «libero pensiero» e chi nega di voler «diabolizzare» l'avversario, anche se, sottintende, con il Diavolo non si discute, lo si combatte...Vent'anni fa, in quello che r